Il 4 gennaio 1914, il Louvre di Parigi celebrava il ritorno della Gioconda, il capolavoro di Leonardo da Vinci, con una solennità degna di un evento storico. Dopo oltre due anni di assenza, il dipinto più celebre del museo tornava a occupare il suo posto, suscitando un’ondata di entusiasmo e curiosità che attraversò la Francia e si propagò ben oltre i confini europei. Migliaia di persone si radunarono davanti al Louvre per avere la possibilità di ammirare, anche solo per pochi secondi, quel sorriso enigmatico che, più di qualsiasi altro elemento, ha contribuito a rendere la Monna Lisa il dipinto più famoso e discusso del mondo.
Ma ciò che rese questo ritorno così memorabile non fu soltanto la bellezza dell’opera o l’aura di mistero che da sempre la circonda, quanto piuttosto la straordinaria storia del furto che la privò per oltre due anni del suo posto d’onore nelle sale del Louvre. Dietro il clamoroso colpo, che lasciò la polizia francese senza risposte per lungo tempo, non si celava una banda di ladri esperti o una complessa cospirazione internazionale, ma un uomo solo: Vincenzo Peruggia, un modesto imbianchino italiano emigrato a Parigi, la cui audacia e determinazione lo avrebbero reso protagonista di una delle pagine più incredibili della storia dell’arte.
Peruggia, nato nel 1881 a Dumenza, un piccolo paese lombardo vicino al confine svizzero, si trasferì a Parigi in cerca di lavoro, come molti suoi connazionali dell’epoca. Uomo di umili origini e con un’istruzione limitata, trovò impiego come imbianchino e carpentiere, spesso lavorando in appalti pubblici. Fu proprio durante uno di questi incarichi che si trovò a collaborare con il Louvre per l’installazione di teche protettive destinate a diverse opere d’arte, tra cui la stessa Gioconda. Durante questo periodo, Peruggia ebbe modo di osservare da vicino il dipinto di Leonardo e di familiarizzare con le dinamiche del museo, studiandone con attenzione i punti deboli.
La sua ossessione per la Gioconda nacque da una convinzione errata ma profondamente radicata: Peruggia credeva fermamente che il quadro fosse stato sottratto all’Italia da Napoleone durante le campagne militari del XIX secolo e che, quindi, riportarlo in patria fosse un atto di giustizia, più che un crimine. In realtà, la Monna Lisa non era mai stata oggetto di saccheggio. Leonardo stesso aveva portato l’opera in Francia nel 1516, accettando l’invito del re Francesco I, che lo accolse a corte come pittore e ingegnere di fiducia. Tuttavia, questa verità storica sfuggiva a Peruggia, il quale si convinse che rubare il quadro fosse un atto patriottico.
Il piano prese forma nell’agosto del 1911. Approfittando della conoscenza degli ambienti e della relativa mancanza di sorveglianza, Peruggia decise di agire. Il 21 agosto, giorno di chiusura del museo, si presentò all’ingresso del personale indossando un camice bianco simile a quello degli addetti ai lavori. Nessuno notò la sua presenza o si insospettì. Entrò con passo sicuro e si diresse direttamente alla Sala Carré, dove la Gioconda era esposta.
Aspettò che la sala si svuotasse e, con calma sorprendente, sollevò il dipinto dalla parete. Con il quadro tra le mani, si spostò in una scala secondaria, dove tolse la cornice e il vetro protettivo, avvolgendo con cura la tavola di pioppo in un panno bianco che aveva portato con sé. A quel punto, Peruggia uscì dal museo passando per la porta principale, salutando con cortesia il guardiano. Incredibilmente, nessuno si accorse del furto fino alla mattina successiva.
Quando il Louvre riaprì le sue porte al pubblico, inizialmente nessuno notò l’assenza della Gioconda. Solo nel pomeriggio, un pittore che si era recato al museo per ammirare il dipinto segnalò la scomparsa dell’opera. Scattò immediatamente l’allarme e il museo fu chiuso per una settimana intera, mentre la polizia avviava un’indagine su larga scala.
Il furto della Gioconda divenne una notizia di rilevanza internazionale. La stampa di tutto il mondo diede ampio risalto alla vicenda, ipotizzando i scenari più fantasiosi. Alcuni giornali parlarono di un collezionista senza scrupoli che aveva commissionato il furto, mentre altri suggerirono la possibilità di un piano ordito da una rete di criminali internazionali. Tra i sospettati vi furono persino personalità di spicco del mondo dell’arte, come il poeta Guillaume Apollinaire e il pittore Pablo Picasso, che vennero interrogati dalla polizia francese, ma entrambi furono rapidamente scagionati.
Nel frattempo, Peruggia custodiva gelosamente la Gioconda nel doppio fondo di un baule, nascosto nel suo modesto appartamento parigino. Per oltre due anni, il dipinto rimase lì, protetto dall’ombra e dall’indifferenza. Nessuno avrebbe mai sospettato che l’opera più ricercata del mondo fosse nascosta a pochi passi dal Louvre, nell’appartamento di un semplice imbianchino.
La svolta arrivò nel dicembre del 1913, quando Peruggia decise di recarsi a Firenze, convinto che fosse giunto il momento di restituire l’opera all’Italia. Contattò Alfredo Geri, un noto antiquario fiorentino, proponendogli di acquistare la Gioconda per una somma modesta, a patto che il dipinto non tornasse in Francia. Geri, insospettito, accettò l’incontro e coinvolse Giovanni Poggi, direttore degli Uffizi. Al primo sguardo, Poggi riconobbe l’opera di Leonardo.
La Gioconda fu sequestrata e Peruggia arrestato. Il processo si tenne a Firenze e suscitò enorme scalpore. Lungi dall’essere condannato come un ladro comune, Peruggia fu trattato con indulgenza: in molti lo consideravano un patriota che aveva agito per amore dell’arte. La sua condanna fu leggera: un anno e 15 giorni di prigione, ridotti per buona condotta.
Quando il dipinto tornò al Louvre, la sua fama raggiunse livelli ineguagliabili. Da allora, la Gioconda non è mai più stata semplicemente un’opera d’arte, ma l’icona per eccellenza, il simbolo stesso della bellezza e del mistero dell’arte universale.