martedì 4 febbraio 2025

C’è un vento greve che soffia sul nostro tempo

C’è un vento greve che soffia sul nostro tempo, un’aria carica di diffidenza, di rabbia, di esclusione sistematica. È come se l’umanità stesse regredendo, riportandoci indietro verso un’epoca che credevamo superata, ma che invece si ripresenta, spogliata di ogni vergogna, con i suoi stessi fantasmi e i suoi stessi carnefici. Omofobia, razzismo, ignoranza, negazionismo, aggressività sociale: parole che un tempo suscitavano orrore e rifiuto, oggi vengono pronunciate con leggerezza, talvolta persino con fierezza. Sono diventate strumenti di consenso, armi politiche, leve per raccogliere applausi facili da chi non vede, non capisce o, peggio, non vuole capire.

Nel cuore di questa deriva culturale, la discriminazione non è più nemmeno mascherata da ipocrisia: viene esibita con orgoglio, proclamata come un valore, trasformata in una bandiera da sventolare nelle piazze. La prepotenza si fa norma, il disprezzo diventa moneta corrente, e chiunque provi a ribellarsi viene etichettato come un traditore, un nemico, un corpo estraneo da espellere. Il linguaggio dell’odio si è insinuato ovunque: nei discorsi politici, nei programmi televisivi, nei social media, nelle conversazioni quotidiane. La propaganda lavora incessantemente per convincere la gente che la repressione sia necessaria, che la violenza sia giustificata, che il privilegio sia un diritto da difendere con le unghie e con i denti.

E così, mentre chi detiene il potere gioca con il destino di intere categorie di persone, mentre i diritti vengono erosi con la scusa della sicurezza e dell’ordine, c’è una folla che applaude. Una folla fatta di gente comune, di padri e madri di famiglia, di lavoratori, di studenti, di pensionati. Applaudono convinti di essere al sicuro, di stare dalla parte giusta, di non avere nulla da temere. Guardano con compiacimento le minoranze messe all’angolo, le vite ridotte a numeri, i corpi privati di dignità, senza rendersi conto che il bersaglio di tutto questo non sono entità astratte, non sono sconosciuti lontani, ma le persone che fanno parte della loro vita.

Sono i loro figli, i loro amici, i loro colleghi, i loro vicini di casa. Sono coloro che fino a ieri sedevano accanto a loro a tavola, che condividevano un ufficio, una strada, una scuola. Ma la logica della discriminazione è implacabile: una volta che si comincia a tracciare confini tra chi è degno di esistere e chi no, prima o poi quei confini si spostano, si restringono, inghiottono nuove vittime.

Si sentono protetti, questi spettatori plaudenti, perché credono che l’odio abbia confini netti, che sia rivolto sempre verso qualcun altro, mai verso di loro. Ma non hanno capito come funziona il meccanismo. Non hanno capito che il bisogno di trovare un colpevole non si esaurisce mai, che una volta eliminate le prime vittime, ne serviranno altre. È sempre stato così. È la logica di tutti i regimi che hanno fatto della repressione la propria bandiera: trovare un nemico per distrarre, per giustificare, per consolidare il potere.

Oggi il bersaglio sono gli immigrati, le persone LGBTQ+, le donne che si ribellano, chi lotta per i diritti civili. Domani sarà il turno di chiunque osi pensare in modo indipendente, di chi ha idee troppo autonome, di chi non si conforma abbastanza. Poi toccherà a quelli che oggi si credono al sicuro, ma che un giorno, per un dettaglio insignificante, scopriranno di essere diventati indesiderabili. Perché il potere autoritario, quando non ha più nemici esterni, inizia a divorarli dall’interno.

Ma la storia ha già scritto e riscritto questo copione. Lo ha raccontato nelle pagine più oscure, nei momenti in cui masse di persone comuni hanno ceduto all’illusione di essere al sicuro solo perché stavano dalla parte di chi decideva. Ci sono stati momenti, in ogni epoca, in cui la gente ha creduto che la repressione riguardasse sempre qualcun altro, mai loro. E poi, quando si sono ritrovati dall’altra parte, quando la macchina dell’odio ha rivolto la sua attenzione su di loro, hanno capito. Ma troppo tardi.

Così sarà anche questa volta. Verrà il giorno in cui coloro che oggi inneggiano all’intolleranza, che invocano la repressione, che giustificano la violenza in nome della sicurezza, si ritroveranno dall’altra parte della barricata. E allora, quando sarà chiaro che il meccanismo che hanno sostenuto non si fermerà fino a quando non avrà consumato tutto, sarà troppo tardi.

Sarà troppo tardi per fermarlo, troppo tardi per tornare indietro, troppo tardi per dire che non lo sapevano. E la storia, impietosa, ricorderà questo periodo con disprezzo, come l’epoca in cui la gente comune scelse di applaudire la propria stessa rovina, illusa di essere immune all’onda che si preparava a travolgerla. L’epoca in cui il privilegio fu difeso con le unghie fino a diventare una prigione, in cui la paura generò mostri e gli oppressi si fecero complici dei loro carnefici.

E quando anche l’ultimo applauso sarà svanito, quando non ci sarà più nessun altro da sacrificare, resterà solo il silenzio. E in quel silenzio, forse, qualcuno capirà. Ma sarà troppo tardi.