martedì 4 febbraio 2025

progresso

Andiamo, andiamo su per la scala cosiddetta del progresso, della civiltà e della cultura, come un corteo funebre che celebra non la vita, ma la sua eterna distruzione. Ogni gradino ci chiama con una voce suadente, carica di promesse che luccicano come monete false, e noi, anime stanche, ci lasciamo sedurre, trascinati da un impulso che non ci appartiene, ma che governa i nostri passi come una forza invisibile e ineluttabile. I nostri piedi sfiorano il marmo freddo, che pare intriso di lacrime e sangue antico, tracce di coloro che, prima di noi, hanno osato tentare questa ascesa, lasciando dietro di sé solo ombre spettrali e silenzi pieni di rimpianto.

L’aria si fa greve, intrisa di un odore che sa di polvere e cenere, di speranze bruciate, di illusioni evaporate sotto il sole impietoso di una civiltà che si erge come una torre vuota, priva di fondamenta. Ogni passo è un sacrificio, un tributo al dio muto del progresso, che ci guarda con occhi senza pietà, incapace di restituirci ciò che gli doniamo con tanta devozione. Le mani si aggrappano alla ringhiera, cercando un sostegno che non dà conforto, mentre lo sguardo, velato di stanchezza, si perde in un orizzonte sempre più distante, sempre più irraggiungibile.

Salendo, ci lasciamo dietro il passato, lo abbandoniamo come si fa con un vecchio abito logoro, senza accorgerci che in quell’abbandono risiede la perdita più grande, il tradimento di ciò che eravamo. La scala non ha fine, né scopo, e il suo interminabile serpentino si arrotola su se stesso, un’invenzione crudele concepita per costringerci a un eterno movimento, privandoci della possibilità di fermarci, di contemplare, di essere. La civiltà e la cultura, quei due idoli venerati, mostrano il loro volto decadente: maschere dipinte su cui la vernice si screpola, rivelando il nulla che si cela dietro di esse.

Il cielo sopra di noi si fa sempre più plumbeo, soffocante, come una cappa di piombo che schiaccia i pensieri e i desideri. La luce non è più luce, ma un pallore maligno che illumina le nostre ombre, rendendole mostruose, deformi, prolungate all’infinito su un sentiero che si perde nel vuoto. Salire non ci porta più vicini alla salvezza, ma ci immerge in una spirale di desolazione sempre più profonda, dove ogni gradino è una ferita, ogni passo una resa. Non c’è ritorno, né possibilità di discesa; siamo condannati a un’ascesa eterna, spogliati di ogni senso, di ogni bellezza, ridotti a strumenti inconsapevoli di una forza che ci supera e ci distrugge.

Ogni fibra del nostro essere si tende e si spezza, consumata dalla fatica, dal desiderio vano di raggiungere una vetta che non esiste. Il progresso ci ha ridotti a mendicanti, a creature erranti che si trascinano verso un futuro senza volto, senza anima. La scala stessa diventa una cattedrale del vuoto, un monumento al nostro fallimento, un teatro muto dove si rappresenta l’eterno dramma dell’uomo che si illude di dominare il tempo, la storia, la natura. In realtà, siamo noi i dominati, i prigionieri di un incubo dorato che ci incatena al movimento perpetuo, all’eterna salita verso l’abisso.