domenica 2 febbraio 2025

"Studio dal ritratto di Innocenzo X di Velázquez" di Francis Bacon

"Studio dal ritratto di Innocenzo X di Velázquez" di Francis Bacon, datato 1953, è un’opera che urla in silenzio, un grido che non può essere udito se non dal cuore stesso del dolore. Questo quadro, che riflette l’animo tormentato di un’epoca decimata da guerre, solitudini e paure indicibili, non è solo un’interpretazione visiva, ma una trasmutazione dell’umanità nella sua forma più crudele e più pura. Bacon, con il suo tocco di genio macabro e il suo spirito indomito, si confronta con il capolavoro di Velázquez, non per omaggiarlo, ma per ribaltarlo, deformarlo, trascinarlo nei meandri del suo inferno psicologico, dove le figure non sono più simboli di autorità o grandezza, ma piuttosto riflessi deformati di una miseria innata.

La tela di Bacon è il cimitero dell’illusione: il Papa di Velázquez, un uomo di potere, di autorità e di sacralità, è ridotto a un mostro di carne. La sua testa, pur rimanendo un riferimento formale al ritratto originale, si trasforma in una visione di disperazione. Non è più la testa eretta e impassibile di un sovrano religioso, ma un corpo che si contorce, un volto che sembra esplodere dalla sua stessa pelle, come se il dolore fosse un liquido bollente che scivola fuori da ogni poro, da ogni fibra. La bocca spalancata è un’apertura verso l’inferno interiore, un luogo dove non esistono parole per descrivere la sofferenza. È un urlo che non ha eco, non ha voce, ma che penetra nel cuore dello spettatore come un colpo al petto. Non si tratta di un urlo di paura o di terrore; è l’urlo della consapevolezza, della disillusione, dell’inevitabilità della condizione umana.

Bacon non è un pittore di forme stabili, ma di carne viva che grida al cielo e al basso. Egli trasforma il volto del Papa in un’espressione animalesca, quasi primitiva, che richiama alla mente le bestie, ma non quelle che l’uomo ha cercato di domare. No, Bacon ci mostra le bestie che sono dentro di noi, quelle che non possiamo sottomettere, che non possiamo soffocare, che crescono e si gonfiano finché la carne cede sotto il peso del nostro stesso spirito. La figura del Papa, quella figura solenne e immobile che avrebbe dovuto rappresentare l’ordine divino, diventa in questa tela il simbolo dell’orrore della solitudine. La solitudine non solo fisica, ma quella che penetra nelle viscere dell’anima. La sua figura non è più un uomo che esercita il potere, ma una creatura disumana, una maschera che si contorce sotto il peso di un destino che non può sfuggire.

L’inquadratura di Bacon, in cui la figura centrale è circondata da una sorta di gabbia invisibile, una cornice di sofferenza che restringe la visione del mondo, è una critica spietata alla prigionia della mente umana. Ogni elemento che Bacon inserisce nel quadro non è solo un dettaglio visivo, ma una manifestazione dell’angoscia, un’estensione della mente che non trova pace. La gabbia non è un luogo di protezione, ma un simbolo di una condizione mentale da cui non c’è fuga, un inferno personale che non si risolve mai. Il Papa, nel suo urlo muto, è prigioniero di sé stesso, come ognuno di noi lo è, chiuso dentro una scatola di carne che soffoca i suoi sogni, i suoi desideri, i suoi pensieri. Ogni angolo di quella tela è una rappresentazione della chiusura del pensiero, del grumo di emozioni e ansie che ci imprigionano fino all’inverosimile.

Lo sfondo stesso del dipinto è una distorsione, una nebbia che offusca la visione e che si confonde con la figura stessa. Il colore, quel rosso acceso, sembra incarnare la passione del tormento, la violenza del desiderio insoddisfatto, del corpo che si consuma, della mente che esplode. Il rosso che invade la scena, come un fiotto di sangue che scorre da una ferita invisibile, diventa il simbolo del tormento e della passione che non può essere placata, di un urlo che, pur essendo silenzioso, riempie l’universo. Il verde, il blu, i toni più freddi, sembrano allora essere la risposta della morte, la pace che non arriva mai, la quiete che segue l’urlo e che annienta tutto, persino l’idea stessa di speranza.

L’impossibilità di comunicare il dolore, di dare una forma verbale all’angoscia, è una delle forze centrali dell’opera. Il Papa di Bacon è muto, eppure la sua bocca, dilatata in un grido senza voce, comunica più di qualsiasi parola. L’urlo non è un atto di rabbia, ma di resa, un’auto-riconoscimento che nulla può realmente salvare l’uomo da se stesso. È l’eco di una solitudine che va al di là della vita e della morte, di una condizione che non ha termine, che non trova né una fine né una giustificazione. L’idea di potere che Velázquez aveva immortalato nel suo dipinto si sbriciola davanti a questa visione di impotenza, come se il Papa stesso fosse costretto a confrontarsi con la propria nudità esistenziale, con la sua stessa insignificanza, nonostante la sua posizione in cima al mondo.

Bacon non solo rielabora l’immagine storica, ma la rende un’allegoria della condizione umana, una riflessione su come l’arte possa essere lo specchio di ciò che l’uomo cerca di nascondere: la sofferenza eterna, l’impossibilità di liberarsi dalla propria carne, dal proprio destino. La sua figura non è più quella di un essere divino, ma di una vittima che cerca di scappare da un dolore che non si può sfuggire. Ogni pennellata, ogni distorsione, ogni deformazione è una dichiarazione della paura che l’uomo ha di sé stesso. E non solo della paura, ma anche della rivelazione: che noi siamo condannati non solo a soffrire, ma a non poter mai comprendere la profondità di quella sofferenza. Bacon, con la sua arte cruda e spietata, ci costringe a guardare oltre il volto del Papa, a vedere ciò che l’uomo non vuole vedere di sé stesso.

"Studio dal ritratto di Innocenzo X" non è semplicemente un quadro, è una confessione, una discesa nei recessi più oscuri dell'animo umano. Non c’è redenzione in questo dipinto. Non c’è speranza, non c’è salvezza. Solo l’inevitabile caduta, l’incessante martellare dell’esistenza che non lascia scampo. E in questo non c’è tragedia, ma una forma di bellezza distorta, una bellezza che solo chi ha visto e vissuto l’orrore della propria solitudine interiore può apprezzare. Bacon non ha creato un semplice dipinto; ha creato una visione, una visione che ci obbliga a confrontarci con l’abisso che c’è dentro di noi, e che, come il Papa, non possiamo mai sfuggire.