C’è un’immagine che torna spesso quando si parla di John Ashbery: quella di un labirinto. Non il labirinto minaccioso dei miti greci, popolato da mostri e destini tragici, ma piuttosto un edificio fatto di specchi, di luci intermittenti, di passaggi che si aprono all’improvviso e invitano a perdersi. Ashbery, nella poesia americana della seconda metà del Novecento, rappresenta proprio questo: una voce che rifiuta di fissarsi, di diventare una formula, scegliendo invece la libertà del movimento continuo, il gusto di rinnovarsi costantemente.
Nato il 28 luglio 1927 a Rochester, nello stato di New York, crebbe in una fattoria nella vicina Sodus, circondato dalla campagna dell’America settentrionale, dove i paesaggi ampi e apparentemente immobili avrebbero lasciato una traccia sotterranea nella sua immaginazione. Da ragazzo, John non fu un prodigio isolato, ma un giovane dalla curiosità precoce: leggeva poesia e narrativa, frequentava le biblioteche scolastiche, si immergeva nelle antologie. Era attratto non solo dai grandi classici angloamericani, ma anche dalla letteratura europea, con una predilezione particolare per gli autori francesi. Quel rapporto con la lingua e la cultura francese non fu un episodio passeggero, ma un filo che avrebbe percorso tutta la sua carriera, tanto da portarlo più avanti a tradurre poeti surrealisti e a vivere diversi anni a Parigi.
Il passaggio all’università segnò un momento decisivo. Harvard, dove si iscrisse per studiare letteratura inglese, era allora un crocevia intellettuale di prim’ordine: vi si respirava un’atmosfera di dibattito continuo, con una tensione tra la solidità della tradizione e le nuove spinte sperimentali del dopoguerra. Ashbery trovò in quel contesto sia un’educazione rigorosa al testo poetico sia la libertà di esplorare forme non convenzionali.
Tra i suoi riferimenti, in quegli anni, comparivano i nomi di Wallace Stevens, con la sua complessità filosofica travestita da immagini quasi musicali, e di W. H. Auden, che di lì a poco avrebbe avuto un ruolo diretto nella sua vita letteraria. A colpire il giovane Ashbery non era tanto il contenuto di quei poeti, quanto il modo in cui riuscivano a trattare il linguaggio come una materia viva, manipolabile, aperta al cambiamento.
Il primo riconoscimento arrivò relativamente presto. Nel 1956 vinse lo Yale Younger Poets Prize, un premio di grande prestigio negli Stati Uniti, con la raccolta d’esordio Some Trees. A sceglierlo fu proprio Auden, che non esitò a vedere in lui una voce singolare, destinata a percorrere strade proprie. Quel libro, pur ancora segnato dall’influenza dei suoi maestri e da una certa ricerca formale quasi prudente, conteneva già l’elemento che sarebbe diventato il marchio di Ashbery: una sintassi apparentemente fluida, ma capace di spiazzare, di aprire improvvisamente a immagini inattese, di scardinare la linearità della narrazione poetica.
Negli stessi anni Ashbery cominciò a lavorare come critico d’arte e a frequentare ambienti artistici newyorkesi che sarebbero diventati decisivi: la New York degli anni Cinquanta e Sessanta era un laboratorio culturale unico, dove pittori come Jackson Pollock, Willem de Kooning e Mark Rothko ridefinivano l’idea di pittura, mentre i poeti sperimentavano nuovi linguaggi. Ashbery non fu un outsider rispetto a questo mondo, anzi: ne divenne un osservatore privilegiato, trovandosi spesso a scrivere recensioni e articoli che univano la sua sensibilità poetica all’occhio critico per le arti visive.
Il periodo della maturità di John Ashbery si apre con una scelta decisiva: trasferirsi in Europa, più precisamente a Parigi, dove trascorse diversi anni tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio dei Sessanta. Non si trattò di un viaggio turistico, ma di un vero e proprio spostamento di prospettiva: il giovane poeta, che fino ad allora aveva lavorato come critico d’arte e scritto versi segnati da un certo equilibrio tra tradizione e sperimentazione, si trovò immerso in un ambiente culturale radicalmente diverso, animato dall’eredità surrealista, da una vita intellettuale più libera e da un rapporto meno rigido con le avanguardie.
In questo clima nacque The Tennis Court Oath (1962), la raccolta che avrebbe scosso molti dei suoi primi lettori. Qui Ashbery abbandonava gran parte della chiarezza lirica di Some Trees per scegliere una strada più frammentaria, quasi cubista, con versi che sembravano smontare la logica sintattica per ricomporla in un ordine nuovo. La critica si divise: c’era chi vedeva in quella svolta un eccesso di cerebralismo, un gesto di pura rottura fine a sé stesso, e chi invece riconosceva il tentativo di reinventare il discorso poetico dall’interno, proprio come stavano facendo le arti visive in quegli stessi anni.
La successiva Rivers and Mountains (1966) confermò che Ashbery non aveva intenzione di tornare indietro. Pur meno estrema della precedente, questa raccolta continuava a spostare i confini, giocando con registri linguistici diversi e con un senso di apertura verso l’imprevisto che sarebbe diventato un tratto stabile della sua opera. Non a caso, proprio in quel periodo, la critica cominciò a inserire Ashbery nel contesto della Scuola di New York, una galassia di poeti (Frank O’Hara, Kenneth Koch, James Schuyler, Barbara Guest, Kenward Elmslie) accomunati da un atteggiamento sperimentale, da un tono spesso colloquiale e da una forte relazione con le arti visive e performative.
Tornato a New York verso la fine degli anni Sessanta, Ashbery visse una fase di grande produttività. The Double Dream of Spring (1970) segnò un momento di sintesi: una poesia ancora sperimentale, ma più accessibile rispetto agli esperimenti più radicali del decennio precedente. Qui si avvertiva un equilibrio nuovo, in cui la frammentazione non appariva più come un gesto di rottura, bensì come un modo per dare forma alla complessità del reale, alle sue sovrapposizioni di voci e immagini.
Fu però con Self-Portrait in a Convex Mirror (1975) che Ashbery raggiunse una consacrazione piena e internazionale. La raccolta, il cui titolo è ispirato a un dipinto del manierista Parmigianino, vinse tre dei più prestigiosi premi letterari americani nello stesso anno: il Pulitzer Prize for Poetry, il National Book Award e il National Book Critics Circle Award. In questo libro Ashbery mostrava una maestria nuova, riuscendo a coniugare la sua tendenza alla digressione con un tono meditativo e una densità filosofica che conquistarono anche quei lettori che fino ad allora lo avevano considerato un autore eccessivamente oscuro. Il poema eponimo, “Self-Portrait in a Convex Mirror”, è diventato uno dei testi chiave della poesia americana del XX secolo, un esempio di come l’arte visiva e la riflessione metafisica possano fondersi in un unico flusso verbale.
Negli anni Ottanta, Ashbery consolidò il suo ruolo di figura di riferimento. Continuò a pubblicare con regolarità, mantenendo uno stile che, pur evolvendosi, restava fedele a una poetica dell’imprevisto, della discontinuità come metodo, della libertà assoluta nella scelta dei registri. Libri come Houseboat Days (1977) e A Wave (1984) confermarono la sua capacità di sorprendere: a volte più lirico e quasi intimo, a volte astratto e ironico, sempre comunque sfuggente alle classificazioni nette.
Parallelamente, la sua carriera accademica decollò. Negli anni Settanta aveva insegnato al Brooklyn College, dove tra i suoi studenti c’era anche John Yau, destinato a diventare a sua volta una voce importante della poesia contemporanea. Negli anni Ottanta si trasferì al Bard College, dove divenne professore di Lingue e Letterature Charles P. Stevenson Jr., ruolo che mantenne per lungo tempo, influenzando una nuova generazione di poeti.
In quegli anni Ashbery non fu solo un poeta, ma una vera e propria istituzione letteraria. Nonostante la complessità della sua opera, che spesso disorientava i lettori meno abituati alla sperimentazione, la sua influenza era innegabile: se per alcuni rappresentava il poeta capace di dare un volto al linguaggio frammentato della modernità, per altri restava un enigma affascinante, quasi un maestro zen che parla per parabole oscure. Stephen Burt, poeta e professore di Harvard, lo sintetizzò così: «Ashbery è come T. S. Eliot: metà dei poeti di lingua inglese viventi lo considerano un modello imprescindibile, l’altra metà lo considera indecifrabile».
Dagli anni Novanta in poi, la figura di John Ashbery assunse sempre di più l’aspetto di un classico vivente. Non era più soltanto un poeta di culto, amato da cerchie intellettuali o da lettori attratti dalla sperimentazione, ma una presenza riconosciuta nel panorama culturale americano. Negli anni in cui la poesia sembrava perdere visibilità rispetto alla narrativa e ai nuovi media, Ashbery rappresentava un punto fermo: un autore che, pur restando fedele alla sua scrittura elusiva e imprevedibile, era riuscito a conquistare un pubblico più ampio, spesso incuriosito proprio dal suo carattere inafferrabile.
Il suo lavoro degli anni Novanta non mostrava alcun segno di esaurimento. Raccolte come Flow Chart (1991), un poema unico di quasi duecento pagine, e Hotel Lautréamont (1992), confermavano la sua energia creativa e la volontà di misurarsi con forme estese, senza cedere alle mode di un minimalismo poetico allora diffuso. Can You Hear, Bird (1995) e Wakefulness (1998) aggiunsero un tono più meditativo e, a tratti, un’ironia più leggera, quasi domestica, come se l’autore avesse trovato un modo di dialogare con il lettore senza rinunciare alle proprie complessità.
Nel frattempo, arrivarono anche incarichi istituzionali: tra il 2001 e il 2003 fu nominato Poeta Laureato dello Stato di New York, un riconoscimento che consolidò la sua immagine di figura di riferimento per la poesia americana contemporanea. Inoltre, per molti anni fu cancelliere dell’Academy of American Poets, un ruolo che lo vide impegnato nel sostegno ai giovani autori e nella promozione della poesia come strumento civile e culturale.
Nella vita privata, Ashbery aveva da tempo trovato un equilibrio discreto e lontano dai riflettori. Condivideva la sua esistenza con David Kermani, compagno di lunga data, con il quale viveva tra New York City e la più tranquilla Hudson, nello stato di New York. La loro relazione, mai ostentata ma sempre presente, rappresentava per Ashbery un punto di stabilità in una vita dedicata al linguaggio e alla ricerca artistica. Hudson, con le sue atmosfere più lente e domestiche, divenne un rifugio creativo e affettivo, un luogo in cui il poeta poteva scrivere lontano dal frastuono cittadino.
Gli anni Duemila segnarono anche una nuova fase editoriale. Chinese Whispers (2002), Where Shall I Wander (2005) e A Worldly Country (2007) dimostravano che la vena creativa era tutt’altro che spenta: al contrario, sembrava essersi arricchita di una leggerezza malinconica, come se il poeta stesse contemplando la propria vita e il proprio tempo con la saggezza di chi non deve più dimostrare nulla. L’ultima parte della sua carriera fu accolta con un rispetto quasi unanime: la critica, che nei decenni precedenti si era divisa tra entusiasmi e perplessità, ora vedeva in lui un patrimonio nazionale.
La fine arrivò senza clamori, quasi in sordina, come lo stile di vita che aveva scelto negli ultimi decenni. John Ashbery morì il 3 settembre 2017, nella sua casa di Hudson, per cause naturali. Aveva novant’anni. La notizia della sua morte suscitò un’ondata di tributi: giornali, università, scrittori e lettori di tutto il mondo riconobbero l’impatto di una carriera eccezionale, non solo per la durata ma per la coerenza di una poetica mai ridotta a compromesso.
In un’epoca che spesso richiede al poeta di semplificare, Ashbery aveva scelto la strada opposta: complicare per chiarire, frantumare la sintassi per rivelare una nuova musica del pensiero, scrivere poesie che non offrivano risposte immediate ma aprivano interrogativi duraturi. Ed è proprio questa caratteristica, più di ogni altra, ad aver reso la sua voce indispensabile: un invito permanente a non accontentarsi di quello che sembra evidente, a spingersi un po’ più in là, dove il linguaggio comincia a diventare altro da sé.
Quando un poeta muore, di solito la discussione si concentra su due domande: che cosa lascia e che cosa cambia nella percezione del suo lavoro. Nel caso di John Ashbery, la questione è stata immediata: come raccontare un autore che aveva costruito tutta la propria carriera sull’idea di sfuggire a ogni definizione? È un paradosso che accompagna ancora oggi la sua eredità: Ashbery è ovunque e, allo stesso tempo, è difficile da afferrare.
La sua poesia ha ridefinito le possibilità stesse del linguaggio lirico. Nei suoi testi non troviamo una narrazione lineare né un messaggio immediato: il lettore viene immerso in un flusso verbale dove immagini quotidiane e riflessioni astratte convivono senza gerarchie, dove un dettaglio apparentemente banale – una finestra aperta, una conversazione interrotta, un oggetto da cucina – può trasformarsi in un lampo di verità filosofica. Questa poetica del frammento e dell’associazione libera ha ispirato intere generazioni di autori, soprattutto coloro che cercavano di allontanarsi dal modello confessionale degli anni Cinquanta e Sessanta o dalla chiarezza lineare tipica della poesia narrativa.
Un elemento chiave dell’eredità ashberiana è il rapporto con le arti visive. Fin dai primi anni come critico d’arte, Ashbery sviluppò una sensibilità particolare per il linguaggio delle immagini: molti dei suoi componimenti funzionano come quadri verbali, in cui i dettagli non si sommano per costruire una scena unica ma convivono come pennellate autonome, ciascuna con un proprio valore. Non sorprende che il poema più celebre, Self-Portrait in a Convex Mirror, prenda spunto da un dipinto di Parmigianino: per Ashbery, l’arte visiva era non solo un tema, ma un metodo, un modello di libertà formale e di stratificazione sensoriale.
In termini di influenza diretta, la lista dei poeti che hanno dichiarato un debito verso Ashbery è lunghissima. Negli Stati Uniti, autori come John Yau, Jorie Graham, Mei-mei Berssenbrugge e Mark Doty hanno riconosciuto il suo ruolo di guida implicita, non tanto per le soluzioni formali specifiche, quanto per la possibilità di immaginare una poesia capace di muoversi senza vincoli, di esplorare il linguaggio come una materia viva e instabile. Persino poeti che hanno scelto percorsi molto diversi – dal minimalismo di Rae Armantrout al lirismo di Billy Collins – si sono misurati con la sua ombra, talvolta in opposizione, talvolta in dialogo implicito.
L’influenza di Ashbery ha attraversato l’Atlantico: in Europa, la sua opera è stata letta con attenzione, anche grazie alle numerose traduzioni. In Italia, ad esempio, la sua ricezione è stata accolta con curiosità soprattutto da quegli autori che cercavano un’alternativa al neorealismo poetico e alla linearità novecentesca. La sua capacità di mescolare registri alti e bassi, di oscillare tra ironia e contemplazione metafisica, ha trovato eco in poeti che hanno voluto rompere le rigide separazioni di genere e di tono.
Ma l’eredità di Ashbery non è solo una questione di tecnica poetica: riguarda il modo stesso di intendere il ruolo del poeta. Lungi dall’essere un oracolo che offre verità da memorizzare, Ashbery ha incarnato un’idea diversa: quella del poeta come esploratore della percezione, come figura che non consegna risposte definitive ma che crea spazi di possibilità interpretativa. In un mondo sempre più affamato di messaggi rapidi e semplificati, questa disponibilità a restare nell’ambiguità – a considerarla non un difetto ma un valore – è forse la lezione più attuale della sua opera.
È anche per questo che, a distanza di anni dalla sua scomparsa, i suoi libri continuano a essere ristampati, letti e discussi. Non c’è una “scuola ashberiana” codificata, e forse non potrebbe esserci: Ashbery ha sempre rifiutato l’idea di essere il portabandiera di un movimento o di una tendenza precisa. Eppure la sua ombra è presente, come un invito costante a sperimentare, a non temere la complessità, a cercare un linguaggio poetico che non si accontenti della superficie.
In definitiva, la sua eredità consiste in una forma di libertà: libertà di tono, di struttura, di contenuto. Una libertà che ha contagiato non solo i poeti, ma anche i lettori, insegnando che la poesia può essere un’esperienza più simile all’ascolto di una sinfonia astratta che alla lettura di un racconto tradizionale. Per questo John Ashbery rimane, oggi come ieri, una presenza viva e irrinunciabile nel panorama letterario mondiale.
Forse il vero lascito di John Ashbery non risiede solo nelle sue poesie – benché quelle restino un corpus vastissimo, sorprendente e inesauribile – né nei premi che hanno coronato la sua carriera, dai più prestigiosi riconoscimenti americani alle celebrazioni istituzionali, ma in una forma mentale che ha saputo cambiare il modo stesso di pensare la poesia. Leggerlo oggi significa ritrovarsi in una zona di incertezza fertile, in un territorio dove la chiarezza non è mai data una volta per tutte, dove ogni verso sembra offrire una chiave ma, nello stesso istante, moltiplicare le domande. Ashbery ci ha insegnato che la poesia non deve necessariamente spiegare il mondo: può anche semplicemente rispecchiarne la complessità, accoglierne le contraddizioni, farsi spazio d’ascolto per l’irrisolto.
In un’epoca che spinge sempre di più verso la semplificazione, verso frasi brevi, slogan, sintesi immediate, Ashbery ha scelto il percorso opposto: invitare alla lentezza, alla sospensione del giudizio, a un’attenzione che non si esaurisce nella rapidità di una risposta ma si prolunga in una serie di possibili interpretazioni. La sua poesia non offre soluzioni né messaggi univoci, ma apre finestre: finestre da cui entra una luce che cambia di continuo, che a volte confonde, a volte abbaglia, e proprio per questo invita a restare. Non è un caso che molti suoi lettori parlino di un’esperienza “immersiva”: leggere Ashbery non è raccogliere un contenuto, ma abitare un paesaggio linguistico, muoversi al suo interno senza sapere bene dove si arriverà, e scoprire che il percorso stesso è il senso.
La sua eredità, dunque, è anche un modo di stare al mondo: un atteggiamento verso la complessità e l’incertezza. Nei suoi versi, l’ambiguità non è un difetto, bensì un valore, quasi un’etica: quella di non piegare l’esperienza a uno schema preconfezionato, di non ridurre la pluralità del reale a una singola voce. Ogni poesia di Ashbery sembra dire al lettore: “Puoi fermarti, puoi perderti, puoi non capire subito: ed è esattamente questo il punto”. È un invito all’umiltà e alla curiosità, alla possibilità di farsi sorprendere.
C’è un’immagine che torna più volte quando si cerca di descrivere il suo lascito: un sentiero che si biforca infinite volte, come nei racconti di Borges, senza mai condurre a un unico esito. Ma in Ashbery non c’è dramma in questa condizione: non c’è il senso di smarrimento angoscioso di chi teme di sbagliare strada, bensì una quieta accettazione, quasi un piacere, del fatto che ogni deviazione è una scoperta, ogni incertezza è un arricchimento. È un’idea di poesia come viaggio infinito, senza arrivo prestabilito, e proprio per questo più autentico.
Ecco perché John Ashbery, pur essendo morto nel 2017, non appartiene al passato. È un poeta che continua a muoversi, che non si lascia archiviare. Ogni rilettura dei suoi testi è come aprire una porta su un paesaggio nuovo, diverso da quello visto la volta precedente. La sua voce non riposa: cammina, scivola, improvvisa, come un musicista che, finito un concerto, non smette di suonare ma cambia strumento, tono, ritmo. È questo che lo rende ancora vivo: non tanto l’essere stato un “maestro”, ma l’essere ancora un compagno di viaggio, uno di quelli che non indicano la strada dall’alto di un piedistallo, ma che camminano accanto, sorprendendoci a ogni passo.