lunedì 8 settembre 2025

La ragione e la ferita: dialogo impossibile tra Voltaire e Pasolini


Il ritorno alla scrittura di Pasolini, per me, in questo momento preciso della mia vita, non è solo un semplice atto di lettura. È come se fosse un viaggio nel tempo, un ritorno alle origini di una riflessione che, per vari motivi, avevo messo in sospeso. Non si tratta solo di un recupero intellettuale, ma di una vera e propria reintegrazione emotiva, di un confronto con un pensiero che mi interroga, che mi scuote. Quando rileggo Pasolini, non mi limito a seguire le sue parole, ma cerco di capire come queste si adattino, come si innestino nel presente, in un contesto che è cambiato profondamente, non solo nella società, ma anche dentro di me. La lettura non è mai la stessa; non lo è mai nel tempo, perché cambia la percezione, cambiano gli occhi, le esperienze, le consapevolezze. Ed è questo il cuore del ritorno a Pasolini: una lettura che diventa una riflessione, un ragionamento più profondo su di me, sul mondo che mi circonda e sul modo in cui tutto ciò si intreccia.

C'è un elemento che non posso fare a meno di notare, e che si ripropone con forza nella mia rielaborazione dei suoi scritti: la gravità della sua visione. Pasolini non sorride mai, o meglio, se lo fa, è sempre un sorriso beffardo, amaro, che scava nelle pieghe più scure dell'esistenza. Non c'è spazio per l'ironia positiva, quella che viene, per esempio, dalla filosofia illuminista, che sempre mi ha affascinato e che, nel suo cuore, ha qualcosa di liberatorio, di rassicurante, di piccolo eppure rivoluzionario. L'umorismo pasoliniano non è mai distaccato, non è mai la risata che scivola sopra i difetti del mondo con il sorriso delle cose che vengono accettate, ma una risata che scava dentro, che ferisce, che cerca di svelare l'impotenza dell'uomo e la tragica consapevolezza di un futuro che non può più essere migliorato. Questo ritorno a Pasolini, allora, non è solo una questione di rivisitare un grande autore, ma anche di confrontarmi con la mia stessa visione della realtà, con la mia continua ricerca di equilibrio tra il pensiero e l'emozione, tra il desiderio di sottrarmi dalla gravità delle cose e la necessità di affrontarle, anche se queste sono troppo pesanti.

Ma non posso fare a meno di chiedermi se, in fondo, non sia stato proprio l’eccesso di questa gravità a rendere Pasolini così potente, così necessario. Egli non cerca mai una via di fuga, non cerca mai di alleggerire la realtà, ma, al contrario, si immerge nei suoi abissi. In questo, sembra quasi un profeta tragico, uno che ha visto oltre la superficie e ha scelto di testimoniare la durezza di ciò che c’è. In questo modo, mi sembra che Pasolini diventi una sorta di specchio deformante, in cui mi riconosco e, allo stesso tempo, non mi riconosco: la sua verità è troppo grande, troppo dolorosa per essere accettata senza resistenze, ma proprio per questo è una verità che, in fondo, deve essere sentita, affrontata. Questo continuo stridore tra ciò che percepisco di Pasolini e ciò che sento più vicino a me, tra il suo mondo e il mio, diventa il punto cruciale di questa lettura. La sua angoscia sembra essere un eco lontano, ma, allo stesso tempo, la percepisco come vicina, come un tema che, oggi, risuona più forte che mai, in una società che si sta sgretolando lentamente, che si allontana sempre più da ciò che Pasolini temeva.

Rileggendo Pasolini, non posso fare a meno di pensare anche alla sua continua contrapposizione con la modernità, con il capitalismo, con quella borghesia che lui considerava l’incarnazione di tutte le contraddizioni, delle ipocrisie della nostra epoca. Eppure, c’è qualcosa che mi affascina in questa riflessione, perché mi fa pensare anche a un altro grande pensatore del suo tempo: Voltaire. Il confronto tra questi due intellettuali, Pasolini e Voltaire, è più che mai necessario, perché rappresenta due sguardi diametralmente opposti sulla realtà. Voltaire, con la sua visione razionalista e dissacrante, si muove in un contesto che Pasolini respinge con forza. Ma non è solo una questione di visioni politiche o sociali: è un modo diverso di concepire l’uomo, il suo posto nel mondo, e soprattutto, la sua capacità di affrontare le sfide della modernità. Voltaire accetta la realtà del suo tempo con un sorriso ironico, un sorriso che non è privo di critica, ma che si distingue nettamente dalla serietà funerea di Pasolini. In qualche modo, Voltaire riesce a prendere le distanze, a guardare la realtà con disincanto, ma con un’accettazione che, in qualche modo, rassicura.

Pasolini, invece, non accetta nulla, non si rassegna mai. La sua visione del mondo è tragica, ma non disillusa: è una visione che guarda la società in faccia e la scruta in ogni sua parte, senza mai cercare di distogliere lo sguardo. La "doglia" che Arbasino attribuisce a Pasolini è quella di un uomo che sente il peso della storia e della contemporaneità come una condanna, una condanna che non può essere elusa. Eppure, nonostante questa visione drammatica, Pasolini non è mai passivo, non è mai un osservatore che si limita a lamentarsi. La sua scrittura è un atto di lotta, è una protesta continua contro una realtà che gli appare come una tragica farsa. La sua posizione non è certo quella del "buon borghese" che accetta tutto con un sorriso. Al contrario, è quella di un artista che non può fare a meno di urlare contro le ingiustizie, contro il potere, contro le ipocrisie della sua epoca.

In questa riflessione continua tra Pasolini e Voltaire, tra il dramma e l’ironia, tra la sofferenza e il sorriso, c’è una lezione che non possiamo ignorare: la modernità, infatti, non è solo il terreno di una lotta continua, ma anche quello di una continua possibilità di fuga, di accettazione, di trasformazione. La tensione tra Pasolini e Voltaire ci costringe a confrontarci con una realtà che è sempre in bilico tra il dolore e la speranza, tra il pessimismo e l’ottimismo. Oggi, più che mai, è necessario tenere insieme queste due visioni, senza farsi abbattere dal peso della tragedia, ma senza neanche dimenticare la necessità di riconoscere e affrontare quella stessa tragedia. Pasolini e Voltaire, con i loro rispettivi approcci alla realtà, non sono figure in conflitto, ma rappresentano due modalità attraverso le quali possiamo cercare di capire il nostro tempo, il nostro destino, la nostra stessa esistenza.

Proseguendo su questa riflessione, possiamo approfondire ulteriormente la dialettica tra Pasolini e Voltaire, andando a esplorare non solo le differenze nei loro approcci al dolore e alla realtà, ma anche come questi due autori siano, in un certo senso, il riflesso di due modi di vivere la condizione umana. La loro opposizione, pur radicale, è l’espressione di una tensione costante che attraversa ogni epoca, ogni società, e che riguarda la nostra visione del mondo e la nostra capacità di affrontarlo, con tutte le sue contraddizioni e incertezze.

Il pensiero di Pasolini, in particolare, si radica profondamente nel suo rifiuto della comodità e della falsità che caratterizzano una civiltà borghese che si è resa responsabile della distorsione dei valori, del cinismo e della disillusione. La sua “doglia”, come la definiva Arbasino, è una risposta alla superficialità che permea le strutture sociali moderne, un invito a guardare più a fondo, a scavare sotto la superficie e a confrontarsi con la verità, per quanto dolorosa e sconvolgente essa possa essere. La sua riflessione sull’umorismo, per esempio, è intrinsecamente legata alla visione di una civiltà borghese che, avendo rinunciato a un pensiero trascendente, ha bisogno di ridere di se stessa, come una difesa contro il vuoto che essa stessa ha creato. Per Pasolini, il vero pensiero non può permettersi di essere disincantato o ironico, non può permettersi di ridere del proprio dolore. Piuttosto, deve essere un pensiero che affronta la verità in tutta la sua durezza e crudeltà, che non cerca rifugi o espedienti per sottrarsi al confronto con la realtà.

Al contrario, Voltaire, pur non essendo un ingenuo, affronta il mondo con una visione che, pur riconoscendo le sue imperfezioni, non si lascia sopraffare dal suo disincanto. Il suo è un pensiero che, pur essendo critico e disilluso, rimane in qualche modo luminoso, sorridente, ottimista, quasi come se la leggerezza fosse una forma di difesa. Non per nulla, Voltaire si rifiuta di cedere al dolore come condizione esistenziale ineluttabile, ma invece ci offre uno strumento per affrontarlo: l’ironia, la risata, l’autodistacco. Non è un caso che la sua visione del mondo, pur critica, risulti in qualche modo più “supportabile” rispetto a quella di Pasolini, che invece sembra porsi come un urlo di disperazione, come una denuncia che non concede alcuna possibilità di fuggire dal dramma.

Ma se Voltaire è il campione di una visione ironica e disincantata, che ci invita a ridere del mondo per non esserne sopraffatti, Pasolini ci costringe a guardare il mondo con occhi che non accettano compromessi. La sua visione del mondo è tragica, ma non nel senso di una rassegnazione passiva. Non si tratta di accettare il mondo così com’è, ma di affrontarlo con una consapevolezza che esige l’impegno e la lotta. In questo senso, Pasolini non è solo un critico della società borghese, ma anche una figura tragica, che, con il suo pensiero e la sua arte, cerca di restituire dignità a un mondo che sembra averla persa. La sua “doglia” non è un dolore che si arrende, ma un dolore che cerca di spingere oltre i limiti della realtà, che chiede a ciascuno di noi di fare un passo in più, di confrontarsi con il lato più oscuro e complesso dell’essere umano.

Questo è il cuore del pensiero pasoliniano: un invito a non rimanere ancorati a una visione del mondo che non ha nulla da dire sull’esistenza umana, ma che, anzi, la travisa. Pasolini ci dice che l’umorismo e la leggerezza della civiltà borghese sono, in fondo, una forma di autoinganno, una forma di fuga dalla realtà, che preferisce il disincanto alla lotta, la risata al dolore. Ma questo tipo di fuga, per Pasolini, è pericolosa, perché rende impossibile affrontare il mondo così com’è, con tutte le sue contraddizioni, le sue disuguaglianze, e le sue ingiustizie. Il riso borghese, per Pasolini, non è un mezzo per affrontare la sofferenza, ma una difesa contro la realtà che ci spinge verso l’indifferenza.

Nel pensiero di Voltaire, invece, l’ironia è una forma di resistenza al mondo, ma una resistenza che non porta al dramma. L’ironia di Voltaire non è un rifiuto della realtà, ma piuttosto una sua accettazione, una sua presa in giro che non si arrende mai, che non cede mai alla sofferenza. Voltaire sorride davanti al mondo, non perché non lo prenda sul serio, ma perché riconosce che, pur con tutte le sue imperfezioni e contraddizioni, è l’unico mondo che abbiamo. Per Voltaire, la risata è una forma di resilienza, un modo per non cedere alla disperazione e per mantenere viva la speranza, nonostante tutto.

Tuttavia, il contrasto tra i due pensatori non è solo teorico, ma si riflette anche nelle loro opere, nelle loro vite, nelle loro scelte artistiche e politiche. Pasolini, infatti, rifiuta il compromesso, rifiuta l’accettazione passiva di un sistema che non rappresenta più la realtà, e cerca, attraverso la sua arte e la sua scrittura, di scuotere le coscienze, di risvegliare un senso di responsabilità collettiva. Voltaire, invece, seppur critico e impegnato, non perde mai di vista l’importanza di una visione che non soccombe alla disperazione, ma che, con lucidità e distacco, cerca di migliorare il mondo, pur sapendo che il cambiamento richiede tempo e pazienza.

Queste due visioni del mondo, apparentemente antitetiche, si rivelano in realtà complementari, perché entrambe rispondono alla stessa domanda fondamentale: come vivere in un mondo che ci sfida, che ci mette di fronte al dolore e alla sofferenza, ma che allo stesso tempo ci offre anche la possibilità di cambiare, di evolverci, di migliorare? Se Pasolini ci insegna a non cedere mai alla rassegnazione, a guardare la realtà con occhi lucidi e senza illusioni, Voltaire ci ricorda che, nonostante tutto, è possibile affrontare il mondo con una certa leggerezza, con un sorriso che non nega la tragedia, ma che la trascende.

L'intreccio tra le figure di Pasolini e Voltaire, pur apparentemente distante, si presenta come un dialogo senza tempo, che si dispiega attraverso la tensione tra la disillusione tragica e la ricerca della leggerezza. Voltaire, con la sua capacità di ridere della vita, di affrontare il male del mondo con il sorriso della razionalità e dell'ironia, ci propone una visione che ci invita a distaccarci dal dolore con una certa eleganza. Eppure, questa eleganza, questa grazia ironica che si erge contro la ferocia della realtà, non è priva di un significato profondo. Voltaire non è un sempliciotto che si adagia sulla serenità, ma un uomo che, consapevole delle atrocità del suo tempo, sceglie di sfidarle con una risata che, in fondo, denuncia anche il suo stesso smarrimento. La sua risata è un’arma sottile che scivola sul dramma, quasi a non permettere che il dolore prenda il sopravvento, ma la sua forza risiede nel riuscire a stare in piedi nel caos di un mondo che non fa sconti. Voltaire ride per non piangere, ma nel farlo, ci invita a non prendere troppo sul serio l’esistenza, a non farci divorare dalla sua gravità.

Pasolini, al contrario, ci obbliga ad affrontare il dolore senza filtri, senza maschere. Se Voltaire rappresenta una sorta di resilienza intellettuale, che si costruisce attraverso il distacco e la consapevolezza ironica, Pasolini è il profeta della tragedia, del dramma umano, del “dovere” di affrontare la verità nella sua nudità più crudele. La sua arte non è mai compiacente, non è mai leggera. Pasolini ci espone a una visione del mondo che non concede nessuna illusione. Non c’è conforto, non c’è riparo dalle sofferenze sociali, politiche, esistenziali che egli rappresenta nelle sue opere. Nonostante la sua afflizione e la sua angoscia, Pasolini ci spinge ad abbracciare il dolore, a cercare in esso una forma di redenzione attraverso la consapevolezza. La sua arte è una lotta, non una fuga. Non c’è spazio per la leggerezza nel suo pensiero, perché la realtà che descrive è troppo dura, troppo lacerante per essere minimizzata o sdrammatizzata. La sua critica alla civiltà borghese non si limita a un'analisi razionale, ma scava nei suoi abissi, nella sua capacità di nascondere le contraddizioni e la miseria dietro il velo della facciata.

Tuttavia, è interessante notare che, pur nella sua durezza, la visione di Pasolini non è mai completamente priva di speranza. La sua è una speranza che nasce dalla verità, dalla consapevolezza di ciò che siamo e di ciò che possiamo diventare. L’artista non ci offre la via della felicità facile, ma ci costringe a confrontarci con noi stessi, con la nostra vulnerabilità, con le nostre debolezze. A differenza di Voltaire, che affida la sua fiducia al progresso e alla razionalità, Pasolini crede che la salvezza risieda nella comprensione profonda del nostro dolore, nella capacità di resistere alla tentazione di ignorarlo, nella ricerca della verità attraverso la sofferenza. Il suo pessimismo non è mai fine a se stesso, ma un richiamo alla consapevolezza e, forse, alla possibilità di un cambiamento, ma non attraverso il trionfo della ragione o dell’ironia, bensì attraverso una trasformazione radicale della nostra coscienza.

In questo senso, la riflessione pasoliniana si fa ancora più complessa. Il suo pensiero non è solo un atto di denuncia, ma una chiamata all'azione. Non basta semplicemente riconoscere la crudeltà del mondo, ma bisogna fare qualcosa per cambiarlo. E questo “fare qualcosa” non è semplicemente un atto politico nel senso tradizionale del termine, ma un atto esistenziale: una scelta di vita che implica l'assunzione del dolore, la volontà di vivere in modo autentico, di non cedere alla mediocrità, alla faciloneria, alla ricerca del benessere a ogni costo. Pasolini ci spinge a non accontentarci della tranquillità borghese, ma a lottare per una vita che, pur dolorosa, sia vera.

Nel confronto tra Pasolini e Voltaire emerge quindi la differenza fondamentale tra due approcci alla vita che, pur affrontando le stesse problematiche, rispondono in modo diverso alle sfide dell'esistenza. Voltaire ci offre una visione più ottimistica, più fiduciosa nel progresso e nella razionalità. La sua ironia è un modo per smascherare le ipocrisie del mondo senza farsi sopraffare dal suo peso. Pasolini, invece, ci invita a resistere alla tentazione di arrenderci a una vita che non sia completamente autentica. La sua arte non è solo una critica sociale, ma una forma di resistenza esistenziale. Ci chiede di non essere semplicemente spettatori passivi della nostra esistenza, ma di lottare per una forma di verità che, pur dolorosa, ci renda vivi.

Voltaire ci dice che il mondo è imperfetto, ma che possiamo ridere di esso e costruire qualcosa di migliore, magari con l’ironia e il distacco. Pasolini ci dice che, per essere veramente vivi, dobbiamo guardare in faccia il mondo così com'è, senza nascondere i suoi orrori, e affrontarli con la forza della nostra consapevolezza. La sfida, quindi, sta nel saper vivere tra queste due visioni, nell’imparare a prendere sul serio il dolore, ma anche a resistergli con una leggerezza che, pur non negandolo, ci consenta di andare avanti, di non cedere al cinismo o alla disperazione. La via pasoliniana non è facile, è una via di sacrificio e di fatica, ma è anche una via di riscatto, di autenticità. La via voltairiana è più lieve, ma non per questo meno profonda. È la via della resilienza, della capacità di ridere di fronte alle ingiustizie, pur riconoscendole, senza lasciarsi schiacciare da esse.

Proseguendo ancora più a fondo nella riflessione, ciò che emerge tra Pasolini e Voltaire non è soltanto una divergenza stilistica o di approccio alla critica sociale, ma un differente rapporto con il mondo e con il tempo che abitiamo. La tensione tra l'ironia di Voltaire e la serietà assoluta di Pasolini diventa, infatti, simbolo di due modi profondamente distinti di concepire la condizione umana, la sua possibilità di redenzione e la sua impossibilità di essere redenta, o almeno non senza un prezzo molto alto. Se Voltaire, con il suo sorriso beffardo e la sua risata liberatoria, sembra essere in grado di sfidare il mondo con il suo spirito dissacrante, Pasolini sembra intrappolato in una condizione di dolore che non ha via d’uscita. Eppure, proprio questa frattura tra i due sembra illuminare una verità più profonda, una verità che non è mai statica, ma che si sposta costantemente, che muta nel tempo e nelle circostanze.

Voltaire, seppur dotato di una lucidità straordinaria, mai perde la speranza in un futuro migliore, in una civiltà che può evolversi attraverso il progresso, l'illuminismo e la razionalità. La sua critica alle istituzioni, alla superstizione e all’ignoranza, sebbene acuta, non è mai così radicale da spingerlo alla totale negazione della possibilità di un cambiamento. La sua ironia, il suo atteggiamento verso il mondo, è sì pungente, ma non priva di una visione di speranza, di una certa leggerezza che consente di affrontare l’assurdità del reale senza esserne sopraffatti. Il sorriso che Voltaire ci regala non è mai un segno di indifferenza, ma una forma di resistenza che si impone sul male senza esserne sopraffatta, che, paradossalmente, sdrammatizza la tragedia e la rende, in qualche modo, più tollerabile.

Al contrario, Pasolini non concede nulla alla leggerezza. La sua è una visione tragica, tanto radicale da sembrare distruttiva. Il suo sguardo sul mondo non ha nessun tipo di filtro che possa smussare l’asprezza della realtà che descrive. Il suo è un dolore che scava, un abisso che non ammette risate, né leggeri sorrisi di fronte al disastro. La sua analisi della condizione umana è profonda e oscura, ma proprio per questo è estremamente lucida. Egli non si limita a parlare del nostro mondo, ma lo analizza attraverso una lente severa e impietosa, che non perdona mai la mancanza di autenticità, il compromesso, la rinuncia a una lotta che è prima di tutto interiore, un conflitto con se stessi che si riflette nel sociale, nella politica, nell’identità stessa dell’individuo.

Eppure, in questo abisso pasoliniano, c'è un elemento che non possiamo trascurare: la sua continua ricerca di un significato autentico nella vita, che lo spinge a chiedere una coerenza tra l'essere e il fare. Pasolini, pur nel suo disincanto, non si rassegna alla superficialità del presente, ma si batte per una verità che, seppur dolorosa, può riscattare l’individuo dalla sua alienazione. La sua critica è, in fondo, un appello a tornare a una forma di sincerità con il mondo, una sincerità che non è semplicemente razionale, ma che ha a che fare con il corpo, con il dolore, con l’esperienza. Pasolini ci dice che solo riconoscendo la brutalità della realtà, e affrontandola con il coraggio di un dolore senza sconto, possiamo forse trovare un qualche senso, un qualche punto di speranza, che non sia artefatto o illusorio.

Questa continua tensione tra il riso e il dolore, tra la speranza e la disperazione, si riflette anche nel rapporto che ciascuno di noi ha con la cultura che ci circonda. Se da una parte abbiamo la cultura borghese che Voltaire rappresenta, con la sua civiltà del consumismo e del progresso, dall’altra abbiamo la cultura che Pasolini rifiuta, ma che, al contempo, non può fare a meno di osservare e analizzare. La cultura borghese, per Pasolini, è l’incarnazione della morte della cultura, della scomparsa della vera poesia, della verità che diventa merce, della bellezza che viene svuotata della sua capacità di emozionare e di suscitare riflessioni profonde. Pasolini vede in questa cultura l’incapacità di pensare in modo radicale, di interrogarsi sulla propria condizione, di rispondere al vuoto con qualcosa di più che una risposta superficiale, che passi attraverso il piacere e la fuga dal dolore.

Per Voltaire, invece, la cultura borghese è il frutto di un progresso che, sebbene imperfetto, porta con sé una promessa di emancipazione. Il suo è un ottimismo che si fonda sulla fiducia nella ragione e nel miglioramento continuo delle condizioni umane, anche se questa evoluzione non è mai lineare, ma piuttosto fatta di sbagli, di errori, e di correzioni successive. La critica di Voltaire si rivolge a tutto ciò che ostacola questo progresso, ma il suo è un invito ad andare avanti, a non fermarsi mai nella lotta per un mondo più giusto, per una società più razionale e più equa. In questo senso, la sua visione del futuro è positiva, sebbene temperata dalla consapevolezza che il cammino dell’uomo è sempre imperfetto, e la felicità non è mai garantita.

Questa divergenza tra Pasolini e Voltaire, che sembra riflettere la divisione tra due epoche e due visioni del mondo, diventa interessante se considerata alla luce della nostra contemporaneità. Viviamo in un’epoca in cui il riso e il dolore convivono continuamente, in cui la distanza tra la superficialità di una cultura del consumismo e la profondità di una cultura della resistenza e del sacrificio sembra irrisolvibile. Ma in questo contesto, forse, possiamo riconoscere che, senza la lucidità e l’ironia di Voltaire, rischiamo di cadere nella disperazione di Pasolini, senza più un punto di riferimento che ci faccia alzare lo sguardo, che ci permetta di affrontare il dolore con una forza che vada oltre la semplice reazione emotiva. Al contrario, senza la forza di Pasolini, rischiamo di ridurre la vita a una farsa, a una serie di esistenze vuote che si accontentano di una felicità superficiale, che non risponde alla vera domanda del nostro tempo: come vivere in un mondo che sembra aver perso ogni senso?

In questo intreccio di risate e di dolori, di sogni e di delusioni, forse la vera lezione che possiamo trarre da entrambi gli autori è che la vita non può essere ridotta a una semplice dicotomia tra bene e male, tra felicità e sofferenza, tra progresso e regresso. La verità della nostra condizione è più complessa, più sfumata. Sta nella capacità di abbracciare la contraddizione, di riconoscere che il sorriso di Voltaire e il dolore di Pasolini sono entrambi necessari per comprenderci davvero, per abbracciare la nostra umanità con tutte le sue contraddizioni, i suoi fallimenti e le sue speranze.

Continuando a esplorare la distanza e al contempo l'affinità tra Pasolini e Voltaire, dobbiamo analizzare come i due autori affrontino temi universali come la libertà, l’individualismo, il conflitto sociale e la condizione dell’intellettuale nella società. Entrambi si pongono come osservatori acuti e critici delle loro rispettive società, ma le loro risposte a questi temi sono profondamente divergenti, ognuna forgiata dalla propria epoca e dal proprio contesto culturale.

La libertà, ad esempio, è per entrambi un valore fondamentale, ma il modo in cui la concepiscono e la articolano non potrebbe essere più diverso. Voltaire, che vive nel cuore dell’Illuminismo, vede nella libertà l’apice dell’emancipazione umana, una conquista che si ottiene tramite la razionalità, la critica delle superstizioni, e l’affermazione dei diritti individuali. Per lui, la libertà è prima di tutto una questione di pensiero: liberarsi dall’oppressione dei dogmi religiosi e politici per raggiungere una maggiore comprensione del mondo, della giustizia e dell’equità. La sua è una libertà che si poggia su una base legale, sociale e razionale, ed è strettamente legata all’idea che la razionalità sia la chiave per risolvere i conflitti umani.

Pasolini, d’altra parte, pur riconoscendo il valore della libertà, si trova intrappolato in una tensione con la civiltà moderna che considera, in gran parte, come un nemico della vera libertà. La sua libertà non è quella di chi si affranca da catene visibili, ma piuttosto una ricerca interiore, che si misura con la possibilità di rimanere autentici in una società che sembra aver perso ogni traccia di autenticità. La sua libertà è tragica, in quanto legata a un contesto che egli vede come irrimediabilmente corrotta. Per Pasolini, il progresso ha portato una libertà superficiale, che ha svuotato l’individuo delle sue vere potenzialità. La sua libertà è quella di un “eroe solitario” che deve affrontare le forze che annientano il significato stesso della vita umana. Voltaire e Pasolini sembrano così intraprendere la stessa ricerca di libertà, ma mentre Voltaire spera in una liberazione attraverso il pensiero critico e l’emancipazione sociale, Pasolini avverte il peso di una libertà che può rivelarsi tragica, alienante, e perfino illusoria.

Questo contrasto si riflette anche nella visione che i due autori hanno dell’individuo, della sua capacità di agire e di rispondere agli impulsi e alle sfide della vita. L’individuo pasoliniano è un individuo lacerato, che vive un conflitto interno e sociale che sembra insormontabile. Egli è una figura che non riesce a trovare una posizione chiara nel mondo moderno, un mondo che sembra accogliere tutto senza riserve, ma che al contempo erode ogni forma di vera autenticità. In Pasolini, l’individuo è un’entità tragica che non riesce mai a sfuggire al proprio destino di alienazione. Non si tratta tanto di un individuo che si ribella al sistema, quanto di un individuo che esplora il proprio dolore esistenziale di fronte a un mondo che sembra aver perso il suo senso più profondo. La sua è una lotta solitaria, fatta di esplorazioni interiori, di analisi dolorose, ma anche di un continuo e ineluttabile confronto con la società che lo circonda. È un individuo che, pur conoscendo la corruzione della sua epoca, è consapevole che il suo rifiuto di essa non lo porterà mai a una reale soluzione, ma solo a una resistenza di fronte all’ineluttabile.

Voltaire, in modo diametralmente opposto, immagina l’individuo come un essere che ha il potere di trasformare la propria condizione grazie alla ragione. Per lui, l’individuo è dotato di un’innata capacità di discernimento e di capacità critica, che deve essere usata per migliorare se stesso e la società. La sua visione dell’individuo è quella di una figura che può confrontarsi con il potere, con l’autorità, con la tradizione, e attraverso la razionalità e l’educazione, raggiungere una posizione di maggiore libertà e consapevolezza. In questo, Voltaire incarna la figura dell’illuminista che guarda all’individuo come al motore di un cambiamento positivo, una visione che si scontra, però, con l’idea pasoliniana di un individuo che, per quanto cerchi di resistere, rimane intrappolato in un sistema che lo devasta.

Sia Pasolini che Voltaire si occupano anche del conflitto sociale, ma lo fanno in modo radicalmente diverso. Per Voltaire, la critica sociale è spesso una denuncia della tirannia, della superstizione, e delle ingiustizie del potere. La sua scrittura è attraversata dal desiderio di promuovere una società più giusta, fondata sui principi dell’uguaglianza e della libertà, ma sempre con la convinzione che tali principi possano essere raggiunti attraverso l’educazione e la legislazione. La sua critica sociale è, quindi, un atto di razionalizzazione del conflitto: il conflitto tra oppressi e oppressori può essere superato grazie alla razionalità e alla legge. Voltaire non si prefigge di distruggere il sistema, ma di correggerlo, di rendere il mondo più razionale, più giusto.

Pasolini, al contrario, vede il conflitto sociale come qualcosa di irrisolvibile, destinato a scatenare la violenza e la sofferenza. La sua visione è profondamente pessimistica: il conflitto tra classi, tra culture, tra generazioni, è inevitabile e impossibile da risolvere. La sua è una visione radicale della società, che non si limita a criticare le ingiustizie, ma cerca di comprendere le cause profonde della disgregazione sociale. Pasolini non cerca soluzioni politiche, non crede nella possibilità di un cambiamento positivo attraverso la legge o la razionalità. La sua critica è più esistenziale che politica: è una denuncia del vuoto esistenziale e spirituale che si nasconde dietro il consumismo e la perdita di senso. Il conflitto sociale, per lui, non è solo una questione politica, ma una questione esistenziale che coinvolge l’intera struttura dell’individuo e della società.

Infine, una delle tematiche che si collega strettamente ai due autori è il loro approccio alla cultura e all’arte. Mentre Voltaire vede la cultura come un mezzo per promuovere la razionalità e il progresso, Pasolini percepisce la cultura come un’arma che può servire non solo a esprimere il dolore e la resistenza, ma anche a custodire un possibile rifiuto di un mondo che ha perduto la sua autenticità. Per Pasolini, l’arte è un mezzo di lotta, ma anche di salvezza, perché preserva il legame con la memoria storica e culturale che la modernità ha cercato di distruggere. La sua arte è una forma di resistenza, un grido contro il silenzio che minaccia di avvolgere l’individuo e la sua identità. Voltaire, invece, pur riconoscendo il valore dell’arte e della cultura, la vede come un mezzo attraverso il quale l’individuo può esprimere la sua razionalità e il suo impegno sociale, ma non la considera come una forma di lotta o di resistenza, quanto piuttosto come uno strumento per illuminare la mente umana e affermare la libertà individuale.

Il contrasto tra la visione filosofica e l’approccio intellettuale di Voltaire e Pasolini è il prodotto di epoche profondamente diverse. Eppure, la loro continua interazione – tra il razionalismo illuminista di Voltaire e la disperazione esistenziale di Pasolini – ci offre uno sguardo affascinante sulla condizione dell’uomo e sulla sua ricerca di significato, libertà e giustizia.

Entrambi, però, ci insegnano qualcosa di vitale: che il mondo, pur imperfetto, può essere affrontato e compreso attraverso una forma di consapevolezza radicale che non si accontenta della mediocrità o della rassegnazione, ma che cerca di trovare una risposta autentica alla sofferenza, seppur in modi diversi.

La sintesi tra queste due visioni potrebbe forse risiedere nella consapevolezza che, pur vivendo in un mondo che non sempre ci soddisfa, dobbiamo essere in grado di affrontarlo con coraggio e determinazione, ma senza mai perdere di vista la nostra umanità. Dobbiamo imparare a ridere delle sue contraddizioni, ma anche a lottare per trasformarle. In questo senso, la riflessione su Pasolini e Voltaire non è solo un esercizio intellettuale, ma una sfida concreta a noi stessi: come affrontiamo la realtà? Con dolore e serietà, come Pasolini, o con ironia e distacco, come Voltaire? E forse, la risposta sta nel saper vivere entrambi questi aspetti, nel riuscire a guardare il mondo con occhi che vedono la sua gravità e la sua bellezza, e che, nonostante tutto, continuano a sperare.