sabato 25 aprile 2026

Resistenza e memoria: Il contributo eroico di Rom e Sinti alla lotta contro il fascismo

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana è una pagina di storia troppo spesso dimenticata, ma che merita di essere raccontata e celebrata. Queste comunità, tradizionalmente marginalizzate e perseguitate, hanno contribuito in modo significativo alla lotta contro il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, dimostrando un eroismo e una generosità straordinari. Tuttavia, questo capitolo della storia è stato spesso messo in ombra, sia per la politica dello Stato italiano dell'epoca che per il pregiudizio sistemico che ancora oggi affligge le popolazioni rom e sinti.

La Resistenza italiana fu un movimento variegato che coinvolse persone provenienti da ogni parte della società, da militari disertori a intellettuali, da contadini a operai. Tra questi, vi furono anche i rom e i sinti, che non solo subirono le atrocità del fascismo, ma furono anche attivamente coinvolti nel sabotaggio, nelle azioni di guerriglia e nel soccorso degli altri partigiani e degli ebrei. Questi gruppi, purtroppo, sono stati raramente celebrati nelle narrazioni ufficiali della Resistenza, spesso a causa delle politiche discriminatorie dello Stato italiano, che continuò a trattare i rom e i sinti come "indesiderabili" anche durante e dopo la fine della guerra.

Un esempio emblematico di come i rom e i sinti abbiano contribuito alla lotta di Liberazione è la formazione dei "Leoni di Breda Solini", una brigata partigiana composta da sinti italiani, che operò nelle regioni centrali e settentrionali del paese, in particolare tra le province di Mantova, Modena, Reggio Emilia e Cremona. Questa brigata si formò grazie alla fuga di molti sinti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia (MO), dove erano detenuti dai fascisti, subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Nonostante l’assenza di una preparazione militare formale, i membri della brigata si distinsero per il coraggio e l'efficacia nelle azioni di sabotaggio, come la distruzione di ponti, la raccolta di armi e l’assalto ai convogli tedeschi. La loro lotta non si limitò alla semplice resistenza armata, ma fu anche un atto di sfida alle ingiustizie razziali e sociali che avevano affrontato tutta la loro vita.

I "Leoni di Breda Solini" utilizzavano un camion che, con una serie di modifiche ingegnose, diventò un veicolo per trasportare armi e munizioni, permettendo loro di compiere incursioni nei territori occupati dai nazisti. La loro abilità nel muoversi e nel restare anonimi nel territorio, ma anche nella costruzione di alleanze con i gruppi partigiani locali, li rese una forza rispettata. La figura di Giacomo "Gnugo" De Bar, uno dei leader dei Leoni, divenne simbolo della determinazione di questi uomini e della loro lotta contro l'oppressione.

Purtroppo, molti altri partigiani rom e sinti sono caduti nell’oblio. Tra loro, Giuseppe "Tarzan" Catter, ucciso dai fascisti nell’area dell'Imperiese, è uno dei nomi più significativi che ancora oggi merita di essere ricordato. Altri, come Walter "Vampa" Catter e Lino "Ercole" Festini, furono fucilati il 11 novembre 1944 a Vicenza per la loro partecipazione alle azioni di resistenza. Questi uomini, insieme a molti altri, furono decorati al valore per il loro coraggio e il loro impegno a favore della libertà e della giustizia, ma le loro storie sono state spesso ignorate dai racconti ufficiali della guerra di Liberazione.

La resistenza dei rom e dei sinti non si limitò al solo combattimento armato. Molti membri di queste comunità si trovarono coinvolti in azioni di supporto, come l’aiuto a prigionieri ebrei, la protezione delle famiglie più vulnerabili, e la creazione di reti di rifugiati per nascondere gli oppositori del regime fascista. La loro determinazione nel contribuire alla liberazione d’Italia fu un atto di eroismo che merita finalmente di essere riconosciuto nella memoria storica del nostro paese.

Nonostante il loro contributo alla Resistenza, le comunità rom e sinti furono anche vittime di una sistematica persecuzione durante la Seconda Guerra Mondiale. Molti furono deportati nei campi di concentramento, dove subirono torture, esperimenti medici e la morte. Il genocidio a loro destinato, conosciuto come "Porrajmos" (in lingua romani, "grande divoramento") o "Samudaripen" ("tutti uccisi"), è una parte della storia europea che ha ricevuto poca attenzione, ma che rappresenta uno degli aspetti più crudeli della persecuzione razziale messa in atto dal regime nazista.

Il razzismo fascista e nazista ha considerato i rom e i sinti non solo come minoranze razziali da eliminare, ma come una minaccia da estirpare per “purificare” la razza. La violenza e la brutalità del regime si riflettevano anche nei trattamenti che queste persone ricevevano nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa, in un contesto di sistematica esclusione sociale e discriminazione.

Nonostante il loro fondamentale contributo alla lotta contro il nazifascismo, la memoria dei rom e dei sinti nella Resistenza è stata a lungo marginalizzata. L’indifferenza e il pregiudizio verso queste comunità hanno impedito che la loro partecipazione venisse adeguatamente riconosciuta. Solo negli ultimi decenni si sono registrati dei tentativi di recuperare queste storie, sia attraverso la pubblicazione di libri e articoli, che mediante la creazione di mostre e documentari. A queste iniziative si sono aggiunti importanti momenti di riflessione come la Giornata della Memoria, che ha cominciato a ricordare il genocidio dei rom e sinti, accanto a quello degli ebrei.

Negli ultimi anni, anche grazie all'impegno di attivisti, storici e membri delle stesse comunità rom e sinti, sono emerse nuove testimonianze e ricerche che stanno lentamente restituendo loro il giusto riconoscimento. Progetti come il Museo Nazionale della Resistenza e iniziative locali stanno facendo luce su queste figure dimenticate, cercando di costruire una memoria collettiva più inclusiva e giusta. La storia dei rom e sinti nella Resistenza non è più relegata nell’ombra, ma sta prendendo piede come un capitolo fondamentale nella narrazione della liberazione italiana.

È ora che il contributo di queste persone venga riconosciuto pienamente. Non solo come vittime del razzismo e della persecuzione, ma anche come eroi che hanno lottato con coraggio e determinazione per la libertà. La storia delle comunità rom e sinti nella Resistenza è una storia di resistenza non solo contro i fascisti, ma contro le ingiustizie di ogni tipo, e di un impegno che ha contribuito alla costruzione di una società più giusta e libera.

E ci sono ancora molti aspetti che vale la pena esplorare riguardo al contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza, e alla loro memoria storica, che spesso rimane in ombra. Ecco alcuni punti che potrebbero essere aggiunti per ampliare ulteriormente la narrazione:

Alcune delle storie più toccanti e significative di partecipazione delle comunità rom e sinti alla Resistenza provengono dalle testimonianze dirette di chi visse quei momenti. Purtroppo, molte di queste voci si sono perse con il passare del tempo, ma alcune sono state raccolte e continuano a essere diffuse grazie agli sforzi di storici e attivisti. Alcune di queste testimonianze raccontano di azioni di sabotaggio, ma anche di gesti quotidiani di solidarietà, come l’offrire rifugio a partigiani in fuga o la protezione di chi, per motivi politici o religiosi, era a rischio di arresto. Queste testimonianze sono fondamentali non solo per onorare il coraggio di queste persone, ma anche per contrastare l’oblio a cui sono state condannate.

Un altro aspetto che potrebbe essere approfondito è l’impatto delle politiche post-belliche sulla memoria delle comunità rom e sinti. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo italiano, come molti altri in Europa, non ha fatto molto per riconoscere i crimini perpetrati contro le popolazioni rom e sinti. La loro lotta per il riconoscimento dei diritti civili e il recupero delle memorie storiche è stata ostacolata da un pregiudizio istituzionale che ha perpetuato l’idea di queste comunità come “straniere” e non integrate nella società. Questo ha avuto conseguenze dirette sulla loro inclusione nei racconti ufficiali della Resistenza e, più in generale, sulla loro visibilità all’interno della società italiana.

È importante sottolineare che il contributo dei rom e dei sinti alla Resistenza non si è limitato alle brigate partigiane o alle azioni di combattimento diretto. Molti di loro, infatti, hanno contribuito alla “Resistenza diffusa”, quella fatta di atti quotidiani di opposizione al regime fascista. Si trattava di atti di disobbedienza civile, di rifiuto di piegarsi alla violenza del regime, di difesa della propria identità culturale in un contesto che cercava di omologare e cancellare qualsiasi forma di diversità. Il rifiuto delle politiche di razza e l'affermazione di un’identità libera e autonoma, spesso associata all'intransigenza e alla ribellione, è una forma di resistenza che merita di essere esplorata in modo più profondo.

Un aspetto che potrebbe essere ulteriormente approfondito riguarda il ruolo delle donne rom e sinti durante la Resistenza. Come in molte altre situazioni, il contributo femminile è stato spesso trascurato, ma numerose donne delle comunità rom e sinti hanno avuto un ruolo fondamentale nelle reti di resistenza, sia in azioni dirette di sabotaggio che nel supporto logistico e nell’assistenza ai partigiani. Alcune di queste donne si sono distinte anche per il loro coraggio nel proteggere le famiglie dai rastrellamenti fascisti e nazisti, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri cari.

Un altro aspetto importante da aggiungere riguarda il riconoscimento ufficiale di questa parte di storia. La Legge 211 del 2000, che ha istituito la Giornata della Memoria in Italia, ha rappresentato un primo passo importante nel riconoscere anche le vittime rom e sinti del nazismo e del fascismo. Tuttavia, c'è ancora molto da fare per includere adeguatamente il loro contributo alla Resistenza nei curriculum scolastici, nei musei e nelle commemorazioni ufficiali. È fondamentale che le nuove generazioni siano consapevoli del ruolo che queste comunità hanno avuto nella lotta per la libertà e che imparino a riconoscere il valore della loro partecipazione.

Uno degli obiettivi più importanti nel raccontare questa storia è creare una memoria condivisa, che vada oltre le differenze culturali e sociali, per costruire una narrazione inclusiva che riconosca le sofferenze e i sacrifici di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà e contro le ingiustizie. In un mondo che spesso si trova diviso da conflitti razziali e culturali, il racconto delle storie di resistenza dei rom e dei sinti è una lezione di solidarietà, di coraggio e di speranza, che può contribuire a un futuro più giusto e rispettoso della diversità.

Il racconto della Resistenza rom e sinti non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di rivendicazione di una memoria collettiva più equa. Il loro contributo alla lotta contro il fascismo e il nazismo è parte integrante della storia della nostra libertà. Riconoscere e celebrare questo contributo non solo restituisce dignità a queste comunità, ma arricchisce anche la comprensione della nostra Resistenza, rendendola più completa, più giusta e più universale.

Un altro aspetto che potrebbe arricchire ulteriormente il racconto del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza riguarda il legame tra la memoria storica e le politiche contemporanee di inclusione e di lotta contro la discriminazione. Ecco alcuni punti da considerare:

Oggi, la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza ha acquisito una nuova centralità, in parte grazie agli sforzi di attivisti, storici e membri delle stesse comunità. Tuttavia, la strada per un riconoscimento ufficiale è ancora lunga. Le politiche attuali di inclusione, che mirano a garantire pari diritti e opportunità alle minoranze, devono essere accompagnate da un impegno concreto nella valorizzazione della memoria storica. La lotta contro il razzismo e le discriminazioni, che ancora oggi affliggono i rom e i sinti in molte società europee, non può prescindere dal riconoscimento delle loro radici storiche e dal rendere giustizia ai loro sacrifici passati.

In questo contesto, il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza può essere visto come un simbolo di resistenza non solo al nazifascismo, ma anche all’intolleranza e alla marginalizzazione. Questa riscoperta storica, infatti, diventa un punto di partenza per una riflessione critica sulle politiche di inclusione sociale in atto oggi, e per un impegno costante nella costruzione di una società che accolga la diversità come valore, piuttosto che come minaccia.

In molte occasioni, le politiche razziste italiane ed europee del passato e del presente continuano a emarginare le comunità rom e sinti. La loro visibilità, in particolare nella storia della Resistenza, è stata spesso omessa o distorta. Questo è stato il risultato di politiche sistemiche che trattavano le comunità rom e sinti come "non italiane" o "estranee", anche se molte di esse avevano radici secolari in Italia e in altre parti d’Europa. La discriminazione razziale e sociale continua a essere una realtà per molte di queste persone, che si trovano ad affrontare una doppia discriminazione: quella legata alla loro identità etnica e quella legata alla povertà.

Riconoscere e celebrare il loro contributo storico alla lotta per la libertà e contro il fascismo è un passo essenziale per combattere il razzismo istituzionale che ancora persiste. Solo attraverso un impegno collettivo per riparare le ingiustizie storiche e per restituire dignità e visibilità a queste comunità si potrà costruire una società veramente inclusiva, in cui nessuno venga emarginato o dimenticato.

Uno degli strumenti più potenti per combattere l’oblio e la discriminazione è l'educazione. Integrare il contributo delle comunità rom e sinti nella Resistenza nei programmi scolastici e nelle attività educative è essenziale per costruire una memoria condivisa che non solo recuperi le storie di chi ha combattuto per la libertà, ma che sia anche un monito per il futuro. La scuola, infatti, è il luogo in cui si formano le coscienze e dove si possono gettare le basi per una cultura del rispetto e della solidarietà. Insegnare ai giovani la storia del Porrajmos, la resistenza dei rom e dei sinti, e il loro impegno nella lotta contro il nazifascismo è un modo per sensibilizzare le future generazioni a non ripetere gli errori del passato.

A tale scopo, diversi musei, archivi e centri di ricerca in Italia e in Europa hanno avviato progetti didattici che si concentrano sulla storia dei rom e dei sinti, cercando di rendere giustizia al loro ruolo cruciale nella Resistenza. In molti casi, queste iniziative sono affiancate da testimonianze orali e da incontri diretti con le persone che appartengono ancora a queste comunità, rendendo la storia più tangibile e personale.

Anche dopo la fine della guerra, la verità sui crimini contro i rom e i sinti, e più in generale sui crimini di guerra compiuti dai nazifascisti, è stata a lungo negata o minimizzata. L’inchiesta ufficiale sul genocidio dei rom è arrivata in ritardo, e non ha avuto lo stesso impatto della memoria degli ebrei vittime del nazismo. Tuttavia, negli ultimi anni, c'è stato un crescente interesse da parte delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali nel perseguire la verità e la giustizia per le vittime rom e sinti. L'adozione di risoluzioni e dichiarazioni da parte dell'Unione Europea, dei governi nazionali e di organizzazioni per i diritti umani è un passo importante, ma ancora non basta. È fondamentale che la giustizia post-bellica riguardi anche i crimini commessi contro le comunità rom e sinti, attraverso risarcimenti, scuse ufficiali e il riconoscimento della loro sofferenza storica.

La commemorazione del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza deve passare attraverso momenti significativi di riflessione collettiva. Le celebrazioni del 25 aprile, la Giornata della Memoria, e altre occasioni di riflessione sulla storia del fascismo e del nazismo devono essere anche un momento di riconoscimento per chi ha lottato non solo contro l’occupazione tedesca, ma contro ogni forma di oppressione. È importante che le generazioni future siano educate a riconoscere la storia di tutte le persone che hanno sacrificato la propria vita per la libertà, indipendentemente dalla loro origine etnica o sociale.

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale. È fondamentale che queste storie vengano raccontate, celebrate e condivise, per rendere giustizia a chi ha lottato per la libertà, ma anche per ispirare le nuove generazioni a continuare a combattere per una società più giusta e inclusiva.

E ci sono ancora altre prospettive che potrebbero arricchire ulteriormente il racconto e l'analisi del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Ecco alcuni ulteriori aspetti che potrebbero essere esplorati:

La Resistenza rom e sinti non può essere separata dal più ampio contesto della memoria del Porrajmos, ovvero il genocidio che ha colpito queste comunità durante l'occupazione nazista. Il termine “Porrajmos” significa “devastazione” in romani e descrive l'annientamento sistematico a cui i rom e i sinti furono sottoposti dai nazisti. Tuttavia, molte delle storie legate alla Resistenza non sono state incluse nei racconti ufficiali del genocidio, in parte perché la lotta dei rom e dei sinti è stata marginalizzata.

Affermare con forza che le comunità rom e sinti non furono solo vittime del nazismo ma anche attori principali della Resistenza implica una rilettura critica della memoria del Porrajmos, un recupero della visibilità di chi, pur affrontando la persecuzione, decise di non arrendersi e di combattere. La connessione tra la memoria del genocidio e quella della lotta partigiana può fornire una visione complessa ma necessaria di una resistenza che si sviluppa su più fronti: quello fisico e quello culturale, in cui le tradizioni e l'identità rom e sinti hanno continuato a resistere non solo attraverso la lotta armata, ma anche attraverso la preservazione della propria storia e lingua.

Non solo in Italia, ma in molte altre nazioni europee le comunità rom e sinti giocarono un ruolo significativo nella Resistenza. In Francia, ad esempio, alcuni gruppi rom e sinti si unironoin alle forze di liberazione, impegnandosi in attività di sabotaggio, assistenza ai rifugiati e ai combattenti della Resistenza. In paesi come la Germania, l'Ungheria e la Polonia, i rom furono anch'essi attivi nel resistere all'occupazione nazista e nel combattere contro il regime. Un'analisi comparata tra i diversi paesi europei potrebbe rendere ancora più evidente il ruolo fondamentale che queste comunità ebbero nella lotta per la libertà. La loro partecipazione si inserisce in un contesto europeo più ampio, dove le popolazioni emarginate furono spesso le prime a mobilitarsi contro la violenza fascista.

Oltre alla Resistenza armata, va sottolineata anche la dimensione della resistenza civile che le comunità rom e sinti continuarono a portare avanti nel dopoguerra, spesso in contesti di povertà estrema, isolamento e discriminazione. Mentre il paese si riorganizzava dopo la guerra, le persone rom e sinti dovettero affrontare non solo la persecuzione fascista, ma anche un'ulteriore marginalizzazione da parte della società italiana e delle istituzioni. In questo senso, la resistenza non si limitò al periodo bellico, ma si estese anche agli anni successivi, in cui le comunità si trovarono a lottare per la sopravvivenza, per i propri diritti e per il riconoscimento della propria dignità. La lotta per la giustizia sociale, per il lavoro, per la casa e per il riconoscimento dei diritti civili delle comunità rom e sinti può essere vista come una continuità della Resistenza, in cui le persone non hanno mai smesso di combattere per la propria libertà e per l'uguaglianza.

Un altro aspetto importante da esplorare riguarda le sfide odierne nella lotta contro la distorsione della memoria storica. Il negazionismo, che cerca di minimizzare o negare la portata della persecuzione e del genocidio dei rom e sinti, continua a essere una minaccia. La ricerca di giustizia storica non può fermarsi al recupero delle storie, ma deve continuare con un costante impegno contro chi cerca di riscrivere la storia in modo da cancellare il contributo delle comunità rom e sinti. Il negazionismo si manifesta in vari modi, dalle dichiarazioni pubbliche di politici e leader di movimenti di estrema destra, fino alla rappresentazione stereotipata delle comunità rom e sinti nei media. La resistenza al negazionismo è oggi una delle battaglie principali per le nuove generazioni, che devono confrontarsi con la sfida di preservare la verità storica e combattere contro ogni tentativo di revisionismo.

Le giovani generazioni rom e sinti giocano un ruolo cruciale nel recupero della memoria storica e nella sua diffusione. Le nuove generazioni, spesso più consapevoli e coinvolte nei movimenti per i diritti civili e per la giustizia sociale, hanno il compito di trasmettere e mantenere viva la memoria del passato, ma anche di affrontare le sfide moderne in modo attivo. Molti giovani rom e sinti si impegnano oggi in progetti educativi, artistici e culturali per preservare la loro identità e per fare in modo che la Resistenza e la storia della loro comunità siano conosciute e riconosciute. Questi giovani non solo si ispirano alla memoria storica, ma anche alla speranza di un futuro in cui la discriminazione e la marginalizzazione siano definitivamente superate.

Il ruolo della cultura e dell’arte è fondamentale per mantenere viva la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Molti artisti rom e sinti, così come non-rom, si sono impegnati per raccontare queste storie attraverso film, documentari, musica, letteratura e altre forme di espressione culturale. L’arte diventa uno strumento potente per sensibilizzare le persone e per combattere l’oblio. Attraverso il linguaggio universale dell’arte, si può raccontare una storia di coraggio, resistenza e speranza che non solo riguarda il passato, ma che continua a ispirare e a impegnare tutti coloro che credono nella libertà e nella giustizia.

L'approfondimento della memoria delle comunità rom e sinti nella Resistenza, sia attraverso il recupero delle storie individuali che l’analisi delle dinamiche sociali e politiche del periodo, arricchisce la comprensione di una parte fondamentale della storia europea. Oggi, più che mai, è necessario dare voce a queste storie, rendere visibile la loro resistenza e riaffermare l’importanza della memoria come strumento di lotta contro l’intolleranza, il razzismo e l’ingiustizia. Solamente attraverso una comprensione profonda di questa memoria collettiva si potrà costruire una società più giusta e inclusiva.

Oggi, quando parliamo della Resistenza italiana, è essenziale includere anche il coraggio di queste comunità, affinché il loro contributo non venga mai più dimenticato e affinché le future generazioni possano conoscere la vera portata di questa lotta di Liberazione.

mercoledì 19 novembre 2025

ANNUSARE CON L’ANIMA: L’artista contemporaneo tra narici atrofizzate e spirito elevato

L'artista odierno si è messo ad annusare i fiori con l'anima invece che con il naso.

Da Witold Gombrowicz, Diario vol II (1959-1969)


L’immagine che apre questo discorso è tanto semplice quanto paradigmatica: un artista si china su un fiore. Non importa quale: può essere una rosa rossa comprata in un mercato rionale, un tulipano strappato da un’aiuola pubblica, o un piccolo girasole dimenticato sul terrazzo di un vecchio condominio. Tutto ciò che ci si aspetterebbe è un gesto banale ma essenziale: avvicinare il naso, inspirare, permettere al corpo di fare il suo lavoro. E invece, nella quasi totalità dei casi contemporanei, l’artista chiude gli occhi, solleva leggermente il mento, inclina il volto con una concentrazione che rasenta la preghiera e proclama — magari davanti a un pubblico o in un’intervista televisiva — che sta “annusando con l’anima”.

Gombrowicz, scrivendo negli anni Sessanta, avrebbe sorriso amaramente. La battuta è feroce: l’artista moderno non percepisce più nulla di concreto, eppure pretende di dominare il mondo delle idee. Annusare con l’anima sostituisce il naso con un concetto, il fiore con il simbolo, la materia con l’astrazione. Non c’è più petalo, non c’è più polline; c’è solo la dichiarazione di profondità. Il fiore diventa un pretesto, un dispositivo, un apparato semiotico attraverso cui l’artista prova la propria sensibilità. La realtà si trasforma in teoria.

Questo atteggiamento, che potrebbe sembrare frivolo, è invece profondamente tragico. L’artista contemporaneo si trova intrappolato tra il desiderio di sublimare e la necessità di comunicare. La critica pretende concetto, filosofia, politica, teoria queer, decolonizzazione; il pubblico pretende emozione, coinvolgimento, stupore; il mercato pretende originalità ma vendibilità. E così l’artista fugge nel rifugio più sicuro: l’anima. Il naso, fragile e imprevedibile, non è più affidabile. L’anima, invece, protegge. Non punge, non sporca, non vomita, non fa starnutire. È perfetta.

Eppure il corpo chiama. Lo percepiamo in performance in cui il corpo ricompare nudo, ferito, vulnerabile. Lo percepiamo nelle installazioni che includono oggetti trovati o segni di imperfezione: un fiore appassito infilato tra due tavoli bianchi, un pannello scrostato, una macchia di terra lasciata a vista. È un richiamo alla concretezza che persiste nonostante la spiritualizzazione. L’artista, sotto la maschera della sublime elevazione, desidera annusare davvero, sentire l’umidità della terra, l’odore pungente di un gambo spezzato. Il gesto semplice, banale, umano è ancora presente, pronto a manifestarsi quando il discorso concettuale cede, quando la performance si interrompe, quando la galleria diventa troppo silenziosa.

Se guardiamo la storia dell’arte, questa tensione tra corpo e anima non nasce dal nulla. Nei simbolisti e nei romantici, già Delacroix, Courbet, Böcklin giocavano tra il sogno e la materia, tra l’odore reale e quello metaforico. La modernità ha esasperato questa dialettica: Duchamp, Beuys, Klein, e poi tutta l’arte concettuale hanno spinto il distacco tra percezione e realtà fino al paradosso. L’artista che annusa con l’anima è l’erede di questa genealogia, con l’aggiunta della spettacolarizzazione dei gesti. Il gesto è simbolico, la voce è metafora, l’odore è evocazione.

Oggi, quando camminiamo tra le gallerie, assistiamo a questo fenomeno in modo evidente. Figure magre, spigolose, vestite in nero o beige radical chic, pronunciano frasi come “attivo una relazione con lo spazio” o “interrogo il campo semantico della percezione”. E intanto il fiore reale muore nell’indifferenza. La realtà non ha più voce, e chi cerca di percepirla con il corpo sembra ignorato dall’artista, che annusa la sua anima come se fosse un tessuto di vibrazioni invisibili.

La spiritualizzazione dell’arte ha prodotto un paradosso: opere che parlano molto e dicono poco, che promettono profondità e consegnano didascalie, che evocano dimensioni alte e temono la concretezza. Eppure, quando l’arte si ricongiunge al mondo materiale, anche solo per un momento, accade qualcosa che nessun comunicato stampa può produrre: accade la vita. E questa vita, fatta di odore, sudore, imperfezione, è condivisibile, è comunitaria, è vera.

Annusare con il naso diventa un atto rivoluzionario. Significa rifiutare la sovrainterpretazione compulsiva, recuperare il rapporto con la realtà, accettare il corpo e le sue debolezze. Significa permettere al fiore di essere materia viva, e non concetto astratto. L’anima è necessaria, certo, ma senza corpo diventa artificio, maschera, etichetta.

La filosofia conferma questa tensione. Heidegger parlava di essere-nel-mondo: il corpo è il mezzo attraverso cui entriamo in relazione con l’essere. Kant ricordava che la percezione sensibile è la base della conoscenza. Eppure, l’artista contemporaneo sembra voler negare tutto questo: annusa con l’anima perché teme il contatto con la materia, con l’imperfezione, con il rischio del ridicolo. Non è solo estetica: è etica, esistenziale.

Nei confronti degli artisti queer contemporanei, questa dinamica assume sfumature ancora più complesse. Il corpo è politicizzato, esposto, performativo. La spiritualizzazione diventa difesa: proteggere il sé vulnerabile dietro l’anima. Eppure, la tensione tra il desiderio di apparire sublimi e la nostalgia della concretezza crea opere straordinarie, tragiche e comiche insieme. Pensa a performance in cui un corpo nudo interagisce con fiori veri, fiori finti, oggetti trovati, provocando stupore, imbarazzo e meraviglia nello spettatore: il gesto semplice ritorna, e l’anima non basta più.

Gombrowicz ci ricorda, con la sua pungente ironia, che l’artista è tragico proprio per questo. Vuole elevarsi ma teme la vita; vuole apparire sublime ma desidera ridicolo; vuole annusare con l’anima ma sogna il naso. L’artista è sospeso tra due poli: la spiritualizzazione estrema e il richiamo al reale. Mentre proclama concetti elevati, tradisce il suo desiderio di corporeità, di esperienza diretta, di contatto con la materia.

Annusare con il naso diventa allora un gesto politico, filosofico e poetico insieme: significa accettare fragilità, caos, profumo cattivo e buono, imperfezione, rischio, contaminazione. Significa lasciare che il fiore esista al di là del concetto, che l’esperienza non sia mediata, che il corpo sia il fondamento della percezione. L’anima non sostituisce il naso, lo completa solo se c’è la percezione concreta.

Il miracolo avviene quando l’artista finalmente respira, con il naso, con la pelle, con tutto se stesso davanti a un fiore. E il miracolo non è solo estetico: è umano, fragile, vulnerabile, irresistibilmente comico e tenero. È il gesto semplice, quello che la teoria non può spiegare, quello che resiste a qualsiasi interpretazione, quello che ricorda che l’arte esiste solo se ha il corpo come terreno.

Solo così l’arte torna a essere viva: non nel concetto, non nell’idea, ma nella percezione, nell’esperienza, nell’imprevedibilità del reale. E forse è questo il vero insegnamento di Gombrowicz: non sostituite mai il naso con l’anima. Annusate davvero, lasciatevi sorprendere, fatevi contaminare. Il profumo è vita. Il fiore è vita. E la vita, purtroppo o per fortuna, non sempre ha bisogno di interpretazione.


Forse il punto più profondo...


Forse il punto più profondo non risiede nella contraddizione superficiale tra ciò che si proclama e ciò che si vive, ma nella risonanza che questa contraddizione produce nella coscienza di chi osserva. Quando qualcuno si erge a custode di valori morali, difensore di ideali di famiglia o di norme condivise, e nello stesso tempo costruisce nella propria vita molteplici versioni di quegli stessi modelli, ciò che emerge non è soltanto un paradosso: è una frattura che attraversa la parola, l’azione e l’intenzione. La coerenza, in questi casi, diventa un bene raro, quasi prezioso, e la distanza tra ciò che viene proclamato e ciò che viene realmente vissuto produce inevitabilmente un senso di disillusione, un silenzioso smarrimento che si insinua tra chi ascolta.

Chi osserva non è un pubblico incapace, né superficiale: percepisce le contraddizioni, le legge tra le pieghe dei gesti, delle scelte, delle parole che sembrano suonare vuote. L’indifferenza apparente, quell’anestesia che a volte viene attribuita a chi guarda, non è altro che una forma di difesa interiore, una consapevolezza che si sviluppa lentamente: il riconoscimento che la moralità proclamata dall’alto, senza fondamento autentico, rischia di perdere ogni forza e ogni autorità. Le lezioni morali diventano così rituali vuoti, gesti teatrali, se chi le impartisce non dimostra, con la propria vita concreta, che quelle regole possono essere incarnate senza compromessi, senza cedimenti, senza ipocrisia.

E allora la molteplicità dei modelli, l’apparente incoerenza, non è di per sé un peccato, ma una tensione necessaria che mette a nudo la fragilità di chi pretende di parlare per tutti. La credibilità non si conquista con il proclamo o con la voce più alta; nasce dalla corrispondenza tra ciò che si dice e ciò che si fa, tra principio e gesto, tra promessa e quotidianità. Quando questa corrispondenza manca, chi osserva sviluppa uno spazio critico, una distanza necessaria tra parola e realtà, tra predicazione e vita vissuta, che è insieme prudenza e lucidità.

E così il paradosso diventa illuminante: esso non scandalizza solo per il comportamento dei singoli, ma perché rivela la fragilità intrinseca delle norme quando non sono vissute. Una regola non incarnata resta una forma vuota, un gesto teatrale che perde la capacità di orientare, di guidare, di istruire. Chi osserva, allora, non resta semplicemente passivo: impara a leggere, a interpretare, a cogliere la distanza tra l’idealizzazione e il reale, tra il mito della perfezione e l’imperfezione della vita concreta.

E così, nella percezione silenziosa di chi guarda, nasce una nuova forma di saggezza: una consapevolezza che riconosce la distanza tra ciò che è imposto e ciò che è autentico, tra ciò che viene detto e ciò che viene vissuto. La vita delle persone, con le sue contraddizioni e complessità, diventa un insegnamento silenzioso: insegna che la moralità non può essere semplicemente dettata dall’alto, che ogni regola diventa significativa solo quando trova un riflesso concreto nel gesto quotidiano, nella scelta responsabile, nell’esperienza vissuta.

E forse, allora, l’anestesia apparente del pubblico non è che una vigilanza attenta, un discernimento silenzioso, una forma di intelligenza che osserva, giudica e misura, senza farsi ingannare da parole vuote o da apparati morali inconsistenti. La società, in questa lente, non è indifferente: è paziente, riflessiva, attenta ai dettagli, e pronta a riconoscere ciò che è autentico, ciò che ha sostanza, ciò che può durare.

La vera lezione non sta nelle regole proclamate, né nei modelli ipotizzati; sta nella capacità di chi osserva di leggere tra le pieghe della vita, di cogliere la verità dietro le apparenze, di riconoscere la distanza tra parola e azione come una misura della realtà stessa. Solo da questa comprensione nasce una coscienza matura, capace di giudizio, di resistenza e di scelta libera, e solo da questa consapevolezza può fiorire un senso autentico di moralità e di responsabilità condivisa.


martedì 18 novembre 2025

L'ultima speranza di Sylvia Plath: una lettera tra furia e disperazione


Il 19 novembre del 1962, Sylvia Plath, una delle voci più potenti e tormentate della poesia del Novecento, si trova a fare i conti con un’esistenza che, giorno dopo giorno, sembra volerla inghiottire senza tregua. La sua vita, già segnata da un matrimonio fallito, dalla responsabilità di crescere due bambini piccoli da sola e da una depressione che non le dà scampo, la conduce in quella che è da sempre la sua unica via di fuga: la scrittura. La penna diventa ancora una volta la sua arma, un’estensione del suo stesso corpo, quasi un prolungamento della sua anima ferita. Piglia carta e penna come un naufrago che si aggrappa a una zattera di salvezza, e si immerge in una lettera destinata a un’altra poetessa, Anne Sexton, una donna che Sylvia non ha mai incontrato di persona ma che, in qualche modo, sente come un’anima affine.

La lettera è breve ma intensa, ogni parola scava profondamente nel suo stato d’animo, ogni frase trasuda il dolore e il desiderio di connessione che da sempre caratterizzano la sua vita. Si apre con una confessione che colpisce come un fulmine: “Mi creda: sono drogata dalla sua poesia, sono disperatamente ossessionata, una tossica-di-Smith.” Quelle parole non sono semplici complimenti né un’esagerazione poetica: sono il grido di un’anima che cerca disperatamente un punto di riferimento, un’ancora in un mare in tempesta. Anne Sexton, con la sua poesia cruda, viscerale, che affronta senza paura i temi più oscuri della vita, rappresenta per Sylvia non solo un modello, ma una sorta di specchio in cui riflettersi e riconoscersi.

In queste righe, Sylvia rivela molto di più di quanto possa sembrare a un primo sguardo. Non si tratta solo di un omaggio alla poesia di Sexton, ma di una confessione profonda che parla del suo stesso bisogno di sentirsi capita, accolta, vista per quella che è realmente. Le parole “drogata” e “ossessionata” non sono metafore casuali: riflettono il suo rapporto viscerale con l’arte e con la vita stessa, un rapporto che oscilla tra un’intensità febbrile e un senso di disperazione profonda. La scrittura, per Sylvia, è una dipendenza, un bisogno primario, una necessità che le permette di dare un senso al caos che la circonda. Allo stesso tempo, però, la costringe a confrontarsi con i suoi demoni interiori, rendendo ogni parola scritta un atto tanto liberatorio quanto doloroso.

Mentre scrive, Sylvia ripercorre mentalmente gli ultimi mesi della sua vita, che sono stati un continuo alternarsi di speranza e disillusione. Per quasi un anno, aveva cercato rifugio nella quiete della campagna inglese, trasferendosi con Ted Hughes e i loro due figli in una casa nel Devon. L’idea era quella di trovare pace nella semplicità della vita rurale, lontano dal caos delle città e dalle pressioni della società letteraria. Sylvia si era dedicata con entusiasmo a occupazioni che sembravano promettere una forma di equilibrio: coltivare mele nei frutteti circostanti, prendersi cura delle api, immergersi nella routine quotidiana dettata dai ritmi della natura. Ma ben presto quella tranquillità apparente si era rivelata un’illusione.

Il matrimonio con Ted Hughes, che Sylvia aveva sempre vissuto con un’intensità quasi feroce, si era sgretolato sotto il peso delle infedeltà di lui e delle tensioni creative che da sempre li avevano accompagnati. Ted, con il suo carisma e il suo talento, era stato per Sylvia una figura tanto ispiratrice quanto ingombrante, un uomo capace di accendere in lei una passione straordinaria ma anche di alimentare insicurezze e frustrazioni profonde. A luglio del 1962, dopo una serie di tradimenti che Sylvia non poteva più ignorare, il loro legame si era spezzato definitivamente, lasciandola sola a crescere i loro figli.

Frieda, di appena due anni, e Nicholas, nato a gennaio dello stesso anno, rappresentavano per Sylvia un motivo di gioia ma anche una fonte di enorme pressione. Essere madre, per lei, era un’esperienza ambivalente: da un lato, le offriva un senso di scopo, un motivo per andare avanti; dall’altro, le imponeva responsabilità che spesso sentiva come un peso insostenibile, soprattutto ora che si trovava a gestirle da sola. La sua mente, già fragile, veniva messa alla prova ogni giorno da questa duplice realtà, e il senso di isolamento che ne derivava non faceva che peggiorare la situazione.

Nonostante tutto, la lettera a Anne Sexton lascia intravedere una scintilla di speranza, un desiderio di ricominciare, di costruire un nuovo capitolo della sua vita. “Spero, per magia, di trasferirmi con i miei bambini a Londra: mi piacerebbe allora invitarla a prendere un tè o un caffè… è da tempo che vorrei incontrarla.” La scelta della parola “magia” è significativa: per Sylvia, l’immaginazione e la creatività sono sempre state strumenti di trasformazione, mezzi attraverso cui cercare di riscrivere la propria storia e dare un senso al caos della sua esistenza.

A dicembre, Sylvia riesce davvero a trasferirsi a Londra, portando con sé i suoi bambini e una determinazione feroce a ricominciare. Ma la città non le offre il rifugio che aveva sperato. L’appartamento in Fitzroy Road, che un tempo era stato abitato dal poeta W.B. Yeats, sembra carico di un simbolismo che Sylvia non può ignorare, ma è anche freddo, angusto, lontano da quel senso di casa di cui avrebbe avuto disperatamente bisogno. Londra, con le sue strade affollate e il suo clima rigido, diventa per Sylvia una prigione. Isolata dal mondo, con due bambini piccoli da accudire e i demoni della depressione che si fanno sempre più invadenti, Sylvia si ritrova intrappolata in un inverno che sembra non avere fine.

Quel tè o caffè con Anne Sexton, che tanto aveva desiderato, non si realizzerà mai. Il 1963 inizia con una solitudine opprimente, un vuoto che nessuna poesia o immaginazione riesce più a colmare. A febbraio, sopraffatta dal dolore e dalla disperazione, Sylvia decide di mettere fine alla sua vita. Con questo gesto estremo, lascia dietro di sé non solo due bambini, ma anche un’eredità letteraria straordinaria, un corpus di poesie e scritti che continueranno a risuonare attraverso le generazioni. La sua lettera a Anne Sexton, con la sua sincerità disarmante e il suo tono febbrile, rimane un documento struggente della sua lotta contro il dolore, un grido che ancora oggi riecheggia nella sua opera, rendendo la sua figura un simbolo eterno di fragilità e genio creativo.

Tra giardini e stelle (100 haiku)


"Tra giardini e stelle" – Introduzione agli Haiku

Questa raccolta di cento haiku prende forma come un piccolo universo intimo, un microcosmo in cui la poesia diventa strumento di osservazione e contemplazione. Nasce dall’incontro tra memoria, percezione sensoriale e immaginazione, da quell’urgenza che spinge a trattenere ciò che normalmente sfugge, a fermare l’istante prima che si dissolva nel flusso ininterrotto del tempo. Ogni haiku è un cristallo di luce che cattura una vibrazione, un riflesso, un’emozione fugace e la trasforma in un attimo perfetto, capace di parlare alla mente e al cuore. La materia da cui nasce la raccolta è un testo denso di immagini, suggestioni e visioni: giardini intrisi di rugiada, fiori che si piegano al vento, rami che si rincorrono nel cielo, mari lontani che respirano con un ritmo segreto, notti punteggiate di stelle che sembrano sospese sopra le città e i campi, come custodi silenziosi di ciò che resta invisibile e prezioso. Da questa materia, grezza eppure già luminosa, germoglia la forma pura dell’haiku, capace di contenere un intero mondo in pochissime parole.

Gli haiku, così brevi e concisi nella loro struttura, diventano piccoli ponti sospesi tra la realtà e l’immaginazione, tra il visibile e l’invisibile, tra ciò che è personale e ciò che appartiene all’esperienza universale. Ogni componimento è un invito ad allungare lo sguardo, a percepire la delicatezza dei dettagli, a entrare in risonanza con ciò che è spesso trascurato. Sono frammenti che non si limitano a descrivere, ma trasfigurano: un gesto diventa simbolo, un profumo diventa memoria, una foglia che cade diventa segno del passare del tempo e della fragilità della vita. La lettura di questi haiku richiede un’apertura interiore, una disposizione delicata e attenta, capace di accogliere l’istante senza affrettarlo. Si tratta di un invito a camminare lentamente tra i sentieri della percezione, a lasciarsi sfiorare dai suoni, dai colori e dalle luci, a riconoscere in ogni piccolo evento il segno di un ordine più ampio e invisibile. Il lettore è chiamato a diventare parte del paesaggio interiore evocato dalle parole, a saltare siepi di ricordi, a contare le stelle non solo nel cielo, ma negli occhi di chi incontra, a cogliere la dolcezza che spesso si nasconde sotto la superficie della vita quotidiana.

La dolcezza, in questi versi, non è mai stucchevole né superficiale: si manifesta come una delicatezza inattesa, un’armonia che emerge senza preavviso e che scioglie la durezza di un giorno qualunque. Ma insieme alla dolcezza si affaccia la consapevolezza del tempo che scorre, della fugacità delle cose, della bellezza e della fragilità dei legami umani. Gli haiku raccolti in questa raccolta testimoniano la vita nel suo eterno alternarsi di luce e ombra, di pioggia e sereno, di quiete e movimento. Sono poesie che celebrano la precarietà e la preziosità dell’esistenza, riconoscendo che ogni attimo, per quanto piccolo e fragile, contiene un valore che va custodito, percepito, assaporato. Ogni foglia che trema, ogni goccia di rugiada, ogni luce che si riflette nell’acqua diventa simbolo della continuità della vita, di ciò che passa e resta, di ciò che si rinnova senza fine. La poesia, qui, diventa un esercizio di attenzione e gratitudine: uno sguardo che sa percepire la grandezza nel piccolo, il miracolo nel quotidiano, il sublime nell’effimero.

"Tra giardini e stelle" è un invito a rallentare il passo, a sospendere l’urgenza del fare e a privilegiare l’atto semplice e prezioso dell’osservare. È un richiamo a sollevare lo sguardo verso l’alto, a ritrovare la profondità nei dettagli più minuti, a scoprire che la vastità del cielo e l’infinità delle stelle non sono distanti dal nostro vivere quotidiano, ma ne fanno parte intimamente. Questa raccolta suggerisce che la felicità, la bellezza, la pace interiore si manifestano non attraverso gesti grandiosi o eventi straordinari, ma nel silenzio di un mattino, nel fruscio di una foglia, nello scintillio di una goccia sul petalo di un fiore. Il lettore viene guidato, così, in un percorso fatto di lentezza, di ascolto, di immersione nella percezione sensoriale e nella memoria, dove ogni haiku diventa uno specchio capace di riflettere non solo la realtà esterna, ma anche il paesaggio interiore di chi legge.

Questi haiku sono gocce di rugiada che si posano sul cuore, frammenti di luce che persistono oltre il tempo della lettura. Essi ricordano che la poesia non è solo espressione estetica, ma anche filosofia dell’attenzione, della cura, della presenza. Ogni parola è scelta per il suo peso e per la sua leggerezza insieme, come un filo sottile che lega ciò che è effimero e ciò che è eterno. È un viaggio dentro e fuori, un movimento continuo tra il mondo e l’anima, tra ciò che possiamo toccare e ciò che possiamo soltanto sentire. Gli haiku diventano così piccoli fari, punti di riferimento nel buio della quotidianità, inviti a restare svegli, a percepire la poesia che pulsa in ogni istante, a riconoscere che ogni esperienza, per quanto minuta, contiene la possibilità di stupore, di contemplazione e di gioia.

In queste pagine, tra giardini che respirano, stelle che si accendono e brevi lampi di luce che si riflettono sull’acqua, il lettore è invitato a ritrovare se stesso nei dettagli più semplici e puri: nel tremito di una foglia, nel sussurro del vento, nel silenzio che precede l’alba. È un invito a vivere ogni attimo con consapevolezza e attenzione, a riconoscere la bellezza nascosta nel quotidiano, a trasformare l’ordinario in straordinario attraverso lo sguardo della poesia. Gli haiku sono, così, piccoli monumenti alla vita, testimonianze di ciò che conta davvero, minuscoli universi sospesi tra cielo e terra, tra memoria e desiderio, tra ciò che vediamo e ciò che sentiamo.

"Tra giardini e stelle" non è solo una raccolta di poesie: è un percorso sensoriale e spirituale che guida il lettore a riscoprire la lentezza, la cura, la meraviglia e la dolcezza nascosta nelle cose. È un invito a sentire con gli occhi, a guardare con il cuore, a camminare con l’anima aperta. In ogni haiku risiede una piccola verità, un istante che brilla, un frammento di universo che ci ricorda che la vita, nella sua imperfezione e nella sua fragile bellezza, è degna di essere vissuta con attenzione, presenza e amore.



1. 

Via gioiosa,
siepi saltate in corsa,
acqua limpida.

2. 

Occhi di stelle,
il domani ci chiama,
cielo d'azzurro.

3. 

Mai più vecchio,
i giardini di pioggia,
passi leggeri.

4. 

Dolce la cosa,
tra le braccia calde,
pioggia svanisce.

5. 

Traghetti alti,
un oceano infinito,
blu di domani.

6. 

Strade di pianto,
un carro nella notte,
cielo sospira.

7. 

Mani nel buio,
contano stelle d’oro,
occhi di fuoco.

8. 

Pioggia sottile,
tra i giardini bagnati,
cammini ancora.

9. 

Dolce tesoro,
sorriso da un altrove,
zucchero santo.

10. 

Che occhi vivi,
champagne nel tuo sguardo,
santo sorriso.

11. 

Cielo di pioggia,
le mani alzate in alto,
stelle nei sogni.

12. 

Tra le tue braccia,
scordo il dolore antico,
ritorno vivo.

13. 

Gocce sottili,
i giardini sommersi,
passi leggeri.

14. 

Dolce mia cosa,
tesoro di zucchero,
occhi che brillano.

15. 

Mai più vecchio,
sotto un cielo d’argento,
cammino piano.

16. 

Cieli notturni,
stelle da contare in due,
cuori vicini.

17. 

Dolce pioggia,
tra le fronde danzanti,
camminiamo.

18. 

Un carro lento,
strade piene di lacrime,
un sogno chiama.

19. 

Occhi di cielo,
champagne e un sorriso,
calma infinita.

20. 

Pioggia gentile,
le siepi superate,
via gioiosa.

21. 

Luce lontana,
tra le tue braccia forte,
scordi il dolore.

22. 

Cielo di stelle,
le mani verso il sogno,
contano storie.

23. 

Un oceano blu,
traghetti verso il domani,
mai più vecchio.

24. 

Baci leggeri,
nel tuo sguardo il sorriso,
zucchero e pace.

25. 

Un carro lento,
guidato tra le lacrime,
strade di luna.

26. 

Dolce la cosa,
pioggia che scende lieve,
passi di danza.

27. 

Nebbia sottile,
giardini di rugiada,
parole lente.

28. 

Occhi d’oro,
champagne e un santo sogno,
un sorriso.

29. 

Tra le tue braccia,
forte mi tieni ancora,
il tempo scorda.

30. 

Blu contro il cielo,
un oceano profondo,
il domani attende.

31. 

Dolce e santo,
tra zucchero e champagne,
un sogno ride.

32. 

Mani in alto,
stelle contano il destino,
notte chiara.

33. 

Via gioiosa,
siepi saltate in fretta,
acqua d’argento.

34. 

Dolce tesoro,
che gli occhi tuoi raccontano,
sogni di pace.

35. 

Giardini umidi,
cammino senza paura,
pioggia che cade.

36. 

Mai più vecchio,
sotto un cielo d’estate,
passi nel vento.

37. 

Notte di pioggia,
le parole si sciolgono,
cammini lenti.

38. 

Traghetti alti,
l’oceano chiama forte,
il cielo canta.

39. 

Dolce la vita,
pioggia sui giardini,
camminiamo.

40. 

Occhi di luce,
champagne tra le tue ciglia,
un santo ride.

41. 

Dolce cosa,
tesoro tra le mani,
pioggia d’argento.

42. 

Mai più vecchio,
i passi nel giardino,
le stelle contano.

43. 

Un carro canta,
tra lacrime di notte,
le stelle sopra.

44. 

Blu infinito,
traghetti verso il cielo,
mai più vecchio.

45. 

Champagne dolce,
un sorriso di zucchero,
tesoro mio.

46. 

Notte lucente,
le stelle mi raccontano,
sogni lontani.

47. 

Pioggia gentile,
il domani ci chiama,
passi leggeri.

48. 

Dolce mia cosa,
occhi che brillano in alto,
cielo d’argento.

49. 

Un carro lento,
piange tra le tue strade,
il cielo tace.

50. 

Dolce cammino,
parole in giardini,
pioggia che danza.

51. 

Nebbia che scende,
nei giardini parliamo,
pioggia ci avvolge.

52. 

Mai più vecchia,
una promessa scritta
in cielo azzurro.

53. 

Occhi di champagne,
zucchero sulle labbra,
santo il sorriso.

54. 

Dolce il domani,
un traghetto nel blu,
cielo ci chiama.

55. 

Via luminosa,
salto le siepi in fiore,
acqua di pace.

56. 

Dolce tesoro,
le tue mani raccontano
sogni di zucchero.

57. 

Pioggia che cade,
nei giardini il silenzio,
cammino lento.

58. 

Blu l’oceano,
il cielo si apre immenso,
mai più vecchio.

59. 

Dolce la vita,
tra pioggia e giardini,
cielo di rugiada.

60. 

Occhi stellati,
contano i desideri,
mani al cielo.

61. 

Via luminosa,
le siepi già superate,
l’acqua mi calma.

62. 

Dolce tesoro,
zucchero e champagne d’oro,
il tuo sorriso.

63. 

Un carro lento,
tra lacrime e rugiada,
strade di pioggia.

64. 

Mai più vecchio,
il tempo si ferma ancora,
passo sicuro.

65. 

Blu contro il cielo,
un oceano profondo,
sogno di pace.

66. 

Nebbia gentile,
i giardini ci abbracciano,
parole lente.

67. 

Dolce tesoro,
occhi champagne brillano,
santo il tuo riso.

68. 

Mani nel buio,
le stelle contano il tempo,
notte di luce.

69. 

Via gioiosa,
siepi superate in corsa,
cammino fiero.

70. 

Dolce tesoro,
zucchero nel tuo sguardo,
gli occhi sognano.

71. 

Mai più vecchio,
i giardini bagnati
mi fanno vivere.

72. 

Blu l’infinito,
tra i traghetti danzanti,
cielo si apre.

73. 

Dolce promessa,
una strada nel pianto,
un carro chiama.

74. 

Occhi di luna,
champagne sulle tue ciglia,
dolce cammino.

75. 

Tra le tue mani,
la pioggia dimentica
ogni dolore.

76. 

Notte stellata,
alzare le mani in alto,
il cielo ride.

77. 

Mai più vecchio,
tra i giardini di pioggia,
cammino ancora.

78. 

Dolce tesoro,
sorriso di zucchero,
occhi di pace.

79. 

Un carro lento,
tra lacrime e silenzi,
strade infinite.

80. 

Blu contro il mare,
il cielo si fa più chiaro,
domani arriva.

81. 

Dolce tesoro,
i tuoi occhi parlano
di zucchero e pace.

82. 

Pioggia che danza,
nei giardini cantiamo,
parole leggere.

83. 

Mai più vecchia,
una promessa tra le
foglie che cadono.

84. 

Dolce il futuro,
traghetti nell’oceano,
il cielo chiama.

85. 

Nebbia sottile,
i giardini ci ascoltano,
cammini ancora.

86. 

Dolce tesoro,
sorriso di zucchero,
il tempo dorme.

87. 

Un carro lento,
tra lacrime nel buio,
strade di pace.

88. 

Blu l’oceano,
traghetti verso il sogno,
mai più vecchio.

89. 

Occhi di miele,
champagne nel tuo sguardo,
un santo ride.

90. 

Dolce promessa,
una strada tra i fiori,
pioggia che calma.

91. 

Via di speranza,
siepi superate in fretta,
l’acqua mi chiama.

92. 

Dolce tesoro,
zucchero e champagne oro,
il tuo sorriso.

93. 

Mai più vecchio,
il tempo si ferma piano,
passi leggeri.

94. 

Blu di domani,
oceano che si allarga,
cielo che brilla.

95. 

Mani nel buio,
contano stelle d’oro,
occhi di luce.

96. 

Notte di pace,
le stelle brillano piano,
il sogno arriva.

97. 

Dolce tesoro,
zucchero sulle labbra,
il tuo sorriso.

98. 

Un carro lento,
tra lacrime e silenzi,
strade di sogno.

99. 

Via luminosa,
cammino tra le siepi,
acqua mi abbraccia.

100. 

Mai più vecchia,
la pioggia racconta il tempo,
giardini aperti.

lunedì 17 novembre 2025

Audre Lorde: la poesia come atto di resistenza


Audre Lorde è stata molto più di una poetessa: è stata una guerriera della parola, una militante della verità, una ribelle contro ogni forma di oppressione. Femminista, nera, lesbica, madre e attivista, ha usato la poesia e la prosa per scardinare i meccanismi del razzismo, del sessismo, dell’omofobia e della disuguaglianza sociale. La sua opera ha dato voce a chi era stato costretto al silenzio, creando uno spazio di lotta e liberazione per le donne nere, per le persone queer, per chiunque fosse considerato "altro" in una società che imponeva norme rigide e oppressive.

Un’infanzia tra parole e silenzi

Audre Geraldine Lorde nacque il 18 febbraio 1934 a New York, terza e ultima figlia di Frederick Byron Lorde e Linda Gertrude Belmar Lorde, immigrati dalle Indie Occidentali. Crescere in America negli anni ’30 significava affrontare un razzismo onnipresente, una segregazione non solo legale, ma anche sociale e culturale. La sua famiglia era rigida, severa, e le regole erano inflessibili. I genitori avevano lavorato duramente per costruire una vita dignitosa negli Stati Uniti e si aspettavano che i figli seguissero le loro orme senza esitazioni.

Fin da piccola, Audre si sentì diversa. Non solo perché era una bambina nera in un mondo dominato dai bianchi, ma anche perché la sua sensibilità non trovava spazio in un ambiente che esigeva disciplina e obbedienza. Era una bambina introversa, con un senso profondo di solitudine che solo la poesia riusciva a colmare. Scrivere e leggere divennero le sue prime forme di resistenza: il linguaggio era il suo rifugio, ma anche la sua arma.

Aveva una passione particolare per le parole, al punto che comunicava spesso con la madre solo attraverso poesie. Ma la sua voce non trovava sempre accoglienza. A scuola, le insegnanti bianche la trattavano con sufficienza, facendole sentire che non apparteneva veramente a quel mondo. Anche in casa, dove il rigore dei genitori lasciava poco spazio ai sentimenti, si sentiva fuori posto.

Il primo segno della sua ribellione fu linguistico: decise di cambiare il proprio nome, eliminando la "y" da Audrey e diventando semplicemente Audre. Per lei, il nome aveva ora un suono più forte, più simmetrico, più vero.

Il Messico e la scoperta di sé

Dopo aver frequentato la Hunter College High School, Lorde partì per il Messico nel 1954 per studiare alla National University of Mexico. Questo fu un periodo di trasformazione radicale. In un paese lontano dagli Stati Uniti, lontano dalle aspettative della sua famiglia e dalla rigidità della società americana, Audre si concesse la libertà di esplorare la propria identità.

Fu in Messico che si riconobbe pienamente come lesbica. Qui, per la prima volta, trovò una comunità in cui l’omosessualità non era un segreto da nascondere, ma una parte normale della vita. Questo senso di accettazione la cambiò profondamente: si rese conto che la sua identità non era qualcosa da soffocare, ma una fonte di forza.

Quando tornò a New York, era una donna diversa. Aveva trovato la sua voce e il suo scopo.

Il matrimonio, la maternità e la frattura

Negli anni successivi, Audre continuò i suoi studi al Hunter College, mantenendosi con lavori da bibliotecaria. Nel 1961, conseguì un master in biblioteconomia alla Columbia University e sposò Edwin Rollins, un avvocato bianco. Il loro matrimonio fu una contraddizione vivente: Audre non aveva mai smesso di essere lesbica e non faceva nulla per nasconderlo.

La loro relazione era tesa, segnata da incomprensioni e frustrazioni. Tuttavia, ebbero due figli, Elizabeth e Jonathan, e per qualche tempo cercarono di mantenere una parvenza di normalità. Ma Audre non era fatta per conformarsi. Continuava a frequentare la comunità lesbica del Greenwich Village, scriveva poesie che parlavano di desiderio e resistenza, si immergeva sempre di più nell’attivismo politico.

Il matrimonio finì nel 1970. Per Audre fu una liberazione.

La scrittura come battaglia

Durante gli anni ’60, le sue poesie iniziarono ad attirare attenzione. The First Cities (1968) fu la sua prima raccolta ufficiale, pubblicata grazie a Diane di Prima, un’amica dei tempi del liceo. Ma fu con Cables to Rage (1970) che Lorde dichiarò apertamente la propria sessualità attraverso la poesia Martha:

"Ci ameremo qui se mai ci ameremo."

Era una dichiarazione potente, un atto di sfida contro un mondo che cercava di incasellarla in ruoli prestabiliti.

Negli anni ’70 e ’80, Lorde si affermò come una delle voci più influenti del femminismo intersezionale. Le sue opere successive, come Coal (1976), The Black Unicorn (1978) e Zami: A New Spelling of My Name (1982), affrontarono questioni di razza, genere, sessualità e classe con un’intensità senza precedenti.

In Sister Outsider (1984), raccolta di saggi e discorsi, Lorde denunciò l’ipocrisia del femminismo bianco, che spesso ignorava l’esperienza delle donne nere. La sua voce era radicale, intransigente, ma sempre profondamente umana.

L’ultimo atto di resistenza

Nel 1978, le fu diagnosticato un cancro al seno. Audre affrontò la malattia con la stessa determinazione con cui aveva affrontato la vita. Scrisse The Cancer Journals (1980), un libro che sfidava il modo in cui la società trattava il cancro come una lotta individuale, anziché come una questione politica e sociale.

Nonostante le cure e le operazioni, il cancro si diffuse. Ma Lorde non smise mai di lottare. Viaggiò in Germania, dove contribuì alla nascita di un movimento femminista nero tedesco, e continuò a scrivere fino alla fine.

Nel 1991, fu nominata State Poet of New York. Poco prima di morire, adottò un nuovo nome, Gamba Adisa, che in africano significa "Guerriera: Colei che fa conoscere il suo significato".

Morì il 17 novembre 1992, lasciando un’eredità che continua a ispirare intere generazioni.

Un’eredità immortale

Il pensiero di Audre Lorde è più attuale che mai. Le sue parole continuano a risuonare nei movimenti femministi, queer e antirazzisti di tutto il mondo. La sua vita ci ricorda che il cambiamento non avviene nel silenzio, ma nel coraggio di parlare.

"Il silenzio non ci proteggerà."

Questa frase, tra le più celebri di Lorde, è un monito per chiunque scelga la comodità della neutralità. La sua voce, potente e inarrestabile, continua a insegnarci che la lotta per la giustizia non è mai finita e che la poesia può essere un’arma rivoluzionaria.

domenica 16 novembre 2025

Vivi


Vivi, dunque, come un fragile vessillo
che il vento regge tra cielo e tempesta,
ché ogni respiro è un filo che si tende,
ogni passo un’incisione sul nulla.
Non aggrapparti ai giorni come un naufrago,
non chiedere alle stelle un’altra via:
esse brillano, ma conoscono il buio
più di quanto la luce possa insegnarti.
Tu sei la fiamma che consuma sé stessa,
sei il tremito che abita ogni istante.

E quando la voce giungerà dal fondo,
non sarà un grido, ma un sussurro lieve,
un canto d’ombra che si intreccia al vento,
un richiamo che penetra ogni fibra,
strappando il velo alle tue paure antiche.
Non ti voltare con occhi imploranti,
non cercare rifugio tra le memorie:
lascia che cadano come foglie spente,
ché il loro peso non varcherà il confine.

Avanzerai verso la soglia oscura,
un portale che il tempo non consuma.
Lì, folle silenziose di viandanti
marciano senza passi, senza orme,
anime mute che portano in grembo
il peso di vite sospese e infrante.
Ogni volto è uno specchio di tormento,
ogni ombra reca una corona infranta,
ma nessuno si ferma né si volge,
ché il passato è un eco che non consola.

E tu, con il cuore gonfio di silenzio,
porterai i tuoi giorni come un talismano,
non un dono, ma un carico di assenze,
ricordi che non hanno più radici,
desideri svaniti come nebbia
e sogni che il sole non ha mai scaldato.
Ti unirai alla lenta processione,
un fiume di ombre che scorre nel nulla,
verso un confine dove il tempo crolla
e ogni cosa si spegne senza rumore.

E quando giungerai all’estrema soglia,
non piegarti come uno schiavo al giogo,
ma avanza come un re che incontra il fato,
come un viaggiatore che torna al grembo
della terra che l’ha generato.
Troverai lì un letto di pietra fredda,
non prigione, ma trono di silenzio,
un manto che non conosce stagioni,
un rifugio dove i confini svaniscono.

Adagiati con calma, come chi attende
non la fine, ma l’inizio di un sogno.
Sistema il sudario che ti avvolge,
ché non è tomba, ma porta dischiusa,
varco verso un regno mai immaginato.
E chiusi gli occhi, abbraccerai il buio
non come un nemico, ma come un amante
che ti svela l’intima verità nascosta.

Là, nell’oscurità senza confini,
troverai un caos di luci e ombre,
un vortice di visioni e frammenti,
dove il tempo si frantuma in scintille
e il tuo nome si dissolve nel vento.
Vedrai i tuoi sogni spegnersi e rinascere,
gli incubi danzare come lingue di fuoco,
e ascolterai il canto dell’eterno,
una melodia che fonde creazione e fine.

Sarai parte di un abisso senza fondo,
ma non perderai ciò che sei stato:
sarai l’onda, il vento, la luce oscura,
l’essenza che tutto permea e distrugge.
Il tuo volto svanirà nell’oblio,
ma la tua sostanza sarà immortale,
un granello d’infinito che pulsa,
che vibra nel cuore dell’universo.

E là, oltre il velo del nulla eterno,
comprenderai che ogni morte è un seme,
ogni caduta un volo verso l’alto.
Non esiste fine che non sia principio,
non esiste buio che non sia luce.
Diventerai il respiro delle stelle,
il silenzio che canta tra le rovine,
il mistero che si cela in ogni cosa,
l’inizio di un cammino senza fine.