mercoledì 19 novembre 2025

ANNUSARE CON L’ANIMA: L’artista contemporaneo tra narici atrofizzate e spirito elevato

L'artista odierno si è messo ad annusare i fiori con l'anima invece che con il naso.

Da Witold Gombrowicz, Diario vol II (1959-1969)


L’immagine che apre questo discorso è tanto semplice quanto paradigmatica: un artista si china su un fiore. Non importa quale: può essere una rosa rossa comprata in un mercato rionale, un tulipano strappato da un’aiuola pubblica, o un piccolo girasole dimenticato sul terrazzo di un vecchio condominio. Tutto ciò che ci si aspetterebbe è un gesto banale ma essenziale: avvicinare il naso, inspirare, permettere al corpo di fare il suo lavoro. E invece, nella quasi totalità dei casi contemporanei, l’artista chiude gli occhi, solleva leggermente il mento, inclina il volto con una concentrazione che rasenta la preghiera e proclama — magari davanti a un pubblico o in un’intervista televisiva — che sta “annusando con l’anima”.

Gombrowicz, scrivendo negli anni Sessanta, avrebbe sorriso amaramente. La battuta è feroce: l’artista moderno non percepisce più nulla di concreto, eppure pretende di dominare il mondo delle idee. Annusare con l’anima sostituisce il naso con un concetto, il fiore con il simbolo, la materia con l’astrazione. Non c’è più petalo, non c’è più polline; c’è solo la dichiarazione di profondità. Il fiore diventa un pretesto, un dispositivo, un apparato semiotico attraverso cui l’artista prova la propria sensibilità. La realtà si trasforma in teoria.

Questo atteggiamento, che potrebbe sembrare frivolo, è invece profondamente tragico. L’artista contemporaneo si trova intrappolato tra il desiderio di sublimare e la necessità di comunicare. La critica pretende concetto, filosofia, politica, teoria queer, decolonizzazione; il pubblico pretende emozione, coinvolgimento, stupore; il mercato pretende originalità ma vendibilità. E così l’artista fugge nel rifugio più sicuro: l’anima. Il naso, fragile e imprevedibile, non è più affidabile. L’anima, invece, protegge. Non punge, non sporca, non vomita, non fa starnutire. È perfetta.

Eppure il corpo chiama. Lo percepiamo in performance in cui il corpo ricompare nudo, ferito, vulnerabile. Lo percepiamo nelle installazioni che includono oggetti trovati o segni di imperfezione: un fiore appassito infilato tra due tavoli bianchi, un pannello scrostato, una macchia di terra lasciata a vista. È un richiamo alla concretezza che persiste nonostante la spiritualizzazione. L’artista, sotto la maschera della sublime elevazione, desidera annusare davvero, sentire l’umidità della terra, l’odore pungente di un gambo spezzato. Il gesto semplice, banale, umano è ancora presente, pronto a manifestarsi quando il discorso concettuale cede, quando la performance si interrompe, quando la galleria diventa troppo silenziosa.

Se guardiamo la storia dell’arte, questa tensione tra corpo e anima non nasce dal nulla. Nei simbolisti e nei romantici, già Delacroix, Courbet, Böcklin giocavano tra il sogno e la materia, tra l’odore reale e quello metaforico. La modernità ha esasperato questa dialettica: Duchamp, Beuys, Klein, e poi tutta l’arte concettuale hanno spinto il distacco tra percezione e realtà fino al paradosso. L’artista che annusa con l’anima è l’erede di questa genealogia, con l’aggiunta della spettacolarizzazione dei gesti. Il gesto è simbolico, la voce è metafora, l’odore è evocazione.

Oggi, quando camminiamo tra le gallerie, assistiamo a questo fenomeno in modo evidente. Figure magre, spigolose, vestite in nero o beige radical chic, pronunciano frasi come “attivo una relazione con lo spazio” o “interrogo il campo semantico della percezione”. E intanto il fiore reale muore nell’indifferenza. La realtà non ha più voce, e chi cerca di percepirla con il corpo sembra ignorato dall’artista, che annusa la sua anima come se fosse un tessuto di vibrazioni invisibili.

La spiritualizzazione dell’arte ha prodotto un paradosso: opere che parlano molto e dicono poco, che promettono profondità e consegnano didascalie, che evocano dimensioni alte e temono la concretezza. Eppure, quando l’arte si ricongiunge al mondo materiale, anche solo per un momento, accade qualcosa che nessun comunicato stampa può produrre: accade la vita. E questa vita, fatta di odore, sudore, imperfezione, è condivisibile, è comunitaria, è vera.

Annusare con il naso diventa un atto rivoluzionario. Significa rifiutare la sovrainterpretazione compulsiva, recuperare il rapporto con la realtà, accettare il corpo e le sue debolezze. Significa permettere al fiore di essere materia viva, e non concetto astratto. L’anima è necessaria, certo, ma senza corpo diventa artificio, maschera, etichetta.

La filosofia conferma questa tensione. Heidegger parlava di essere-nel-mondo: il corpo è il mezzo attraverso cui entriamo in relazione con l’essere. Kant ricordava che la percezione sensibile è la base della conoscenza. Eppure, l’artista contemporaneo sembra voler negare tutto questo: annusa con l’anima perché teme il contatto con la materia, con l’imperfezione, con il rischio del ridicolo. Non è solo estetica: è etica, esistenziale.

Nei confronti degli artisti queer contemporanei, questa dinamica assume sfumature ancora più complesse. Il corpo è politicizzato, esposto, performativo. La spiritualizzazione diventa difesa: proteggere il sé vulnerabile dietro l’anima. Eppure, la tensione tra il desiderio di apparire sublimi e la nostalgia della concretezza crea opere straordinarie, tragiche e comiche insieme. Pensa a performance in cui un corpo nudo interagisce con fiori veri, fiori finti, oggetti trovati, provocando stupore, imbarazzo e meraviglia nello spettatore: il gesto semplice ritorna, e l’anima non basta più.

Gombrowicz ci ricorda, con la sua pungente ironia, che l’artista è tragico proprio per questo. Vuole elevarsi ma teme la vita; vuole apparire sublime ma desidera ridicolo; vuole annusare con l’anima ma sogna il naso. L’artista è sospeso tra due poli: la spiritualizzazione estrema e il richiamo al reale. Mentre proclama concetti elevati, tradisce il suo desiderio di corporeità, di esperienza diretta, di contatto con la materia.

Annusare con il naso diventa allora un gesto politico, filosofico e poetico insieme: significa accettare fragilità, caos, profumo cattivo e buono, imperfezione, rischio, contaminazione. Significa lasciare che il fiore esista al di là del concetto, che l’esperienza non sia mediata, che il corpo sia il fondamento della percezione. L’anima non sostituisce il naso, lo completa solo se c’è la percezione concreta.

Il miracolo avviene quando l’artista finalmente respira, con il naso, con la pelle, con tutto se stesso davanti a un fiore. E il miracolo non è solo estetico: è umano, fragile, vulnerabile, irresistibilmente comico e tenero. È il gesto semplice, quello che la teoria non può spiegare, quello che resiste a qualsiasi interpretazione, quello che ricorda che l’arte esiste solo se ha il corpo come terreno.

Solo così l’arte torna a essere viva: non nel concetto, non nell’idea, ma nella percezione, nell’esperienza, nell’imprevedibilità del reale. E forse è questo il vero insegnamento di Gombrowicz: non sostituite mai il naso con l’anima. Annusate davvero, lasciatevi sorprendere, fatevi contaminare. Il profumo è vita. Il fiore è vita. E la vita, purtroppo o per fortuna, non sempre ha bisogno di interpretazione.