sabato 8 novembre 2025

Dostoevskij tra ideologia, trauma e trascendenza: metamorfosi di un intelletto russo (con una appendice sul cinema ispirato ai romanzi di Dostoevskij)

Prefazione 

Nella complessa parabola intellettuale e spirituale di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, la cesura biografica rappresentata dalla condanna a morte simulata nel 1849, seguita alla detenzione nel carcere di Omsk, costituisce una frattura epistemologica che trasforma radicalmente il suo sguardo sulla realtà storica e sulla condizione umana. Prima di questa esperienza fondativa, Dostoevskij aveva aderito con entusiasmo alle istanze radicali e utopistiche del socialismo russo pre-marxista, frequentando circoli rivoluzionari come quello di Petraševskij e simpatizzando per figure estreme quali Sergej Nečaev, la cui impronta troverà poi una trasfigurazione letteraria nei personaggi de I demoni. Questo primo Dostoevskij — inquieto, infiammato dalla tensione verso un’idea totalizzante di giustizia terrena — rivela una sensibilità che non può essere ridotta alla caricatura del conservatore ortodosso in cui spesso viene cristallizzato.

L’adesione giovanile a ideali rivoluzionari non fu superficiale né passeggera. Al contrario, essa testimonia un’iniziale apertura verso un pensiero tragico della storia, in cui il desiderio di redenzione collettiva assumeva tratti quasi religiosi, anticipando già allora la tensione escatologica che percorre tutta la sua opera. In questo senso, è illuminante leggere le note di Vittorio Strada al carteggio Herzen–Bakunin, in particolare nel volume A un vecchio compagno, dove si disegna un profilo lucido e documentato della genesi ideologica dell’anarchismo russo e del suo rapporto ambivalente con la figura dostoevskiana. Come annotava anche Franco Fortini in Verifica dei poteri, la voce di Herzen si distingue per una trasparenza etica e una lucidità razionale che, nella cultura italiana, trova forse eco solo nei testi più alti di De Sanctis o Cattaneo. Questa lucidità, però, sembra distante anni luce dalla furia viscerale e dalla vertigine mistica che caratterizzano l’evoluzione successiva di Dostoevskij.

Il passaggio all’ideologia matura dell’autore — un amalgama di slavofilismo rigido, nazionalismo etico e adesione a un’ortodossia religiosa reinterpretata in chiave esistenziale — non avvenne attraverso un processo graduale di maturazione, ma per effetto di un trauma psichico profondo. La finta esecuzione sul patibolo fu, come egli stesso confessa nelle lettere, un momento di rivelazione: un’epifania negativa che lo condusse a una conversione non solo spirituale ma ontologica. La “metanoia” di Dostoevskij, per usare il termine patristico, avviene per shock, e lo porta a un radicale riposizionamento delle proprie coordinate interiori. Da quel momento, la Russia, l'Ortodossia e la sofferenza come via regia verso la verità assumono per lui un valore non simbolico ma ontologico, diventando l’impalcatura di un pensiero in cui l’interiorità individuale si fa specchio delle contraddizioni cosmiche.

Lungi dal produrre una scrittura apologetica o edificante, questo mutamento genera invece un’opera letteraria percorsa da forze centrifughe e da ambiguità irrisolte. Il Dostoevskij post-Omsk non è un autore pacificato, ma uno scrittore lacerato che traduce le proprie tensioni in una prosa labirintica e dialogica, come acutamente mostrato da Michail Bachtin nella sua celebre teoria del “romanzo polifonico”. Le sue figure — dallo starec Zosima al principe Myškin, da Ivan Karamazov a Raskol’nikov — incarnano conflitti irredimibili, drammi etici e teologici che si consumano all’interno di un universo narrativo in cui la verità non è mai univoca, ma sempre attraversata da contraddizioni insanabili. La satira menippea, il carnevalesco, la tensione tra alto e basso: tutto questo, secondo Bachtin, fa di Dostoevskij un autore eminentemente moderno, ben oltre la caricatura del profeta ortodosso.

È interessante osservare come lo stesso Dostoevskij, nella costruzione dei suoi personaggi, esprima un lucido disprezzo per quella forma di compromesso ideologico rappresentata dal liberalismo ottocentesco, percepito come inefficace e pusillanime. La figura grottesca di Stepan Trofimovič Verchovenskij nei Demoni è una parodia velenosa del “liberale superiore”, colpevole — agli occhi del narratore — di aver preparato il terreno per la deriva nichilista dei giovani rivoluzionari. In questo senso, il romanzo non è solo una satira politica, ma anche una riflessione amara sul fallimento delle classi intellettuali russe nel fornire un’alternativa autenticamente spirituale alla modernità.

Dostoevskij sembra aver compreso che il liberalismo, nel suo tentativo di affermare un’etica universale fondata sulla razionalità e sul progresso, rischiava di svuotare l’esperienza umana del suo contenuto tragico ed escatologico. A differenza dei liberali, che considerano le altre ideologie come devianze dalla “norma” rappresentata dalla propria visione del mondo, l’autore russo preferisce insistere sul dato irriducibile della colpa, della sofferenza e della libertà come enigma teologico. Se il liberalismo cerca una conciliazione, Dostoevskij coltiva il paradosso, l’irrimediabile, l’oscurità dell’anima.

E noi, lettori disillusi dell’epoca post-ideologica, dove ci collochiamo? Dopo aver attraversato le rovine delle grandi narrazioni, ci ritroviamo incapaci di affidarci a una fede o a una dottrina. Non invochiamo più il Cuore Immacolato di Maria né confidiamo nei nuovi sacerdoti della ragione. Siamo simili ai vecchi ospiti di un ospizio intellettuale, segnati da esperienze storiche traumatiche, ma non del tutto domati. Osserviamo il mondo con un occhio chiuso e l’altro semiaperto, mentre ci culliamo nel dormiveglia malinconico delle Fleurs du mal, con in bocca ancora il gusto acre del goût du néant.


Dostoevskij e Herzen: due visioni del disincanto

Nel panorama della riflessione russa ottocentesca, il confronto tra Fëdor Dostoevskij e Aleksandr Herzen rivela un’irriducibile tensione fra due concezioni opposte del rapporto tra individuo e storia, tra moralità e politica, tra tragedia e responsabilità. Se entrambi muovono da una consapevolezza profonda del crollo delle certezze metafisiche e religiose della Russia zarista, le loro risposte divergono radicalmente: Herzen si rifugia nella disillusione razionale di un umanesimo laico, mentre Dostoevskij riemerge dal trauma della sofferenza con una fede escatologica e mistica che fa della redenzione individuale l’unico orizzonte autentico della libertà.

La critica sociale di Herzen, fortemente influenzata dal liberalismo europeo, è pervasa da un’etica della misura e della responsabilità personale: egli denuncia le violenze della Storia, ma si guarda bene dal sostituirvi un’ideologia redentrice. Nella sua opera maggiore, Dall’altra sponda, Herzen insiste sul carattere irripetibile dell’esperienza storica, sulla necessità di proteggere l’individuo da ogni tentazione totalizzante. La sua sfiducia nei confronti delle utopie rivoluzionarie nasce non da cinismo, ma da una sobria fedeltà al reale, da quella che potremmo chiamare una “etica del disincanto”.

Dostoevskij, al contrario, dopo l’esperienza devastante del carcere, rinuncia all’idea che la ragione possa costituire un baluardo contro il caos. La sua fede nell’Ortodossia russa e nella figura del popolo come portatore di verità spirituale si basa su un concetto anti-illuminista della conoscenza: la verità, per lui, non si afferra con gli strumenti della razionalità, ma si esperisce nell’abisso dell’umiliazione e del dolore. Se Herzen è, per molti versi, un figlio spirituale di Hegel e Tocqueville, Dostoevskij appare piuttosto vicino a Pascal, a Kierkegaard, o persino a san Paolo.

Lo scontro tra queste due visioni si fa lampante nella loro posizione rispetto al nichilismo. Herzen lo combatte con la pazienza del razionalista, cercando di costruire una società pluralista e tollerante. Dostoevskij, invece, lo mette in scena in tutta la sua potenza demoniaca, consapevole che esso non può essere semplicemente arginato, ma deve essere attraversato fino in fondo, come un inferno personale e collettivo. In questo senso, l’opera dostoevskiana costituisce una sorta di dramma teologico del nichilismo, mentre quella di Herzen si configura come un epistolario etico della disillusione.

La polifonia di Dostoevskij: analisi bachtiniana di un universo dissonante

Tra le letture più influenti dell’opera di Dostoevskij, quella di Michail Bachtin si impone come la più radicale e innovativa. Nel suo saggio monumentale Problemi della poetica di Dostoevskij (1929, con ampliamenti successivi nel 1963), Bachtin introduce il concetto di polifonia come chiave interpretativa dell’universo narrativo dostoevskiano. Con questo termine, preso in prestito dal linguaggio musicale, intende una struttura narrativa in cui le voci dei personaggi non sono mai subordinate alla visione dell’autore, ma si esprimono in piena autonomia dialogica.

Dostoevskij, secondo Bachtin, non è un romanziere “monologico” alla maniera di Tolstoj o Hugo: non impone una tesi dall’alto, non guida il lettore verso una conclusione morale o ideologica univoca. Al contrario, costruisce uno spazio narrativo in cui le coscienze entrano in collisione senza essere risolte. Il risultato è una drammaturgia del pensiero, in cui ogni personaggio si fa portatore di una visione del mondo completa e articolata, capace di resistere al giudizio dell’autore stesso. L’esempio più emblematico è forse il confronto tra Ivan e Alëša nei Fratelli Karamazov: le loro visioni del mondo si oppongono in un dialogo reale, non retorico, e Dostoevskij si astiene dal fornire una sintesi conciliativa.

Tale struttura polifonica è resa possibile dalla straordinaria capacità di Dostoevskij di entrare nella logica dei suoi personaggi, portando fino alle estreme conseguenze le loro idee e passioni. Raskol’nikov in Delitto e castigo, Kirillov nei Demoni, Stavrogin, il principe Myškin: ciascuno di essi esprime un’“idea incarnata”, una voce nel senso più pieno del termine, che non è mai riducibile a un semplice simbolo. Per Bachtin, questa molteplicità di voci non è segno di indecisione autoriale, ma di una visione tragica e dialogica dell’esistenza, in cui la verità non può essere imposta dall’esterno, ma deve emergere attraverso il conflitto interiore e interpersonale.

La polifonia dostoevskiana assume così un valore filosofico e teologico: essa riflette un mondo in cui l’uomo è chiamato a confrontarsi con l’abisso della propria libertà, senza garanzie metafisiche. In tal senso, la scrittura di Dostoevskij anticipa molte delle inquietudini del pensiero novecentesco, da Sartre a Camus, da Levinas a Derrida. E tuttavia, a differenza dei grandi pensatori dell’esistenzialismo ateo, Dostoevskij continua a credere, fino all’ultimo, nella possibilità della redenzione — ma una redenzione che passa attraverso l’inferno, mai elusa, mai edulcorata.

La forza della lettura bachtiniana sta nell’aver compreso che il vero realismo di Dostoevskij non è di tipo descrittivo, ma dialogico: egli non fotografa la realtà, ma mette in scena la sua instabilità ontologica. Le sue pagine sono teatri dell’anima, in cui la verità si manifesta come lacerazione e non come sintesi. È questo che rende Dostoevskij un autore “impossibile da canonizzare”, come scriveva con lucidità George Steiner: la sua grandezza consiste nell’aver dato voce al demone, senza tuttavia rinunciare all’angelo.

L’influenza dostoevskiana sul pensiero europeo del Novecento: da Nietzsche a Levinas

L’opera di Dostoevskij, ben prima di essere pienamente compresa nella sua patria, penetrò profondamente nelle fibre del pensiero europeo, generando una vera e propria “dostoevskizzazione” della filosofia del Novecento. Nietzsche fu uno dei primi a cogliere l’eccezionalità di questo autore russo che, come lui, sembrava scrutare il volto oscuro della libertà. Lo definì “il solo psicologo, per quanto mi riguarda, da cui io abbia ancora qualcosa da imparare”, riconoscendogli la capacità di portare alla luce le contraddizioni tragiche dell’animo umano in un mondo privo di fondamenti metafisici certi.

In Al di là del bene e del male e nelle Considerazioni inattuali, Nietzsche si misura implicitamente con la potenza speculativa di personaggi come Raskol’nikov o Kirillov, che incarnano il paradosso del superamento della morale tradizionale. Il tema del nichilismo, che Nietzsche teorizza come destino dell’Occidente, in Dostoevskij trova una raffigurazione plastica e apocalittica: i Demoni sono una drammaturgia profetica del disfacimento della verità in nome dell’idea astratta, una parabola sul delirio ideologico che culminerà nei totalitarismi del XX secolo.

La riflessione esistenzialista, da Camus a Sartre, si confronta con Dostoevskij nel momento in cui tenta di delineare l’uomo “senza Dio”, messo a nudo di fronte alla responsabilità assoluta del proprio agire. L’uomo in rivolta di Camus è una risposta teorica al grido dostoevskiano dell’uomo moderno: un grido disperato e al tempo stesso messianico, in cui la rivolta può essere morale solo se rifiuta di trasformarsi in sistema o vendetta. Sartre, nel Diavolo e il buon Dio e ne L’essere e il nulla, rielabora la figura dostoevskiana del soggetto in crisi, libero e quindi dannato, nella forma del dramma esistenziale radicale.

Ma è soprattutto in Emmanuel Levinas che l’eredità dostoevskiana viene assunta in senso etico-teologico. La celebre frase di Ivan Karamazov — “se Dio non esiste, tutto è permesso” — viene da Levinas rovesciata: non come constatazione cinica, ma come punto di partenza per affermare una etica della responsabilità infinita, dove il volto dell’altro diventa luogo teofanico. In Totalità e Infinito (1961), Levinas riconosce in Dostoevskij non un teologo sistematico, ma una coscienza che ha intuito la trascendenza come interruzione del mondo chiuso dell’io.

Perfino nel pensiero di Hannah Arendt e in quello di Simone Weil si colgono echi dostoevskiani: nell’idea di una libertà che è esposizione al male, nella convinzione che la salvezza non può essere imposta, ma solo offerta e accettata in silenzio. In questo senso, Dostoevskij non è soltanto un precursore: è un contemporaneo anacronico, una voce che interroga ancora oggi le filosofie della crisi e della speranza.

La ricezione italiana di Dostoevskij: da Gobetti a Fortini, da Pavese a Garboli

In Italia, la ricezione di Dostoevskij ha avuto un carattere peculiare, spesso segnato da una tensione tra fascinazione spirituale e incomprensione ideologica. I primi a riconoscerne la potenza furono figure di intellettuali “eretici” rispetto ai canoni dell’idealismo italiano. Piero Gobetti, ad esempio, lo considerava uno dei grandi “scrittori morali” dell’Europa moderna. Nelle pagine della Rivoluzione liberale, Gobetti vede in Dostoevskij un alleato nella lotta contro l’ipocrisia del potere e nel tentativo di restituire alla politica un fondamento etico. La sua lettura è profondamente intrisa di liberalismo tragico: per Gobetti, la Russia che Dostoevskij racconta è un laboratorio estremo di ciò che accade quando l’individuo è ridotto a strumento.

Negli anni Trenta e Quaranta, Cesare Pavese introdusse una forma di lettura “antimetafisica” di Dostoevskij, filtrata dalla propria personale ricerca di autenticità. In lui, più che il teologo dell’Ortodossia, emergeva il creatore di personaggi febbrili, desideranti, in perenne squilibrio. Pavese fu tra i primi a capire che Dostoevskij poteva essere letto come uno scrittore dell’inconscio, capace di anticipare la psicoanalisi e la letteratura dell’angoscia novecentesca. In Il mestiere di vivere, non lo cita spesso, ma il suo fantasma si avverte, specie nelle riflessioni più buie sul suicidio, sull’impossibilità del bene, sull’abisso del desiderio.

Più problematica, ma anch’essa significativa, è la lettura che ne diede Franco Fortini. Da marxista eterodosso, Fortini non poté evitare di interrogarsi sul valore reazionario di alcuni nuclei del pensiero dostoevskiano — la fede cieca nel popolo russo, l’odio verso l’Occidente liberale — ma non smise mai di riconoscerne la potenza tragica e la profondità antropologica. In saggi come Verifica dei poteri, Fortini identifica in Dostoevskij una figura liminare, una soglia che ogni intellettuale critico deve varcare, assumendone la contraddizione.

Ma è con Cesare Garboli che si ha forse la lettura più sottile e personale del Dostoevskij psicodrammaturgo. Nei suoi scritti e nelle sue prefazioni, Garboli riconosce in Dostoevskij non tanto un pensatore quanto un registratore di urla: uno scrittore dell’eccesso, dell’ossessione, del ritorno del rimosso. La sua è una lettura psicanalitica, ma non freudiana: è una specie di divinazione, una contemplazione di corpi narrativi in convulsione. Garboli lo avvicina a Genet, a Pasolini, a Gadda: autori che, come Dostoevskij, sanno che scrivere significa esporsi al contagio del male, ma anche — forse — alla sua trasfigurazione.

Così, la ricezione italiana di Dostoevskij è stata tanto frammentata quanto rivelatrice. Lontana dalle sintesi accademiche, ha prodotto un mosaico di interpretazioni divergenti, tutte però accomunate da un dato: l’impossibilità di archiviare Dostoevskij, di ridurlo a un pensatore o a un autore tra gli altri. In Italia come altrove, egli continua a essere ciò che fu per Thomas Mann: “un vulcano sotto il manto della civiltà”.


Dostoevskij, Pirandello e Gadda: convergenze e divergenze nell’invenzione del soggetto scisso

Nel panorama della letteratura del Novecento europeo, l’influenza di Dostoevskij si manifesta non solo nella forma del romanzo psicologico e filosofico, ma anche — e forse soprattutto — nella disseminazione di una nuova idea di soggettività narrativa, frammentaria, scissa, contraddittoria. Tale eredità è rintracciabile con singolare forza in due grandi autori italiani: Luigi Pirandello e Carlo Emilio Gadda.

Pirandello, come Dostoevskij, parte da una constatazione vertiginosa: l’io non è unitario, ma è il risultato instabile di maschere, convenzioni, pressioni sociali e pulsioni inconfessabili. In Uno, nessuno e centomila (1926), il protagonista Vitangelo Moscarda potrebbe figurare accanto a Ivan Karamazov o a Stavrogin come uno dei grandi scettici del romanzo moderno, impegnati in un lungo e distruttivo esperimento sulla verità dell’identità. Anche in Il fu Mattia Pascal, il tema della doppiezza e dell’impossibilità di essere “uno” richiama l’universo dostoevskiano: lo sdoppiamento non è un accidente narrativo, ma la forma stessa dell’esistenza.

Tuttavia, mentre in Dostoevskij il dissidio interiore è attraversato da tensioni metafisiche e da una domanda religiosa irriducibile, in Pirandello il conflitto si risolve in chiave relativistica e teatrale. L’assenza di Dio, più che un abisso morale, è in lui uno scenario assurdo dove recitare ruoli, dissolvere certezze, mettere in scena il nulla della persona. La follia, presente in entrambi gli autori, assume nei romanzi dostoevskiani i tratti di una possessione demoniaca, mentre in Pirandello essa è la porta d’ingresso verso una possibile — seppur tragica — libertà dalla norma.

Carlo Emilio Gadda, invece, si avvicina a Dostoevskij da un’altra angolazione: quella della rappresentazione della realtà come caos. In Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1957), il nodo dell’indagine non è tanto lo scioglimento del delitto quanto l’impossibilità di distinguere tra colpa e caso, tra motivazione e accidente. Qui Gadda, come Dostoevskij nei Fratelli Karamazov, dissolve la trama nel magma della psicologia e del linguaggio, proponendo una forma romanzesca che implode sotto il peso delle sue stesse stratificazioni.

Gadda condivide con Dostoevskij l’ossessione per la colpa e per l’ambiguità morale. Ma laddove il secondo cerca — per quanto dialetticamente — un possibile riscatto nella fede o nella confessione, Gadda si arresta davanti all’irrimediabile opacità del mondo. Il romanzo, per entrambi, non è più un dispositivo ordinatore della realtà, ma uno specchio infranto, una macchina retorica abitata dal disordine.

La polifonia bachtiniana si fa, in Gadda, stilistica molteplicità linguistica: la lingua della madre, del diritto, della cronaca e della psichiatria si intrecciano come nella Babele dostoevskiana. La differenza resta tuttavia netta: dove Dostoevskij cerca una verità nel conflitto, Gadda moltiplica gli enigmi, fino a far del romanzo un labirinto che somiglia più a un processo infinito che a una redenzione.

Dostoevskij e la psicoanalisi: tra anticipazione e resistenza

Il rapporto tra Dostoevskij e la psicoanalisi è tra i più complessi e fecondi della storia intellettuale del XX secolo. Sigmund Freud, nel celebre saggio Dostojewski und die Vatertötung (1928), offre una lettura fortemente riduttiva e ideologicamente marcata del grande scrittore russo, assimilando la sua opera a una manifestazione nevrotica del complesso edipico. Freud interpreta I fratelli Karamazov come un romanzo a chiave, in cui l’autore — epilettico e ossessionato dalla colpa — metterebbe in scena il proprio desiderio parricida represso, sublimandolo nella creazione letteraria.

Questa lettura, seppur influente, è stata ampiamente criticata per la sua tendenza a ridurre la complessità teologica e filosofica di Dostoevskij a uno schema psicopatologico. Eppure, proprio il fatto che Freud si sia sentito “sfidato” da Dostoevskij dimostra quanto quest’ultimo avesse toccato, con i suoi personaggi e le loro confessioni, i punti nevralgici dell’inconscio, ben prima che la psicoanalisi fosse formalizzata come teoria.

È stato soprattutto Carl Gustav Jung, in contrapposizione a Freud, a rivalutare Dostoevskij come un visionario dell’inconscio collettivo. In scritti come Psicologia e religione, Jung individua nei drammi dostoevskiani la raffigurazione archetipica dei grandi conflitti interiori dell’uomo occidentale. La figura del doppio, la presenza del Male come entità autonoma e seducente, l’oscillazione tra disperazione e redenzione sono per Jung segni di un autore che ha sondato le profondità della psiche al di là della sola nevrosi.

Jacques Lacan, da parte sua, si confronta con Dostoevskij indirettamente, ma in modo cruciale. La dialettica tra Legge e desiderio, tra Nome-del-Padre e godimento, trova nei testi dello scrittore russo una drammatizzazione estrema. Ivan Karamazov è forse il personaggio più lacaniano della letteratura: il suo rifiuto del mondo costruito sulla sofferenza di un solo bambino è un atto etico che rifiuta la totalità del simbolico, collocandosi in una zona liminale tra follia e profezia.

Nel panorama psicoanalitico contemporaneo, autori come Julia Kristeva e Slavoj Žižek hanno riportato Dostoevskij al centro del dibattito. Kristeva legge Memorie dal sottosuolo come un testo chiave per comprendere la nascita del soggetto negativo nella modernità, mentre Žižek identifica nei romanzi dostoevskiani delle vere e proprie topologie dell’ideologia, dove il Male non è rimosso ma messo in scena nella sua nudità pornografica e rituale.

Dostoevskij non fu uno psicoanalista, ma fu letto da generazioni di psicoanalisti come uno specchio terribile dell’anima. Il suo valore non sta tanto nell’aver “anticipato” Freud, quanto nell’aver mostrato ciò che la psicoanalisi stessa fatica a dire: che non sempre l’interpretazione libera, che la redenzione può fallire, che il cuore umano è un mistero che la teoria, da sola, non può redimere.

La teologia negativa in Dostoevskij

Nei romanzi di Dostoevskij — e specialmente in I fratelli Karamazov, Delitto e castigo, L’idiota e I demoni — agisce una forma di teologia che si potrebbe definire apofatica o negativa. È una via del paradosso: Dio non si afferma, ma si manifesta nella sua assenza, o attraverso il silenzio. Le figure centrali, dai santi folli ai criminali tormentati, sembrano attraversare un deserto teologico in cui la fede è continuamente smentita dalla realtà sensibile, eppure riaffermata dalla sua stessa insopportabilità.

Il grande interrogativo di Ivan Karamazov — “se Dio esiste, come può permettere la sofferenza dei bambini?” — non trova risposta nel pensiero positivo, né nella teodicea, ma viene portato alla soglia del mistero. È in questo punto estremo che si può leggere l’eco della tradizione mistica orientale, dai Padri del deserto a Dionigi l’Areopagita: non si dice chi sia Dio, ma chi non è. Si avanza per negazioni, nel vuoto creato dal dolore e dal male, fino al margine del grido o del delirio. Così, Raskol’nikov, attraverso il crimine, giunge non alla redenzione razionale, ma a un’illuminazione non detta, che lo conduce infine alla soglia della resurrezione spirituale nel campo di lavoro siberiano. Non è un Dio che premia o punisce, ma un Dio che si nasconde nel volto dell’altro — in Sonja, in Alëša, nei piccoli, nei reietti.

Persino il Cristo evocato nel sogno del Grande Inquisitore si presenta non per affermare la divinità, ma per tacere, per non rispondere. È la teologia del non detto, dell’enigma, della libertà estrema: solo nella libertà assoluta dell’uomo può darsi, forse, una fede autentica.

Benissimo. Procedo con una sezione estesa sulla teologia negativa in Dostoevskij, elemento centrale e sotterraneo nella sua visione del mondo, affrontato in chiave filosofico-letteraria.

La teologia negativa in Dostoevskij: l’assenza come presenza, il silenzio come parola ultima

Nel cuore dell’opera dostoevskiana pulsa un paradosso teologico che ha attirato l’attenzione di filosofi, teologi e poeti: Dio è ovunque, eppure tace; è onnipotente, eppure permette l’innocente sofferenza; è luce, eppure si nasconde in una notte dell’anima che pare interminabile. È su questo fondamento che si innesta la teologia negativa (o apofatica), che non afferma Dio per via di definizioni ma per via di sottrazione, di buio, di abbandono: Deus absconditus.

Dostoevskij, pur radicandosi nella tradizione ortodossa russa, assorbe e supera la riflessione apofatica dei Padri della Chiesa e la declina in termini moderni, esistenziali, psicologici. Nei suoi romanzi, Dio non viene mai mostrato nella luce positiva della dogmatica o della beatitudine — egli è, piuttosto, l’interlocutore silente e inquietante delle coscienze smarrite. La sua voce si manifesta nell’interruzione, nel buco nero della colpa, nell’eccesso dell’ingiustizia e nella blasfemia stessa. Come nel grande solco del pensiero mistico — da Gregorio di Nissa a Meister Eckhart — anche in Dostoevskij l’esperienza più autentica del divino è quella che passa attraverso la sua sparizione.

Il culmine di questa teologia paradossale si trova nel dialogo tra Ivan Karamazov e il fratello Alëša ne I fratelli Karamazov: l’argomento dell’“insopportabile libertà” e della “lacrima di un solo bambino” costituisce un rovesciamento della teodicea, un’accusa frontale a ogni giustificazione di Dio. Ma proprio questo rifiuto — profondo, bruciante, scandaloso — non cancella Dio: al contrario, lo conferma come abisso di giustizia inaccessibile, come volto che si sottrae. Ivan non è un ateo semplice, bensì un teologo negativo suo malgrado: egli sente Dio con troppa forza per accettare le sue contraddizioni.

Anche in Memorie dal sottosuolo, il protagonista non è davvero un miscredente, ma un teologo rovesciato: uno che ha odiato Dio come un amante tradito, e proprio per questo ne sente la mancanza come ferita ontologica. Il Dio che abbandona — o che lascia il mondo alla libertà devastante dell’uomo — è forse l’unico Dio sopportabile nella modernità, e Dostoevskij lo mostra con una radicalità che lo pone al centro della crisi teologica novecentesca, da Simone Weil a Etty Hillesum.

Nel Delitto e castigo, il lungo silenzio di Dio accompagna Raskol’nikov fino all’umiliazione estrema: l’unica teofania possibile è quella che avviene nel buio, nella confessione, nel contatto con la malattia e la sofferenza. La figura di Sonja, quasi una santa apofatica, muta e amorevole, incarna questa dimensione non affermativa della fede: lei non predica, non giustifica, ma ama e cammina. In lei, il Dio dostoevskiano prende forma: non attraverso il miracolo, ma attraverso l’impossibile permanenza nel dolore altrui.

Anche nel Sogno di un uomo ridicolo, piccolo testo folgorante, il Dio che si manifesta è quello che lascia all’uomo l’esperienza tragica della corruzione e della caduta, perché solo nel paradosso dell’imperfezione si può intravedere la salvezza. Il risveglio del protagonista — che si fa predicatore ridicolo della verità perduta — è un’esatta immagine dell’apofasi: si sa Dio solo quando lo si perde.

Dostoevskij, dunque, è forse il più mistico tra gli scrittori moderni. Ma la sua mistica non ha nulla di luminoso o consolatorio: è il realismo dell’assenza, del silenzio e del male che sfida ogni teologia sistematica. E proprio per questo, come hanno notato Lev Šestov e Georges Bataille, è lo scrittore che più profondamente ha afferrato l’“impossibilità” di Dio come la sua unica verità possibile.

La ricezione moderna della teologia negativa dostoevskiana

Albert Camus: il silenzio di Dio e la rivolta metafisica

Albert Camus ha riconosciuto in Dostoevskij un interlocutore capitale del pensiero tragico europeo, soprattutto in relazione al problema del male e all’assenza di Dio. Il Mito di Sisifo e L’uomo in rivolta contengono una riflessione costante sulla teologia dell’assenza, e I demoni sono per Camus la rappresentazione anticipata delle derive nichiliste del secolo.

L’ateismo camusiano non è un rifiuto banale della divinità, ma una protesta morale contro il Dio silente. In questo, Camus si rifà esplicitamente al monologo di Ivan Karamazov: l’idea che un ordine divino giustifichi la sofferenza dell’innocente è, per lui come per Ivan, insopportabile. La rivolta camusiana è quindi un’etica senza trascendenza, che nasce esattamente dove la teologia negativa di Dostoevskij ha deposto le armi: nel deserto dell’abbandono, dove l’uomo resta solo ma continua ad affermare la dignità del vivente.

Nel Caligola, come pure ne Lo straniero, il Dio assente è una figura incombente proprio nella sua mancata comparsa. Ma è in L’uomo in rivolta che Camus riconosce pienamente in Dostoevskij l’artefice di una mistica negativa profonda: una religiosità senza dogma, fatta di domanda senza risposta, di sfida senza premio.

Simone Weil: la passione di Dio come abbandono

Più mistica che filosofa, Simone Weil incarna un dialogo struggente con Dostoevskij. Nei Quaderni e in La pesantezza e la grazia, Weil riprende direttamente la figura del Dio nascosto dei Fratelli Karamazov, ma la trasporta in un’esperienza personale e cristocentrica: il Dio vero, per lei, è quello che si ritira, che rinuncia alla propria potenza per lasciare all’uomo lo spazio della libertà.

Il celebre “abbandono di Dio da parte di Dio” al centro della Passione è, in Weil, la forma suprema di amore divino. In questo senso, Sonja e l'umiliazione di Raskol’nikov diventano per lei immagini evangeliche della “sofferenza impersonale”: la via per entrare nella realtà della grazia passa per la completa kenosi — lo svuotamento — anche della consolazione spirituale. La Weil legge Dostoevskij come chi ha colto la necessità di una “decreazione” divina: Dio che si assenta perché l’amore possa diventare autentico.

Georges Bataille: misticismo, colpa e impossibilità

In Georges Bataille, lettore profondo di Memorie dal sottosuolo e dei Karamazov, la teologia negativa si incrocia con l’erotismo, il sacrificio e il limite estremo dell’esperienza. In La colpevole, L’esperienza interiore e Il colpevole, Bataille sviluppa un pensiero che riconosce in Dostoevskij non un semplice narratore, ma un teologo oscuro, capace di dire il divino nel linguaggio del delirio, della colpa, dell’eccesso.

Bataille vede in Ivan e nello “sotterraneo” dostoevskiano il prototipo dell’uomo che sperimenta Dio non come pienezza, ma come trauma, come punto di rottura dell’identità. In questo senso, la teologia negativa di Dostoevskij è per lui un’esperienza limite, dove Dio non può più essere detto, ma solo esperito nella lacerazione.

L'orrore, la trasgressione, la dissoluzione dell’io sono in Bataille forme di avvicinamento a un assoluto che non si lascia possedere. Lì, Dostoevskij è guida, perché ha messo in scena il divino come “non senso sacro”: un’energia che si sprigiona proprio nel vuoto lasciato da Dio.

Confronto con i grandi mistici cristiani

Dionigi l’Areopagita: il Dio oltre l’essere

Padre fondatore della teologia apofatica, Dionigi (V-VI sec.) afferma che Dio è al di là di ogni affermazione e negazione: superessentialis, al di là dell’essere stesso. Dostoevskij non cita Dionigi, ma la sua opera ne è pervasa: l’impossibilità di dire Dio se non nel silenzio, il fallimento del linguaggio umano nel cogliere il divino, sono tratti comuni.

Nei suoi personaggi più tormentati, Dostoevskij incarna questa tensione: ogni nome di Dio è bestemmia, ogni definizione è riduttiva. Solo il mistero — e talvolta il delirio — permette l’approssimarsi.

Meister Eckhart: il fondo dell’anima e il nulla

Eckhart, mistico tedesco del XIV secolo, afferma che l’uomo deve svuotarsi totalmente affinché Dio possa nascere in lui. Il celebre “Dio liberami da Dio” si riverbera potentemente nei personaggi dostoevskiani che cercano Dio contro Dio stesso, come Ivan o il principe Myškin.

L’idea che Dio si trovi solo nel nulla, nel punto cieco dell’anima che rinuncia a ogni appropriazione, è affine al percorso di Sonja o di Alëša: figure che non “credono” nel senso dottrinario, ma amano fino al silenzio.

Giovanni della Croce: la notte oscura

Il santo carmelitano è forse il più vicino, per struttura spirituale, a Dostoevskij. La “notte oscura dell’anima”, in cui ogni luce viene ritirata, è la condizione necessaria per giungere all’unione con Dio. Dostoevskij non solo racconta questa notte, ma la estende a tutto il corpo sociale, rendendola condizione antropologica universale.

In Delitto e castigo, il percorso di Raskol’nikov è un “ascesa al Calvario” dove Dio non parla, non interviene, non si impone — e proprio per questo resta. La redenzione è possibile solo nel completo svuotamento di sé, come nel cammino dei mistici.

Dostoevskij non è un mistico in senso proprio, ma è uno scrittore della mistica negativa per eccellenza. Ha dato forma narrativa e psicologica al Dio che tace, al Dio che si ritira, al Dio che resta come ferita. Per questo la sua influenza attraversa filosofi dell’assurdo, mistici senza Dio, e teologi del silenzio. La sua scrittura è preghiera, grido, bestemmia e profezia — sempre sul bordo dell’indicibile.

1. La scrittura dostoevskiana come teologia negativa

La scrittura di Dostoevskij non si limita a tematizzare Dio, l’assenza, il male: ne incarna l’enigma attraverso la propria architettura. È una scrittura che non afferma teologicamente, ma nega per eccesso, per pluralità, per tensione irrisolta. In questo senso, essa è profondamente apofatica, cioè strutturata secondo la logica della negazione mistica: Dio non si rivela mai pienamente nella pagina, ma solo nei vuoti, nei paradossi, negli abissi non colmati.

1.1. Polifonia come negazione del dogma

Come ha mostrato Bachtin, la forma romanzesca dostoevskiana è fondata sulla polifonia – una pluralità di voci che non si risolvono mai in un’unità autoritaria. Non esiste un punto di vista che domini sugli altri: l’autore rinuncia volontariamente al ruolo di “demiurgo” e lascia che i personaggi si esprimano da posizioni radicalmente inconciliabili. Questo non è soltanto un espediente narrativo, ma una forma di teologia negativa letteraria: l’Assoluto (Dio, il senso, il bene) non può essere affermato da nessuna voce senza cadere nel ridicolo o nel fanatismo.

Nei Fratelli Karamazov, Ivan e Alëša non sono due personaggi da riconciliare, ma due teologie viventi: quella dell’ateismo tragico e quella dell’amore gratuito. L’una non vince sull’altra. Anzi, l’intera struttura del romanzo sembra rifiutare ogni tentazione di sintesi. È la verità che non si può dire, solo mostrare nel suo cozzare.

1.2. La “negatività” del narratore e il montaggio frammentato

In romanzi come Delitto e castigo, L’idiota o I demoni, il narratore stesso è spesso incerto, traballante, ironico, ambiguo. Non ci viene mai offerta una prospettiva chiarificatrice. L’effetto è quello di un vuoto di autorità, di una discesa nella molteplicità psichica e spirituale che non trova mai un centro. In questo vuoto narrativo si riflette l’assenza di Dio, o la sua assoluta trascendenza: Dio non è più nel logos rassicurante della narrazione classica, ma nell’inspiegabile, nella sospensione, nell’incoerenza perfino.

Il montaggio dei dialoghi, le interruzioni, le scene di isteria improvvisa, le cadute morali seguite da illuminazioni improvvise, sono tutte strutture ellittiche, esattamente come lo è la preghiera negativa dei mistici: si rivolge a un Dio che non risponde, si tende verso una verità che non può mai diventare piena presenza.

2. Dostoevskij e Kierkegaard: fede e paradosso

2.1. La fede come salto nell’assurdo

Il confronto tra Dostoevskij e Søren Kierkegaard è tanto più fecondo quanto più lo si colloca su un piano esistenziale e non sistematico. Entrambi sono pensatori della fede come paradosso: per entrambi, credere non significa aderire a un contenuto dottrinale, ma assumere una posizione tragica nei confronti dell’esistenza.

In Timore e tremore, Kierkegaard riflette sull’assurdità del gesto di Abramo: un padre che, pur sapendo di dover uccidere il figlio, crede che Dio glielo ridarà. È un atto che spezza ogni logica etica e razionale. Allo stesso modo, in Dostoevskij la fede si manifesta come follia sublime: è quella di Sonja che legge il Vangelo a Raskol’nikov senza cercare di convertirlo, è quella di Alëša che vede nei bambini il volto di Cristo pur nella tragedia, è quella del principe Myškin che ama senza difese né orgoglio.

In entrambi, la fede non è mai confortante, ma destabilizzante. È ciò che obbliga il soggetto a sopportare l’incomprensibile.

2.2. L’etica dell’unicità contro l’universalità morale

Kierkegaard afferma che l’individuo nella fede sospende l’etica universale: Abramo non è un eroe morale, ma un cavaliere della fede perché ha obbedito a un comando che lo poneva contro ogni legge umana. In Dostoevskij, troviamo qualcosa di simile: i personaggi non sono “giusti” nel senso tradizionale. Il bene passa attraverso l’abiezione (Raskol’nikov), la malattia (Myškin), il ridicolo (Alëša), la prostituzione (Sonja). C’è sempre un gesto scandaloso che afferma l’infinito in una forma che l’etica borghese rifiuterebbe.

2.3. La sofferenza come condizione di verità

Per entrambi gli autori, la sofferenza è l’unica via per accedere a una forma di autenticità. Non c’è salvezza senza agonia, né fede senza angoscia. Il Dio che si rivela, per Kierkegaard, è quello che tace nella notte del Getsemani. Per Dostoevskij, è lo stesso: un Dio che non salva Ivan dalla sua rivolta, che non protegge lo “stupido” principe Myškin dalla disfatta, ma che abita la crepa stessa dell’umano.

Letteratura come “tragedia della teologia”

Dostoevskij scrive romanzi che sono eventi teologici, ma non nel senso della predicazione, bensì della tensione insolubile. Sono spazi in cui il divino non è mai detto, ma continuamente evocato come assenza che brucia, come domanda che implora senza ottenere. In questo, la sua scrittura è profondamente affine a quella dei mistici e dei pensatori del paradosso. La sua forma stessa è negazione: negazione dell’unità, del centro, della sintesi. Una teologia spezzata, che solo attraverso la carne delle parole, la materia della voce umana, può lasciar trasparire — a tratti, e sempre a rischio — il volto indicibile dell’assoluto.

1. Il male in Dostoevskij, Levinas e Jankélévitch: l’enigma dell’ingiustificabile

1.1. Dostoevskij: il male come scandalo e mistero

In Dostoevskij il male non è mai oggetto di spiegazione, ma sempre di lacerazione e vertigine. Non viene ridotto a colpa morale o deviazione etica, ma esplode nel cuore stesso dell’umano. Ivan Karamazov ne fa il punto inaggirabile: “È troppo per il mio cuore umano. Non voglio l’armonia universale: è troppo cara se il prezzo è la sofferenza di un solo bambino.” Il male, qui, è l’ingiustificabile assoluto: nulla lo redime, nemmeno Dio, nemmeno l’escatologia.

Questa posizione prepara il terreno per autori come Levinas e Jankélévitch, che vedono nel male non un problema da risolvere, ma un evento di rottura dell’etica e del pensiero.

1.2. Levinas: l’altro sofferente e l’imperdonabile

Levinas legge Dostoevskij con ammirazione profonda, in particolare la frase dei Fratelli Karamazov: “Ognuno è colpevole di tutto davanti a tutti.” Ma se per Dostoevskij questa frase apre alla solidarietà metafisica universale, per Levinas diventa la premessa di una responsabilità etica infinita che non trova fondamento in alcun sapere.

Il male radicale (e l’esperienza della Shoah) obbliga Levinas a spostare l’asse: il male non è spiegabile, né assolvibile. L’etica si apre non nel comprendere il male, ma nell’essere interpellati da chi ne è stato vittima. Il volto dell’altro, esposto alla sofferenza, ci mette in scacco. Il male è ciò che eccede la totalità, come Ivan e il suo diavolo che non smette di ridere nel buio.

1.3. Jankélévitch: il male come irreversibile e l’etica del perdono impossibile

Anche Jankélévitch vede nel male una soglia oltre cui il pensiero si arresta. Nei suoi testi sul perdono e sull’irrevocabile, insiste sul fatto che ci sono mali che non si possono né capire né perdonare: sono eventi che “non hanno un perché” (come le atrocità naziste), e proprio per questo ne costituiscono la verità più profonda.

Con Dostoevskij, Jankélévitch condivide la sensibilità per l’insondabile: non c’è una filosofia del male, ma solo una scrittura che ne tocca il bordo, che lo mette in scena. In questo senso, Raskol’nikov, Ivan o Stavrogin non sono personaggi che rappresentano il male: lo incarnano nella sua irriducibilità, proprio come i protagonisti tragici del pensiero di Jankélévitch.

2. La confessione e il peccato come strutture narrative e antropologiche

2.1. La confessione come dispositivo formale

In Dostoevskij la confessione non è solo un momento, ma un dispositivo narrativo strutturante. È attraverso la confessione che i personaggi si raccontano, si mettono a nudo, cercano la salvezza – e molto spesso la perdono. Ogni dialogo in Dostoevskij tende alla confessione, ogni scena al disvelamento dell’io colpevole.

Raskol’nikov, ad esempio, non è redento tanto perché confessa alla polizia, ma perché cede alla parola di Sonja, si lascia guardare da lei nel momento in cui legge il Vangelo. La confessione è un atto performativo: crea una nuova realtà, ma sempre nel dolore.

2.2. Il peccato come condizione antropologica e ontologica

Il peccato in Dostoevskij non è mai una trasgressione superficiale: è una condizione originaria. Ogni personaggio è colpevole, non perché ha fatto qualcosa, ma perché esiste nel mondo della libertà. La colpa è ciò che costituisce l’umano.

In questo senso, la frase “Tutti siamo colpevoli di tutto” diventa una definizione ontologica dell’uomo. L’individuo è tale solo perché è colpevole – non nel senso penale, ma in quello esistenziale: portatore del male del mondo, responsabile per l’altro, persino per le sofferenze che non ha causato. La confessione, allora, è il gesto che attiva questa verità: confessare è riconoscere la propria responsabilità infinita.

2.3. La narrazione come estensione della confessione

Interi romanzi di Dostoevskij possono essere letti come grandi confessioni corali. I demoni è la confessione di un’epoca, Delitto e castigo quella di una coscienza scissa, I fratelli Karamazov quella dell’umanità stessa. In tutti i casi, il racconto non serve a risolvere, ma a sprofondare nel nodo del peccato. In questo senso, Dostoevskij è vicino alla psicoanalisi, ma ancora più alla mistica: la parola ha senso solo se espone, se si fa piaga.

Un’etica tragica della responsabilità

La visione del male in Dostoevskij, come in Levinas e Jankélévitch, ci spinge a una etica tragica della responsabilità. Non si tratta di redimere il male, ma di stare nella sua irriducibilità. La confessione non è liberazione, ma assunzione di un peso inalienabile. L’uomo dostoevskiano non è mai innocente, ma può – nel dolore, nella parola, nell’amore ferito – farsi responsabile.

1. L'ironia tragica in Dostoevskij: la vertigine del doppio 

1.1. L’ironia come demoniaca ambivalenza

Dostoevskij è un autore profondamente tragico, ma il suo tragico è intriso d’ironia. Non l’ironia sottile del distacco razionale, ma quella cupa, grottesca e metafisica, che attraversa le confessioni dei suoi personaggi, mina la stabilità della verità e trasforma ogni convinzione in caricatura. È un’ironia tragica perché non redime, ma espone — come in Ivan Karamazov, che smaschera Dio e la morale, ma finisce schiacciato dalla propria stessa lucidità.

Il diavolo che visita Ivan è ironico, è una maschera, ma è anche la voce dell’inconscio che sfida il senso. L’ironia in Dostoevskij non salva, anzi, spesso accompagna la rovina: nei suoi romanzi il riso è frequente, ma ha sempre qualcosa di isterico, di stonato, di profondamente sinistro.

1.2. Il doppio: ironia dell’identità

La figura del doppio è una delle forme privilegiate dell’ironia tragica dostoevskiana. Lo sdoppiamento di Raskol’nikov tra l’intellettuale e l’assassino, quello del protagonista de Il sosia tra l’impiegato e la sua caricatura grottesca, o ancora l’ambiguità di Stavrogin, sono espressioni di un’identità che non coincide mai con sé stessa. È questa distanza interna, questa scissione insuperabile, a produrre la vera ironia tragica: il soggetto non può mai riconciliarsi, e la sua parola è sempre in bilico tra confessione e mascheramento.

1.3. Il narratore come parodia del Logos

L’ironia attraversa anche il livello formale. I narratori dostoevskiani non sono mai onniscienti né neutri: spesso sono ridicoli, fallibili, coinvolti nel delirio che raccontano. In questo modo, la narrazione si fa meta-discorso sulla verità: l’autore destabilizza ogni punto di vista, rendendo la stessa narrazione un campo di forze contrapposte. L’ironia diventa allora uno strumento conoscitivo, ma negativo: non illumina, brucia.

2. Il concetto di libertà: Dostoevskij, Nietzsche, Weil

2.1. Dostoevskij: la libertà come condanna e paradosso

In Dostoevskij la libertà è un nodo tragico. È ciò che rende l’uomo simile a Dio — ma proprio per questo lo espone alla colpa. Il Grande Inquisitore è forse il punto culminante di questa riflessione: la libertà è troppo pesante per l’uomo, che desidera essere sollevato dal peso della scelta. Cristo non impone miracoli né garanzie, ma solo la libertà — e questo è il suo scandalo.

Per Dostoevskij, la libertà è la possibilità del male. Eppure, è anche ciò che rende possibile l’amore, il dono, il sacrificio. La libertà è paradossale: è il rischio assoluto, e al tempo stesso l’unica dignità dell’uomo. Per questo Dostoevskij è vicino a Kierkegaard: entrambi vedono nella libertà una vertigine.

2.2. Nietzsche: la libertà come trasvalutazione e volontà di potenza

Nietzsche parte da Dostoevskij, ma va altrove. Ammira la sua psicologia, la sua profondità, ma respinge il suo cristianesimo. Per Nietzsche, la libertà non è il peso della responsabilità, ma l’invenzione di nuovi valori. Il libero è colui che si affranca dal bene e dal male tradizionali, che osa creare.

Se Dostoevskij teme la libertà perché può condurre al delitto, Nietzsche la esalta come unica via d’uscita dalla “morale da schiavi”. Ma entrambi riconoscono che la libertà non consola, non dà pace: in entrambi i casi è un rischio estremo, una forza che mette in crisi l’identità.

2.3. Simone Weil: la libertà come spoliazione e attenzione

Simone Weil, al contrario, legge Dostoevskij come un alleato spirituale. Per lei, la vera libertà non è la volontà che impone, ma la rinuncia, l’attenzione silenziosa all’altro. Nei suoi scritti (come La pesanteur et la grâce), Weil legge in Sonja, in Alëša, nei martiri dei romanzi dostoevskiani, una forma di libertà passiva ma attivissima: libertà come svuotamento, come kenosis, che permette alla grazia di passare.

Dove Nietzsche afferma, Weil si ritrae; dove Dostoevskij lotta, Weil presta ascolto. Ma tutti e tre, pur nella divergenza, convergono su un punto essenziale: la libertà è l’esperienza più estrema e tragica dell’umano.

La libertà come campo di battaglia tragico

In Dostoevskij, l’ironia e la libertà si incontrano nel cuore stesso del tragico. L’autonomia dell’individuo, la sua capacità di scegliere, di amare, di delinquere, non è mai oggetto di celebrazione, ma di indagine abissale. Dostoevskij non offre soluzioni, ma mostra l’umano nudo, tra il diavolo e la grazia, tra il ridicolo e l’assoluto. Il suo romanzo è così un luogo di verità — non dogmatica, ma drammatica.

1. Dostoevskij e il pensiero cristiano ortodosso: l'abisso come via 

1.1. Un cristianesimo del cuore: la kenosis russa

Il cristianesimo di Dostoevskij non è sistematico, né dogmatico. È una tensione continua, più mistica che teologica, più legata alla tradizione esicasta e ai padri del deserto che alla razionalità scolastica. È l’Ortodossia russa del cuore spezzato e dell’umiltà, dell’icona e del silenzio. In Dostoevskij, l’anima non afferra Dio, ma vi si abbandona. La redenzione non è un trionfo, ma un crollo dell’io.

L’amore cristiano, per Dostoevskij, è inseparabile dalla sofferenza. “Amate anche gli animali” dice Alëša. E in questo imperativo si cela l’anima della carità ortodossa: non giudicare, non separare, piegarsi all’altro. È una religiosità della compassione radicale, che guarda con terrore alla libertà dell’uomo, ma non la condanna, la accoglie. La fede è la forma suprema dell’umiliazione dell’intelletto, il “salto” oltre la ragione di cui parla anche Kierkegaard.

1.2. L’icona e il sacramento dell’altro

In Delitto e castigo, la salvezza passa per Sonja, figura cristologica che legge il Vangelo a Raskol’nikov. Non è la Chiesa istituzionale a salvare, ma il volto dell’altro come epifania del divino. Questo è profondamente ortodosso: l’altro, il povero, l’umiliato, è Cristo. Lo “sguardo iconico” è ciò che trasforma la carne dell’altro in mistero.

Dostoevskij, sebbene critico con le gerarchie ecclesiastiche (come mostra il Grande Inquisitore), rimane un credente ortodosso nel senso più profondo: la liturgia della vita, il mistero della sofferenza redentrice, l’attesa della trasfigurazione. L’ortodossia in lui è una via negativa: Dio non si impone, ma si svuota, si nasconde, si fa mendicante.

2. Dostoevskij, Kafka e l’esistenzialismo: figure del disincanto

2.1. Kafka: l’enigma della colpa senza espiazione

Se Dostoevskij rappresenta la colpa come possibilità di redenzione, Kafka la rende irredimibile. Nei due autori c’è un’analogia strutturale: entrambi costruiscono mondi di processi, interrogatori, confessioni, giudizi invisibili. Ma se in Dostoevskij il colpevole è colui che si riconosce tale e può sperare nella grazia, in Kafka il colpevole è già condannato, a prescindere, in assenza di reato.

In Il processo, Josef K. è l’anti-Raskol’nikov: subisce un sistema assurdo, non perché ha peccato, ma perché esiste. Il paradosso kafkiano è che la giustizia è diventata pura forma, disgiunta dal contenuto morale. Il castigo non ha redenzione. Se Dostoevskij scrive sotto lo sguardo di un Dio silenzioso, Kafka scrive dopo Dio, nella sua assenza definitiva.

2.2. Il romanzo esistenzialista: Camus, Sartre, Beckett

L’impronta di Dostoevskij sul romanzo esistenzialista è indelebile. Camus vede in Ivan Karamazov e in Kirillov (I demoni) i predecessori della rivolta metafisica. Ivan grida contro un Dio che permette il dolore dei bambini; Kirillov si suicida per dimostrare che l’uomo può essere Dio. Camus ne trarrà l’assurdo: la tensione tragica tra il desiderio di senso e il silenzio dell’universo.

Sartre invece si appassiona all’uomo come progetto aperto, libero fino alla nausea. In L’essere e il nulla, la libertà assoluta che condanna è un’eco di Raskol’nikov: l’uomo che può oltrepassare il bene e il male, ma ne resta schiacciato.

Beckett, infine, prende da Dostoevskij il vuoto tragico e l’umorismo dell’attesa: Aspettando Godot è come una versione essenziale dell’universo dostoevskiano senza più Dio, in cui però permane l’eco dell’interrogativo religioso. La domanda “chi siamo?” resta, ma senza risposta.

L'eredità dell’abisso

Dostoevskij attraversa tutta la letteratura del Novecento come un sismografo della crisi dell’Occidente. La sua fede è piena di ombre, la sua ortodossia è scandalosa, il suo realismo è visionario. Con Kafka, Beckett, Camus, egli condivide la vertigine del senso, ma resta il testimone di un fondo ultimo: la possibilità che, al di là del male, dell’assurdo e della colpa, ci sia ancora una luce — anche se fioca, tremolante, spaventosa.

3. La funzione della preghiera nei romanzi di Dostoevskij

La preghiera nei romanzi di Dostoevskij non è un semplice atto di devozione o un espediente narrativo, ma diventa il punto di convergenza tra l’individuo e il divino, il luogo dove il personaggio si confronta con le proprie contraddizioni, paure e speranze. Essa è spesso un momento di epifania interiore, ma anche di tensione, un atto che, più che risolvere i dilemmi dei protagonisti, li rende più palpabili e dolorosi. La preghiera, in Dostoevskij, non è mai un rimedio facile o consolatorio; è un passaggio doloroso, che pone l'individuo di fronte alla propria fragilità, ma anche alla possibilità di una salvezza che sfida la ragione.

3.1. La preghiera come atto di umiltà e di speranza: il caso di Raskol’nikov

Nel romanzo Delitto e castigo, la preghiera di Raskol’nikov è centrale nel suo cammino di redenzione. La scena in cui Raskol’nikov si inginocchia e prega, a fine romanzo, è di una potenza straordinaria. La preghiera, infatti, non è solo un atto di sottomissione alla volontà divina, ma anche un atto di purificazione, una testimonianza di una resa che non implica la sconfitta, ma un abbandono alla grazia.

Quando Raskol’nikov si inginocchia davanti a Sonja, che lo guida verso la confessione, non sta semplicemente compiendo un atto religioso, ma sta riconoscendo la propria impotenza, il fallimento della propria razionalità. La preghiera, quindi, in Dostoevskij, diventa il ponte che collega l’uomo al mistero di Dio, ma anche la manifestazione di un bisogno, quasi fisico, di appoggiarsi a qualcosa di più grande, di oltrepassare la dimensione puramente individuale.

3.2. La preghiera come atto di ricerca spirituale: il caso di Alëša Karamazov

In I fratelli Karamazov, la preghiera è spesso un atto di ricerca interiore, di messa in discussione della fede. Alëša Karamazov, il giovane monaco, è un personaggio che cerca la divinità non solo nelle preghiere formali, ma anche nel confronto con il dolore umano e nella ricerca della salvezza per gli altri. La preghiera di Alëša, che è anche un atto di meditazione, di contemplazione, è la chiave della sua apertura al mistero della vita e della sofferenza.

Le sue preghiere non sono mai espressione di una fede cieca, ma una ricerca continua, un atto di umiltà che richiede di confrontarsi con il dolore e la morte. La preghiera diventa, quindi, per Dostoevskij, un mezzo attraverso il quale il personaggio si confronta con il suo rapporto con Dio e con la sua lotta per accettare il male nel mondo. Alëša, più che pregare per se stesso, prega per gli altri, riconoscendo che l’umanità è intrinsecamente fragile e bisognosa di redenzione.

3.3. La preghiera nei "Demoni": il conflitto con la fede

Nei Demoni, la preghiera è un atto che ha poco a che fare con il conforto spirituale. Gli atti di preghiera dei personaggi come Stepan Trofimovič e Kirillov sono carichi di tensione, spesso sarcastici o vuoti, e la religione è vista come un rito che non ha più il potere di risolvere il dramma esistenziale. La preghiera nei Demoni diventa un gesto simbolico, un tentativo di recupero che risulta inefficace di fronte alla violenza e al caos interiore dei personaggi.

La preghiera nei Demoni rappresenta l’incapacità di conciliare la fede con la realtà terrena, dove il senso del divino è sempre messo in discussione. Questo conflitto con la fede è una delle caratteristiche più cupe del romanzo e testimonia la frattura profonda che attraversa l’anima russa dell’epoca.

4. La mappa dei simboli religiosi più ricorrenti nei romanzi di Dostoevskij

Dostoevskij infonde i suoi romanzi di un ricco apparato simbolico che attinge a piene mani dalla tradizione cristiana, ma lo rielabora con una profondità psicoanalitica che va oltre il simbolismo religioso tradizionale. I suoi romanzi sono pieni di rimandi simbolici che richiamano la passione di Cristo, la Resurrezione, il sacrificio, la sofferenza e la redenzione.

4.1. Il Cristo di Holbein

Il Cristo di Holbein è un’icona della sofferenza, ma anche della bellezza che emerge dal dolore. Questo simbolo appare in Delitto e castigo, come il viso di Cristo che appare a Raskol’nikov, esprimendo una sofferenza immensa, ma anche una potenziale redenzione. È un’immagine che richiama il volto di Cristo come portatore di salvezza attraverso il sacrificio, una salvezza che non è mai gratuita, ma passa attraverso l’esperienza diretta del peccato e della colpa.

4.2. La Resurrezione

La Resurrezione è un tema ricorrente nei romanzi di Dostoevskij. Non si tratta solo di un evento che avviene alla fine della storia, ma di un processo che attraversa i personaggi stessi. Raskol’nikov, per esempio, attraversa una vera e propria morte spirituale, ma alla fine del romanzo intravede una possibilità di risurrezione, purificando se stesso attraverso la sofferenza e il pentimento.

In I fratelli Karamazov, la Resurrezione diventa un simbolo di speranza, che si incarna nei gesti di amore e compassione di Alëša. La morte e la resurrezione non sono solo eventi religiosi, ma diventano il percorso che ogni personaggio deve intraprendere per arrivare alla comprensione della propria umanità e della propria salvezza.

4.3. Le parabole evangeliche

Le parabole evangeliche, come quella del figliol prodigo o del buon samaritano, sono frequentemente richiamate in Dostoevskij per esprimere temi di perdono, redenzione e sacrificio. Ad esempio, la parabola del figliol prodigo è rielaborata nei Fratelli Karamazov, dove il ritorno di Dmitrij alla sua famiglia è un ritorno alla paternità divina, simbolo di un perdono che non ha condizioni. La figura del padre misericordioso è paragonata alla misericordia di Dio, che accoglie l’uomo anche nei suoi più grandi fallimenti.

Nel contesto di Delitto e castigo, la parabola del buon samaritano è riflessa nelle azioni di Sonja, che si fa carico del peccato di Raskol’nikov, accogliendolo con la sua fede e offrendogli una possibilità di redenzione.

Conclusioni: La teologia attraverso i simboli e la preghiera

Dostoevskij costruisce il suo sistema religioso non attraverso teologie dogmatiche, ma attraverso la scrittura vivente, un cammino verso il divino che si fa attraverso la lotta, il peccato e il riscatto. La preghiera è il simbolo del conflitto tra l’individuo e Dio, un conflitto che è al cuore dell'esperienza umana e che attraversa le sue opere come un filo invisibile. I simboli cristiani, dalla Resurrezione al Cristo di Holbein, sono utilizzati non solo come riferimenti religiosi, ma come modalità per esplorare la condizione umana, il suo peccato, la sua redenzione e la sua speranza.



PARTE SECONDA 

La fortuna cinematografica di Dostoevskij

La densità psichica, il dialogo interiore e l’intensità morale delle opere dostoevskiane hanno rappresentato una sfida costante per il cinema. Nonostante la loro apparentemente scarsa "cinematograficità", registi profondamente visionari ne hanno tratto interpretazioni potentissime. La fortuna cinematografica di Dostoevskij, infatti, non sta tanto nella riproduzione filologica dei testi, quanto nella loro trasfigurazione poetica.

Robert Bresson, con Pickpocket (1959), rende omaggio a Delitto e castigo in chiave radicalmente essenziale, spogliata, dove il gesto minimo ha la forza di una conversione spirituale. Akira Kurosawa, nel suo L’idiota (1951), ambienta il romanzo nella gelida Hokkaido, mantenendo intatto il senso tragico e sacrificale della figura di Myškin. Più tardi, Aki Kaurismäki riprenderà l’eco dostoevskiana nei suoi antieroi marginali, perduti e redenti solo nella condivisione del nulla.

Tra le trasposizioni più note, spicca Delitto e castigo (1935) di Josef von Sternberg, e quella di Lev Kulidžanov (1969), che tenta di restituire la dialettica interiore del protagonista con una recitazione quasi teatrale. Ma è Andrzej Wajda con I demoni (1971), ispirato al romanzo Besy, a incarnare con maggiore forza la visionarietà politica di Dostoevskij, trasformando l’angoscia metafisica in tragedia ideologica.

Il cinema di Ingmar Bergman, pur senza trasporre direttamente opere dostoevskiane, è profondamente influenzato dalla sua visione: basti pensare a Luci d’inverno, dove la fede è messa alla prova dal silenzio divino e dalla sofferenza, in un contesto quasi dostoevskiano di dialogo tra teologia e abisso.

Infine, Lars von Trier ha esplicitamente citato Delitto e castigo come fonte per Dogville: il perdono, la vendetta e la colpa diventano nuclei tragici in un teatro nero della coscienza. In questo senso, Dostoevskij resta non tanto un autore da adattare, quanto un prisma teoretico, un’eco psico-teologica che continua a contaminare il linguaggio filmico contemporaneo.

Ora un’analisi delle versioni cinematografiche russe delle opere di Dostoevskij, dove il legame tra testo, visione e ideologia si fa più stretto, più contorto, più visceralmente russo.

Il cinema sovietico e post-sovietico di Dostoevskij: incarnazioni e fantasmi

Nel cinema russo, Dostoevskij non è solo un autore da adattare: è una figura totemica, una presenza ossessiva. I registi lo hanno affrontato come si affronta un profeta, un pazzo, un demonio — con timore e tremore, e mai con leggerezza.

Lev Kulidžanov – Prestuplenie i nakazanie (1969)
Questa è forse la trasposizione più “ufficiale” di Delitto e castigo. Realizzata durante il tardo periodo sovietico, si presenta come un'opera fedele, solenne, pedagogica, ma non priva di turbamenti profondi. Il film è lungo, statico, girato con grande attenzione alla psicologia dei personaggi, e tenta di restituire il dramma morale senza edulcorazioni ideologiche. Georgij Taratorkin, nel ruolo di Raskol’nikov, incarna il tormento dell’intellettuale idealista che crolla sotto il peso della propria hybris. La Leningrado plumbea diventa uno spazio metafisico. L’influenza di Bergman e del primo Tarkovskij (soprattutto Lo specchio) si avverte nei lunghi silenzi e nei dialoghi “teologici”.

Igor’ Talankin – Idiòt (1958)
La versione sovietica de L’idiota fu un tentativo, già nel secondo dopoguerra, di conciliare l'umanesimo dostoevskiano con i valori morali sovietici. Il principe Myškin, interpretato con grande delicatezza da Jurij Jakovlev, viene mostrato come un puro, un “cristiano socialista ante litteram”. Ma il vero cuore del film è Nastas’ja Filippovna, tragica, carnefice e vittima, che Talankin dirige con attenzione quasi psicanalitica. L’intera struttura narrativa è giocata tra ascese mistiche e cadute corporali, come se Dostoevskij fosse già, in qualche modo, in dialogo con Freud.

Vladimir Motyl – Besy (Demoni, 1992)
Una trasposizione tardiva e straordinariamente cupa. Prodotta dopo la caduta dell’URSS, è un’opera carica di ossessione politica. Gli spiriti maligni del romanzo non sono più soltanto i nichilisti rivoluzionari, ma anche i fantasmi dell’ideologia sovietica, della paranoia del potere, dell’utopia degenerata in burocrazia. Stavrogin, incarnato in una chiave gotica, è insieme seduttore, lucifero e figura vuota. Il suicidio, la possessione, il fanatismo: tutto è portato in scena come una danza febbrile, a tratti eccessiva, sempre disturbante. Il tono è teatrale, la regia allucinata. Motyl non cerca realismo: cerca l’incubo.

Aleksandr Sokurov – Spasi i sokhrani (Salva e proteggi, 1989)
Sokurov, erede spirituale di Tarkovskij, prende L’adultera (cioè Anna Karenina filtrata attraverso Dostoevskij) e la trasforma in un’evocazione mistica e fantasmagorica. La sua visione dostoevskiana è fatta di corpi che si disfano, di sguardi che cercano l’eterno nel fango. Sokurov legge Dostoevskij come un autore apocalittico, in cui ogni istante della vita è già giudizio. In questo film, anche se l’ispirazione è letteraria e non diretta, Dostoevskij è il respiro stesso delle immagini.

Petr Zelenka – Dostojevskij (serie tv, 2010)
Prodotta come miniserie, questa biografia romanzata in sei episodi si concentra sull’uomo Dostoevskij, ma non manca di ricreare visivamente le atmosfere dei romanzi. In particolare, il rapporto tra la vita e la scrittura, tra l’esperienza della prigione e la genesi di Memorie dal sottosuolo, tra l’amore malato per Polina e le ossessioni erotiche di Stavrogin o Svidrigajlov. Zelenka mescola finzione e documento, sogno e allucinazione, ricreando un Dostoevskij vulnerabile, febbrile, e profondamente moderno. La serie si prende il lusso di mostrare la scrittura come crisi e rivelazione.

In tutte queste versioni, la Russia non filtra Dostoevskij: lo ingoia, lo metabolizza e lo rigetta come visione. Il cinema russo dostoevskiano non cerca “adattamenti” in senso occidentale, ma confessioni, eresie, trasfigurazioni. Ogni scena è un’icona spezzata, ogni volto un’epifania o una condanna. La parola, centrale nei romanzi, si fa gesto, tremito, febbre. La macchina da presa si trasforma spesso in occhio interiore, in strumento teologico.

Entriamo ora nella descrizione, contraddittoria e dolorosa delle rappresentazioni femminili e della declinazione del male nelle trasposizioni russe delle opere di Dostoevskij. Qui non c’è consolazione, né emancipazione, né salvezza garantita. Il corpo femminile diventa frontiera, altare e condanna. E il male... il male è sempre una fame, una febbre, un’assenza di Dio.

Le donne dostoevskiane sullo schermo russo: martiri, streghe, visionarie

Nel cinema russo, le donne di Dostoevskij non sono mai “personaggi secondari”. Sono motori segreti del dramma, catalizzatrici di verità, incarnazioni della tenerezza o dell’abisso. Queste figure si portano addosso lo stigma della carne che redime o precipita, come nei testi sacri e nei miti slavi.

Nastas’ja Filippovna (Idiota)
Nella versione di Talankin (1958), Nastas’ja è interpretata con una potenza magnetica e inquietante. Non è semplicemente la “donna rovinata” o la femme fatale: è una Santa Maddalena prima della conversione, una Giuditta suicida. Ogni suo gesto è percosso da un senso di morte. Non chiede amore: lo sfida. Non vuole essere salvata: vuole che il mondo precipiti con lei. La regia la filma spesso in interni opprimenti, con specchi, veli e luce radente: come se la sua stessa immagine fosse una trappola visiva. Il principe Myškin non riesce a salvarla proprio perché non osa guardarla davvero, né toccarla.

Sof’ja Marmeladova (Delitto e castigo)
Nella trasposizione di Kulidžanov (1969), Sof’ja è l’unico personaggio illuminato da un barlume di speranza. Ma non è mai semplificata in una “prostituta dal cuore d’oro”: è piuttosto una figura cristologica, una testimone silenziosa del dolore. Il suo corpo è muto, pallido, già mortale. Il modo in cui la macchina da presa la osserva — quasi da lontano, senza mai profanarla — la consacra a simbolo, più che a donna. Tuttavia, è proprio questa sacralizzazione che la rende, paradossalmente, disincarnata: non può più agire, solo esistere per riflettere la coscienza di Raskol’nikov.

Liza e la prostituzione come epifania (Memorie dal sottosuolo, in adattamenti vari*)
La figura di Liza, la giovane prostituta che nell’omonimo racconto affronta il protagonista sotterraneo, viene spesso adattata nel cinema russo come una creatura angelica e umiliata. Ma nei film più audaci (come Spasi i sokhrani di Sokurov), questa figura assume tratti ambigui: non è solo un’innocente, ma anche una provocatrice silenziosa, un enigma. Liza sa di incarnare il peccato e lo usa come lingua di verità. Non parla: rivela. In queste versioni, la prostituzione non è una condizione sociale, ma una condizione metafisica.

Mat’ Šatova – la madre che osserva (Demoni)
Nel film di Motyl (1992), le donne non sono centrali nella trama, ma compaiono come presenze laterali e inquietanti. Tra queste, la madre di Šatov è rappresentata come una figura muta, pietrificata, con lo sguardo fisso su ciò che crolla. L’uso del campo/controcampo la trasforma in una testimone del disastro: non piange, non parla, vede. Questo “occhio femminile” passivo è in realtà l’unico sguardo morale che resta quando tutti i personaggi maschili precipitano nell’ideologia e nella distruzione.

Declinazioni del male: volti, ombre, parole

Nel cinema russo dostoevskiano, il male non è mai un concetto astratto: è una presenza. Si manifesta nei volti, negli sguardi, nei tremolii delle mani, negli interni chiusi e soffocanti, nel respiro spezzato. È un male che non urla: sussurra. Non esplode: marcisce.

Stavrogin – il volto vuoto del male
In Besy di Motyl, Stavrogin è una figura quasi demoniaca. Non è cattivo: è vuoto. Il male qui non è un atto, ma l’assenza di compassione. Il celebre episodio della bambina (tagliato nei romanzi, spesso censurato al cinema) aleggia come un non-detto. La regia lo mostra come una presenza elegante, bellissima, ma con uno sguardo che non restituisce nulla. È la pura forma dell’indifferenza. La macchina da presa lo isola, lo osserva spesso di spalle o in controluce: è un dio morto.

Svidrigajlov – il male seduttivo
In varie versioni di Delitto e castigo, Svidrigajlov è il personaggio più ambiguo. È l’unico che parla la stessa lingua di Raskol’nikov, ma senza la pretesa di redenzione. Il cinema russo lo rende spesso sensuale, decadente, morbido: un uomo che sa di essere malvagio e ci convive con ironia. Il suo suicidio viene filmato come un atto di lucidità: non un pentimento, ma una decisione estetica.

Il male ideologico
In Besy, il male si presenta come “ragione pura”. I rivoluzionari non sono cattivi per passione, ma per coerenza logica. Il cinema russo insiste sul delirio dell’ideologia: ogni personaggio che abbraccia un sistema chiuso (socialismo, nichilismo, cristianesimo estremo) finisce per compiere o tollerare l’omicidio. Non c’è male più profondo di quello che si crede “giusto”.

Estetica del male: regia e linguaggio

La regia nei film russi dostoevskiani non si limita a narrare: mostra il male. Lo fa con l’uso esasperato del primo piano, del buio, della lentezza. Il tempo si dilata: la camera indugia su una goccia di sudore, su un occhio che trema, su un silenzio. Le scenografie sono spoglie, claustrofobiche, spessissimo dominate da scale, corridoi, celle, angoli. Ogni spazio è uno spazio della coscienza. La colonna sonora è assente o ridotta a pochi suoni diegetici: il male non ha colonna sonora, ha solo eco.


Procediamo ora su due piani paralleli ma profondamente interconnessi: da un lato l’approfondimento psicanalitico delle versioni occidentali delle opere di Dostoevskij, dall’altro una lettura iconografica e quasi pittorica dei volti e delle posture nei film russi, dove la messa in scena diventa una vera e propria "scrittura del corpo" in dialogo con l’invisibile.

1. Le versioni occidentali in chiave psicanalitica: il trauma, il doppio, l’io spezzato

Nei film occidentali tratti da Dostoevskij — si pensi a The Double di Richard Ayoade (2013), Crime and Punishment di Aki Kaurismäki (1983), o L’Idiota di Georges Lampin (1946) — si percepisce un cambio di registro: il discorso non è più teologico o morale, ma psicologico e simbolico. Il centro non è Dio, ma il trauma. Non la colpa, ma la scissione dell’Io.

Il doppio e l’angoscia del riflesso

Il tema dostoevskiano del “doppio” è uno degli snodi più fecondi per la psicanalisi. In The Double, adattamento surreale di Il sosia, il protagonista si confronta con un alter ego più affascinante, spietato e di successo. Ma il doppio non è solo un altro sé: è l’irruzione del desiderio rimosso, la comparsa dell’Es sotto forma amichevole. Il film usa specchi, simmetrie, e spazi asfittici per evocare il crollo dell’identità. Freud lo avrebbe definito “il ritorno del rimosso”. Lacan, invece, avrebbe letto in quella duplicazione l’impossibilità del soggetto di coincidere con la propria immagine.

Il patto con la colpa: l'Io davanti all’Altro

Nei Fratelli Karamazov di Richard Brooks (1958), la colpa è posta al centro come un trauma non rielaborato. Dmitrij è tutto corpo e desiderio, Ivan è la voce del super-io razionalista, Alëša è il tentativo di riscatto. Ma nessuno riesce a parlare veramente. La psicanalisi lacaniana vedrebbe in questa famiglia la scena primordiale del fallimento simbolico: il Padre è già morto, e i figli lottano per una Legge che non esiste più. In questa versione, ogni gesto, ogni sguardo è il sintomo di una domanda non detta: “Chi sono io se il padre non mi guarda?”.

Il silenzio come sintomo

Aki Kaurismäki, nella sua rilettura finlandese di Delitto e castigo, mette a nudo un Raskol’nikov che non parla. La colpa non si articola, si esprime nei gesti minimi, nella ripetizione rituale di atti quotidiani: accendere una sigaretta, chiudere una porta, camminare sotto la pioggia. È un soggetto post-freudiano, per il quale il sintomo non è altro che un linguaggio senza significato, un corpo che ripete, che cerca.

2. Iconografia russa: i volti, le posture, la pittura del silenzio

Se il cinema occidentale analizza la psiche, il cinema russo la incarna. Non ci sono monologhi interiori: ci sono occhi che cedono, mani che tremano, spalle che si curvano. È un teatro del dolore. Una ieratica liturgia del corpo.

Il volto: icona infranta

Nei film russi tratti da Dostoevskij, i primi piani non sono mai realistici. Sono sacri. I volti sono mostrati in controluce, al margine dell’inquadratura, come reliquie incrinate. Spesso sono segnati da cicatrici invisibili: rughe premature, palpebre pesanti, occhi vitrei. L’occhio non è finestra dell’anima, ma pozzo. Si pensi a Nastas’ja in L’idiota di Talankin: il suo volto non ha bellezza nel senso cinematografico, ha una tragedia incorporata. I capelli sciolti, il labbro inferiore increspato, il collo teso: tutto parla di un amore che l’ha bruciata viva.

La postura come resistenza o resa

Ogni corpo dostoevskiano, nel cinema russo, lotta. Lotte microscopiche, contenute, spasmodiche. Il corpo non è mai rilassato. Cammina in avanti, ma è come se volesse tornare indietro. Le donne siedono con le mani serrate in grembo, come se stessero soffocando una preghiera. Gli uomini stanno in piedi senza motivo, come condannati prima del verdetto.

Un esempio straordinario: in Delitto e castigo (Kulidžanov), dopo l’omicidio, Raskol’nikov è mostrato immobile, mentre intorno a lui tutto si muove lentamente. La macchina da presa ruota in tondo: lui è il centro morto del mondo. Il suo corpo non è più un soggetto: è una statua spezzata.

Colori, sfondi, simmetrie

I registi russi usano gli ambienti come proiezioni interiori. Le stanze sono spesso quadrate, chiuse, con finestre coperte. Le pareti sbrecciate, i mobili poveri, la luce giallastra e malata. Nei Demoni, l’ambiente è tutto iconico: ogni inquadratura ha una simmetria ieratica, come un’icona ortodossa. Il male viene mostrato come uno scarto nel quadro: un corpo che entra di traverso, una figura che rompe l’armonia.

Verso una sintesi: trauma e incarnazione

Se il cinema occidentale, filtrato dalla psicanalisi, legge Dostoevskij come un discorso sull’Io che cede sotto il peso del rimosso, il cinema russo preferisce non parlare affatto dell’Io. Mostra. Fissa. Scolpisce. Laddove l’occidente analizza, l’oriente ortodosso contempla. Il trauma, nel primo caso, è da decifrare; nel secondo, è da incarnare.

Nel corso del tempo, I fratelli Karamazov di Dostoevskij ha conosciuto numerose trasposizioni cinematografiche, ciascuna delle quali ha tentato di restituire, secondo le proprie coordinate culturali e stilistiche, la densità teologica, filosofica e psicologica dell’opera. Una comparazione attenta tra le principali versioni consente di cogliere non solo le scelte registiche e narrative, ma anche le strategie simboliche, in particolare quelle legate all’uso dei colori come vettori visivi del carattere, del destino e della tensione morale dei personaggi.

La versione hollywoodiana del 1958 diretta da Richard Brooks si colloca all’interno di una tradizione cinematografica che privilegia la linearità narrativa e il dramma umano più che la complessità teologica. Il film, interpretato da Yul Brynner nel ruolo di Dmitrij, Maria Schell in quello di Gruschen’ka e William Shatner nei panni di Alëša, si sviluppa secondo le logiche del melodramma, trasfigurando il romanzo in una tragedia familiare a sfondo morale. I conflitti interiori e i tormenti metafisici vengono semplificati in un’opposizione tra desiderio e redenzione, tra violenza e pentimento, dove i personaggi assumono una funzione quasi archetipica: Dmitrij come l’uomo passionale diviso tra colpa e amore; Ivan come razionalista impietrito; Alëša come figura di innocenza e ascolto. L’aspetto visivo riflette queste scelte, costruendo una cromia simbolica che associa al rosso carminio e ai toni terrosi l’ambivalenza erotica e morale di Gruschen’ka, mentre Ivan è avvolto in tonalità fredde e cupe, a evocare l’astrazione glaciale della sua intelligenza. Alëša, al contrario, è caratterizzato da colori chiari, talvolta bianco latteo, in funzione della sua spiritualità non violenta e della sua apertura alla grazia.

Diversa è la prospettiva adottata dall’adattamento sovietico diretto da Ivan Pyryev nel 1969, dove il registro realistico si carica di una tensione simbolica e teologica assai più marcata. Il film non tradisce la struttura dialogica e l’intenzione metafisica dell’originale dostoevskijano, ma ne esaspera la vocazione sacrale, in particolare nella rappresentazione del conflitto tra fede e nichilismo. Le interpretazioni attoriali, come pure la messa in scena, risentono profondamente dell’estetica iconica della tradizione ortodossa: i volti sono scolpiti, ieratici; gli interni, scrostati e plumbei, diventano prolungamento dell’anima tormentata dei personaggi. Il padre Karamazov è reso con tratti caricaturali e animaleschi, incarnazione del male orgiastico e putrefatto; Dmitrij è un corpo lacerato, continuamente sull’orlo della disintegrazione; Ivan, la cui crisi razionale si avvicina a una forma di dannazione intellettuale, è accompagnato da una fotografia severa, con forti contrasti tra luce e ombra. In questo contesto, Alëša appare come una figura quasi francescana, radicata nella povertà visiva dei suoi abiti color ocra o lino grezzo, espressione di una spiritualità incarnata e non dottrinale. I colori, in questa versione, non sono meri accessori scenografici, ma vettori espressivi di una teologia negativa sottotraccia: il nero di Ivan è il nero dell’assenza di Dio, il rosso sporco di Dmitrij è la ferita del mondo, il bianco terroso di Alëša è il colore della misericordia vissuta come silenzio attivo.

Nel film Karamazovi del 2008, diretto da Peter Zelenka, assistiamo a una decostruzione metateatrale dell’opera: la narrazione non si svolge in Russia ma in una fabbrica abbandonata di Cracovia, dove una compagnia teatrale ceca mette in scena il testo dostoevskijano. La contaminazione tra arte e realtà, tra rappresentazione e trauma, conferisce al testo una nuova prospettiva: non si tratta più solo di tradurre il romanzo, ma di interrogarne la permanenza etica e metafisica nel presente. I personaggi si sfaldano nelle loro funzioni, diventano maschere mobili, attraversate da dubbi e da smottamenti esistenziali. Il grande Inquisitore, in particolare, emerge come il fulcro tematico, non solo per la centralità nel romanzo, ma perché cristallizza l’ambiguità dell’intelletto quando si fa giudizio assoluto sul bene e sul male. L’estetica visiva è radicalmente ridotta: predominano il bianco e il nero, i costumi sono minimi, l’illuminazione spoglia. I pochi tocchi cromatici – il rosso che compare talvolta sulle mani o negli occhi – diventano tracce simboliche della colpa o del dolore, segni quasi sacrificali che restituiscono all’immagine il potere della visione interiore.

Attraverso questi adattamenti emerge dunque una grammatica cromatica ricorrente, che può essere letta come una vera e propria mappa simbolica dei personaggi. Il rosso, declinato nelle sue varianti dal cremisi al ruggine, accompagna Dmitrij e Gruschen’ka come espressione di eros, di colpa e di ferita; il nero e il grigio si associano invariabilmente a Ivan e a Smerdjakov, marcatori di una deriva razionalista che si trasforma in nichilismo e in colpa cosmica; Alëša, infine, è il personaggio che riceve i colori della luce opaca, mai accecante: il bianco sporco, l’ocra, il beige, a suggerire una spiritualità umile, non trionfante, capace di stare nel mondo senza volerlo dominare.

Così il cinema, attraverso le sue scelte cromatiche, non solo illustra ma interpreta i personaggi dostoevskijani, traducendo la loro profondità teologica e psicologica in una lingua visiva fatta di ombre, panni, volti e luci, in cui ogni colore è segno, ogni dettaglio è simbolo, e ogni scelta registica si fa forma incarnata del pensiero tragico dell’autore russo.

La scena del Grande Inquisitore, incastonata come racconto autonomo all’interno di I fratelli Karamazov, rappresenta una delle vette teologico-filosofiche della letteratura moderna. Il monologo di Ivan, recitato come un apologo blasfemo sull’impossibilità della libertà umana e sul rifiuto del Cristo da parte della Chiesa storica, ha esercitato un fascino persistente sul cinema, che nel tentativo di metterne in scena la carica tragica, ha dovuto confrontarsi con la sfida di rendere visibile un paradosso spirituale.

Nella versione sovietica del 1969 di Ivan Pyryev, il racconto del Grande Inquisitore si dispiega in una forma ieratica, quasi liturgica. L’interprete di Ivan, Kirill Lavrov, recita con un'intensità glaciale che evita ogni emotività esplicita: il suo volto, scolpito nella tensione, è ripreso con inquadrature fisse, ravvicinate, in cui il tempo sembra sospeso. L’ambientazione è spoglia, dominata da pareti neutre, quasi monacali, e una luce fioca e diffusa, come se l’intero spazio fosse stato aspirato da una metafisica dell’assenza. Quando il racconto prende corpo – ossia quando il Cristo muto compare a Siviglia e viene arrestato – la regia opta per un’esemplificazione scarna, simbolica, in cui la figura del Cristo si muove senza parole, in una compostezza tragica che contrasta con la verbosità appassionata dell’Inquisitore. L’effetto è di straniamento: il mondo descritto è cupo, svuotato di redenzione, e l’Inquisitore stesso (che Ivan impersona come doppio) è mostrato non come un mostro, ma come una creatura del dolore, il cui gesto di baciare il Cristo al termine del monologo non è più solo ironico o tragico, ma quasi patetico, in senso profondo, nel suo fallimentare tentativo di amore attraverso il dominio.

Nel Karamazovi di Zelenka (2008), il racconto del Grande Inquisitore costituisce il fulcro emotivo e concettuale dell'intero film. La messa in scena teatrale si fonde con il dramma personale di uno spettatore – un operaio polacco – che assiste alle prove mentre vive un lutto privato. Il Cristo, in questo caso, è incarnato da un attore che si limita a camminare, in silenzio, tra le macerie della fabbrica, mentre l’Inquisitore lo inchioda con una logica ferrea, pronunciata in uno spazio che risuona come un’eco esistenziale. Il testo, recitato in ceco, si innesta su un piano di realtà che lo moltiplica: l’assenza di Dio, il dramma della libertà, la scelta tra verità e pane diventano il nodo doloroso non solo del personaggio di Ivan, ma del pubblico stesso. La macchina da presa accompagna l’Inquisitore con movimenti circolari, talvolta soffocanti, e il volto del Cristo è mostrato in penombra, come se fosse già un’icona, ma un’icona rovesciata, perduta. L’effetto finale è quello di un’allucinazione morale: il racconto non è più confinato al romanzo o al palcoscenico, ma investe ogni presente.

Laddove il cinema occidentale ha spesso evitato di confrontarsi con questa scena nella sua interezza – preferendo alludervi o sintetizzarla – il cinema russo, e in particolare quello di tradizione sovietica e post-sovietica, ha mostrato una predilezione per spazi simbolicamente saturi, dove la dialettica interiore si proietta su ogni elemento scenico. Il paesaggio e gli interni nei film russi da Dostoevskij non sono mai neutri: esprimono l’anima, la accompagnano o la sfidano, fungono da controcampo alla voce interiore.

Negli interni, domina una poetica del disfacimento: pareti scrostate, stanze anguste, luci oblique che incidono i volti come tagli. Questi spazi, più che ambienti, sono teatri dell’inconscio, spesso labirintici, senza centro. I corridoi della casa del padre Karamazov, ad esempio, sono stretti e soffocanti, e ogni personaggio vi appare imprigionato. In alcune versioni, come in quella di Pyryev, le finestre diventano vere e proprie croci di luce, simboli di una trascendenza che resta fuori campo, irraggiungibile. L’esterno, invece, è dominato da un paesaggio russo cupo e terreno: la neve sporca, la fanghiglia, i rami secchi, tutto parla dell’umana caduta, di una natura non redenta. Lontano dal sublime romantico, questo paesaggio è un corpo ferito che non consola, ma accoglie. La casa del monastero – luogo dove Alëša si rifugia – si distingue solo per un ordine sobrio, per una luce meno crudele, mai per un’evidente grazia: anche la fede, sembra dire la regia, è un cammino nelle tenebre.

Infine, è nei volti che questa simbologia si compie. Il volto dell’Inquisitore, scavato e tragico, si contrappone al volto di Cristo, muto e paziente. In Pyryev, il volto di Ivan – e quindi dell’Inquisitore – è ripreso spesso di profilo, come se fosse inciso in un’icona negativa. In Zelenka, è l’attore stesso a mutare espressione durante il racconto, lasciando che la maschera dell’Inquisitore si incrini, mentre il Cristo resta immobile, in un’immobilità che diventa giudizio silenzioso. La regia russa, in queste scene, fa un uso accorto della frontalità, mutuata dalla pittura sacra: lo spettatore è chiamato non solo a guardare, ma a rispondere.

Così, tra interni come metafore dell’anima, paesaggi come confessioni senza parole e volti come specchi dell’invisibile, il cinema russo restituisce al testo dostoevskijano la sua profondità spirituale, senza mai cedere alla tentazione dell’illustrazione. La scena del Grande Inquisitore, in particolare, emerge come il luogo in cui il cinema diventa teologia incarnata, e il volto muto del Cristo continua a chiedere – a ciascuno – se la libertà è ancora possibile.

Le figure femminili nelle trasposizioni cinematografiche russe delle opere di Dostoevskij assumono una valenza rivelatrice e spesso contraddittoria, in bilico fra l’archetipo sacrificale e la proiezione psichica del desiderio e del terrore maschile. La regia russa, specialmente nella tradizione che si sviluppa tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento, manifesta nei confronti dei personaggi femminili un atteggiamento che mescola reverenza e ambiguità, come se la donna fosse sempre posta su una soglia: tra il divino e il demoniaco, tra il reale e l’allucinato, tra l’icona e il fantasma.

In I fratelli Karamazov di Pyryev (1969), la figura di Grušenka è esemplare: incarnata da Ljudmila Čursina, è mostrata come una donna di bellezza intensa e corporea, ma anche come un enigma morale. La regia la isola spesso in campi stretti, giocando su contrasti di luce netti che mettono in risalto lo splendore della pelle, l’umidità degli occhi, il rossore delle labbra, restituendo un’immagine carica di sensualità ma anche di mistero. E tuttavia, questa sensualità è ripetutamente problematizzata: il suo corpo viene messo in scena come un campo di battaglia in cui i desideri maschili – di Dimitri, del padre, di Rakitin – si sovrappongono e si elidono. La donna non è tanto una soggettività quanto un catalizzatore: è lo specchio deformante in cui gli uomini si rispecchiano, si perdono, si accusano. La camera, pur non cedendo a una pornografia del dolore, insiste sul volto di Grušenka come luogo di sfida: ella non cede mai del tutto né al pentimento né alla colpa, e la sua complessità è visiva prima ancora che narrativa.

Diverso è il trattamento riservato a Katerina Ivanovna, incarnata nella stessa versione con un tono più stilizzato. La sua figura è presentata come una martire della dignità: la camera la avvolge in movimenti lenti, restituendone la regalità tragica, ma anche una sorta di paralisi emotiva. Nei confronti di Katerina, il film sembra evocare un’icona ortodossa: il suo volto è spesso in controluce, lo sguardo alto, come perso in un altrove spirituale. Ma anche qui, lo sguardo maschile ne fa un oggetto di contemplazione distante, mai pienamente accessibile.

Il cinema russo dostoevskijano, in generale, riprende la tensione del testo letterario tra il culto della purezza e la fascinazione per l’abiezione. Le donne appaiono spesso vittime ma mai passive, esposte ma non svelate. L’uso dei costumi – scuri, pesanti per Katerina; ricchi, quasi troppo vividi per Grušenka – contribuisce a rafforzare la dicotomia tra il sacro e il sensuale, come se ogni donna incarnasse una forma di teologia in conflitto.

Questa dialettica emerge con forza anche in adattamenti di altre opere dostoevskijane. In Delitto e castigo, per esempio, Sonja è filmata come un’apparizione fragile, spesso sfocata o in penombra, quasi sempre priva di contorno corporeo definito. La sua purezza, più che vissuta, è narrata – dalla regia, dallo sguardo maschile, e dal silenzio che la circonda. Si pensi alla versione di Lev Kulidžanov del 1969: Sonja vi è mostrata come una creatura di luce in uno spazio notturno, una figura che si muove con timidezza quasi irreale tra le rovine morali del protagonista. Ma anche qui, lo sguardo maschile la inquadra come salvatrice e sacrificabile al tempo stesso, come un corpo da cui trarre redenzione ma che, proprio per questo, perde quasi ogni agency autonoma.

Il maschile, nella regia russa, è dunque spesso il punto di vista dominante e ineludibile. La macchina da presa assume il punto di vista di Ivan, Dimitri, Raskol’nikov, e filtra le figure femminili attraverso la loro colpa, la loro crisi, il loro desiderio. Anche nei momenti in cui il film sembra voler dare spazio alla voce o allo sguardo delle donne, si percepisce sempre la mediazione di un universo narrativo e visivo maschile, dove la donna è evocata più che rappresentata, utilizzata come veicolo simbolico di una colpa o di una salvezza non sua.

Eppure, proprio in questa riduzione si apre uno spiraglio critico. Il cinema russo dostoevskijano, pur intriso di uno sguardo maschile dominante, mette in scena le contraddizioni di tale sguardo. Non nasconde la violenza simbolica che agisce sui corpi femminili, né l’inadeguatezza degli uomini a comprenderli pienamente. Le figure femminili, anche quando silenziose, emanano un’evidenza perturbante che la regia non riesce a pacificare. Esse eccedono il racconto, lo inquietano, lo contraddicono. Sono, in fondo, presenze irrisolte – come la verità che sfugge, come Dio che tace.

Il corpo e la malattia nei film tratti da Dostoevskij, soprattutto nelle trasposizioni russe, diventano veri e propri strumenti di significazione teologica, etica e politica. La corporeità è raramente solo fisiologica: è simbolo, è teatro del trauma, è soglia tra spirito e carne, tra dannazione e grazia. La regia russa, profondamente intrisa di cultura ortodossa e di una sensibilità visiva post-sacrale, fa del corpo – malato, ferito, deforme o represso – un luogo di rivelazione e, allo stesso tempo, di scandalo.

Prendiamo Delitto e castigo (1969) di Lev Kulidžanov: il corpo di Raskol’nikov è fin dall’inizio estraniato, scisso, nevrotico. Non è mai completamente a suo agio nel mondo, neanche prima del delitto. Il film ne accentua la postura inarcata, la camminata spezzata, l’espressione febbrile del volto. Raskol’nikov è mostrato come un corpo che soffre anche quando non ha ancora peccato, come se la colpa fosse già inscritta nella sua carne. La malattia – che nel romanzo è psichica ma anche sociale – è qui tradotta in una gestualità disturbata, in una camera che lo riprende spesso dall’alto, come schiacciandolo, oppure di lato, come a indicare il suo eterno fuori fuoco rispetto al mondo. L’ambiente claustrofobico in cui si muove (la sua camera-purgatorio) diventa estensione della malattia stessa, una prigione tanto visiva quanto ontologica.

Ancor più forte è la rappresentazione del corpo nel L’idiota di Ivan Pyryev (1958): qui il corpo epilettico del principe Myškin non è solo segno di vulnerabilità, ma anche di una grazia tragica, che richiama l’iconografia del Cristo dolente. La crisi epilettica, ogni volta che si manifesta, è mostrata non come un incidente narrativo ma come una soglia visionaria. Il viso di Myškin, nel momento del collasso, viene ripreso con un rallentamento del tempo, accompagnato da una dissolvenza luminosa che ne mitizza l’aspetto. La malattia, quindi, non è mai semplicemente realista. È l’indizio visibile di una verità invisibile – un’alterità che inquieta e affascina, che spinge gli altri personaggi verso la pietà o verso il rifiuto.

Ma è in I demoni di Andrzej Wajda (1971) – coproduzione sovietico-polacca dal tono cupamente allegorico – che il corpo malato diventa vero strumento politico. Qui, la febbre, la dissenteria, le convulsioni, ma anche l’eccesso nervoso, la smania sensuale, la fame e la follia sono tutti linguaggi del potere che si autodistrugge. Il corpo dei rivoluzionari è consumato da una tensione che non trova mai redenzione: è isterico, urlante, spesso ripreso in ambienti angusti e soffocanti, in pieno contrasto con la grandezza delle loro teorie. La regia di Wajda insiste su un’estetica del disfacimento, dove il corpo è campo di battaglia ideologico. Šatov e Kirillov sono figure che la macchina da presa fa lentamente decomporsi, come se l’idealismo stesso corrompesse la carne.

In tutte queste versioni, il corpo non è mai neutro. È il punto d’incrocio tra teologia negativa e materialismo dostoevskijano: la carne mostra il fallimento della ragione, ma anche la possibilità di una redenzione misteriosa. La malattia è il sintomo del male, ma talvolta anche il presagio della salvezza. E nella cultura russa, dove l’icona convive con il martirio, dove il corpo del santo è anche quello del folle, questa ambivalenza è accentuata con uno stile visivo austero, fatto di luci livide, primi piani prolungati, piani-sequenza lenti che obbligano lo spettatore a sostare sulla sofferenza senza indulgenza né catarsi.

Il corpo dostoevskijano, nel cinema, è dunque l’estensione della parola interrotta: un linguaggio primordiale che non spiega, ma mostra. E in questo mostrarsi, ferito e instabile, rende visibile l’invisibile – e mette lo spettatore dinanzi a una verità che non può guardare senza tremare.

Nel cinema delle trasposizioni delle opere di Dostoevskij, la voce e il silenzio non sono meri strumenti narrativi, ma divengono veri e propri motori drammaturgici, elementi capaci di rivelare la tensione tra l’individuo e la sua dimensione spirituale, sociale e psicologica. La regia, soprattutto nelle versioni russe, fa un uso intenso e simbolico di questi due strumenti, valorizzandoli non solo come espressione dei personaggi, ma come porte d’accesso alla profondità dell’animo umano, al conflitto esistenziale che pervade le opere dostoevskijane.

La voce, nel cinema dostoevskijano, non è mai neutra. Non è un semplice mezzo per veicolare un contenuto, ma diventa una manifestazione tangibile della psiche tormentata dei protagonisti. La scelta del tono, della cadenza e del timbro vocale diventa parte integrante della costruzione psicologica del personaggio. Si pensi, per esempio, al Raskol’nikov di Delitto e castigo (1969) di Lev Kulidžanov. La sua voce, cupa, incerta, talvolta spezzata da pause prolungate, non è solo il mezzo attraverso cui comunica con gli altri, ma anche la manifestazione della sua alienazione interiore. La sua espressione verbale è un eco della sua lotta interiore: ogni parola sembra a tratti una condanna, a tratti una speranza, ma sempre una forma di agonia. La recitazione vocale diventa qui una forma di trasmissione del conflitto psicologico del protagonista, una lotta tra l’autoinganno e la consapevolezza del peccato. La sua voce è in continua tensione con il silenzio che lo circonda, il silenzio che diventa la sua prigione interiore, dove ogni suono – ogni parola – è una violazione.

Nel L'idiota (1958) di Ivan Pyryev, la voce del principe Myškin è un altro esempio di come il suono diventa una manifestazione dell’idealismo e della fragilità del personaggio. La sua voce è chiara, calma, ma al contempo fragile, esprime una purezza che non riesce mai a trovare la sua collocazione nel mondo. L’uso di pause, la lenta modulazione del tono e l'assenza di enfasi diventano un contrasto stridente con la drammaticità degli eventi che lo circondano. Qui, la voce è la chiara espressione di una spiritualità che non riesce a conciliarsi con la realtà terrena, una realtà che continua a sfuggirgli, come se la sua voce fosse troppo "pura" per potersi adattare alla confusione morale degli altri personaggi.

Il silenzio, d'altra parte, nei film russi è l’elemento che più di ogni altro fa emergere la solitudine e l’angoscia esistenziale. È nel silenzio che si riflettono i tormenti interiori, e spesso diventa più eloquente di mille parole. Nei momenti di grande crisi, i personaggi dostoevskijani sono immersi in silenzi imponenti, carichi di significato. In I fratelli Karamazov di Pyryev (1969), per esempio, l’assoluto silenzio che segue il confronto tra i fratelli è come una lunga pausa sospesa, che permette allo spettatore di percepire la frattura irreparabile tra i personaggi. Il silenzio è la risposta a una tensione irrisolvibile, il vuoto che si insinua tra le parole e la loro incomunicabilità.

Nel Delitto e castigo di Kulidžanov, il silenzio è il compagno costante di Raskol’nikov, soprattutto nei suoi momenti di riflessione solitaria, quando la macchina da presa lo inquadra in primo piano, e l’ambiente circostante sembra svanire. La regia sa come sfruttare il silenzio per accentuare la sensazione di distacco, di isolamento. La sua mente è assediata dai pensieri, dalle colpe, e il silenzio diventa il medium attraverso cui questi conflitti si sviluppano, senza che nulla possa distoglierli. In questo silenzio, l’uomo non è mai "solo", ma si trova ad affrontare la sua solitudine più totale, quella spirituale.

Nelle opere di Dostoevskij, il silenzio ha una valenza quasi sacra. Esso rappresenta il divino, l’assoluto, ma anche il vuoto che si apre quando Dio tace. La silenziosità diventa anche una forma di protesta: quando i personaggi non parlano, si rifiutano di partecipare alla logica mondana, si ritirano nella loro intimità, lasciando che le emozioni non possano essere esplicitate. In un certo senso, il silenzio diventa anche una resistenza alla parola, una resistenza al linguaggio che, nel contesto dostoevskijano, è sempre rischioso perché porta con sé la possibilità di svelare l’impensabile.

La regia russa si fa maestra nell’arte di rendere questi silenzi visivi. La lentezza dei movimenti della macchina da presa, l’uso di inquadrature statiche o di dettagli che non chiedono di essere letti ma solo percepiti, crea un’atmosfera di riflessione interiore che non ha bisogno di spiegazioni verbali. Il silenzio non è mai vuoto, ma è colmo di significato. E così come le parole non sono mai banali, nemmeno il silenzio è privo di contenuto.

In definitiva, la voce e il silenzio nel cinema russo tratto da Dostoevskij non sono solo strumenti narrativi, ma divengono metafore della condizione umana, dell’inquietudine esistenziale, della lotta tra il bene e il male, tra la redenzione e la dannazione. Essi rappresentano la tensione costante tra la possibilità di esprimere e di comprendere l’individuo e la sua impossibilità di farlo, come se la lingua e il silenzio fossero due facce della stessa medaglia, entrambe fondamentali per esplorare la complessità dell’animo umano.

Nel cinema delle trasposizioni delle opere di Dostoevskij, il rapporto tra il sacro e il profano non è mai trattato come un semplice dualismo, ma come una tensione dialettica che pervade ogni aspetto visivo, narrativo e simbolico. La regia, in particolare nelle versioni russe, costruisce questo contrasto attraverso l'uso delle immagini, dei colori, degli ambienti, e soprattutto dei corpi dei personaggi, i quali spesso oscillano tra la dimensione terrena e quella spirituale, tra la miseria umana e la possibilità di salvezza. In questi film, la rappresentazione del sacro e del profano non si limita a un semplice conflitto tra bene e male, ma diventa un campo di battaglia dove la redenzione e la dannazione si intrecciano, si contaminano e si manifestano nelle sfumature più sottili.

Prendiamo, ad esempio, il Delitto e castigo di Kulidžanov, dove la figura di Raskol’nikov incarna questa tensione tra il sacro e il profano in modo emblematico. La sua vicenda si sviluppa come una continua oscillazione tra il suo tentativo di elevarsi spiritualmente, rifiutando le convenzioni sociali e morali, e il suo inevitabile ritorno alla carne, alla materia e al peccato. La regia russa sfrutta con intelligenza questo conflitto interiore, rappresentando Raskol’nikov come un personaggio continuamente diviso tra l’idea del sacrificio e la tentazione della violenza. La sua mente, turbata dalla colpa e dall’inquietudine, diventa un riflesso della lotta tra il divino e l’umano. L’ambientazione, con il suo uso di spazi angusti e soffocanti, riflette questa separazione tra il corpo e l’anima, tra la prigionia materiale e la possibilità di redenzione. La macchina da presa si sofferma su Raskol’nikov in momenti di profonda solitudine, dove il suo corpo, indebolito dalla fame e dalla malattia, appare come un simulacro della sua anima in rovina. Il suo silenzio e la sua angoscia sono il presagio di una possibile rivelazione spirituale, ma anche il segno della sua lontananza dalla salvezza.

In L’idiota di Pyryev, il contrasto tra il sacro e il profano è rappresentato attraverso la figura del principe Myškin, un personaggio che incarna la purezza e la spiritualità, ma anche la sua inadeguatezza nel mondo materiale. Myškin è un santo che non riesce a vivere secondo le convenzioni sociali, un uomo che, pur avendo la grazia divina, non può fare a meno di essere intrappolato nel caos delle emozioni umane e nei legami terreni. La sua innocenza e la sua vulnerabilità sono contrapposte alla corruzione del mondo che lo circonda, e la regia di Pyryev gioca con questa dicotomia, alternando momenti di serenità quasi mistica a scene di conflitto e sofferenza. Gli ambienti, a volte grandiosi e altre volte miserabili, riflettono questa lotta tra la bellezza celestiale e la brutalità della realtà terrena. La sua figura, pure in mezzo alla decadenza e alla passione, è spesso ripresa in luce soffusa, che la rende eterea, come se fosse una figura sacrale intrappolata in un mondo profano che non è in grado di comprendere.

Nel L’idiota di Kurosawa (1951), il contrasto sacro-profano è ancor più evidente, sebbene il regista giapponese introduca una dimensione simbolica orientale che si intreccia con il materiale dostoevskijano. La figura di Myškin diventa una sorta di Buddha tragico, intrappolato in un mondo che rifiuta la sua purezza e la sua ricerca spirituale. La regia di Kurosawa accentua la solitudine del personaggio, rappresentando le sue interazioni con gli altri come confronti tra una verità universale e un materialismo che nega ogni trascendenza. Gli spazi sono ampi e solitari, spesso con Myškin in primo piano, immerso in un silenzio che sembra essere una manifestazione della sua separazione dal mondo terreno, eppure anche un segno della sua impossibilità di abbandonare completamente la sua umanità.

Il contrasto tra sacro e profano raggiunge il suo apice nell’adattamento de I demoni di Andrzej Wajda, dove la rivoluzione e l’ideologia radicale sono viste come una perversione del sacro, una contaminazione dell’anima umana da parte della violenza politica. In questo film, il sacro è rappresentato come un ideale intangibile, mentre il profano emerge come una forza di distruzione: la lotta per il potere si fa carne, e il corpo dei protagonisti è la rappresentazione visiva di questa corruzione spirituale. La regia di Wajda gioca con le luci e le ombre per accentuare la distorsione delle figure, creando una sorta di parodia della salvezza che viene offerta, ma rifiutata, dai protagonisti. Il contrasto tra il sacro e il profano si manifesta anche nei paesaggi desolati, in cui la vastità del cielo e delle pianure sembra contrastare con la miseria interiore dei personaggi. Questi spazi, che a tratti evocano la spiritualità cristiana ortodossa, sono svuotati di ogni senso di speranza, e divengono il simbolo di un mondo senza redenzione.

La regia russa, in particolare, è maestra nell’utilizzare il paesaggio e l’ambiente per visualizzare questa tensione tra sacro e profano. La luce, le ombre, i colori e l’uso degli spazi diventano strumenti per esprimere il conflitto interiore dei personaggi, tra la ricerca della salvezza e la caduta nella miseria umana. Gli spazi sono quasi sempre desolati o claustrofobici, amplificando il senso di solitudine e l’incapacità dei personaggi di trovare un rifugio spirituale. La luce è spesso gelida, quando non è accecante, creando una distanza tra i personaggi e il divino, ma anche tra loro e la possibilità di una comprensione reciproca. Questi elementi visivi non solo riflettono l’interiorità dei protagonisti, ma sembrano suggerire che il sacro, pur essendo presente, è inaccessibile, distante, e che la redenzione è sempre in bilico, come una possibilità mai realizzata, ma neppure definitivamente perduta.

La regia russa di Dostoevskij, quindi, usa il paesaggio e gli spazi come metafore del viaggio spirituale dei personaggi. L’ambiente diventa specchio dell’anima, ma anche prigione di essa. La tensione tra il sacro e il profano è più che una contrapposizione morale: è una lotta ontologica, in cui l’individuo è costantemente sospeso tra l’aspirazione a una dimensione trascendente e la realtà delle sue debolezze e delle sue colpe terrene.

L’analisi della psicologia dei personaggi nelle trasposizioni cinematografiche russe delle opere di Dostoevskij rivela una profonda interconnessione tra il peccato e la redenzione, che non si limitano a essere concetti morali o religiosi, ma diventano espressione di una lotta psicologica, esistenziale e metafisica. Nella rappresentazione del peccato e della redenzione, il cinema russo esplora non solo le dinamiche tra i personaggi, ma anche la loro percezione della sofferenza, della colpa e della speranza. Ogni figura, in modo diverso, è intrappolata nella propria angoscia interiore, un conflitto che la regia evidenzia sia attraverso le scelte stilistiche che attraverso la costruzione dei personaggi stessi, che non si presentano mai in modo unidimensionale, ma sempre attraversati da contraddizioni che riflettono la condizione umana.

Ne I fratelli Karamazov di Zviagincev, ad esempio, la figura di Dmitrij è una manifestazione del peccato come tensione tra la carne e lo spirito. La sua passione per il piacere e la sua lotta con la legge divina si esprimono in un corpo inquieto, costantemente in movimento, in lotta contro se stesso. La sua psicologia è quella di un uomo che rifiuta la moralità tradizionale e cerca di trovare una risposta alla sua esistenza nel soddisfacimento dei desideri carnali. Tuttavia, la sua tragica incomprensione della sua stessa natura lo condanna a un destino di sofferenza, che diventa il punto di partenza per una possibile redenzione. La regia di Zviagincev, attraverso l’uso di ampie inquadrature che isolano il protagonista nel paesaggio, suggerisce la sua solitudine esistenziale. La luce fredda, che spesso sovrasta il volto di Dmitrij, rappresenta simbolicamente l’indifferenza del divino e la sua separazione dalla salvezza. Tuttavia, nella sua disperazione, c’è anche la possibilità di un ritorno alla grazia, che si manifesta nei momenti di silenzio e riflessione, e nel suo sguardo che, nei momenti di crisi, sembra cercare qualcosa di più grande di lui.

Il peccato di Raskol’nikov in Delitto e castigo è un altro esempio di come il cinema russo ritragga la lotta psicologica tra la ricerca di giustificazione per le proprie azioni e la consapevolezza della propria colpa. Nella versione di Delitto e castigo di Kulidžanov, la regia è estremamente attenta a rappresentare la progressiva discesa di Raskol’nikov nella follia, dove la sua coscienza si frantuma sotto il peso del suo crimine. La sofferenza psicologica del protagonista è resa attraverso il montaggio e la scelta di inquadrature strette, che mostrano il suo volto tormentato, sudato e pallido, immerso in una realtà che sembra sfuggirgli. Ogni sua azione, ogni movimento, sembra essere un tentativo di espiazione, ma anche un riflesso di un’ineluttabile discesa nel peccato. La sua visione del mondo è distorta dalla sua incapacità di accettare la propria colpa, e la sua redenzione, che avviene solo attraverso il confronto con la realtà della sua umanità e la sua debolezza, è rappresentata come un atto doloroso e solitario.

La figura di Sonia, che incarna la possibilità di redenzione attraverso la sofferenza e l’amore, non è mai un semplice contrasto alla figura del peccatore. In Delitto e castigo, la sua psicologia è complessa e ambivalente, come lo sono le sue scelte. La sua dedizione alla fede e al perdono non è un’adesione semplice o acritica ai principi religiosi, ma è un atto di grande umanità, che nasce dal riconoscimento della miseria e della sofferenza umana. La sua figura, nella regia russa, è quasi sempre filmata in momenti di grande intimità, con un’illuminazione calda che contrasta con le atmosfere gelide che circondano gli altri personaggi. La sua espressione, sempre di una dolcezza tormentata, suggerisce una forza interiore che nasce dalla sua capacità di perdonare e di accettare la sofferenza, ma anche dalla sua consapevolezza della necessità di abbandonarsi alla volontà divina. La sua psiche è quella di una donna che vive in tensione tra la rassegnazione alla sofferenza e la speranza di una salvezza che arriva solo attraverso la purificazione del corpo e dell’anima.

Nel Grande Inquisitore di I demoni, la figura del Inquisitore stesso è la personificazione della condizione umana intrappolata nel peccato e nel potere. La sua psicologia è un intreccio di ragioni politiche, morali e religiose che cercano di giustificare la sofferenza e l’oppressione come parte di un ordine superiore. La sua logica è quella di un uomo che ha rifiutato la libertà dell’individuo in nome di una salvezza collettiva, ma che, in fondo, si rende conto di quanto la sua visione sia distorta. La sua lotta interiore, che la regia esplora attraverso il volto impassibile e freddo dell’attore, è quella di un uomo che ha sacrificato la sua umanità nel tentativo di servire Dio, ma che ha perso il contatto con la sua vera missione. La sua figura è un monito contro l’inganno del potere e della razionalizzazione del peccato.

Infine, il Gran Inquisitore non può essere separato dalla sua interazione con Cristo, che rappresenta l’altro aspetto del peccato e della redenzione: la libertà di scelta. In molte trasposizioni cinematografiche, la figura di Cristo è rappresentata come un personaggio in ascolto, paziente, che non impone la propria salvezza, ma lascia che l’uomo si confronti con la propria miseria e la propria possibilità di salvezza. Questo contrasto di psiche tra il Gran Inquisitore, che vuole costringere l’uomo alla salvezza, e Cristo, che offre libertà, è il cuore di ogni trasposizione cinematografica.

In generale, il cinema russo di Dostoevskij dipinge i personaggi come esseri psicologicamente complessi, intrappolati in un conflitto continuo tra peccato e redenzione, ma anche come individui alla ricerca di una forma di verità che li possa liberare dalla sofferenza e dalla solitudine. L’esperienza di sofferenza, nei suoi vari stadi, non è solo una condanna ma anche una via di purificazione, e la redenzione non è mai un semplice atto di grazia divina, ma un cammino doloroso di accettazione della propria umanità.