giovedì 6 novembre 2025

Brad Davis: il corpo come verità



Brad Davis non fu soltanto un attore, ma un segno del suo tempo: un corpo esposto, febbrile, in cui la violenza della giovinezza americana degli anni Settanta trovava una voce e una ferita. La sua traiettoria – luminosa, improvvisa, e poi dolorosamente autodistruttiva – resta una delle più emblematiche del cinema di quell’epoca che oscillava tra rivoluzione e smarrimento, tra il disincanto del Vietnam e la promessa fragile della liberazione sessuale.

Nato nel 1949 a Tallahassee, in Florida, come Robert Creel Davis, crebbe in un ambiente domestico dove l’amore era una cosa distorta e il silenzio pesava come una condanna. Il padre, Eugene, un dentista rispettato, cominciò presto a cedere all’alcol, mentre la madre, Anne Creel, ex attrice dalla bellezza sfiorita, viveva di rimpianti e nevrosi. In quella casa calda e inquieta, l’arte era un sogno infranto, e la violenza psicologica una consuetudine. Più tardi, il New York Times avrebbe raccontato ciò che Brad non disse mai apertamente: da bambino fu vittima di abusi da parte della madre. Una verità inaccettabile, che getta una luce tragica su tutto ciò che verrà dopo. È come se la sua vita intera fosse stata un modo per liberarsi da quel primo tradimento, per ricrearsi una pelle diversa, non contaminata.


Durante l’adolescenza, Brad mostrò una vitalità inquieta. Era brillante, impulsivo, spesso ribelle, ma anche capace di un’intensità che incantava. A diciassette anni vinse un concorso di talenti musicali ad Atlanta, e quel piccolo trionfo divenne una fuga. Al Theatre Atlanta trovò un rifugio: il palcoscenico era l’unico luogo in cui le ferite non facevano male. Il teatro gli offriva una lingua per esprimere l’indicibile, per tradurre il dolore in gesto, la rabbia in voce. Da lì la decisione di lasciare la Florida per New York – una città che a fine anni Sessanta ribolliva di desiderio, fame d’arte e trasgressione – fu quasi inevitabile.

A New York studiò all’American Academy of Dramatic Arts e poi all’American Place Theater, dove imparò che recitare non significava fingere, ma esistere in modo più intenso. In quegli anni cambiò anche nome: “Bobby” divenne “Brad”. Era una reinvenzione identitaria, un taglio netto col passato e con la provincia. Brad Davis nasceva lì, tra i vicoli sporchi e i sogni sconnessi di Manhattan, con la certezza che l’arte potesse essere una forma di sopravvivenza.


Gli inizi furono faticosi: piccole parti televisive, soap opera come How to Survive a Marriage, spettacoli off-Broadway che gli consentivano di vivere a stento, ma che gli restituivano un senso di appartenenza. Nella scena newyorkese di allora, sospesa tra la ribellione post-hippie e l’ombra crescente dell’eroina, Brad trovò un proprio spazio, attratto dai personaggi inquieti, dalle storie di dolore e riscatto. Aveva un talento raro, istintivo, fisico, e uno sguardo che sembrava sempre sul punto di spezzarsi.

Il successo esplose nel 1978 con Fuga di mezzanotte di Alan Parker. Interpretava Billy Hayes, un giovane americano imprigionato in Turchia per traffico di droga, sottoposto a torture e privazioni disumane. La sua interpretazione era così vera da sembrare un urlo strappato al reale: in quella doccia bollente, in quella nudità violata, c’era tutto Brad Davis, con la sua rabbia, la sua paura, la sua dolcezza ferita. Vinse il Golden Globe come miglior attore emergente e divenne, da un giorno all’altro, il volto della ribellione disperata.


Ma il successo lo lasciò nudo davanti ai suoi demoni. L’alcol e la droga, che erano stati compagni di gioventù, tornarono a divorarne l’equilibrio. C’erano giorni di euforia seguiti da abissi di depressione. La fama non bastava a sanare la frattura interiore che lo attraversava da sempre. L’America, intanto, cambiava: gli anni Settanta si spegnevano nel riflusso conservatore, e quella libertà selvaggia che il corpo di Brad aveva incarnato sullo schermo cominciava a sembrare una minaccia.

Dopo Fuga di mezzanotte, lavorò a Radici, una delle prime serie televisive che affrontava la storia della schiavitù con uno sguardo critico, e poi accettò il ruolo più audace della sua carriera: Querelle (1983) di Rainer Werner Fassbinder. Era un film impossibile, torbido, sensualissimo, tratto da Jean Genet, e per Brad significò entrare nel territorio della leggenda. In quella ambigua e splendida figura di marinaio, Fassbinder vide il simbolo dell’eros e della colpa, del desiderio come condanna. Brad, con la sua carne perfetta e il suo sguardo ferito, ne fece un personaggio indelebile. L’immagine di Querelle – le labbra socchiuse, il cappello bianco, la pelle bagnata di sudore – lo consacrò come un’icona gay, anche se lui non cercava etichette. In quell’epoca in cui l’omosessualità era ancora una frontiera pericolosa a Hollywood, Davis divenne, suo malgrado, un simbolo di libertà.


Nel 1985, l’anno in cui gli venne diagnosticato l’AIDS, fu chiamato da Larry Kramer per interpretare il protagonista di The Normal Heart, una pièce che urlava rabbia e verità in un mondo che voleva voltarsi dall’altra parte. Brad recitava come se sapesse di non avere molto tempo. La malattia cominciava a diffondersi nell’indifferenza generale, e lui, pur sapendo di essere contagiato, tenne segreta la diagnosi. Continuò a lavorare, a cercare ruoli, ma anche a proteggere la sua famiglia: aveva sposato Susan Bluestein, con cui ebbe un figlio, Alex, e insieme scelsero il silenzio, per paura del marchio, del pregiudizio, dell’isolamento che colpiva chiunque fosse malato.

A differenza di molti colleghi, Brad affrontò la malattia con una lucidità straziante. Nei diari privati, raccontò la degradazione del corpo, la fatica dei giorni, ma anche la volontà di non essere ridotto a un simbolo di pietà. Quando nel 1991 le sue condizioni peggiorarono, scelse di lasciare l’ospedale e di morire in casa. Si tolse la vita assumendo una dose letale di morfina, “perché non sopportava di morire lentamente”, scriverà la moglie. Non fu un gesto disperato, ma un atto di controllo, di dignità. Brad Davis voleva decidere il proprio finale.


La stampa parlò di suicidio, ma la sua storia fu presto inghiottita dal silenzio. L’America, all’epoca, non sapeva come ricordare un attore morto di AIDS: troppo scomodo, troppo vero. Eppure, col passare degli anni, la sua figura ha assunto un’aura quasi mitica. I giovani registi e attori lo riscoprono come un simbolo di integrità emotiva, di autenticità assoluta. C’è in lui qualcosa di pasoliniano: il corpo come destino, la carne come linguaggio, la verità come scandalo.

Guardando oggi Fuga di mezzanotte o Querelle, è impossibile non sentire quella vibrazione che lo attraversava: un’energia disperata, quasi mistica, che confonde desiderio e dolore. Brad Davis recitava come si vive, senza rete. Non era un attore che interpretava i ruoli: li incarnava fino a bruciarsi. La sua bellezza – virile ma fragile, ambigua e intensamente umana – fu il suo dono e la sua condanna.


Morì a quarantadue anni, ma il suo volto rimane impresso come un graffio nella memoria del cinema. Ogni volta che il suo Billy Hayes grida nella prigione di Istanbul, o che Querelle si abbandona al mare dei corpi e del peccato, Brad Davis ci parla ancora, come se non fosse mai uscito da quella doccia bollente, da quella luce lattiginosa che lo avvolge per sempre. È la voce di un’epoca che non sapeva ancora come guardare il dolore senza voltarsi, e di un uomo che, anche morendo, scelse la verità invece della menzogna.