venerdì 14 novembre 2025

Il peso invisibilmente gratuito della parola


È diventato fin troppo facile pensare che la parola sia una risorsa naturale, una specie di sorgente inesauribile che sgorga da sé, senza sforzo e senza pretese. Nel giro di pochi anni si è creata una cultura che tratta i testi come aria: indispensabili, certo, ma talmente disponibili da sembrare privi di valore. Il risultato è un paesaggio strano, dove chi legge non sente più il peso della scelta e chi scrive finisce per comportarsi come se il proprio lavoro fosse un gesto spontaneo, un riflesso, qualcosa che “tanto farebbe comunque”.

Questo equilibrio viziato nasce da una serie di abitudini sottili, all’apparenza innocenti. Piccoli gesti ripetuti ogni giorno che hanno trainato un’intera percezione sociale. La gratuità è diventata talmente pervasiva da sembrare un diritto naturale del lettore, mentre per chi scrive è diventata una disciplina silenziosa. Non è più una rinuncia, né un sacrificio: è un automatismo. Si produce, si pubblica, si offre, come se l’atto stesso della scrittura giustificasse la sua gratuità. Come se il lavoro creativo, proprio perché nasce da una dimensione intima e appassionata, non dovesse più essere riconosciuto come lavoro.

È un paradosso tutto contemporaneo: più la parola è necessaria, più la si consuma; più la si consuma, meno la si considera. E in questo scarto tra valore intrinseco e valore riconosciuto si crea una terra desolata, una zona d’ombra in cui ciascuno si abitua a guadagnare meno, pretendere meno, aspettarsi meno. Si confonde la facilità dell’accesso con la facilità della produzione, come se un testo apparisse nel mondo con la leggerezza di un clic e non attraverso la lenta macinazione del tempo, della formazione, della revisione, della sensibilità.

Se si guarda da vicino, questa situazione trascina con sé un impoverimento generale. Il lettore non è più chiamato a scegliere: prende ciò che arriva, come arriva, senza distinguere ciò che è frutto di dedizione da ciò che è solo rapidità. Lo scrittore, invece, si ritrova spesso sospeso in un limbo di generosità forzata, dove produrre non basta mai, e dove il riconoscimento economico sembra un dettaglio imbarazzante. È una forma di cortesia che però consuma. Una forma di disponibilità che logora.

Eppure, non c’è nulla di naturale in tutto questo. È una costruzione culturale recente, quasi figlia dell’euforia digitale, e proprio per questo suscettibile di essere messa in discussione. Basta guardarla da fuori per sentire l’assurdità di un sistema in cui un muratore non costruirebbe mai un muro gratuitamente, un panettiere non regalerebbe mai il pane per farsi conoscere, e un medico non visiterebbe “per amore della professione”. Solo chi scrive viene persuaso, o si persuade, che il proprio lavoro debba essere offerto come un dono.

Riflettere su questo non significa lamentarsi, ma riconoscere l’esistenza di un nodo culturale profondo. Significa restituire peso a ciò che lo schermo ha reso impalpabile. Significa ricordare che dietro ogni parola c’è un corpo che ha vissuto abbastanza per distinguerla da un’altra, un tempo sottratto ad altro, una vita che ha accumulato abbastanza silenzi per sapere quando parlare. E che ogni testo, anche quando scorre leggero, è frutto di un lavoro che merita di essere visto, riconosciuto, rispettato.