Non era più il sole a definire le nostre giornate, e nemmeno il ritmo consueto delle stagioni. Qui, in questo lembo di terra sospeso tra nebbia e campi aridi, il tempo si piegava su se stesso, diventava lento, vischioso, un fluido che si insinuava tra i fossi, tra le siepi malamente curate, tra i margini delle strade che si perdevano nello spazio come linee d’inchiostro cancellate dalla pioggia. Io me ne accorgevo solo quando camminavo da solo verso il piccolo argine che costeggia il Ticino, un argine piegato e sinuoso, dove il fiume, nel suo corso lento e freddo, rifletteva un cielo che non prometteva nulla, che non annunciava nulla, eppure parlava di tutto. E in mezzo a questa sospensione, a questo silenzio che non è mai vuoto ma sempre denso, ci incontravamo io e lui, come ogni volta, per parlare di ciò che non si può toccare direttamente, di ciò che vibra dentro, di ciò che la lingua non osa formulare del tutto, perché troppo fragile o troppo potente, o forse entrambe le cose insieme.
Parlavamo di tempo, ma non come chi misura le ore o conta le stagioni con precisione da orologiaio: il nostro tempo era liquido, si attardava nelle pozzanghere che riflettevano cieli inestricabili, si infilava tra le canne dei fossi che il vento piegava come fossero fili di seta, si annodava nei ricordi di un’estate che, pur appena trascorsa, appariva già lontanissima, come se fosse appartenuta a un mito che nessuno racconterà mai. Ogni parola era sospesa, ogni pausa un confine tra ciò che esiste e ciò che potrebbe esistere, tra la realtà del presente e il fantasma dei desideri non formulati. E allora il nome di Lucio Mastronardi emergeva di tanto in tanto nelle nostre conversazioni, non come riferimento biografico, ma come eco di un’anima che forse non si sentì mai a casa in questo paesaggio e che, comunque, lo percorse con un’adesione edonistica, con i sensi vigili e il cuore come sospeso, morto e vivo allo stesso tempo, proprio in mezzo a questa landa di nebbia, sabbia senza mare, strade scure, albe uggiose, soli disagiati che non illuminano ma insinuano domande nei cuori di chi osserva.
E allora, inevitabilmente, venivano fuori i due termini — notturno e diurno, piovoso e solare — che qui non si contrappongono mai davvero ma si compenetrano, si sovrappongono, si fondono come se fosse impossibile separarli. Il piacere e il dolore, l’estasi e la desolazione, il desiderio e la rinuncia: tutto sembra dialogare, tutto sembra muoversi nello stesso simbolo cosmico, in un intreccio che non si risolve mai, perché qui ogni contrapposizione è già di per sé un incontro. Io e lui sorridevamo di questa coincidenza, di questa armonia nascosta, della capacità del paesaggio di suggerire più che di raccontare, di insinuare la presenza dei corpi e dei sentimenti senza mostrarli apertamente, senza doverli nominare, perché l’aria stessa li contiene, li respira, li trasmette al di là delle parole.
Non era un discorso filosofico, eppure ogni parola aveva un peso, una gravità che si estendeva oltre il suono della frase. Ogni silenzio si caricava di significato, ogni esitazione era un gesto di precisione, ogni sguardo un’indagine sul senso del mondo. Il nostro parlare era un gioco di aperture e chiusure, di concessioni e ritiri, un flusso continuo in cui le intenzioni si mescolavano con le percezioni, con le impressioni fugaci, con gli odori e i colori che ci circondavano. Parlare significava esplorare un territorio invisibile, un paesaggio interiore che si sovrapponeva a quello reale, dove la città ostile, grigia, sironiana nelle sue facciate scure, conviveva con la campagna che ricordava De Pisis o Caravaggio, con i colori smorzati dal tempo, con i profumi di terra e fieno che stimolavano il desiderio di fuga, di abbandono, di incontri rapidissimi che rimangono impressi come segni indelebili nel corpo e nella memoria.
Parlavamo a lungo, senza meta apparente, eppure ogni frase conteneva un universo di riferimenti impliciti, di ricordi, di sensazioni mai nominate, di fantasmi che abitano le parole e che rendono ogni discorso un rituale. Non c’era bisogno di conclusione, perché il senso del dialogo risiedeva nella sua stessa continuità: ogni parola era una piccola ribellione, ogni silenzio una piccola vittoria sull’ovvio e sull’inerzia del mondo circostante. Era come un ponte sospeso, fragile e insieme stabile, tra la realtà concreta e il possibile altrove, tra il corpo reale e quello immaginario, tra la memoria e la percezione. E così ritornavano inevitabilmente i simboli del movimento: il treno per Milano, la fuga verso l’ignoto, la bicicletta lungo il Ticino, la stazione dove si aspetta, talvolta per ore, che qualcuno ti noti, che ti conduca in una strada polverosa, lontana, dove l’incontro sessuale diventa velocissimo, urgente, inevitabile, in piena luce, come un rito di giovinezza perduta che sembra impossibile ritrovare altrove.
Ogni discussione, così, era un rituale che ci permetteva di esistere, di attraversare il tempo senza subirlo, di percepire la possibilità di un’assenza e di una presenza simultanee. Tutto ciò che passava davanti ai nostri occhi — stagioni, paesaggi, nuvole, alberi, campi — era filtrato dalla percezione dei nostri corpi e dei nostri desideri, e il valore del discorrere stava proprio in questo: creare uno spazio di libertà, di possibilità, di formula aperta, di soluzione immaginabile. La parola era una chiave, e il silenzio un’altra, e insieme permettevano una transizione, un breve trapasso, un gioco di corpi e sensazioni, di tenerezze inespressi, di eros non dichiarato.
Era il parlare di tutto e del contrario di tutto, del nostro esserci e non esserci mai pienamente, del riconoscersi in un mondo che non ci protegge ma che ci consente di attraversarlo, di sentirne i confini, le ambiguità, le prospettive multiple. Ogni gesto, anche minimo, ogni parola pronunciata o taciuta, era un segno di esistenza, un riconoscimento della possibilità dell’altro, un testimone di ciò che non può essere catturato ma che è reale, tangibile nella memoria, nella percezione, nella pelle.
E così, alla fine, tra nebbia e strade scure, tra albe uggiose e soli disagiati, tra il silenzio dei campi e il rumore di una città assente e ostile, io e lui continuavamo a parlare, continuavamo a costruire simboli, a riconoscere il movimento, a misurare il tempo e la vita non con gli strumenti del mondo, ma con la possibilità di esserci, di amare, di sfuggire, di tornare. Ogni frase era una dichiarazione, ogni sospensione un atto di libertà, ogni sguardo uno specchio in cui il mondo si rifletteva, deformato eppure perfetto nella sua imperfezione, nell’infinita possibilità di essere attraversato, compreso e sentito.
Era l’amore per noi stessi, per questo esserci, ignoranti e ignorati, e insieme la consapevolezza che la parola, pronunciata o taciuta, poteva attraversare ogni spazio, ogni stagione, ogni distanza, e lasciare un segno invisibile ma eterno, un segno che non ha bisogno di forme convenzionali per essere compreso, un segno che è la vita stessa, con tutto il suo piacere, dolore, movimento, desiderio e memoria.