Anna Maria Ortese [A proposito di Napoli] Ho abitato a lungo in una città veramente eccezionale. Qui [...] tutte le cose, il bene e il male, la salute e lo spasimo, la felicità più cantante e il dolore più lacerato, [...] tutte queste voci erano così saldamente strette, confuse, amalgamate tra loro, che il forestiero che giungeva in questa città ne aveva, a tutta prima, una impressione stranissima, come di un'orchestra i cui strumenti, composti di anime umane, non obbedissero più alla bacchetta intelligente del Maestro, ma si esprimessero ciascuno per proprio conto suscitando effetti di una meravigliosa confusione [...]
Quando Anna Maria Ortese scrive di Napoli, non ci restituisce mai una città pacificata, riducibile a immagine turistica o stereotipo. Nelle sue pagine, Napoli appare come un’entità “eccezionale”, per usare le sue stesse parole: un luogo che non assomiglia a nessun altro, dove il bene e il male, la felicità più luminosa e il dolore più lacerante, convivono in una fusione inestricabile. È già questo intreccio a colpire: non il contrasto, non la dialettica, ma la coabitazione, il farsi tutt’uno degli opposti.
L’immagine dell’orchestra priva di maestro che la scrittrice ci offre è eloquente: gli strumenti – le anime umane, le vite singole – suonano ciascuno per conto proprio. Non c’è bacchetta a dirigere, non c’è intelligenza superiore a ordinare. Ne risulta un caos, sì, ma un caos vitale, fecondo, che produce una “meravigliosa confusione”. Ecco la cifra della Napoli ortesiana: città che disorienta, che travolge, ma che, proprio nel suo disordine, esprime una bellezza unica, irriducibile.
Ortese sottolinea che questa impressione colpisce soprattutto il forestiero, colui che non appartiene alla città. Ma chi è davvero forestiero a Napoli? In un certo senso, persino chi vi nasce e vi cresce rimane sempre un po’ straniero, perché Napoli non si lascia mai del tutto possedere. È una città che accoglie e respinge, che incanta e ferisce, e che si offre in una pluralità di volti mai riconducibili a uno solo.
Ortese stessa, pur avendo abitato a lungo in città, si colloca in una posizione liminare: partecipe e insieme estranea. Non è mai completamente “dentro”, non diventa mai portavoce identitaria, ma neppure osservatrice distaccata. Vive Napoli come un esilio abitato, come un amore che non concede pace. Questo sguardo “da dentro e da fuori” le permette di cogliere l’essenza della città meglio di molti altri scrittori: non un oggetto da descrivere, ma una vibrazione da attraversare.
La metafora orchestrale porta con sé una visione più ampia. Napoli non è una somma di individui, ma un organismo collettivo. Ogni voce individuale contribuisce a una coralità dissonante. Non c’è maestro, ma c’è una totalità che si fa sentire ugualmente. È una concezione vicina al modo in cui Ortese guarda al mondo intero: non come sistema ordinato da un’intelligenza superiore, ma come insieme di voci che convivono in apparente anarchia.
Qui emerge un tratto metafisico: Napoli non è solo una città concreta, è immagine del cosmo stesso, della vita come fusione di elementi discordanti. Non si può ridurre a logica o a razionalità, bisogna ascoltarla con un orecchio capace di cogliere la bellezza della confusione.
Il cuore di questa visione trova la sua espressione più compiuta in Il mare non bagna Napoli. Pubblicato nel 1953, il libro ha imposto la Ortese come una delle voci più radicali e visionarie della letteratura italiana del secondo Novecento.
Il titolo stesso è già un manifesto: un paradosso, un rovesciamento. Come può Napoli, città adagiata sul mare, essere non-bagnata dal mare? È l’immagine di una promessa mancata, di una bellezza naturale che non riesce a salvare, a purificare, a lambire la città interiore. Il mare resta lontano, come lontana resta ogni possibilità di riscatto.
Eppure, anche in questo scenario di miseria e dolore, la scrittrice coglie una vitalità irriducibile. Non c’è mai riduzione a pura negatività. C’è dolore, ma c’è anche canto; c’è spasimo, ma c’è anche salute; c’è disperazione, ma c’è anche felicità cantante.
La fusione di felicità e dolore è una delle intuizioni più potenti di Ortese. Napoli è la città in cui il dolore non spegne il canto, ma lo alimenta. È la città delle canzoni che nascono dalla ferita, che trasformano la sofferenza in arte, che fanno della malinconia una melodia universale.
La cultura napoletana, con la sua musica, con la sua teatralità, con la sua capacità di esprimere il tragico attraverso il comico, conferma questa visione. Napoli canta perché soffre, soffre perché ama, e tutto si fonde in un unico respiro.
Ciò che distingue Ortese è la capacità di partire da osservazioni reali (la miseria, la violenza, le contraddizioni sociali) e trasfigurarle in visione poetica e metafisica. La sua Napoli non è mai ridotta a cronaca: è sempre elevata a simbolo universale.
Questo passaggio dalla realtà al mito la avvicina, più che ai narratori realisti, a scrittori come Kafka o come García Márquez, dove la concretezza si fa allegoria. Così, Napoli diventa l’immagine del mondo intero, la città che contiene tutte le città.
Tutto questo è reso possibile da una virtù fondamentale della Ortese: la compassione. Il suo non è sguardo di giudizio, né di distacco, ma di partecipazione empatica. Non giudica il caos, non condanna la confusione: la ama, la abbraccia, la riconosce come parte dell’essere.
Questa compassione si estende non solo agli esseri umani, ma agli animali, ai dimenticati, ai marginali. È lo stesso sguardo che in altri libri la porta a parlare di gatti, di creature minime, con lo stesso rispetto con cui parla degli uomini. Napoli, allora, diventa il luogo in cui questo sguardo compassionevole si allena, si esercita, si amplifica.
Il modo in cui Ortese guarda Napoli è lo stesso con cui costruisce i suoi romanzi più visionari, come L’iguana o Il cardillo addolorato. La realtà non è mai chiusa, mai ridotta a univocità: è sempre metamorfica, sempre aperta, sempre confusione meravigliosa.
In questo senso, la Napoli ortesiana non è che una declinazione di un tema più ampio: il mondo come insieme dissonante, non governato da un Maestro, ma libero di esprimersi nelle sue infinite voci.
Quando Il mare non bagna Napoli fu pubblicato, la ricezione critica non fu semplice. Molti napoletani si sentirono offesi: la città sembrava rappresentata solo nella sua miseria, nella sua crudeltà. In realtà, pochi compresero che Ortese non faceva un atto d’accusa, ma di amore profondo, un amore ferito che vedeva nella città la rappresentazione stessa della condizione umana.
Questa incomprensione segnerà a lungo la sua carriera: scrittrice scomoda, inclassificabile, non piegata alle logiche del mercato letterario. La sua Napoli, proprio perché non riducibile a stereotipo, risultava disturbante.
Al fondo, l’idea centrale è che la confusione non sia difetto, ma verità dell’esistenza. L’ordine, la razionalità, la bacchetta del Maestro sono illusioni. La vita è orchestra dissonante, fusione di voci autonome, caos vitale. Napoli, in questo senso, è rivelazione: mostra senza veli ciò che altrove si nasconde sotto maschere di ordine apparente.
Per Ortese, dunque, Napoli non è solo una città reale, ma un archetipo universale: la città che meglio di ogni altra incarna la condizione umana. È laboratorio dell’anima, palcoscenico del mondo, teatro in cui felicità e dolore recitano insieme.
La Napoli di Anna Maria Ortese è orchestra senza maestro, confusione meravigliosa, caos che si fa canto. È città irriducibile a razionalità, città che si deve vivere più che comprendere.
In fondo, la sua descrizione vale come definizione della vita stessa: un insieme di voci che non obbediscono a un ordine superiore, ma che, nella loro anarchia, producono comunque bellezza. La vita come Napoli: un caos doloroso e cantante, un dolore felice, una felicità ferita.