Parte I – Introduzione
Quando si pronuncia il nome di Anna Maria Ortese, inevitabilmente ci si confronta con una voce che sembra appartenere a un altro tempo e a un altro spazio, eppure sorprendentemente attuale. La sua scrittura non è mai stata solo narrativa: è stata un atto di testimonianza, una battaglia morale, una ribellione contro un mondo che, spesso e con leggerezza, consuma la vita dei più fragili. Parlare oggi della lezione di Ortese significa allora parlare non soltanto di letteratura, ma di etica, di coscienza sociale, di responsabilità civile. La sua opera si offre come uno specchio in cui riflettere le tensioni e le violenze nascoste della società contemporanea, quelle che non compaiono nei titoli dei giornali ma che incidono profondamente sulla vita di chi è indifeso.
C’è un’espressione che ho pensato e che colpisce come una lama nella carne: “eutanasia degli indifesi”.
Ortese non intendeva descrivere un gesto isolato, bensì una condizione sistemica, una costante della società: l’abbandono dei più fragili, l’invisibilizzazione di chi non ha voce né potere. Questa eutanasia non è necessariamente fisica; è morale, culturale, esistenziale. Significa che chi non è in grado di difendersi viene progressivamente escluso, privato di attenzione, di dignità, di futuro. È la condizione di chi è invisibile agli occhi della maggioranza, eppure presente in maniera dolorosa e ingombrante, come un fantasma che la società rifiuta di riconoscere.
Il paradosso di questa diagnosi sta nel suo carattere profetico. Quando Ortese scriveva, denunciava gli scarti umani nella Napoli degli anni Cinquanta e Sessanta, ma ciò che colpisce oggi è come la sua analisi ci raggiunga intatta, in tutta la sua precisione. Pensiamo alle minoranze contemporanee: migranti costretti a sopravvivere in campi profughi o nei corridoi dell’Europa, giovani esclusi dal sistema educativo, persone discriminate, individui con disabilità abbandonati ai margini delle città, comunità intere ignorate dal potere economico e politico. Tutti vivono una forma moderna di eutanasia degli indifesi: un’abbandono silenzioso, una sottrazione di diritti, uno spostamento costante verso la periferia della visibilità sociale.
In questo senso, la lezione ortesiana è un monito e una guida: ci invita a guardare dove non vogliamo guardare, ad ascoltare chi non ha voce, a restituire dignità a chi la società ritiene inutile. La sua prosa, al tempo stesso lirica e spietata, è sempre stata un esercizio di attenzione verso ciò che il mondo ignora. Non a caso, Ortese non è stata mai comoda né per la critica né per l’editoria: non era addomesticabile. Come una Cassandra moderna, l’autrice veniva spesso incompresa, e il riconoscimento pieno del suo genio è arrivato con ritardo.
Soffermandoci su un dettaglio apparentemente piccolo, ma fondamentale, emerge una costante nella sua scrittura: la compassione non è sentimentalismo. Non è mai estetizzazione della sofferenza, né consolazione dell’animo del lettore. È rigore etico. La difesa dell’indifeso significa smascherare la responsabilità della società, mostrare le catene invisibili che producono esclusione e dolore. Per questo leggere Ortese oggi non è un passatempo estetico, ma un impegno morale: è prendere atto che ogni indifferenza è un atto di violenza, e che la letteratura può e deve diventare strumento di responsabilità sociale.
Parte II – Il mare non bagna Napoli
Quando nel 1953 uscì Il mare non bagna Napoli, nessuno immaginava quanto quel libro sarebbe stato potente e quanto avrebbe segnato la vita dell’autrice. Il titolo, già di per sé enigmatico, racchiude una condanna e un enigma: la città che più di ogni altra dovrebbe essere accarezzata dal mare, in realtà ne resta esclusa. Non si tratta di geografia, ma di un destino morale: Napoli, in Ortese, non è soltanto una città, è il paradigma di un mondo in cui i più fragili vengono abbandonati. Il mare non bagna chi è invisibile. Il mare non bagna chi non ha voce.
Il mare, nei testi ortesiani, non è mai un elemento neutro: è respiro, apertura, promessa di libertà. L’assenza del mare è assenza di protezione, di possibilità, di futuro. E questa assenza è la prima forma di violenza, più profonda di qualsiasi sopruso fisico: negare la possibilità di esistere pienamente, negare il diritto di apparire, di essere visti e riconosciuti.
Il libro non è soltanto un racconto di povertà: è un atto di accusa, un lamento, una veglia. Ortese osserva Napoli con occhi che non concedono sconti: i bambini che giocano tra macerie, le famiglie ridotte a scheletri di dignità, gli anziani che sopravvivono alla rassegnazione. Non è cronaca, è sguardo morale. La realtà è trasfigurata, e in questa trasfigurazione si mostra la verità: ciò che conta non è il fatto brutale, ma la struttura che lo rende possibile. La società, osserva Ortese, ha responsabilità collettive che non possono essere ignorate.
È naturale che l’opera suscitasse scandalo: i napoletani stessi si sentirono traditi, accusarono l’autrice di crudeltà, di offesa. Ma non era offesa: era denuncia. Una denuncia che obbliga il lettore a guardare ciò che preferirebbe ignorare, a misurarsi con la propria responsabilità di spettatore e di cittadino. Non si tratta di pietà, ma di verità morale.
I bambini descritti nel libro, definiti “ai margini della luce”, sono emblematici di questa prospettiva. Non sono privati solo di beni materiali, ma della possibilità di apparire, di crescere, di essere riconosciuti. L’invisibilità è una ferita più dolorosa di qualsiasi mancanza fisica: è negazione di esistenza. E questa immagine, così potente, riecheggia nei contesti odierni: pensiamo ai bambini nei campi profughi, agli adolescenti abbandonati nelle periferie urbane, ai giovani emarginati da sistemi educativi e sanitari incapaci di accoglierli. In tutti questi casi, il mare non bagna ancora chi ha più bisogno.
E l’insegnamento si estende oltre la città: Napoli diventa paradigma universale. Le periferie del mondo, le baraccopoli, i quartieri dimenticati, i campi dei rifugiati — tutti luoghi dove l’orizzonte è negato, dove la luce arriva solo a pochi — confermano la validità della lezione ortesiana. La marginalità non è un destino, ma un prodotto della scelta sociale: ciò che Ortese denuncia è la complicità morale di chi osserva e tace.
Il libro diventa strumento di lettura della realtà contemporanea. Ogni volta che una minoranza viene esclusa dai diritti, ogni volta che una comunità viene relegata ai margini della visibilità, ogni volta che l’indigenza o la diversità vengono considerate un problema, la formula di Ortese riecheggia: “Il mare non bagna Napoli”. Non è una constatazione geografica, ma una verità morale, una misura della civiltà di una società.
Infine, la prosa ortesiana si distingue per la capacità di fondere realismo e lirismo. Non si limita a descrivere, ma restituisce densità emotiva e morale. Gli scugnizzi non sono semplici bambini poveri: incarnano l’umanità negata, le ferite invisibili della città, il destino di chi non è protetto dal mondo. Ortese ci costringe a guardare queste ferite, a riconoscerle e a misurarci con esse, come lettori e come cittadini.
Parte III – L’Iguana
Se Il mare non bagna Napoli ci aveva mostrato la marginalità attraverso lo sguardo dei più piccoli, L’Iguana porta la lezione di Ortese a un livello più complesso, più oscuro e più universale: l’indifeso diventa adulto, e la sua invisibilità assume contorni quasi metafisici. Qui non si tratta più solo di povertà materiale o di esclusione sociale immediata, ma di una condizione esistenziale, di una fragilità radicale che il mondo respinge perché incomprensibile, scomoda, disturbante.
Il protagonista del romanzo è un uomo intrappolato tra la sua diversità e l’incomprensione della società. La sua condizione non è visibile come quella dei bambini dei vicoli napoletani: è invisibile perché psicologica, culturale, morale. L’iguana non è soltanto un individuo: è l’archetipo di chi non appartiene, di chi la società considera “fuori norma” e quindi degno di esclusione. In Ortese, la marginalità adulta non è romantica né pittoresca; è crudele, solitaria, spesso letale. Eppure il romanzo non lascia spazio al semplice disgusto o alla repulsione: obbliga il lettore a guardare con attenzione, a capire la radice di quella esclusione.
Il contesto in cui Ortese scrive L’Iguana è quello di un’Italia che cerca di rimettersi in piedi dopo la guerra, ma che lascia ai margini interi strati della popolazione: persone povere, sole, o “diverse” per inclinazione, intelligenza o sensibilità. L’iguana, in questo senso, è simbolo di tutti coloro che non rientrano nelle categorie della produttività, della normalità o della convenienza sociale. Non è un caso che Ortese giochi continuamente sul contrasto tra ciò che appare e ciò che è invisibile: la società giudica, reprime e ignora, mentre l’indifeso sopravvive nell’ombra, tra incomprensione e derisione.
La forza del libro sta proprio nella sua capacità di trasformare la vicenda individuale in allegoria sociale. L’indifeso adulto diventa simbolo di tutte le minoranze invisibili: chi è diverso per scelta, per orientamento, per cultura o per condizione psicologica. L’iguana vive sospeso tra il bisogno di riconoscimento e la condanna a un isolamento che la società impone senza pietà. La sua sofferenza non è circoscritta al singolo; riflette le dinamiche di un intero sistema che produce indifferenza e rifiuto. La crudeltà sociale non ha bisogno di aggressioni fisiche: si manifesta nella marginalizzazione silenziosa, nei pregiudizi, nell’assenza di solidarietà e protezione.
Rileggere L’Iguana oggi significa riconoscere quanto queste dinamiche siano ancora vive. Pensiamo a chi subisce discriminazioni per orientamento sessuale, a chi viene rifiutato per differenze culturali o religiose, a chi è emarginato per fragilità mentale o fisica. Ortese ci insegna che la marginalità non è solo un problema individuale: è una responsabilità collettiva. Ignorare gli indifesi non è semplice omissione: è partecipazione indiretta a un atto di violenza morale, un’omissione che produce ferite profonde e durature.
Nel romanzo, la figura dell’iguana è anche simbolo della solitudine radicale. Non è un animale da cortile o da compagnia, ma una creatura che esiste ai margini della società, osservata con sospetto, temuta, respinta. Questa immagine si riflette in molti contesti contemporanei: persone che non rientrano nei parametri normativi vengono isolate, invisibilizzate, talvolta perseguitate. La lezione di Ortese qui assume una dimensione universale: l’indifeso adulto, come il bambino dei vicoli napoletani, ha diritto a riconoscimento, a cura, a presenza sociale.
Il linguaggio dell’autrice è al tempo stesso lirico e spietato: trasmette la densità emotiva della condizione del protagonista senza indulgere nel melodramma. Ogni frase è calibrata per restituire la complessità della marginalità, l’angoscia della solitudine, la crudezza della società che ignora. Leggere L’Iguana significa immergersi in una realtà che è contemporaneamente interiore e collettiva, psicologica e sociale, personale e politica.
Ortese ci offre un esempio di come la letteratura possa trasformare l’osservazione dei marginali in riflessione etica. Non si tratta di pietà, né di voyeurismo: si tratta di responsabilità, di capacità di comprendere, di riconoscere la dignità di chi non ha voce. In questo senso, L’Iguana diventa uno specchio inquietante del nostro presente: quante persone vivono oggi sospese tra invisibilità e rifiuto? Quante vite fragili vengono trascurate perché non conformi, non produttive, non visibili?
Ma c’è un ulteriore livello: l’iguana è al contempo vittima e simbolo. Vittima di incomprensione, ma simbolo di una verità che la società rifiuta di riconoscere: che ogni individuo ha diritto a un orizzonte, a un riconoscimento, a essere considerato parte del tessuto umano. Ortese non concede semplificazioni: l’indifeso non è un personaggio monodimensionale da compatire, ma un soggetto complesso, con pensieri, desideri, sogni, timori. La sua marginalità ci sfida a guardare dentro noi stessi, a capire come la società rifletta i pregiudizi individuali, come la crudeltà istituzionale si fondi sulla nostra indifferenza quotidiana.
Il romanzo ci ricorda anche che la marginalità adulta non è sempre visibile e non sempre coincide con bisogno materiale. L’indifeso può essere colto, brillante, perfino forte fisicamente, eppure relegato ai margini per la sua differenza. L’iguana esiste in quell’interstizio tra essere e apparire, tra presenza e invisibilità, costretto a sopravvivere nell’ombra perché il mondo non ha spazio per lui. E qui Ortese introduce un tema che attraversa tutta la sua opera: la crudeltà del potere sociale, che punisce chi non si conforma, chi non produce, chi osa semplicemente esistere secondo regole proprie.
Il romanzo, infine, ci porta a riflettere sulla responsabilità del lettore e della società intera. Ignorare l’iguana, chiudere gli occhi di fronte alla sua solitudine, significa rendersi complice della marginalizzazione. Ortese ci costringe a misurare la nostra umanità, a considerare ogni esclusione come una ferita comune, un impoverimento della coscienza collettiva. La sua scrittura non è mai neutra: è strumento di conoscenza, di resistenza, di educazione alla giustizia.
Parte IV – Il cardillo addolorato
Se Il mare non bagna Napoli ci aveva mostrato i bambini ai margini della società e L’Iguana la marginalità adulta, Il cardillo addolorato ci porta ancora più in profondità nella riflessione etica e poetica di Anna Maria Ortese: qui l’indifeso non è soltanto escluso, emarginato o invisibile, ma è anche portatore di una bellezza fragile, preziosa, che la società tende a ignorare o a distruggere.
Il cardillo, piccolo uccello canoro, diventa simbolo di delicatezza e vulnerabilità, ma anche di dignità e resistenza. La sua presenza è silenziosa, discreta, eppure capace di riempire di senso l’ambiente in cui vive. Ortese osserva la vita del cardillo con uno sguardo che è al tempo stesso scientifico, poetico e morale: attraverso il canto di quell’uccello e la sua fragilità, l’autrice denuncia la crudeltà del mondo, la leggerezza con cui si calpestano le vite indifese e la superficialità con cui si giudica ciò che non appartiene ai potenti o ai normali.
In Ortese, la bellezza fragile non è decorativa: è un criterio etico. Il cardillo, con la sua voce sottile e il suo corpo minuto, ci costringe a riflettere su ciò che spesso viene ignorato: le vite piccole, invisibili, apparentemente inutili. Oggi possiamo pensare ai senzatetto, alle persone in ospedali psichiatrici abbandonati, ai minori migranti separati dalle famiglie, a chi subisce violenze per la propria differenza: tutte situazioni in cui la fragilità diventa un indicatore della nostra capacità di essere umani. Ortese ci mostra che la protezione del fragile non è sentimentalismo, ma responsabilità morale.
Il libro diventa così un manifesto della cura e dell’attenzione verso ciò che è piccolo e apparentemente inutile. In un’epoca come la nostra, dove le minoranze spesso vengono ridotte a statistiche o categorie astratte, il cardillo ci ricorda che la vulnerabilità ha un volto, un corpo, un suono, una dignità. Ignorare il cardillo significa accettare che la violenza morale continui a operare indisturbata. La sua delicatezza diventa allora un metro per misurare la civiltà di una società: chi non sa prendersi cura del fragile, chi non ascolta il suo canto, tradisce la propria umanità.
Ortese amplifica la dimensione simbolica del cardillo collegandola alla condizione di minoranze reali e concrete. Gli indifesi non sono solo uccelli o bambini dei vicoli napoletani; sono le comunità che oggi soffrono l’esclusione economica, sociale o culturale. Sono le persone discriminate per orientamento sessuale, per credo religioso, per lingua, per provenienza geografica. Sono coloro che non hanno diritto al riconoscimento pubblico, che la società ignora o spinge ai margini. Il cardillo diventa quindi emblema di una condizione universale: la fragilità non è un fatto individuale, ma un indicatore della salute morale di una comunità.
La scrittura di Ortese in Il cardillo addolorato si fa ancora più lirica, quasi musicale. Ogni frase è calibrata per trasmettere la tensione tra bellezza e violenza, tra vita e indifferenza. Il lettore è immerso in un ritmo che è insieme meditativo e drammatico: sente il canto del cardillo, percepisce il rischio che corre, avverte il peso della responsabilità collettiva. Ortese ci insegna che ogni osservazione del fragile è anche un atto morale: leggere il libro significa prendere posizione, non limitarsi a contemplare passivamente.
Il cardillo ci parla anche di memoria e di custodia. La fragilità richiede attenzione, presenza, cura: non basta riconoscerla, occorre difenderla. Questo principio è applicabile a tutte le minoranze del nostro tempo: chi è emarginato, chi soffre, chi è invisibile, ha bisogno di protezione e di visibilità. La letteratura diventa allora strumento di educazione alla responsabilità: Ortese ci mostra che l’indifeso non può sopravvivere senza la nostra attenzione attiva, senza l’impegno a custodire ciò che è fragile e prezioso.
Inoltre, Ortese ci suggerisce che la bellezza fragile ha anche una funzione di rivelazione: ciò che è piccolo, debole, delicato può rivelare la verità morale di un’intera società. Il cardillo, cantando, mostra l’ampiezza dell’indifferenza o della crudeltà che lo circonda. La sua sofferenza è specchio della nostra incapacità di proteggere, di ascoltare, di rispettare chi è diverso, fragile, non conforme alle regole dominanti. La lezione è chiara: la bellezza non difesa è destinata a scomparire, e con essa la nostra stessa umanità.
Ortese ci invita anche a riflettere sul tempo e sulla memoria: chi è fragile, chi è piccolo o marginale, è spesso destinato a essere dimenticato. La custodia di ciò che è indifeso non è solo un atto morale, ma un impegno storico. Significa ricordare, tramandare, dare voce a chi la società tende a cancellare. Il cardillo diventa allora testimone silenzioso di una storia invisibile: ogni canto è atto di resistenza, ogni sopravvivenza è rivendicazione di dignità.
In Il cardillo addolorato, la marginalità diventa anche estetica: la fragilità diventa bellezza, la debolezza diventa valore. Ortese ci mostra che ciò che è fragile non è meno importante, anzi: è spesso il punto più sensibile della società, il termometro della nostra capacità di cura e di attenzione. Ignorare il fragile significa accettare una società più crudele, più indifferente, più ingiusta. Proteggere il fragile significa invece costruire legami, riconoscere dignità, esercitare umanità.
Infine, Ortese ci ricorda che la responsabilità verso l’indifeso non è mai delegabile: non basta lo Stato, non basta la legge, non basta la coscienza collettiva. Occorre presenza, cura, attenzione quotidiana. Il cardillo, piccolo e indifeso, diventa così il simbolo di tutte le vite che chiedono riconoscimento: dai migranti invisibili ai bambini non ascoltati, dagli anziani abbandonati agli adulti emarginati. La lezione è universale e senza tempo: custodire ciò che è fragile significa preservare la civiltà stessa.
Leggere Il cardillo addolorato oggi significa quindi misurare la nostra umanità attraverso la lente della fragilità. Significa comprendere che la marginalità e la debolezza non sono optional, ma indicatori della salute morale di un popolo. Significa riconoscere che il nostro compito non è semplicemente osservare, ma agire, proteggere, testimoniare. La bellezza fragile del cardillo è il metro con cui valutare la civiltà di una società: se non sappiamo custodire il piccolo, il debole, il diverso, non possiamo dirci civili.
Parte V – Dalla pagina alla realtà: minoranze sociali, sessuali, culturali, ambientali
Il punto in cui la lezione di Anna Maria Ortese si fa più urgente, e al tempo stesso più prossima al nostro presente, è quello che potremmo chiamare il passaggio dalla scrittura al mondo, dalla pagina alla realtà. I suoi libri, certo, sono opere d’arte, costruzioni letterarie dalla raffinatezza visionaria; ma chi li legge avverte subito che sono anche strumenti di denuncia, specchi dolorosi, richiami a una responsabilità etica che travalica i confini della letteratura. In fondo, il vero tema che li attraversa è sempre uno: come difendere i fragili dall’indifferenza e dalla violenza della società? Come impedire che si consumi, sotto i nostri occhi, quella che, io, per Ortese, ho chiamato con la formula, che spero resti indimenticabile, “l’eutanasia degli indifesi”?
Oggi, in un tempo in cui sembra che tutto sia stato nominato, raccontato, esposto, questo problema non è affatto risolto. Anzi, si è moltiplicato in forme nuove e spesso più invisibili. La nostra società, apparentemente più aperta e interconnessa rispetto a quella del dopoguerra, continua a produrre esclusi, a fabbricare silenzi, a cancellare intere comunità con strumenti tanto efficaci quanto sottili. L’eutanasia non è più (o non soltanto) la fame, la miseria fisica, la brutalità immediata; oggi prende la forma della marginalizzazione culturale, della violenza linguistica, della disumanizzazione mediatica.
Pensiamo alle minoranze sessuali e di genere. Negli ultimi decenni hanno ottenuto conquiste importanti: unioni civili, matrimoni (non in Italia) e riconoscimento giuridico in diversi paesi. Eppure questo stesso riconoscimento sembra aver acceso, come per contraccolpo, una violenza nuova, più aggressiva. I discorsi d’odio si moltiplicano, spesso nascosti dietro la libertà di opinione; le persone transgender, in particolare, diventano bersagli quotidiani di una vera e propria delegittimazione pubblica. E allora Ortese, con il suo sguardo pietoso e implacabile, ci appare di nuovo vicina: chi, più delle persone trans, viene oggi rappresentato come “mostruoso”, “inutile”, “fuori norma”? Chi, più di loro, viene confinato in quella zona di silenzio in cui la società finge di non vederli, o li riduce a caricature? La sua “iguana”, creatura né del tutto umana né del tutto animale, fragile e indifesa, diventa oggi una metafora potente proprio di queste vite in bilico, continuamente minacciate dall’eutanasia sociale.
Lo stesso vale per i migranti. Nel dopoguerra Ortese guardava le strade di Napoli, vedeva i quartieri fatiscenti, le baracche, i bambini senza futuro. Era uno sguardo che non arretrava davanti al dolore, che non cedeva alla tentazione della retorica. Oggi quelle baracche le ritroviamo nei campi profughi, nei centri di accoglienza sovraffollati, nelle tendopoli improvvisate ai margini delle nostre città. Ogni naufragio nel Mediterraneo, ogni corpo restituito dalle onde, è la conferma che la lezione ortesiana non è stata ascoltata. La società contemporanea, come quella di allora, preferisce distogliere lo sguardo, ridurre a “emergenza” ciò che in realtà è un fenomeno strutturale, una domanda di umanità che non trova risposta. È la stessa logica di eutanasia, solo spostata di scala: invece di singoli quartieri dimenticati, abbiamo intere popolazioni che diventano invisibili.
Ma non possiamo dimenticare un’altra dimensione, che Ortese aveva intuito con sorprendente anticipo: quella ecologica. Già nei suoi ultimi scritti, e perfino in certe pagine apparentemente minori, affiora un’attenzione verso il mondo animale e naturale che oggi ci appare profetica. Quando difende il cardillo, quando presta voce a creature minuscole, non fa un gesto sentimentalistico: rivendica il diritto alla vita anche per ciò che sembra irrilevante. In questo senso, la sua scrittura dialoga con le riflessioni contemporanee dell’ecofemminismo, con l’idea che la violenza esercitata sugli animali e sulla natura non sia altro che una declinazione della stessa logica di dominio che opprime le donne, i poveri, i migranti. La società che distrugge un ecosistema per profitto è la stessa che emargina un corpo non conforme o un volto straniero. Tutto è connesso.
È qui che la letteratura di Ortese rivela la sua forza più grande: non ci lascia tranquilli. Non permette di chiudere il libro e dimenticare. Ogni sua creatura è un testimone che chiede ascolto. Così, nel nostro presente, leggere Ortese significa inevitabilmente guardare al mondo e domandarsi: chi sono oggi gli indifesi? Chi è che stiamo lasciando morire in silenzio, senza difese?
Potrebbero essere i senzatetto che incontriamo per strada e che la città considera rifiuti da spostare altrove. Potrebbero essere gli adolescenti vittime di cyberbullismo, che preferiscono togliersi la vita piuttosto che affrontare un mondo che li deride. Potrebbero essere le persone LGBTQ+ perseguitate da leggi che le negano o da famiglie che le rinnegano. Potrebbero essere i migranti chiusi nei centri di detenzione, invisibili per mesi o anni. Potrebbero essere le foreste che bruciano in silenzio, gli animali che scompaiono senza che nessuno ne parli.
In ciascuno di questi casi, la lezione ortesiana ci chiama a un gesto preciso: non restare muti. Raccontare, testimoniare, dare voce. Perché, come lei stessa dimostrava, la letteratura non è mai solo un ornamento estetico, ma un atto politico. Scrivere, leggere, raccontare sono forme di resistenza contro l’eutanasia sociale. E soprattutto sono atti di riconoscimento: riconoscere l’altro nella sua dignità, riconoscere che esiste, che merita cura e ascolto.
Ed è forse questo, più di ogni altra cosa, che rende Ortese così attuale. Non ci offre soluzioni facili, non ci dà programmi politici chiari, ma ci educa a uno sguardo. E lo sguardo è il punto di partenza di ogni cambiamento. Finché saremo capaci di vedere gli indifesi e di riconoscerli come parte del nostro stesso destino, non ci arrenderemo all’eutanasia. La sua lezione, insomma, non è un esercizio di memoria letteraria, ma un invito alla responsabilità quotidiana, un appello che ogni generazione deve rinnovare.
Parte VI – Conclusione: la lezione di Ortese come eredità etica e politica
Giunti al termine di questo viaggio attraverso una piccola parte dell’opera immensa di Anna Maria Ortese, è inevitabile avvertire che ci troviamo di fronte non solo a una scrittrice, ma a una coscienza. Le sue parole non ci abbandonano, non si lasciano relegare nello spazio ordinato della letteratura del Novecento. Sono più simili a fenditure, a fenditure luminose e dolorose insieme, attraverso le quali possiamo scorgere il nostro presente. Leggerla significa ricevere una ferita e, allo stesso tempo, un invito a trasformare quella ferita in consapevolezza.
Ecco perché parlare di Ortese oggi non equivale a un semplice esercizio di memoria letteraria. Non si tratta di ricordare un nome importante del canone italiano, né di rendere omaggio a un talento marginalizzato in vita e riscoperto postumo. Parlare di Ortese significa soprattutto domandarsi: che cosa resta della sua lezione in un mondo che continua a sacrificare gli indifesi, che continua a decretare eutanasie silenziose? Se apriamo i suoi libri, non troviamo soltanto Napoli del dopoguerra, i suoi quartieri feriti, i suoi bambini senza voce. Troviamo i migranti che affondano nel Mediterraneo, i senzatetto che dormono sotto le nostre finestre, le minoranze perseguitate dall’odio mediatico, gli animali che spariscono in un silenzio planetario. La sua scrittura, insomma, è un prisma che rifrange ancora oggi la luce sul volto degli esclusi.
La lezione di Ortese ci insegna qualcosa che spesso dimentichiamo: la letteratura non è neutra. Non è mai pura decorazione estetica. Essa nasce sempre da una scelta di sguardo, e quello di Ortese era uno sguardo radicale, perché si spostava là dove nessuno voleva guardare. Nel dolore, nell’emarginazione, nella fragilità. Questo sguardo, così poco mondano e così poco compiacente, ci chiede oggi di cambiare i nostri criteri di valutazione: non misurare una società in base alla ricchezza dei suoi forti, ma in base alla cura che riserva ai suoi deboli. È un rovesciamento completo di prospettiva, che mette in discussione la logica dominante del profitto, dell’efficienza, della forza.
E qui si apre un nodo decisivo: perché la scrittura ortesiana non è soltanto un richiamo morale, ma un esercizio politico nel senso più profondo del termine. Politico perché ci costringe a interrogarci sul nostro modo di vivere insieme, sulla nostra capacità di riconoscere l’altro come parte di noi. Politico perché smaschera le strutture di potere che trasformano le persone in scarti, in eccedenze, in vite di cui si può fare a meno. Politico, infine, perché ci obbliga a decidere: restare spettatori o diventare testimoni.
Se Ortese fosse tra noi oggi, non parlerebbe forse con le stesse parole, ma con lo stesso sguardo. Guarderebbe ai campi profughi, ai ragazzi insultati sui social, agli animali sterminati dall’industria, e direbbe probabilmente: “Ecco, qui avviene l’eutanasia degli indifesi”. Frase che non ha mai detto o scritto ma che è il tema di questo ini.
E noi non potremmo far finta di non capire. La sua voce ci raggiunge ancora, come un monito che scardina ogni tentazione di indifferenza.
Eppure, e questo è fondamentale, la sua non è mai stata una voce disperata. Anche nei momenti più bui, anche nelle pagine più feroci, Ortese conserva sempre un nucleo di speranza, o meglio di fede nella possibilità della bellezza. Nei suoi romanzi, la fragilità non è solo condanna: è anche rivelazione. L’iguana non è soltanto vittima, è anche presenza che scuote, che interroga, che obbliga a cambiare. Il cardillo addolorato non è soltanto un canto di dolore, ma un inno segreto alla bellezza che resiste. È questo equilibrio misterioso tra disperazione e grazia che rende la sua opera irriducibile: non ci lascia annichiliti, ma ci convoca a una nuova responsabilità.
Dunque, la conclusione a cui giungiamo non è un epitaffio, ma un appello. La letteratura, nella visione di Ortese, non è un lusso per pochi, ma un bene comune, un luogo in cui si conserva la dignità di chi altrimenti verrebbe dimenticato. Rileggere Ortese oggi significa allora restituire senso alla cultura, riportarla al suo compito originario: difendere la vita in tutte le sue forme, opporsi all’eutanasia sociale e culturale, rendere testimonianza di chi non ha voce.
E vorrei chiudere con un gesto ortesiano, non con una formula rassicurante ma con una domanda, che ciascuno dovrà portare con sé: chi sono, oggi, i miei indifesi? E cosa faccio, io, qui e ora, per impedire che vengano ridotti al silenzio?
La risposta non è scritta nei libri. Non la troveremo tra le pagine di Ortese, né in nessun manuale. È una risposta che ciascuno deve inventare, giorno per giorno, nel proprio sguardo, nelle proprie scelte, nelle proprie parole. Ed è qui, in questo spazio fragile e incerto, che la letteratura diventa ancora necessaria. Perché ci ricorda che non siamo soli, che altri prima di noi hanno resistito, che la voce dei fragili può ancora salvarci.