venerdì 7 novembre 2025

L’anatomia del desiderio: corpi, potere e liberazione nel segno di Tom of Finland


Negli anni in cui l’omosessualità era ancora circondata da un alone di silenzio sociale, di vergogna istituzionale e di una diffusa clandestinità culturale, in un angolo quieto e apparentemente distante del Nord Europa prendeva forma una delle più sottili e dirompenti rivoluzioni visive del Novecento: una rivoluzione dell’immaginario, del desiderio, della rappresentazione. In Scandinavia — terra di paesaggi immacolati e rigori morali trattenuti — si stava infatti sviluppando un nuovo linguaggio figurativo, audace e senza compromessi, che avrebbe inciso profondamente sull’evoluzione dell’identità gay e sulla sua visibilità pubblica. Tale rivoluzione, che si affermava senza proclami e senza manifesti, parlava attraverso tratti di grafite, anatomie scolpite, sguardi fieri e allusioni luminose incise nei lucidi riflessi del cuoio e dell’uniforme: stava nascendo la leggenda di Tom of Finland. Dietro questo pseudonimo squillante, che evocava al tempo stesso un’icona della cultura popolare e un supereroe erotico, si celava Touko Laaksonen (1920–1991), ex ufficiale dell’esercito finlandese, impiegato d’ufficio di giorno e, di notte, artefice visionario del sogno omoerotico più radicale, liberatorio e assertivo dell’intero secolo.

Laaksonen visse e operò in un’epoca segnata da norme repressive e da un rigido controllo morale, in cui la rappresentazione visiva del desiderio omosessuale era non solo malvista, ma esplicitamente perseguitata dalla legge e dalla censura. Negli Stati Uniti — dove le sue prime opere iniziarono a circolare clandestinamente attraverso riviste e fanzine sotterranee — vigevano restrizioni postali severe: ogni immagine che potesse anche solo suggerire contenuti omoerotici veniva considerata oscena, con il conseguente rischio di sequestro e incriminazione. Fu in questo clima oppressivo che Laaksonen trovò un escamotage estetico e concettuale: collocare i suoi disegni sotto l’etichetta di beefcake, un genere apparentemente dedicato alla promozione del fisico maschile e del culto del corpo, ma in realtà costellato di sottintesi erotici e desideri non detti. Questo codice visivo — fatto di uomini che sollevano pesi, posano in slip minimali, si osservano con intensità ambigua — costituiva una zona franca dell’immaginazione, dove il desiderio poteva finalmente affiorare, pur se tra le righe. In questo spazio liminale, Tom of Finland fece esplodere la potenza del suo tratto rivoluzionario: disegnare il desiderio maschile da uomo a uomo, senza vergogna, senza compromessi, e soprattutto senza più doverlo negare.

Nel corso di una prolifica carriera durata oltre quattro decenni, Tom of Finland realizzò più di 3.500 illustrazioni, dando vita a un immaginario erotico che sovvertiva gli stereotipi di effeminatezza imposti all’uomo omosessuale. Le sue figure, tutte ipermascolinizzate fino all’estremo, appartenevano a un pantheon virile e fantastico: poliziotti, motociclisti, cowboys, marinai, boscaioli, operai — ogni categoria era trasformata in monumento sensuale, scolpita nell’ideale del corpo maschile come tempio di desiderio. Non si trattava solo di pornografia: l’opera di Tom oscillava costantemente tra la dimensione onirica del sogno erotico e quella politica della rappresentazione identitaria. Quegli uomini, orgogliosi della propria sessualità, testimoniavano l’esistenza di un altro modo di essere maschi, fuori dalle norme eteronormative. Per migliaia di uomini gay, le immagini di Laaksonen furono più di un’evasione: furono una forma di riconoscimento, un’affermazione dell’esistenza stessa. In un mondo che li cancellava o li derideva, quelle figure disegnate dicevano con chiarezza: esisti, sei desiderabile, sei degno di essere ammirato.

Un punto di svolta epocale si verificò nel 1962 con il caso MANual Enterprises v. Day, in cui la Corte Suprema degli Stati Uniti stabilì che i nudi maschili non erano automaticamente da considerarsi osceni. Questo pronunciamento giuridico incrinò la solidità della censura e aprì nuove possibilità espressive per Laaksonen, che da quel momento in poi poté rappresentare corpi maschili frontalmente nudi, senza più il timore di doverli mascherare dietro eufemismi o simbologie. Gli anni Settanta e Ottanta furono per lui un’epoca di piena maturazione creativa: il suo tratto si fece ancora più deciso, le anatomie ancora più iperboliche, e l’intento sempre più celebrativo. La sessualità gay, spesso negata o patologizzata, veniva in queste opere riconsegnata al suo splendore e alla sua forza affermativa. Le illustrazioni di Tom divennero così strumenti di emancipazione e di orgoglio, veri e propri manifesti visivi della rivoluzione omosessuale.

L’eredità culturale e artistica di Tom of Finland ha oltrepassato i confini della sottocultura gay per imporsi come fenomeno estetico globale. Lungi dall’essere relegata a un ambito marginale o feticista, la sua opera ha guadagnato progressivamente il riconoscimento dell’establishment museale e critico. Nel 2014, le poste finlandesi gli dedicarono una serie di francobolli commemorativi, che suscitarono clamore e ammirazione internazionale, registrando preordini da 178 paesi. L’iniziativa fu accompagnata da una mostra intitolata Sigillato con un segreto, che esplorava con delicatezza e intelligenza il passaggio del suo erotismo disegnato da arte clandestina a memoria collettiva condivisa. Era il segno definitivo che la sua opera aveva varcato la soglia dell’arte “alta”, divenendo oggetto di studio, riflessione e celebrazione.

Oggi, i suoi disegni sono conservati in collezioni permanenti di musei prestigiosi, tra cui il Museum of Modern Art (MoMA) di New York. Critici e curatori come Harvey S. Shipley Miller lo hanno definito “uno dei cinque artisti più influenti del XX secolo”, un giudizio che trova fondamento non soltanto nella qualità tecnica del suo lavoro, ma nella sua capacità di trasformare la rappresentazione erotica in uno strumento di liberazione culturale e affermazione identitaria. La sua influenza si estende ben oltre il mondo del disegno: ha segnato la moda, la fotografia, l’estetica queer contemporanea, e persino il linguaggio della performance.

Nel 2024, a testimonianza della sua perenne attualità, Tom of Finland è apparso sulla copertina della prestigiosa New York Review of Books del 9 maggio, in una rielaborazione contemporanea firmata da un giovane artista queer, che ha voluto omaggiarne l’eredità con lo stesso ardore, la stessa eleganza, lo stesso orgoglio grafico. La Tom of Finland Foundation, con sede a Los Angeles, continua oggi a promuoverne il messaggio e a proteggerne il lascito, sostenendo giovani artisti queer e celebrando la bellezza del corpo maschile in tutte le sue forme, senza più censure o compromessi. La retrospettiva Bold Journey, ospitata dal museo Kiasma di Helsinki, ha infine consacrato Laaksonen tra i massimi rappresentanti dell’arte finlandese nel mondo, restituendogli una centralità che forse lui stesso, disegnando in solitudine motociclisti dall’erezione monumentale e dal sorriso tra i baffi, aveva immaginato. O forse no. Ma senza dubbio, sorrideva anche lui, nel segreto complice della matita. Come quei suoi uomini eterni, fieri, nudi, invincibili.


1: Contestualizzazione storica e politica

Per cogliere appieno la radicalità dell’opera di Tom of Finland, non è sufficiente leggerla come produzione estetica né come semplice articolazione erotica del desiderio omosessuale: è necessario inserirla, in modo puntuale ma non riduttivo, entro le maglie fitte della storia culturale, politica e affettiva della Finlandia del Novecento – e da lì irradiarla come fenomeno complesso, che affonda le sue radici tanto nell’esperienza intima di un singolo soggetto quanto nei sistemi ideologici collettivi da cui quel soggetto ha cercato, caparbiamente, di liberarsi. Touko Laaksonen nasce nel 1920, in una Finlandia ancora giovane, che da appena tre anni aveva ottenuto l’indipendenza dalla Russia zarista, e che si avvia a costruire un’identità nazionale fondata su valori di sobrietà, militarismo, produttività e silenzio emotivo. In questo contesto, l’omosessualità non solo era formalmente criminalizzata dalla legge (la depenalizzazione arriverà solo nel 1971), ma era culturalmente assimilata a un’anomalia degenerativa, un’infezione dell’anima che minava il corpo simbolico della nazione.

La Finlandia degli anni Trenta e Quaranta è un Paese in piena tensione geopolitica: prima il confronto diretto con l’Unione Sovietica, poi l’alleanza tattica con la Germania nazista, infine la guerra di resistenza e l’imposizione di una neutralità ambigua durante la Guerra Fredda. La virilità, in questo scenario, è una risorsa da mobilitare: il maschio finlandese ideale è soldato, agricoltore, padre di famiglia, duro, silenzioso, temprato dalla fatica e dal freddo. Un’icona esangue, scarnificata, destinata a incarnare una missione etica prima ancora che biologica. Ogni scostamento da questa figura – ogni segno di piacere, di compiacimento estetico, di desiderio orientato verso il maschile – viene percepito come un attentato all’ordine. Non si tratta solo di norme giuridiche, ma di dispositivi profondamente interiorizzati: l’uomo omosessuale, in quanto tale, è visto come un traditore dell’ethos nazionale.

Eppure è proprio dentro questo stesso ordine simbolico che Touko Laaksonen decide di agire, non come oppositore frontale, ma come infiltrato dell’immaginazione. Inizia a disegnare in segreto, spesso usando materiali riciclati, ritagli, carta da pacchi; le sue figure nascono nell’intimità, ma già contengono in nuce una rivoluzione silenziosa. Invece di rifuggire l’iconografia dominante della mascolinità – stivali, cuoio, divise, muscoli – Tom la esaspera, la eleva a mitologia carnale, trasformando i codici stessi della virilità normativa in strumenti di piacere queer. In questo gesto si compie una delle più straordinarie operazioni culturali del Novecento: appropriarsi dell’iconografia oppressiva per rifondarla su basi erotiche, eversive, irriducibili a ogni pedagogia morale.

È importante comprendere che questo gesto non nasce da un’intenzione militante nel senso contemporaneo del termine. Tom non è un attivista, non redige manifesti, non organizza collettivi. La sua è una rivoluzione profondamente privata, e per questo ancor più sovversiva. In un’epoca in cui l’omosessualità è punita con la prigione, il disegno erotico diventa per lui non solo un atto di sopravvivenza psichica, ma un atto di restituzione: a sé stesso, prima di tutto, di una dignità desiderante. E poi agli altri – ai futuri fruitori, ai corpi futuri che si riconosceranno in quei tratti a matita – di una possibilità d’esistenza. Il desiderio, reso visibile, diventa realtà.

Questa realtà alternativa, costruita immagine dopo immagine, non si impone come utopia, ma come contro-narrazione del presente. Tom crea un universo parallelo che dialoga però costantemente con il mondo che lo circonda: quello delle caserme, dei cantieri, dei boschi del Nord, dei bagni pubblici, delle casette borghesi con la sauna in legno. Non siamo in un altrove astratto, ma in una Finlandia trasfigurata, erotizzata, restituita a un maschile sensuale, potente e finalmente liberato dal dovere etico di essere “normale”. La straordinaria potenza di questa visione consiste proprio nella sua ambiguità semiotica: l’immaginario di Tom è iper-virile ma anti-normativo, disciplinato nel tratto ma anarchico nel senso, formalmente realistico ma simbolicamente mitico. È una mitopoiesi queer che non chiede scusa di esistere, e che non offre nessuna morale conciliatoria.

Nel far questo, Tom riesce dove molte forme di arte politica falliscono: non predica, non argomenta, non difende. Mostra. Il corpo maschile, disegnato con una cura quasi sacrale, si fa soggetto assoluto: non più corpo-lavoro, corpo-guerra, corpo-famiglia, ma corpo che gode, che seduce, che si moltiplica in posture impossibili, inere in una danza visiva di dominanza e offerta. È un corpo nuovo, che non deve più giustificare la propria esistenza all’interno del codice sociale. Laaksonen ha il coraggio – e la visione – di disegnare un mondo in cui la legge del piacere soppianta quella dell’obbedienza.

E questa visione, per quanto oggi possa sembrarci quasi “classica” nell’iconografia gay occidentale, era all’epoca qualcosa di inaudito. Non solo nella Finlandia degli anni Cinquanta e Sessanta, ma anche nel più ampio contesto europeo. Basti pensare che solo nel 1957 il Regno Unito pubblicherà il rapporto Wolfenden, che raccomandava la decriminalizzazione dell’omosessualità (attuata solo nel 1967), e che in Italia la sodomia resterà formalmente tollerata ma sostanzialmente perseguita fino agli anni Settanta, con schedature, retate, e una sorveglianza costante nei confronti di ogni forma di vita non conforme. In questo scenario continentale, il lavoro di Tom assume una funzione pionieristica: non tanto perché affronta l’erotismo maschile, ma perché lo fa rifiutando il linguaggio della colpa, dell’inferiorità, della “diversità”. I suoi uomini non si nascondono. Al contrario, occupano la scena con una sicurezza esuberante, spesso ironica, a volte persino giocosa. È un erotismo del trionfo, non della vergogna. Un immaginario che non teme il kitsch, che abbraccia l’eccesso, che costruisce la propria potenza proprio nella sovraesposizione.

Ciò che Tom compie, dunque, è un gesto politico non dichiarato ma assoluto. Una politicità senza ideologia, una resistenza estetica che non ha bisogno di parole d’ordine. E proprio per questo, profondamente rivoluzionaria. Perché afferma, in un tempo di cancellazione, che il corpo omosessuale può essere bello, possente, desiderato e soprattutto desiderante. Che non è necessario chiedere il permesso per essere visibili. Che la bellezza non è monopolio dell’eteronormatività. Che la virilità può essere riscritta, risemantizzata, restituita al gioco, al piacere, all’ambiguità.

E in questa riscrittura si gioca un’intera stagione di soggettività queer che da allora, e ancora oggi, devono a Tom non solo un immaginario, ma una possibilità: quella di esistere, di desiderare, di mostrarsi senza implorare giustificazioni. In una parola: quella di vivere.


2. Decostruzione della mascolinità normativa

L’opera di Tom of Finland, nella sua disarmante evidenza grafica, mette in atto una strategia radicale e sottile di scardinamento della mascolinità egemonica: non attraverso la negazione, ma mediante l’eccesso. Il suo lavoro non si propone di criticare frontalmente la mascolinità normativa – quella virilità disciplinata, produttiva, eterosessuale e repressiva che i regimi patriarcali hanno imposto come modello unico e universale – ma di condurla fino al suo punto di rottura. Tom non distrugge la virilità: la amplifica, la stilizza, la porta a un’intensità tale da farla esplodere dall’interno, rivelandone la natura fittizia, performativa e profondamente ambigua.

Le sue figure – motociclisti, boscaioli, poliziotti, marinai, soldati, cowboys – non sono mai caricature, ma incarnazioni iperboliche di archetipi maschili che la cultura occidentale ha utilizzato per costruire l’ideale virile. Invece di sottrarre forza a queste icone, Tom le carica di un potenziale erotico esplicito e spiazzante. I suoi uomini sono muscolosi, sicuri di sé, spesso autoritari nell’atteggiamento, ma sono anche oggetti del desiderio reciproco, disinibiti, sensuali, sorridenti, consapevoli del proprio potere erotico e disposti a metterlo in gioco in una danza perpetua di dominanza e sottomissione che non si lascia ridurre a ruoli fissi. È proprio in questa ambivalenza che si innesta la decostruzione.

Tom of Finland agisce con chirurgica intelligenza su quel dispositivo che Judith Butler, decenni dopo, avrebbe definito come "la performatività del genere". L’idea secondo cui la mascolinità non è un’essenza, ma un comportamento reiterato, un insieme di gesti e posture che vengono appresi, ripetuti, esibiti. I suoi disegni, apparentemente fedeli al canone virile, in realtà mostrano quanto quel canone sia artificiale, costruito, teatralizzato. L’uniforme, il cuoio, i baffi, i pettorali: tutto è costume, travestimento, mise en scène. La virilità diventa una maschera che si indossa – e che può essere indossata da chiunque, anche (e soprattutto) da chi ne è stato escluso.

Ed è proprio nel momento in cui questa mascolinità diventa disponibile al desiderio omosessuale – nel momento in cui il poliziotto bacia il ladro, il soldato penetra il commilitone, il camionista si lascia dominare dal giovane meccanico – che l’intero edificio simbolico della norma inizia a vacillare. Perché ciò che Tom mette in discussione non è solo la rigidità della mascolinità, ma anche la sua supposta autosufficienza eterosessuale. I suoi uomini non desiderano il “femminile”: desiderano se stessi, i propri simili, i corpi identici ai propri. In questo senso, Tom offre una rappresentazione profondamente queer della mascolinità: non un’alternativa fragile o marginale, ma un ripensamento radicale del maschile a partire dal suo stesso cuore iconografico.

E in questo gesto c’è una consapevolezza che precede – e forse supera – molte delle riflessioni teoriche del femminismo e dei gender studies. Tom sa che la virilità normativa è un costrutto ideologico, ma sa anche che è profondamente desiderabile. Non la demonizza, non la ridicolizza: la erotizza fino a riscriverla. E nel farlo, rompe lo schema binario secondo cui il soggetto gay deve opporsi alla mascolinità per potersi affermare. I suoi personaggi, al contrario, dimostrano che l’essere omosessuali non solo è compatibile con l’essere virili, ma può anzi essere la forma più libera, più consapevole, più seduttiva di virilità.

Questa rivoluzione è tanto più potente in quanto silenziosa, fatta di sguardi, sorrisi, posture, gambe divaricate e jeans stretti. Ogni dettaglio del corpo, nel disegno di Tom, contribuisce a destabilizzare l’ideologia della mascolinità eteronormativa. Perché in quei corpi c’è libertà. C’è la libertà di non dover dimostrare niente. C’è la libertà di essere virili senza dover essere padri, mariti, lavoratori esemplari, soldati. C’è la possibilità, finalmente, di giocare con la virilità, di esplorarla, di trasformarla in un gioco erotico, in una pratica condivisa tra pari, senza sopraffazione strutturale ma con consapevole complicità.

Ma la decostruzione non si ferma all’ambito del desiderio sessuale. Ha implicazioni ben più ampie. Tom ci mostra che la mascolinità, liberata dalle sue catene ideologiche, può diventare anche un linguaggio affettivo, comunitario, ironico. Le sue tavole non sono solo atti erotici, ma anche atti politici e culturali: ridistribuiscono i ruoli, aboliscono il confine tra attivo e passivo, tra dominante e dominato, tra forte e debole. E in questo modo costruiscono un nuovo spazio dell’immaginario: uno spazio in cui il maschile può essere tenero, sensuale, vulnerabile, e dove il potere non coincide più con l’oppressione, ma con la capacità di offrire piacere.

Infine, va detto che questa decostruzione ha avuto un impatto immenso sulla cultura visiva queer internazionale. L’influenza di Tom si estende ben oltre la pornografia: ha plasmato l’estetica del leather, del BDSM, del gay pride, dell’arte contemporanea. Ha ispirato artisti, stilisti, fotografi, performer, registi. Ma soprattutto, ha fornito ai corpi omosessuali una nuova grammatica visiva. Una grammatica fatta di forza, fierezza, ironia, e di un erotismo non più colpevole ma trionfante. Ha insegnato che si può essere maschi senza essere maschilisti, virili senza essere normativi, desideranti senza essere predatori. E ha aperto, con un tratto di matita, uno spazio di immaginazione dove il corpo queer non è più un problema da correggere, ma una forma da celebrare.


3. Iconografia e costruzione del desiderio

L’opera di Tom of Finland rappresenta uno dei più potenti e coerenti tentativi, nella storia dell’arte contemporanea, di dare forma visiva all’universo del desiderio omosessuale maschile, e di farlo non come registrazione mimetica del reale, ma come atto creativo autonomo e radicale, come fondazione di un immaginario nuovo. Più che un artista, Tom è un demiurgo, un creatore di mondi: i suoi uomini – muscolari, sorridenti, dominanti, felici di essere guardati e desiderati – non sono semplici rappresentazioni di corpi, ma archetipi, apparizioni mitologiche che sovvertono l’intero spettro iconografico del maschile imposto dalla cultura eteronormativa. La sua arte non imita la realtà, la reinventa, la riscrive da capo secondo una grammatica erotica che è insieme fantastica, sensuale, spirituale e, soprattutto, politica.

Tom costruisce un universo in cui il desiderio non è mai solo impulso biologico, ma architettura simbolica. Tutto, nelle sue tavole, partecipa alla costruzione di una visione coerente e totalizzante dell’erotismo gay: ogni dettaglio – la piega del cuoio, la lucentezza del latex, la tensione dei bicipiti, la linea di un sorriso obliquo, lo sguardo complice sotto la visiera – è un segno carico di intenzionalità semiotica. I suoi disegni non “mostrano” soltanto: indicano, propongono, stabiliscono. È un lessico, e come ogni lessico si fonda su regole sint…su regole sintattiche e metaforiche che costruiscono senso a partire da una precisa economia del desiderio. In Tom of Finland, il corpo maschile non è mai casuale né generico: è un corpo estetizzato fino all’eccesso, ipertrofico, splendidamente irreale, ma non per questo meno potente sul piano identitario. Esso si presenta come un oggetto di venerazione, di orgoglio, di appartenenza. Il sesso, nel suo tratto, si fa epica: ogni atto, ogni gesto, ogni accoppiamento non è mai degradazione o colpa, ma rito, liberazione, dichiarazione di esistenza.

Questa iconografia del desiderio non si limita a proporre nuovi oggetti erotici, ma fonda un nuovo sguardo. Il punto di vista di Tom è sempre interno alla scena: lo spettatore è chiamato a partecipare, non a giudicare. Non si assiste da fuori, si è coinvolti. Gli occhi dei suoi personaggi ci fissano, ci sfidano, ci accolgono. Sono sguardi che rompono il muro della vergogna storicamente imposta all’omosessualità e offrono, invece, una visione trionfale, gioiosa, ironica. Nulla, in queste immagini, è reticente o vittimario. Al contrario, tutto è iper-visibile, splendidamente esibito: corpi nudi, eretti, penetranti, penetrabili, compiaciuti della propria fisicità e del proprio desiderio. Un’utopia virile che, però, agisce nel reale con la forza dirompente di un manifesto: “questo siamo, questo possiamo essere, questo ci è dovuto”.

Nel mondo di Tom, ogni elemento contribuisce a delineare una mitologia erotica positiva: le uniformi (poliziotti, militari, pompieri), il mondo operaio (meccanici, boscaioli, camionisti), la sottocultura leather e biker — tutte estetiche già cariche di ambiguità sessuale nella cultura popolare, vengono qui sottratte alla retorica del potere e restituite a una comunità queer che se ne riappropria, le trasforma e le reinveste di un valore nuovo. Così facendo, Tom opera una torsione iconografica radicale: ciò che nella società eterosessuale rappresentava l’ordine, il controllo, la virilità repressiva, nei suoi disegni diventa veicolo di libertà, gioco e complicità.

Il leather, in particolare, assurge a vera e propria armatura simbolica: il cuoio diventa pelle rituale, seconda epidermide del desiderio, superficie che amplifica la potenza del corpo e al tempo stesso lo protegge. Il fetish non è solo stilema erotico, ma lingua estetica. Le fibbie, gli stivali, le cinghie, gli elmetti lucidi: ogni oggetto è feticcio, ma anche emblema, totem, bandiera. Il disegno non serve solo a eccitare, ma a dichiarare, a fondare una comunità attraverso l’immagine condivisa del desiderio. Un’estetica che non si vergogna di nulla, che non si ritrae, che mostra l’erezione con la stessa naturalezza con cui la Chiesa mostra le stigmate dei santi.

E in tutto questo, la gioia. Forse la cifra più scandalosa, oggi come allora, è proprio quella felicità incondizionata che trapela da ogni tavola. I personaggi di Tom sono felici di essere come sono. Non cercano redenzione, non implorano tolleranza, non si scusano. Sono sereni, audaci, consapevoli della propria bellezza e del proprio potere erotico. E questa gioia, che si fa carne disegnata, è la più radicale delle rivoluzioni: perché in essa si annulla il dispositivo secolare della vergogna e si proclama, attraverso il corpo, un diritto assoluto alla vita, al piacere, all’autodefinizione.

Tom of Finland, dunque, non disegna solo uomini desiderabili: disegna una civiltà alternativa, un ordine simbolico in cui l’omosessualità non è più il rovescio del normale, ma un centro, una misura autonoma, una forza generativa. Le sue immagini sono mappe di un altrove che è però anche un qui-e-ora possibile: una topografia del desiderio che coincide con la libertà, una cartografia del corpo come campo di resistenza e di festa. In tal senso, la sua opera si situa in una linea di continuità con le avanguardie che hanno cercato, attraverso l’arte, non solo di rappresentare il mondo, ma di rifarlo: da Jean Genet a Pierre Molinier, da Cocteau a Mapplethorpe, da Pasolini a Pierre et Gilles.

Ma Tom ha fatto qualcosa di ancora più ambizioso: ha reso popolare quell’immaginario. Lo ha portato fuori dai circuiti dell’élite artistica e lo ha reso accessibile, replicabile, persino vendibile. I suoi disegni hanno viaggiato in fanzine, riviste, poster, magliette, tatuaggi. Hanno nutrito la cultura visiva di decenni, influenzato la moda, il cinema, la pubblicità. Si sono radicati nel quotidiano e, così facendo, hanno trasformato l’estetica in politica. In ogni sorriso sfrontato dei suoi uomini, c’è un’utopia incarnata: la possibilità che il desiderio sia visibile, degno, felice — e che nessuno debba mai più vergognarsene.


4: La ricezione critica e le resistenze culturali

La ricezione dell’opera di Tom of Finland, pseudonimo di Touko Laaksonen, è stata a lungo ostacolata da un insieme articolato di pregiudizi estetici, morali, politici e culturali che ne hanno condizionato la diffusione, lo studio e la legittimazione. Nato come artista autodidatta in un contesto fortemente omofobo, egli ha elaborato un linguaggio visivo radicalmente divergente da ogni iconografia dominante, costruendo un immaginario erotico centrato sull’orgoglio, la forza, la bellezza e l’autodeterminazione del desiderio omoerotico maschile. Ma questo atto di rivolta iconografica — che oggi può sembrare quasi ovvio nel suo potere liberatorio — è stato a lungo avvertito come perturbante, scandaloso, persino minaccioso, da una pluralità di soggetti, anche apparentemente molto diversi fra loro.

Nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta, le sue immagini circolavano in forma clandestina, spesso attraverso le maglie strette della censura postale americana, celate in buste anonime o stampate su riviste semi-illegali come Physique Pictorial. Il solo fatto che si trattasse di disegni erotici di uomini con altri uomini era sufficiente a renderli illegali in molti paesi occidentali, incluso lo stesso paese d'origine dell’artista, la Finlandia, dove l'omosessualità è rimasta criminalizzata fino al 1971. La prima forma di ricezione, dunque, è stata quella della persecuzione. La polizia postale, la dogana, le autorità sanitarie e morali hanno trattato la sua opera come materiale osceno, pornografico nel senso più sprezzante del termine, indegno di ogni valutazione artistica. Eppure, proprio in quegli anni, le immagini di Tom iniziarono a generare una sorta di culto sotterraneo: uomini gay da ogni parte del mondo si riconoscevano in quelle figure idealizzate, muscolose, fiere, che rovesciavano completamente l’immaginario umiliante e patologizzante diffuso dalla medicina, dalla religione e dalla psichiatria.

Quella che Tom of Finland offriva era una visione nuova: l’omosessualità non più come vergogna o perversione, ma come trionfo virile, libertà erotica, forza desiderante. Ed è proprio questa carica dirompente ad aver generato, sin dagli esordi, forme di resistenza anche all’interno delle stesse comunità LGBTQ+, dove il confronto tra differenti visioni dell’identità e del corpo si è fatto spesso acceso. Negli anni Settanta e Ottanta, mentre da un lato le immagini di Tom divenivano simbolo di liberazione sessuale — ispirando la cultura leather, il feticismo gay, e persino il nascente movimento dell’orgoglio omoerotico — dall’altro lato cominciavano ad emergere critiche sulla natura apparentemente normativa dei suoi corpi: troppo muscolosi, troppo maschili, troppo bianchi. Alcuni intellettuali e attivisti queer, specie negli ambienti accademici statunitensi, hanno accusato la sua opera di promuovere un’estetica fascistoide, machista, ipervirile, che avrebbe contribuito a escludere tutti coloro che non si riconoscevano in quella immagine idealizzata del maschio dominante.

Queste critiche non sono prive di fondamento se analizzate all’interno delle tensioni interne al movimento LGBTQ+ postmoderno: l’egemonia di certi corpi, certi desideri, certe estetiche rischia sempre di produrre nuove marginalità. Tuttavia, in questa lettura vi è anche un rischio opposto: quello di sottovalutare la natura eminentemente politica dell’opera di Tom of Finland in un momento in cui l’esistenza stessa del desiderio omosessuale era costretta ai margini, nascosta o punita. Il fatto che i suoi uomini fossero grandi, sicuri, sorridenti, erotizzati e apertamente sessuali rappresentava una rivoluzione simbolica, una liberazione immaginaria prima ancora che sociale. E non si trattava di una estetizzazione inerte, ma di una strategia di sopravvivenza: fornire a una comunità minacciata dai traumi della repressione e dell’invisibilità una nuova mitologia in cui specchiarsi e attraverso cui generare orgoglio.

È significativo che proprio nella fase più tragica della storia gay moderna — l’irruzione dell’AIDS negli anni Ottanta — l’opera di Tom abbia assunto una funzione ancora più complessa. Da un lato, le sue immagini vennero interpretate come un’estetica dell’innocenza perduta, una testimonianza visiva di quella breve stagione di erotismo libero e gioioso che l’epidemia avrebbe brutalmente interrotto. Dall’altro lato, non mancarono voci polemiche: molti considerarono la sua insistenza su una sessualità orgogliosamente promiscua e penetrativa come irresponsabile, diseducativa, quasi colpevole. La cultura del sex-positive, di cui Tom era divenuto icona involontaria, veniva messa in discussione dalle nuove urgenze dell’epidemia, e non di rado il suo stile veniva equiparato — erroneamente — a una forma di negazione dei pericoli dell’HIV. In realtà, Tom reagì all’emergenza con lucidità e partecipazione: disegnò opere in cui l’uso del preservativo era chiaramente raffigurato, partecipò a campagne informative, contribuì a raccolte fondi. Ma soprattutto, mantenne vivo il desiderio, quella componente pulsionale e corporea che l’epidemia minacciava di spegnere per sempre sotto il peso dello stigma e della paura.

Anche nel mondo dell’arte ufficiale, la ricezione è stata tardiva e contraddittoria. Per decenni, Tom of Finland è stato ignorato dai musei, dalle gallerie e dagli storici dell’arte, relegato alla cultura pop, alla pornografia o, al massimo, all’ambito della “graphic art” marginale. Nonostante l’accuratezza tecnica del suo disegno, la complessità delle sue composizioni e l’enorme impatto culturale delle sue immagini, egli è stato escluso da ogni canone estetico. La sua consacrazione è arrivata solo molto tardi, e ancora oggi si porta dietro una certa reticenza. Le sue mostre sono spesso accompagnate da filtri, da selezioni che evitano le immagini più crude o esplicite, da narrazioni che tendono a “depurare” l’artista, trasformandolo in un semplice illustratore vintage o in un’icona addomesticata. In questo modo, ciò che era sovversivo rischia di essere neutralizzato dalla logica museale e dal mercato.

Paradossalmente, è stato il mondo della moda, prima ancora di quello artistico, a riconoscere il potenziale estetico e politico di Tom of Finland: stilisti come Jean Paul Gaultier, Hedi Slimane, Raf Simons e molti altri hanno attinto al suo immaginario per reinventare un’estetica queer muscolare, feticista, orgogliosamente gay. La sua influenza si è estesa alla fotografia, al cinema, alla pubblicità, all’arte contemporanea — basti pensare a artisti come Robert Mapplethorpe, Bruce LaBruce, Slava Mogutin, fino a Paul McCarthy. Eppure, a ogni ripresa corrisponde sempre una nuova ambivalenza: fino a che punto possiamo celebrare Tom senza cadere nell’estetizzazione vuota? Come possiamo restituire la carica politica del suo tratto, la violenza liberatoria del suo segno, senza farne una figurina pop?

Infine, va sottolineato che il vero impatto di Tom of Finland non si misura nei riconoscimenti tardivi, ma nella trasformazione invisibile che ha prodotto nella coscienza di milioni di uomini omosessuali nel corso di mezzo secolo. Le sue immagini hanno insegnato a desiderare, a osare, a immaginare corpi e ruoli oltre i confini del lecito. Hanno dato carne e volto a un desiderio che per secoli era stato relegato al buio. E l’hanno fatto senza chiedere il permesso, senza legittimazioni accademiche, con la forza eversiva della matita. In questo senso, la resistenza che la sua opera ha incontrato è essa stessa parte della sua grandezza: testimonia quanto profondamente abbia inciso nelle ferite simboliche della cultura eteronormativa e quanto ancora oggi la sua visione continui a inquietare, turbare, accendere.


5: L’eredità culturale, visiva e politica 

Oggi più che mai, parlare dell’eredità di Tom of Finland significa confrontarsi con una vera e propria rivoluzione visiva e simbolica. Non parliamo semplicemente dell’influenza esercitata su alcuni segmenti della cultura gay o del mondo dell’arte underground, ma di un’intera mutazione nel paesaggio percettivo del desiderio maschile omosessuale e nella sua possibilità di rappresentarsi con dignità, orgoglio, provocazione e, paradossalmente, tenerezza. L’impatto delle sue opere non è mai stato solo estetico o pornografico: è stato profondamente antropologico. Ha riconfigurato i parametri della rappresentabilità dell’uomo gay in un contesto storicamente repressivo, ostile, sfigurante.

Negli anni in cui Toivo Laaksonen cominciava a disegnare i suoi uomini impossibili, l’omosessualità era ancora, in gran parte del mondo occidentale, un reato penale, una malattia clinica, un segreto tossico. E se pensiamo che il suo tratto si è affinato tra la seconda guerra mondiale e l’inizio della Guerra Fredda, in un’Europa ancora devastata dai totalitarismi e nella quale l’omosessualità veniva associata alla devianza, all’illegalità, alla vergogna, comprendiamo come la forza eversiva delle sue immagini non si limitasse alla sessualizzazione del maschio, ma alla restituzione di una visibilità esultante a un’intera soggettività negata.

Il primo livello di questa eredità è quello più immediatamente percepibile: l’iconografia. Le sue figure sono ormai entrate a pieno titolo nel vocabolario visivo della cultura pop, queer e postmoderna. I suoi poliziotti, cowboys, marinai, motociclisti, pompieri, boscaioli — tutti rigorosamente palestrati, spesso barbuti, con sorrisi seduttivi e sguardi complici — sono diventati emblemi di un erotismo che non si nasconde, che non chiede scusa, che non si vergogna del proprio desiderio. Sono emblemi di una potenza reinventata, spostata, ricalibrata. Le icone di Tom sono oggi ovunque: appaiono in collezioni di moda (da Jean Paul Gaultier a Raf Simons), in installazioni museali, in tattoo, in stencil sui muri delle metropoli queer, in copertine di dischi techno e house, e persino in emoji reinterpretate su app di dating.

Ma questa diffusione non è un processo passivo. Ogni citazione delle sue immagini comporta, consciamente o meno, una presa di posizione. Significa scegliere un’estetica che ha preso il dominio e l’ha rovesciato. Significa incarnare — anche solo per un momento — un modello di mascolinità che non appartiene alla norma eteronormata, ma che la forza a confrontarsi con la sua stessa costruzione. In questo senso, il lascito di Tom non è solo estetico ma performativo. Il suo immaginario ha dato forma a nuove posture corporee, a nuove forme di soggettivazione erotica. Ha fornito modelli identitari in grado di rompere la dualità passivo/attivo, debole/forte, dominato/dominante, introducendo una terza via in cui la forza fisica può convivere con la dolcezza, e la dominazione può essere un gioco consensuale, erotico, gioioso.

A livello culturale, la portata del suo lavoro si avverte nel modo in cui ha aperto un canale sotterraneo che ha permesso a intere generazioni di uomini gay — specialmente in tempi in cui la parola “gay” era ancora impronunciabile — di riconoscersi, identificarsi, immaginarsi vivi. L’immaginario feticista, il gioco di ruoli, l’uso disinvolto del linguaggio del potere (uniformi, pistole, stivali, manette) viene riletto da Tom in chiave sovversiva: il poliziotto non è più solo il persecutore, ma anche l’amante. Il soldato non è più lo strumento della repressione, ma un corpo da desiderare, un complice. Questo ribaltamento è profondo: è psico-politico. Agisce sulle paure sedimentate nei corpi gay, trasformandole in desiderio, in orgoglio, in allegria carnale.

E tutto ciò è avvenuto senza dichiarazioni teoriche, senza manifesti ideologici, ma solo con l’ostinata creazione di immagini. Con la grafite, l’inchiostro e una sensualità fuori misura. Questo lo rende uno degli artisti queer più importanti del secondo Novecento. Nonostante sia stato a lungo ignorato dal mondo dell’arte ufficiale (per via dell’esplicità sessuale, per via del medium “basso”, per via dell’etichetta pornografica), Tom ha esercitato una pressione costante su quell’universo estetico che si è poi dovuto aprire, progressivamente, alla forza del suo tratto. Solo negli ultimi due decenni la sua opera ha cominciato a ricevere il riconoscimento museale che merita: mostre in istituzioni come il MOCA di Los Angeles, la Kunsthalle di Helsinki, il Tom of Finland Foundation Museum, e persino la Biennale di Venezia 2022, nella sezione queer curata da Catherine Opie.

Questo sdoganamento ha avuto anche un effetto potente sulle nuove generazioni artistiche. Oggi è possibile parlare di un’eredità tomiana trasversale che attraversa i lavori di artisti come Gio Black Peter, Paul Mpagi Sepuya, Bruce LaBruce, Slava Mogutin, ma anche nelle riflessioni visive più astratte di AA Bronson o nei corpi sacri e politicizzati di Zanele Muholi. L’idea che l’erotismo possa essere politico, che la pornografia possa essere arte, che il disegno possa raccontare un’utopia identitaria: tutto ciò è parte di una lezione che Tom of Finland ha impartito con gesto solitario, tenace, generoso.

Infine, c’è il livello più intimo e impercettibile, ma forse più vivo: quello del corpo e dell’immaginario privato. Tom ha dato a milioni di uomini gay uno spazio mentale in cui non essere più minoritari. In cui essere desiderabili, desideranti, solari. Non eroi tragici, non figure di pathos, ma uomini pieni di libido e di vita. Non è un caso che le sue immagini siano sopravvissute anche all’epoca oscura dell’AIDS: in un tempo in cui il corpo gay veniva nuovamente associato alla malattia, alla morte, al contagio, Tom ha continuato a produrre immagini di forza, salute, allegria. E proprio per questo è stato anche accusato, da certe frange dell’attivismo, di edulcorare la realtà. Ma la sua era una scelta precisa: resistere alla disperazione con un immaginario alternativo. Offrire un sogno di virilità condivisa, reinventata, queer.

Oggi la sua eredità è anche educativa. La Tom of Finland Foundation lavora per preservare e promuovere la cultura erotica queer, ma anche per sensibilizzare sui diritti artistici, sulla libertà d’espressione, sull’importanza dell’immaginazione sessuale come parte integrante della dignità umana. In un’epoca in cui nuove forme di censura — più sottili ma non meno feroci — tornano a colpire l’arte queer, la lezione di Tom è più urgente che mai: ricordare che ogni immagine può contenere una rivolta, e che ogni corpo rappresentato è anche un corpo liberato.


Conclusione

L’opera di Tom of Finland è una soglia. Una soglia percorsa da corpi che, nell’attraversarla, si spogliano del giudizio, del senso di colpa, della clandestinità, per mostrarsi in una nuova luce: quella del desiderio che non ha più bisogno di maschere, perché è già esso stesso linguaggio, ornamento, dichiarazione. In un tempo che ancora si confronta con le rovine di secoli di repressione, di marginalizzazione e di cancellazione delle identità queer, Tom ci ricorda — senza mai predicare, ma disegnando — che l’erotismo è anche forma di libertà, che la rappresentazione è un atto politico, e che il piacere può diventare un terreno di resistenza.

La sua eredità va ben oltre il feticismo o l’iperbole muscolare: è una riflessione continua sull’immaginario e sulla sua possibilità di forgiare nuove mitologie. Le sue figure non sono reali, eppure abitano da decenni il reale con più forza di molti corpi in carne e ossa. Sono archetipi, sogni collettivi, riscritture di potere. Sono inviti a ripensare l’identità non come riflesso conforme alla norma, ma come tensione creativa verso l’eccesso, verso il gioco, verso l’affermazione del sé attraverso il corpo, la pelle, lo sguardo.

Guardare oggi Tom of Finland significa anche ritornare a noi stessi, domandarci quanto ancora resti da fare, quanto di quel desiderio sia ancora costretto al silenzio, quanto dei suoi uomini si sia realmente incarnato nella vita quotidiana dei nostri affetti, delle nostre città, dei nostri diritti. Ma significa anche riconoscere che senza quel tratto rotondo, esasperato, sensuale, non saremmo gli stessi. E che un uomo con una matita può, davvero, cambiare il mondo.