sabato 15 novembre 2025

Tre voci, un solo grido: la libertà dell’arte spagnola alla Fabbrica del Vapore



Entrando negli spazi monumentali della Fabbrica del Vapore, il rumore della città sembra dissolversi. Le pareti si fanno specchio di un’altra geografia, un’altra lingua: quella dell’immaginazione. È qui che tre geni spagnoli — Salvador Dalí, Joan Miró e Pablo Picasso — si ritrovano a dialogare oltre il tempo, oltre le estetiche, in una mostra che Milano accoglie come un atto di resistenza poetica. Perché, sì, questa esposizione non è soltanto un tributo alla genialità, ma un viaggio dentro la libertà: quella libertà che nasce nel sogno e nel gesto creativo, e che sopravvive anche quando la storia sembra volerla cancellare.

La mostra — ricca di opere grafiche, ceramiche, incisioni, litografie e multipli — ha un’ambizione chiara: restituire l’eco viva di una Spagna immaginaria e reale, sospesa tra la guerra e il delirio, tra l’infanzia e la rivoluzione. Un percorso visivo che intreccia surrealismo, avanguardia e figurazione mitica, creando un racconto corale dove ogni artista diventa una voce di un canto più ampio: quello dell’arte come rivelazione dell’invisibile.

Dalí: la follia lucida del sogno

Davanti a Dalí, il visitatore è subito travolto da un senso di vertigine. Le sue immagini sembrano scaturire da un sogno lucido in cui il tempo è liquido e la forma è un pretesto per svelare l’abisso. Nelle incisioni che rielaborano i grandi miti — da Don Chisciotte alle Tentazioni di Sant’Antonio — la materia stessa sembra vibrare, come se il gesto dell’artista volesse trapassare la carta e riscrivere la realtà.
La precisione tecnica di Dalí, la sua capacità di rendere palpabile l’allucinazione, è qui esibita non come virtuosismo, ma come metodo di conoscenza: l’irrazionale diventa strumento per esplorare le crepe del reale. Ogni linea è una lama sottile, ogni figura un delirio geometrico che cerca di comprendere la psiche e i suoi desideri segreti.
C’è una sensualità quasi perversa, una religione del dettaglio che rimanda alla pittura fiamminga e al barocco spagnolo. Ma Dalí, più che un continuatore, è un sabotatore della tradizione: il suo mondo non imita, sovverte; non rappresenta, deforma; non spiega, seduce. E in questa seduzione risiede il suo potere.

Miró: la lingua della libertà

Miró è l’altra faccia del sogno, il suo rovescio solare. Dove Dalí evoca il delirio, Miró evoca la leggerezza. I suoi segni, apparentemente infantili, parlano invece una lingua primordiale, fatta di simboli, costellazioni, forme che oscillano tra figura e astrazione.
Camminando tra le sue litografie e incisioni, si ha la sensazione di entrare in un alfabeto di stelle e lune, in un mondo dove la pittura è diventata canto. La linea non descrive, danza; il colore non delimita, esplode.
C’è un respiro poetico che attraversa ogni composizione, un senso di libertà assoluta che si fa contagioso. Miró sembra ricordarci che la vera rivoluzione non è distruggere, ma immaginare di nuovo; che la libertà non si conquista gridando, ma disegnando un cerchio blu sul bianco di un foglio.
In questa sezione, il dialogo tra le opere e lo spazio è particolarmente riuscito: le pareti respirano con le immagini, la luce — mai troppo violenta — avvolge i colori come un’eco mediterranea. È un’esperienza contemplativa, quasi musicale, che sospende il tempo e invita al silenzio.

Picasso: la forma come battaglia

Se Dalí è l’incubo e Miró il sogno, Picasso è la realtà che sanguina. Le sue opere grafiche, eseguite in periodi diversi, rivelano la tensione inesausta tra eros e politica, tra la figura e la sua distruzione.
Picasso è sempre in guerra: contro la forma, contro se stesso, contro il mondo. Le sue linee tagliano come lame, eppure conservano una tenerezza animale. Anche nei soggetti mitologici — come i minotauri o le donne in metamorfosi — c’è sempre una compassione profonda, un senso del tragico che lo lega al destino dell’uomo.
In mostra spiccano le incisioni dove il corpo femminile è trasformato in architettura, o in tempesta, o in puro ritmo. Ma è nei lavori più essenziali, dove pochi tratti bastano a evocare un universo, che si rivela la sua grandezza: Picasso è il maestro dell’economia visiva, della sintesi che sa dire tutto con quasi niente.
Lui stesso, come la Spagna che l’ha generato, sembra abitato da una febbre di metamorfosi. E questa febbre — politica, erotica, esistenziale — percorre ogni suo gesto, ogni linea, ogni volto.

Un dialogo che diventa coralità

L’intelligenza curatoriale della mostra consiste nel non isolare le tre voci, ma nel farle risuonare insieme. Le sale non sono separate per blocchi rigidi, bensì collegate da un ritmo visivo e concettuale che favorisce la contaminazione.
Dalí parla a Miró nella stessa lingua del sogno, Miró risponde a Picasso con un segno di luce, Picasso ribatte a Dalí con la furia del corpo e del desiderio. È come se la mostra mettesse in scena una tragedia in tre atti, in cui l’eroe collettivo è l’arte stessa: quella forza anarchica che, pur sotto il peso della storia, continua a sognare e reinventarsi.

La Spagna come mito interiore

Sullo sfondo, c’è sempre la Spagna: non quella folkloristica delle cartoline, ma la Spagna interiore del duende, della lotta, del silenzio e del sole nero. La Spagna di Goya e Lorca, della tauromachia e della guerra civile, delle chiese barocche e delle campagne bruciate.
Dalí, Miró e Picasso — ognuno a modo suo — incarnano una diversa declinazione di questa anima lacerata e luminosa. Per Dalí, la Spagna è un teatro mistico dove il sacro e l’erotico si confondono; per Miró, è una terra di simboli e libertà elementare; per Picasso, è la madre ferita che urla in “Guernica”.
Eppure, la mostra non si ferma alla retorica dell’identità nazionale: fa emergere la Spagna come stato mentale, come paesaggio interiore dove l’immaginazione diventa forma di resistenza. L’arte, qui, non è mai evasione: è opposizione poetica, sogno che combatte la barbarie.

L’esperienza immersiva

La Fabbrica del Vapore, con i suoi volumi industriali e la luce naturale che filtra dall’alto, si presta perfettamente a questo tipo di allestimento. Le opere sono disposte con respiro, e il percorso permette una lettura progressiva e insieme circolare.
Alcuni ambienti sono accompagnati da suoni o proiezioni che amplificano la dimensione onirica, ma senza mai cadere nella retorica del “multimediale” facile. Qui la tecnologia non spettacolarizza, ma serve la contemplazione.
È un’esperienza che educa lo sguardo, che invita a sostare. Una mostra pensata per chi vuole sentire più che vedere, per chi crede che l’arte non sia solo superficie ma esperienza del pensiero.

Conclusione: l’immaginazione come atto politico

Uscendo, resta una sensazione di gratitudine: per l’arte, per il coraggio dell’immaginare, per la libertà che questi tre giganti continuano a insegnarci.
Dalí, Miró e Picasso non sono soltanto tre nomi nella storia dell’arte: sono tre modi di esistere nel mondo, tre risposte alla domanda su cosa significhi essere vivi in tempi di paura.
La loro lezione, oggi più che mai, è che il sogno non è un lusso, ma un diritto; che l’immaginazione è una forma di resistenza; che la bellezza — quella vera, inquieta, imperfetta — continua a parlare, a Milano come altrove, con la voce dei visionari.

Fino al gennaio 2026