lunedì 10 novembre 2025

Cemento e cenere (30 haiku)


1. 

Binari spenti,
l’eco di passi vuoti,
grida nel vento.

2. 

Fumo grigio,
nella fabbrica stanca
corpi si piegano.

3. 

Semi cadenti,
il tempo li dissolve
senza pietà.

4. 

Fretta nel buio,
nenia di giorni andati,
il corpo tace.

5. 

Cielo spezzato,
l’urlo della materia
muore nel nulla.

6. 

Canute note,
risucchiate nel vuoto,
non fanno ritorno.

7. 

Strapiombo nero,
il salto di una vita
sul vuoto cade.

8. 

Impero freddo,
cemento che ci chiude
in fuga eterna.

9. 

La branda attende,
pena che non si spezza,
sogni sepolti.

10. 

Binari muti,
il treno non ritorna,
silenzio greve.

11. 

Cenere bianca,
l’anima si disperde
tra mura stanche.

12. 

Semi di nulla,
radici che si spezzano
nell’ombra viva.

13. 

Fretta e deserto,
il corpo si dissolve
nella distanza.

14. 

L’eco si stacca,
nel precipizio buio
muore la voce.

15. 

Cemento eterno,
la fuga è solo un sogno
che non si spezza.

16. 

Strapiombo vivo,
risucchio della terra,
l’anima tace.

17. 

Branda di pena,
la carne già consunta
non ha più corpo.

18. 

Binario spento,
la stazione respira
ombre del tempo.

19. 

Cinereo il cielo,
la polvere lo copre
di ombre dense.

20. 

Fanciulli spogli,
fabbriche di tormento,
grida di vento.

21. 

Neniai mute,
fretta che non consola,
il corpo cede.

22. 

Un eco stanco,
canta la fine oscura
del giorno spento.

23. 

Sospeso il salto,
strapiombo del pensiero
già prigioniero.

24. 

Fuggire è vano,
il cemento ti chiude
nel tuo respiro.

25. 

Branda consunta,
la pena si rinnova
senza silenzio.

26. 

Treni deserti,
il binario scompare,
tace la corsa.

27. 

Polvere al vento,
cinerei semi sparsi
tra i miei capelli.

28. 

Nenia del corpo,
un passo che svanisce
nel vuoto fermo.

29. 

Eco sottile,
risucchio di strapiombo,
voce che manca.

30. 

Imperi grigi,
il cemento fuggente
schiaccia i ricordi.

nota

Questi haiku nascono da una tensione silenziosa, da una visione che non descrive soltanto ma interroga, come se le parole cercassero di dare forma a un respiro interrotto del mondo. Ogni immagine — un binario, una fabbrica, una crepa nel muro — si apre come una ferita, come un segno del tempo che non passa invano ma lascia tracce, incrinature, detriti. Il paesaggio evocato è quello della decadenza, ma non intesa in senso puramente estetico: è la decadenza di una civiltà, di una sensibilità, di un’idea di progresso che ha finito per divorare se stessa. I luoghi abbandonati, le strutture cementificate e sorde al respiro della natura diventano metafore di un’umanità che ha perso il contatto con la propria interiorità. Il grigiore delle fabbriche, le rotaie spezzate, le architetture che si sbriciolano non raccontano solo la rovina fisica, ma quella morale, quella spirituale: l’impossibilità di riconoscere ancora una direzione, un orizzonte.

In questo scenario, il secondo tema — la fragilità umana — emerge con ancora maggiore forza. I “semi fanciulli” rappresentano non solo la giovinezza, ma la potenzialità della vita che, invece di germogliare, si dissolve nel cemento dell’abitudine, dell’indifferenza, del tempo. L’immagine dei corpi piegati, della carne che si sfalda, delle presenze che si dissolvono è una meditazione sulla caducità dell’esistenza. Non c’è compiacimento nel dolore, ma una constatazione dolce e terribile insieme: la vita è un istante che si disfa mentre accade, un seme che tenta di radicare in un terreno ormai sterile. Il gesto poetico non cerca di redimere questa condizione, ma di osservarla con lucidità, con una pietas che nasce dal riconoscimento della comune vulnerabilità.

L’impulso alla fuga è la risposta istintiva a questo senso di oppressione. I personaggi impliciti degli haiku — o forse lo stesso sguardo del poeta — si muovono con urgenza, in fretta, come se potessero sottrarsi al peso del mondo. Ma la fuga è sempre interrotta, intrappolata in una gabbia di cemento, di pensieri, di destino. È una corsa immobile, una tensione che non trova sbocco. Il cemento diventa metafora dell’impotenza: costruito per proteggere, diventa barriera; nato per durare, diventa prigione. E dentro questa prigione, la “pena capitale” appare come simbolo estremo della condizione umana: la consapevolezza che ogni tentativo di scampo è già destinato al fallimento, che la libertà è un miraggio proiettato sull’orizzonte di un mondo chiuso.

Nel cuore di questo universo poetico si apre allora il vuoto, una presenza invisibile che risucchia tutto. Gli haiku sono pieni di precipizi, abissi, strapiombi, di immagini che alludono a un nulla non astratto ma tangibile, quasi fisico. È il vuoto del mondo dopo la catastrofe, ma anche quello dell’anima dopo la perdita di senso. Le parole evocano una sospensione, una rarefazione che somiglia al silenzio dopo un urlo, o al fumo dopo un incendio. Il nulla, in questi versi, non è un concetto ma una materia: la cenere, il pulviscolo, l’eco che si dissolve. È un vuoto che non spaventa, ma affascina, perché in esso si intuisce una possibilità: quella di ricominciare, di pensare da zero, di guardare senza illusioni.

Su tutto scorre la corrente invisibile del tempo e della memoria, come un fiume sotterraneo che affiora in pochi punti, nelle pieghe più sottili del linguaggio. L’eco di suoni lontani, di gesti ormai perduti, si mescola al presente e ne dissolve i contorni. Gli haiku diventano così un esercizio di ascolto, un modo per percepire le stratificazioni della vita che passa. Il tempo non è soltanto ciò che scorre, ma ciò che consuma e conserva, ciò che trasforma la materia e la mente. In questa visione, ogni cosa — un muro, un seme, un suono — è già memoria, già residuo di un istante che non c’è più. La poesia diventa allora un atto di resistenza al disfacimento: fissare l’evanescente, dare forma a ciò che sfugge, riconoscere la bellezza del transitorio.

Eppure, sotto la coltre della riflessione, pulsa sempre la presenza della morte. Non come evento finale, ma come principio attivo, come energia che attraversa tutto. Le immagini della pena capitale, del precipizio, della rovina non rimandano a una fine improvvisa, bensì a una lenta e inesorabile disgregazione. È la morte che si insinua nel quotidiano, che trasforma i gesti in ombre, i ricordi in polvere. Tuttavia, in questa consapevolezza non c’è disperazione: c’è una sorta di pace tragica, una lucidità che accetta la distruzione come parte del ciclo naturale.

Infine, nel silenzio che segue, si sente il sussurro della natura tradita. Gli elementi vitali — la terra, i semi, l’acqua — compaiono come fantasmi, segni di un equilibrio infranto. La natura, che un tempo rappresentava il grembo originario, è ora soffocata sotto il peso del cemento e del grigiore urbano. Ma anche in questa desolazione resta una traccia di resistenza: un seme che nonostante tutto tenta di germogliare, una crepa da cui filtra la luce. È forse lì, in quell’infinitesimo atto di sopravvivenza, che la poesia trova il suo senso più profondo.

Questi haiku, nel loro intreccio di temi e simboli, costruiscono un quadro di cupa intensità, ma anche di straordinaria lucidità. Non descrivono un mondo perduto: lo mostrano ancora vivo nella sua decomposizione, come un organismo che respira anche nella morte. La voce poetica non giudica, non consola: osserva, ascolta, testimonia. E proprio in questo gesto, nel suo sguardo immobile e penetrante, restituisce alla parola la sua funzione più antica — quella di dare senso al dolore, e di ricordare che persino nella rovina, nel silenzio e nella cenere, qualcosa continua a germogliare.