"Diario del ladro" di Jean Genet è un libro che sembra scritto con una piuma intinta nel peccato e nell'oro. Pubblicato nel 1949, è un'autobiografia atipica, dove realtà e finzione si mescolano come amanti in una notte brava. Genet ci porta per mano (o per polso ammanettato) nel cuore della sua vita randagia: furti, prostituzione, carcere e un'infatuazione per il mondo degli emarginati che diventa quasi una religione.
Il titolo è già una dichiarazione d’intenti: Genet non si vergogna della sua esistenza ai margini, anzi, la eleva a simbolo di libertà e ribellione. Ogni pagina è un atto di amore verso chi vive fuori dalle regole, in una Parigi fatta di vicoli bui e corpi che si cercano sotto la luce gialla dei lampioni.
La scrittura di Genet è barocca, sensuale e quasi ipnotica. Il libro non è solo il racconto di una vita di strada, ma un'opera poetica che esplora il desiderio, la bellezza dell’abiezione e la trasformazione dell’infamia in una forma d’arte. È un po’ come se San Francesco avesse deciso di seguire non il Vangelo, ma un manuale di sopravvivenza per fuorilegge.
Se ti piace l’idea di un’autobiografia scritta con lo stesso tono di un’ode amorosa dedicata ai ladri e ai reietti, "Diario del ladro" è un viaggio da fare. Ma attenzione: non è un libro che lascia indifferenti. O lo ami o ti turba profondamente. E forse, come per ogni buon libro, è proprio questo il punto.
Genet non si limita a raccontare episodi di vita vissuta: li trasfigura, li ingioiella con parole lussureggianti, fino a renderli quasi rituali sacri. I furti diventano atti di devozione, i bordelli delle cattedrali e i compagni di miseria angeli caduti, desiderabili proprio perché imperfetti, sporchi, sfatti. È una celebrazione della marginalità, un’adorazione della colpa che si ribalta in orgoglio.
Ma attenzione: Genet non chiede compassione. Non vuole redimersi né giustificarsi. Lui abbraccia la sua diversità con una passione quasi mistica. C’è qualcosa di profondamente erotico nel suo sguardo sul mondo, non tanto (o non solo) per il sesso che abbonda tra le pagine, ma per quella tensione febbrile che sente verso il rischio, il pericolo, l’autodistruzione.
E poi c'è la politica del corpo. "Diario del ladro" è anche un’opera che, sotto la pelle della narrazione, grida contro la società borghese e le sue ipocrisie. Genet si fa simbolo di una resistenza silenziosa, che passa attraverso i letti sbagliati e le tasche piene di refurtiva. Il suo amore per gli esclusi diventa un modo per sputare in faccia ai perbenisti.
Se ci pensi, "Diario del ladro" è quasi un manuale di estetica queer ante litteram. Genet ci dice che essere altro, essere fuori, non è una sconfitta, ma un privilegio. Lui si elegge re dei bassifondi, amante degli sconfitti, portavoce di un esercito di invisibili. È un libro che spezza le regole e ride di chi ne ha paura.
C’è anche un’intensità teatrale in "Diario del ladro", come se Genet stesse sempre recitando davanti a uno specchio sporco, ammiccando a se stesso e al lettore. Ogni incontro, ogni amore vissuto per strada o in carcere, sembra una scena orchestrata con precisione: le ombre sono parte della scenografia, le sigarette consumate a metà diventano oggetti di scena, e i corpi, spesso ruvidi e sfatti, sono i protagonisti di un dramma sensuale che si ripete ogni notte.
L’aspetto più disarmante è l’assenza di vergogna. Genet non solo racconta i suoi amori clandestini e i suoi furti, ma li dipinge come momenti di grazia, quasi epifanie. Nel lettore si insinua lentamente un sospetto: e se la vera bellezza non fosse nei salotti borghesi o nelle biblioteche polverose, ma in questi gesti sgraziati e violenti, in questi amori consumati di fretta nei vicoli?
Genet è un ladro, sì, ma anche un poeta che deruba la realtà del suo grigiore. La miseria che descrive è più sfavillante di una parata, e i suoi personaggi – compagni di cella, soldati, ragazzi di vita – hanno un’aura tragica che li rende immortali, almeno finché durano le pagine.
Alla fine, "Diario del ladro" non è solo un’autobiografia: è un’invocazione alla libertà assoluta, una celebrazione dell’essere “fuori posto” come atto rivoluzionario. Genet ci invita a ballare con lui sul filo della lama, dove ogni passo falso può essere fatale, ma la danza è così bella che vale la pena rischiare.
E proprio in questa danza sul filo, Genet ci lascia intravedere il vero significato di Diario del ladro: non è solo la storia di un'esistenza sregolata, ma un manifesto di disobbedienza, un'esaltazione del desiderio che sfida ogni ordine costituito. Genet ci sussurra (o forse ce lo urla) che l’identità si forgia nei margini, in quel territorio incerto dove la morale si sfalda e l’autenticità si rivela.
Il bello di questo libro è che non cerca redenzione. Genet non si pente, non offre un arco narrativo di crescita o purificazione. Rimane fedele alla sua ombra. E qui sta la forza del testo: la celebrazione di una bellezza sporca, contraddittoria, che non ha bisogno di essere lavata via per brillare.
Nel corso della narrazione, emerge anche una riflessione profonda sul potere e la sottomissione, tanto nei rapporti amorosi quanto nei confronti della società. Genet, che scrive dal carcere o con il carcere nell’anima, sembra dirci che la libertà più autentica nasce proprio dalla consapevolezza di essere prigionieri. È la prigionia – fisica o simbolica – a rendere il desiderio più acuto, a trasformare la trasgressione in una forma d’arte.
Leggere "Diario del ladro" significa attraversare una tempesta di corpi e di parole, di passioni torbide e di sprazzi di luce improvvisi. È un libro che seduce e respinge, che ti lascia sporco ma con il cuore pieno di meraviglia. E quando chiudi l’ultima pagina, ti accorgi che Genet, in qualche modo, ti ha rubato qualcosa. Forse un po’ di innocenza. Forse un po’ di ipocrisia. O forse, semplicemente, ti ha rubato il cuore.
Eppure, anche se Genet sembra rubarti qualcosa, ti restituisce molto di più: uno sguardo nuovo, una lente deformante che rende il mondo più vero proprio perché lo distorce. È questo il paradosso di "Diario del ladro": mentre ti porta nei vicoli più oscuri della società e dell'anima, ti apre alla possibilità che proprio lì, dove la legge si spezza e la decenza si dissolve, possa nascondersi una forma di purezza.
Genet non moralizza, non indica vie di fuga. Piuttosto, ti invita a rimanere lì, nell’oscurità, ad abituarti al buio fino a scorgere dettagli che prima non vedevi. È come se ti dicesse: "Resta con me tra i perduti, e vedrai quanto brillano i loro occhi". I furti, i tradimenti, le relazioni clandestine non sono soltanto atti di sopravvivenza o ribellione, ma diventano gesti d’amore, rituali che sfidano il mondo.
E che dire del linguaggio? Genet scrive come se stesse incidendo ogni parola su una lastra di metallo arrugginita. C’è una bellezza spigolosa nelle sue frasi, una musicalità sporca che ricorda il jazz suonato male in un bar di periferia. Eppure, quella melodia imperfetta ti rimane dentro, ti entra sotto la pelle.
Forse, alla fine, "Diario del ladro" non è nemmeno un’autobiografia. È una favola nera, dove l’eroe è un ladro e il lieto fine non arriva mai. O forse arriva, ma si manifesta nell’accettazione totale di sé, con tutte le proprie contraddizioni. Genet non cerca salvezza, perché sa che nell’abisso in cui si muove c’è già tutto ciò di cui ha bisogno: il desiderio, la bellezza, e quella strana forma di amore che nasce solo tra chi non ha più nulla da perdere.
Verso la fine di "Diario del ladro", Genet sembra quasi prenderci per mano – ma è la mano di un ladro, e la stretta è tanto dolce quanto pericolosa. Ci accompagna attraverso la sua ultima consacrazione: il tradimento.
Per Genet, tradire non è solo un atto fisico o morale, ma una forma d’arte. Tradire gli amici, gli amanti, persino sé stesso, diventa il modo più puro per affermare la propria libertà. È un gesto definitivo che spezza ogni legame, ogni aspettativa, lasciandolo nudo davanti al mondo. Paradossalmente, il tradimento diventa la forma più alta di lealtà, perché in quel tradire c’è la fedeltà a un principio superiore: l’autonomia, l’assenza di catene.
E questo principio, così radicale e scandaloso, è la linfa vitale di tutto il libro. Genet ci ricorda che l’identità è liquida, che non siamo mai fissi in un ruolo o in una morale. In ogni furto, in ogni notte passata a fianco di un uomo sbagliato, in ogni carcere, Genet muore e rinasce, si reinventa. È come se ci dicesse: "Non lasciarti definire da niente e da nessuno, nemmeno dai tuoi peccati."
La grandezza di "Diario del ladro" sta proprio qui. Non è solo un libro da leggere, è un libro da vivere. Ti costringe a confrontarti con il tuo riflesso più oscuro, con quelle parti di te che nascondi dietro maschere di normalità. E quando chiudi l’ultima pagina, ti rendi conto che Genet non ti ha mai realmente lasciato andare. Ti guarda da lontano, con quel sorriso beffardo che sembra dire: "Ora tocca a te decidere chi vuoi essere. Io ho già scelto."
E quella scelta di Genet, così radicale, continua a bruciare anche dopo che il libro è stato riposto sullo scaffale. "Diario del ladro' non si limita a raccontare una vita ai margini; ti sfida a guardare i tuoi stessi margini, a domandarti fino a che punto saresti disposto a scendere per trovare la tua verità.
Genet ci sussurra che c’è una bellezza selvaggia nell’andare a fondo, nel toccare la parte più bassa dell’esistenza senza chiedere sconti. È una discesa che non ha bisogno di redenzione, perché la redenzione stessa è vista come una trappola borghese. L’atto di sopravvivere nei bassifondi, di amare in clandestinità, di derubare e mentire, diventa una forma estrema di coerenza.
Nelle ultime pagine del libro, c’è una stanchezza dolce, quasi malinconica. Genet sembra consapevole che la vita che ha scelto – o che lo ha scelto – non può durare per sempre. I corpi invecchiano, le mani si stancano di rubare, e anche i compagni di strada svaniscono. Ma resta una sorta di orgoglio, quello di non aver mai tradito la propria essenza. Anche quando Genet si volta a guardare il passato, non c’è rimorso. Solo un senso di inevitabilità, come se tutto fosse accaduto esattamente come doveva accadere.
Leggere "Diario del ladro" fino in fondo significa accettare di sporcarsi. È un libro che ti graffia, che ti lascia addosso il profumo di sigarette spente e lenzuola troppo vissute. Ma è anche un libro che ti restituisce la libertà di non dover compiacere nessuno, di esistere senza chiedere permesso.
Genet, alla fine, non vuole essere un modello. Vuole essere una voce che ti rimane dentro, che ti accompagna nelle notti in cui ti senti estraneo al mondo. E forse è proprio in quelle notti, sotto la luce fioca di un lampione, che ti accorgi di aver sempre camminato al suo fianco.
E mentre cammini con Genet nell’ombra, inizi a capire che "Diario del ladro" non è solo un resoconto personale, ma una liturgia per chi vive fuori dal coro. È un vangelo apocrifo dedicato ai diseredati, ai vagabondi, a quelli che trovano bellezza là dove altri vedono solo degrado.
Genet trasforma ogni incontro fugace, ogni notte passata tra lenzuola sconosciute, in un frammento di eternità. Anche l’amore più sporco, quello comprato o rubato, si carica di una sacralità strana, come se nei corpi feriti e nelle mani callose si nascondesse una verità più profonda di quella predicata nei pulpiti. È un amore che non redime, ma che almeno offre un senso, anche solo per il tempo di una sigaretta condivisa.
E poi c’è la lingua – quel francese ricamato, sontuoso, che suona come un'opera lirica decadente. Genet non scrive di bellezza: la costruisce. Ogni frase è un esercizio di stile, ma mai gratuito. Le parole si allungano e si avvolgono l’una sull’altra, creando un’armonia che riesce a rendere poetico anche l’atto più vile. È come se l’autore ci dicesse: "Guarda, anche il fango brilla, se lo osservi con la luce giusta".
Alla fine, "Diario del ladro" ti lascia con una domanda scomoda: e se fossero proprio i confini dell’emarginazione a definire la nostra umanità? Se fosse il dolore, e non la virtù, a rivelare chi siamo davvero? Genet non ti offre risposte, perché non è il suo mestiere. Lui è lì per mostrarti la scena e poi sparire, lasciandoti solo con i tuoi pensieri e con l’eco delle sue parole.
Quando l’ultima pagina si chiude, resta un senso di perdita, come se avessi salutato un amico che non rivedrai mai più. Ma forse è proprio questo il segreto di Genet: in realtà, non se ne va mai davvero. Ti osserva da lontano, con quel sorriso beffardo, aspettando che anche tu, prima o poi, scriva il tuo diario del ladro.
E quel diario, inevitabilmente, inizia a scriversi da solo, quasi senza che tu te ne accorga. Genet ti ha già insegnato che non serve rubare per essere ladri, né prostituirsi per sentirsi parte di quel mondo sotterraneo che respira sotto la pelle liscia della società civile. Basta uno sguardo obliquo, un desiderio nascosto, il rifiuto ostinato di uniformarsi.
"Diario del ladro" diventa così uno specchio che distorce, ma in quella distorsione riconosci qualcosa di te che non avevi mai avuto il coraggio di guardare. Genet ti invita a smettere di cercare redenzione, perché è nella caduta che si cela la bellezza più autentica. La santità, ci dice, è per i dannati.
E mentre ti ritrovi a pensare ai suoi vagabondaggi per le strade di Barcellona o Parigi, ti rendi conto che "Diario del ladro" non è solo un racconto di emarginazione, ma un atto d’amore verso l’umanità più fragile e indifesa. Genet non scrive per i vincenti, per chi ha trovato pace e ordine. Scrive per chi continua a perdersi, per chi si consuma nella ricerca di qualcosa che non si lascia mai afferrare del tutto.
Alla fine, la voce di Genet resta con te, come una cicatrice sottile che pulsa ogni tanto, giusto per ricordarti che l’infamia, a volte, può essere una corona. E che anche un ladro, se sa raccontarsi, può diventare re.