La sua opera non si è mai accontentata di raccontare: ha sempre sfidato. La città e i cani, Conversazione nella cattedrale, La guerra della fine del mondo, Il sogno del celta — ogni titolo un affondo, ogni pagina una tensione tra libertà e autorità, tra desiderio e disincanto. Vargas Llosa non ha mai smesso di esplorare le ferite dell’America Latina, né di interrogare il destino dell’individuo moderno. E lo ha fatto con una lingua maestosa, nervosa, possente, capace di accendere il pensiero e il corpo nello stesso istante.
Mai pacificato, ha attraversato le stagioni del mondo e della propria vita con lo spirito dell’eretico: da giovane ribelle marxista a pensatore liberale, da narratore della violenza alla penna d’amore peruviana, da candidato alla presidenza a intellettuale globale. Ha amato la controversia, ha pagato i suoi errori con la stessa ostinazione con cui ha difeso le proprie scelte. È stato protagonista di letteratura, di politica, di scandalo, di cultura. Ma, soprattutto, è stato uno scrittore che non ha mai abdicato al romanzo come forma totale del mondo.
Tornare a Lima, per lui, non fu un gesto di nostalgia. Fu un atto narrativo. Come se l’ultima pagina della sua storia dovesse chiudersi dove tutto era stato seminato: il dolore dell’infanzia, il peso del padre, il fango della giungla, la città verticale, l’odore della carta stampata. E forse anche quella malinconia che la gloria non lava mai del tutto.
A chi resta, tocca ora custodire la sua opera come un testamento inquieto. Vargas Llosa non ha scritto per compiacere, ha scritto per disturbare, per scuotere, per mostrare che la letteratura può ancora essere un luogo di verità feroce. Ha lasciato un corpus che è insieme specchio e ferita del suo tempo: un’epopea umana che resiste al silenzio, alla morte, alla dimenticanza.
In un’epoca che ha paura del romanzo, Vargas Llosa ha continuato a credervi come si crede in un dio pagano, capriccioso, ma assoluto. E proprio per questo, resta eterno.