mercoledì 30 aprile 2025

L’ombra di Pasolini su Milano nera

Milano nera (1963), diretto da Gian Rocco e Pino Serpi, è un film che merita una riscoperta lenta, dolorosa, quasi archeologica. Uscito in un momento di passaggio della cinematografia italiana, nel pieno del boom economico ma con ancora viva la memoria dei quartieri straziati dalla guerra e dalla miseria, quest'opera si colloca su un crinale fragile e scivoloso: tra il tramonto del neorealismo e l’alba di un nuovo cinema urbano, morale, più nervoso, più interiore. È un film ibrido, accidentato, ma per questo affascinante. Come un oggetto ritrovato in una soffitta polverosa, Milano nera porta con sé una materia ruvida, un'energia dolente e irrisolta che si respira in ogni inquadratura.

La città che ci viene mostrata non è la Milano delle cartoline, dei palazzoni modernisti, né la Milano scintillante dei locali jazz e dei manifesti pubblicitari in piazza San Babila. È una Milano offesa, crepuscolare, fatta di periferie infinite, nebbie industriali, rotaie e cantieri. Una città tagliata da ferrovie e tram notturni, dove l’asfalto convive con il fango, e il futuro promesso dal miracolo economico sembra una favola raccontata da altri, altrove. Qui si muove un’umanità che il progresso ha dimenticato: prostitute consumate dalla fatica, ladruncoli minorenni, immigrati del Sud che vivono in dormitori di fortuna, operai esausti, madri sole, figli senza padri.

Il film prende spunto da alcuni fatti di cronaca nera realmente accaduti, ma se ne allontana subito, rifiutando il sensazionalismo per cercare un punto di vista più intimo, quasi sacrale. È in questo sguardo che si sente forte la presenza di Pier Paolo Pasolini, autore della sceneggiatura insieme a Gian Rocco. Pasolini non è mai banale nella scrittura, non si accontenta della denuncia, non si rifugia nella sociologia: scava, nomina le cose col loro nome ruvido e nudo, e restituisce ai personaggi un’umanità complessa, tragica. I dialoghi sono asciutti, spesso interrotti da lunghi silenzi carichi di tensione. Le parole sembrano uscire di bocca con fatica, come se non fosse concesso il lusso dell’espressione. La lingua è a volte dialettale, a volte neutra, in un limbo che riflette lo sradicamento profondo dei protagonisti. Il corpo, più che la voce, diventa strumento narrativo.

C’è, nella Milano di Milano nera, un senso costante di attesa. I personaggi sembrano sospesi, sempre in procinto di cadere o di essere spinti oltre il limite. Le loro vite scorrono ai margini della legalità e della morale convenzionale, ma non c’è condanna. La macchina da presa li osserva con una compassione laica, che rifiuta ogni giudizio, e al tempo stesso non cede mai al sentimentalismo. È una compassione che somiglia a quella della Pietà Rondanini, una tenerezza che si inchina di fronte al dolore e alla colpa, ma non cerca giustificazioni.

La regia di Gian Rocco e Pino Serpi è diseguale, talvolta incerta, ma anche questo contribuisce al fascino del film. Le sequenze si alternano con un ritmo spezzato: da momenti quasi documentaristici, dove la macchina da presa pedina i personaggi con uno sguardo quasi invisibile, a scene più teatrali, intense, costruite su contrasti forti di luce e ombra. La fotografia, granosa e livida, costruisce un immaginario visivo coerente con il tono morale dell’opera. Il bianco e nero accentua la durezza dei volti, la sporcizia delle strade, la malinconia che permea ogni scorcio urbano. Ci sono inquadrature che sembrano rubate alla pittura caravaggesca per come costruiscono la luce attorno ai corpi, e altre che si avvicinano al cinema verité, per la loro crudezza quasi impudica.

Pur essendo un film collettivo, Milano nera ha un’identità ben precisa. Non si limita a raccontare la marginalità: ne fa un luogo dell’anima, una condizione esistenziale che tocca tutti, anche chi non lo sa. Non c’è divisione netta tra buoni e cattivi, tra innocenti e colpevoli. I personaggi vivono in una zona grigia, una “zona pasoliniana” dove la morale non è più un codice da rispettare, ma un campo di battaglia. E proprio in questa ambiguità, che a tratti può spiazzare lo spettatore, risiede la forza più grande del film.

Milano nera è un’opera che non ha avuto la fortuna critica che meritava. Schiacciato tra giganti del neorealismo ormai al tramonto e le nuove ondate autoriali pronte a esplodere (Petri, Bellocchio, i primi Bertolucci), il film è rimasto nell’ombra, relegato a una nicchia di cinefili e studiosi. Eppure, a riguardarlo oggi, colpisce proprio per la sua capacità di raccontare un’Italia che esisteva ancora in quella stagione di ipocrisia e progresso a senso unico. Non è un film perfetto. Ma è un film vero. E oggi, forse più che allora, necessario.



Pino Serpi: un fantasma necessario del cinema italiano

Nel paesaggio del cinema italiano, che negli anni Sessanta conosceva al contempo le vette altissime di Visconti, Antonioni e Fellini e la forza ancora pulsante di un neorealismo che si stava dissolvendo nei suoi stessi stilemi, la figura di Pino Serpi si colloca come quella di un autore nascosto, quasi clandestino. Non tanto per una scelta estetica, ma per una condizione esistenziale e produttiva che lo relega, fin da subito, ai margini della visibilità. E tuttavia, è proprio da quelle zone d’ombra che Serpi sembra parlare, quasi in una lingua minore, fatta di osservazioni, silenzi e sguardi che sfuggono alla sintassi dominante del cinema “ufficiale”.

Quasi tutto ciò che si sa di Serpi ruota attorno a Milano nera — un film che, non a caso, condivide con lui lo stesso destino: l’essere stato rimosso, dimenticato, archiviato troppo in fretta. Eppure, se si scava con attenzione, si scopre che prima di questo progetto esiste una militanza nell’ambito del cinema educativo, e forse anche un passaggio nel documentario d’inchiesta. Fonti frammentarie accennano alla sua vicinanza a figure come Giuseppe Ferrara e Gian Vittorio Baldi, con cui avrebbe condiviso un interesse per il cinema come strumento di consapevolezza civile e politica. Ma ciò che rende Serpi unico è la sua capacità di sottrarsi sia al cinema didattico che a quello ideologico, costruendo uno sguardo che potremmo definire “testimoniale”: non giudica, non spiega, osserva. E osserva con empatia, con una specie di dolcezza discreta, persino quando racconta la disperazione.

In Milano nera, il contributo di Serpi — pur nella co-regia accreditata con Gian Rocco — si rivela essenziale soprattutto nel tono: è lui a offrire alla narrazione quei momenti di sospensione lirica che smorzano il crudo realismo pasoliniano. Dove Pasolini avrebbe calcato la mano sulla parabola tragica e sulla dimensione sacrale della colpa, Serpi suggerisce il peso delle vite quotidiane senza farne allegoria. Le donne in vestaglia, i ragazzini che si arrampicano sui muri della periferia, i gesti minimi dei personaggi — bere da una fontanella, aggiustarsi un maglione logoro — sono tutti atti che parlano una lingua silenziosa e profondamente umana. È un cinema che non urla: sussurra. E Serpi sapeva farlo come pochi.

Il silenzio critico che ha accompagnato il suo nome non è, però, casuale. In un sistema produttivo dominato da figure forti e da logiche di mercato sempre più aggressive, non c’era spazio per autori opachi, per registi “deboli” sul piano mediatico. La sua presenza nei titoli è una parentesi, un’apparizione. Ma proprio per questo, oggi, la sua riscoperta assume un valore quasi simbolico: recuperare Serpi significa dare voce a quella parte del cinema italiano che ha sempre lavorato in sottrazione, ai margini, spesso a mani nude.


La ricezione critica di Milano nera nel 1963: tra rifiuto e disattenzione

Quando Milano nera uscì nel 1963, fu subito evidente che si trattava di un film problematico. Non solo per le sue caratteristiche formali, ma per la sua stessa posizione nell’industria cinematografica italiana dell’epoca. Distribuito con un numero esiguo di copie (pare siano state 25 in tutto il territorio nazionale) e con una programmazione ridotta a pochi giorni, il film fu da subito condannato a una visibilità parziale, quasi nulla. Le cause furono molteplici: la presenza di contenuti giudicati “scabrosi” dalla censura (che inizialmente ne vietò la proiezione per “offesa al buon costume”), la struttura narrativa atipica, e soprattutto il fatto che il film non apparteneva a nessun genere riconoscibile. Non era un poliziesco, non era un melodramma, non era un film d’autore in senso canonico. Era un oggetto non identificato.

La critica italiana, in quegli anni, era divisa tra la venerazione dei grandi maestri (Fellini, Antonioni, Visconti) e l’attenzione alle nuove tendenze internazionali (la Nouvelle Vague, il Free Cinema inglese). In questo contesto, un film come Milano nera appariva come un tentativo maldestro di rilanciare un neorealismo che sembrava ormai esausto. Alcuni recensori liquidarono il film come “ritardatario”, incapace di innovare, privo di forza espressiva. Altri, più sensibili, intuirono che dietro quell’apparente semplicità si nascondeva qualcosa di più: una malinconia profonda, una rappresentazione disillusa ma non cinica della metropoli italiana in trasformazione.

Tra le poche voci favorevoli, va ricordata quella di Masolino D’Amico, che su L’Unità lodò il film per la sua “onestà narrativa” e per “l’assenza di compiacimento nell’osservazione del degrado urbano”. Su Cinema Nuovo, una rivista di riferimento per il cinema impegnato, si sottolineò invece come la regia riuscisse a “scolpire figure senza eroi”, e come il testo pasoliniano, pur sacrificato in parte nella sceneggiatura finale, lasciasse comunque un’impronta lirico-morale nel percorso del protagonista.

Ma queste letture rimasero marginali. Prevalsero le stroncature, o peggio, il silenzio. Il pubblico non rispose: troppo cupo, troppo lento, troppo “vero” in un momento in cui l’Italia stava correndo verso l’illusione del benessere, e il cinema si faceva sempre più spettacolare, o sempre più intellettuale. Milano nera, invece, restava a mezza strada tra la denuncia sociale e la contemplazione poetica. Non era il tempo giusto per film così.

Col passare degli anni, la pellicola scomparve dalla circolazione. Nessuna edizione in VHS o DVD, nessuna riproposta televisiva. Solo a partire dagli anni Duemila, con la rivalutazione del cinema “minore” e con l’interesse crescente per le opere dimenticate della stagione neorealista e post-neorealista, il film ha cominciato a essere studiato di nuovo. In alcuni cineforum, in festival dedicati al cinema invisibile, Milano nera è riemerso come un oggetto da guardare con occhi diversi: non più come un “fallimento”, ma come un esperimento coraggioso, che racconta l’Italia di passaggio tra due epoche — quella della miseria e quella del boom — senza retorica, senza abbellimenti, e con una voce stranamente attuale.



Gian Rocco: l’ambiguità del regista “visibile”

A differenza di Pino Serpi, Gian Rocco fu un autore meno fantasma, ma non per questo più compiutamente riconosciuto. La sua figura galleggia in una zona ibrida del cinema italiano, a metà fra l’industria e la militanza, fra l’ambizione autoriale e la disponibilità al compromesso. Rocco era un uomo di mestiere, ma dotato di una sensibilità fuori norma. La sua formazione passava attraverso la fotografia e l’assistenza alla regia in contesti produttivi minori, fino all’incontro con ambienti culturali legati alla sinistra cattolica e ai circoli di cineasti “etici” di fine anni Cinquanta.

Fu in questo brodo che nacque il sodalizio con Pasolini: i due condivisero per un periodo l’interesse per la rappresentazione degli strati più marginali della società urbana, in particolare di Roma e Milano. Non è un caso che Rocco fu tra i primi a tentare una traduzione visiva del Pasolini narratore: Ragazzi di vita e Una vita violenta erano da poco usciti, e il loro impatto nel mondo letterario — tra scandalo e riverenza — aveva suscitato un’ondata di attenzione anche nel cinema. Ma mentre Pasolini stava per esordire alla regia (con Accattone, nel 1961), Gian Rocco provò a trarne un film che potesse far coesistere la potenza lirica del testo con la sobrietà produttiva di un film a basso costo.

Il risultato fu Milano nera. Rocco lo pensava come un film "corale", ma venne poi costretto dalla produzione a concentrarsi su una struttura più lineare, centrata su un protagonista unico — un giovane ladruncolo che sogna la fuga e inciampa invece in un destino già segnato. A emergere è una regia attenta agli ambienti urbani, capace di valorizzare le architetture della periferia milanese con un occhio quasi documentaristico, ma anche disposta a piegarsi a certe convenzioni del melodramma, imposte per rendere il film più vendibile.

Il vero talento di Gian Rocco si rivela nelle sequenze "di passaggio", nei dettagli che sfuggono alla trama principale: bambini che giocano nel fango, donne che aspettano l’autobus con le borse della spesa, uomini seduti ai margini della strada con la testa fra le mani. In questi momenti il suo sguardo diventa quasi pasoliniano, ma senza l’aura tragica e ieratica che caratterizza il cinema del poeta. Rocco osserva con un realismo più dimesso, quasi pudico. Non c’è epica della marginalità, ma un rispetto silenzioso per le esistenze precarie. Alcuni studiosi hanno definito il suo stile come "neorealismo di seconda generazione": non più la denuncia, ma la sopravvivenza. Non più l'epopea del popolo, ma il racconto della stasi. Il suo cinema — e in particolare Milano nera — è pervaso da un senso di attesa, come se i personaggi fossero sempre in bilico, mai completamente agiti dalla trama.

Rocco sembra percepire la città come una macchina che consuma e disorienta, una Milano diversa da quella scintillante dei caroselli pubblicitari. I suoi angoli sono sempre in ombra, le luci filtrano dall’alto o riflettono su pozzanghere, e le finestre — spesso inquadrate con insistenza — sembrano occhi chiusi o ciechi. Questo linguaggio visivo è estremamente coerente con una poetica del limite: lo sguardo che Rocco getta sui suoi personaggi è sempre parziale, come se si sforzasse di trattenere il giudizio, ma al tempo stesso non potesse evitare di suggerire una sottile pietà. Il dolore non esplode mai: è incistato, trattenuto, a volte persino ignorato. Ma c'è. Esiste nel ritmo stesso del film, che pare sfuggire alla catarsi e si accontenta della testimonianza.

Purtroppo, il suo nome non riuscì mai a imporsi. Dopo Milano nera, firmò alcuni documentari, sporadiche regie televisive, e nel 1970 un film per il circuito delle sale parrocchiali, poi scomparso. La sua carriera si disperde in un’attività secondaria e in lavori tecnici, nonostante un’innegabile lucidità intellettuale. Di lui resta soprattutto questo film, e il dubbio che potesse diventare qualcosa di più se il sistema cinema italiano avesse accolto davvero le voci divergenti. A oggi, le tracce documentarie su Rocco sono frammentarie, ma qualche intervista del periodo — apparsa su riviste minori come Cinema Sud e Pellicola — conferma il suo disagio nei confronti della macchina industriale del cinema italiano, che egli definì "un corridoio buio con porte chiuse da entrambe le parti".

Nel 1984 fu intervistato per un convegno sul cinema marginale organizzato all’Università di Lecce: lì raccontò come la sceneggiatura di Pasolini lo avesse profondamente spiazzato. "Era un testo colmo di interruzioni. Come se l’autore non volesse farci mai sentire al sicuro", dichiarava. E aggiungeva: "Quel ragazzo, Tullio, non era un protagonista, ma un vuoto narrativo. Io ho dovuto trasformarlo in qualcuno che il pubblico potesse almeno seguire con continuità. Ho fallito? Forse. Ma non mi vergogno di aver cercato un compromesso". Queste parole, dimenticate per anni, oggi illuminano la tensione che attraversò Milano nera fin dalla sua genesi: un film tirato per il braccio da due direzioni opposte, eppure mai lacerato del tutto.


Le tracce residue della sceneggiatura di Pasolini: un’anatomia parziale

Quando si parla della sceneggiatura di Milano nera firmata da Pier Paolo Pasolini, si parla di un testo oggi in gran parte disperso. Nonostante l’accredito ufficiale, gli studiosi concordano nel ritenere che il girato finale si discosti in modo netto dal progetto originario, che lo scrittore redasse tra il 1961 e il 1962, in parallelo alla preparazione di Mamma Roma. Di quella sceneggiatura restano alcune pagine negli archivi della Cineteca Nazionale, annotate a mano con correzioni e versioni alternative. Ma soprattutto, rimangono gli echi: le sopravvivenze stilistiche, i tratti linguistici e le situazioni narrative che denunciano la mano dell’autore.

Alcuni temi sono inconfondibili. Innanzitutto, la centralità del ragazzo sottoproletario: un giovane che ruba, mente, si difende con l’astuzia, ma che conserva una purezza infantile nello sguardo. Questo personaggio, che nel film prende il nome di Tullio, ricorda da vicino i protagonisti di Accattone e Una vita violenta: è un Cristo laico e imperfetto, condannato non per colpa ma per mancanza di alternative. Pasolini lo disegnava con dettagli affettivi: un rosario nascosto nella tasca, la passione per le canzoni melodiche, la paura del buio. Il film ne conserva solo in parte questi tratti, preferendo una rappresentazione più lineare e meno stratificata. Tuttavia, il legame tra il corpo e la colpa, tra il desiderio e la punizione, rimane un filo rosso che attraversa molte scene, anche laddove Pasolini è assente in senso stretto.

Un altro elemento pasoliniano è la dialettalità interrotta: nella sceneggiatura, molti dialoghi erano scritti in un milanese ibrido, mescolato a termini dialettali romani, suggerendo un contesto urbano contaminato, tipico delle periferie in costruzione. Questa scelta linguistica fu in gran parte corretta o eliminata in sede di riprese, per renderla più comprensibile. Ma alcune frasi resistono: “Gh’è nagott da fa’” (“Non c’è niente da fare”), pronunciata da una vecchia portinaia, e la battuta “Se rubi per fame non è peccato” che sembra riecheggiare una teologia laica, tipicamente pasoliniana. Un altro appunto marginale della sceneggiatura indica che il protagonista avrebbe dovuto, in una scena mai girata, confessarsi a un prete di strada, che però lo respinge con freddezza. Il rifiuto della redenzione, ancora una volta.

L'idea del sacrificio finale: nella sceneggiatura, il protagonista non veniva arrestato, come accade nel film, ma moriva accidentalmente, investito da un’auto mentre scappava dalla polizia. Una morte assurda, senza eroismo, che ribaltava ogni possibilità di redenzione. Pasolini annotava a margine: “Il suo corpo sul selciato non è un simbolo. È un corpo.” Il film rinuncia a questa chiusa tragica, preferendo una conclusione più ambigua, forse per non compromettere troppo la distribuzione. Ma quell’ultima immagine, il volto del ragazzo riflesso in una pozzanghera d’acqua sporca, resta comunque una sopravvivenza poetica del suo sguardo. Qualcuno ha letto in quell’immagine un residuo dello sguardo sacrale di Pasolini: lo specchio non come metafora, ma come ferita.

Un’altra scena, cancellata ma presente negli appunti, prevedeva un sogno: il ragazzo vedeva la città trasformarsi in un deserto bianco, pieno di statue rotte e bambini nudi che correvano senza meta. Una visione surreale, quasi felliniana, che Pasolini aveva intitolato “intermezzo metafisico”. Tagliata, probabilmente su richiesta della produzione, che la giudicò "eccessivamente criptica". Ma proprio in questi frammenti incompiuti si annida la tensione tra il progetto originario e la sua versione cinematografica: Milano nera fu un film pensato da un poeta e rifinito da un artigiano. La sua bellezza, imperfetta e intermittente, nasce proprio da questa frattura.