venerdì 2 maggio 2025

Mettere in scena il soggetto. Paolucci con Butler, Foucault, Agamben e Haraway

Una grammatica del soggetto che accade

C’è qualcosa di profondamente necessario nella lettura di Persona di Claudio Paolucci, qualcosa che sembra rispondere a una domanda che tutti, consapevolmente o no, ci portiamo addosso: chi parla quando dico “io”? E ancora: chi sono, quando vengo detto da qualcun altro, quando vengo osservato, evocato, ricordato? Questo libro, che si colloca con intelligenza e coraggio all’incrocio tra semiotica, filosofia del linguaggio e pensiero critico, non offre una risposta univoca. Al contrario, scava, interroga, mette in crisi. E lo fa con metodo e con passione, affidandosi a uno strumento potente: la semiotica dell’enunciazione.

Non si tratta di un saggio su una “persona” nel senso comune del termine, né tantomeno di una riflessione etica sull’individuo. È un libro sul farsi – e sul disfarsi – del soggetto nel linguaggio. Non chi è, ma come appare, come prende posizione nel flusso della parola. Non l’essenza, ma la forma dell’apparizione. E questo fa sì che Persona si proponga, più che come un trattato, come una topografia mutevole della soggettività, costantemente impegnata a ridisegnare i confini fra l’io e l’altro, fra il dire e l’essere detto.

Il soggetto come movimento: non un punto fermo, ma una traiettoria

L’idea di soggetto come centro stabile è una delle più radicate nella cultura occidentale, ereditata dalla tradizione filosofica moderna. Ma Paolucci, con gesto lucido e affilato, smonta questo impianto e ci invita a pensare il soggetto non come una sostanza, ma come un atto. Non una voce che precede la parola, ma una posizione che emerge quando qualcuno prende la parola. In questo senso, il soggetto non è altro che un movimento: un processo enunciativo che si produce e si consuma nel momento stesso in cui accade.

E se l’“io” non è più l’origine, ma una funzione discorsiva, allora cambia radicalmente la nostra prospettiva sull’identità, sulla responsabilità, sull’autenticità. Non siamo mai davvero da soli nel parlare di noi stessi: portiamo sempre con noi l’eco di ciò che gli altri hanno detto, pensato, proiettato su di noi. L’identità, allora, non è mai un monologo, ma un dialogo che continua anche quando crediamo di essere i soli a parlare.

Tra filosofia e cultura: l’enunciazione come esperienza condivisa

Una delle qualità più preziose di questo libro è la sua capacità di tenere insieme il rigore teorico con la vivacità dell’esperienza culturale. La riflessione di Paolucci, per quanto ancorata a una solida genealogia intellettuale che va da Benveniste a Peirce, non resta mai chiusa nei confini della pura astrazione. Al contrario, si irradia verso la cultura contemporanea, come se volesse mettere alla prova le proprie ipotesi nel campo aperto della vita vissuta, dei discorsi quotidiani, delle immagini che ci attraversano.

Cinema, canzoni, romanzi, performance digitali: Persona guarda al presente con l’occhio del semiologo, ma anche con la sensibilità di chi sa che ogni manifestazione artistica, ogni espressione estetica, ogni gesto comunicativo è anche un laboratorio del soggetto. Ogni frase, ogni selfie, ogni “ti amo” è un atto di messa in scena della persona che siamo, o che fingiamo di essere. Il libro invita a una consapevolezza nuova e inquieta: il soggetto è una costruzione continua, sempre parziale, sempre esposta.

La terza persona come chiave paradossale della prima

Forse la svolta più sorprendente del libro – senza entrare nei dettagli – è il modo in cui Paolucci rivaluta la funzione della terza persona nella formazione della soggettività. Mentre la filosofia del linguaggio ha spesso privilegiato la prima persona come luogo dell’autenticità, l’autore ci costringe a fare un passo indietro, o meglio: un passo di lato. Perché è proprio quando ci vediamo da fuori, quando diventiamo “egli” o “ella”, che la nostra identità si manifesta nella sua dimensione più fragile e reale.

Guardarsi con lo sguardo dell’altro non è alienazione, ma riconoscimento. È una forma di esistenza linguistica che ci mostra come siamo sempre un po’ altro da ciò che crediamo di essere. In questo gioco di rimandi fra prima e terza persona, fra soggetto e oggetto, fra chi parla e chi viene detto, si dispiega il vero campo semantico della persona. Una persona che, lungi dall’essere una monade, è una scena in cui più voci si affollano, si sovrappongono, si interrompono.

Critica della soggettività digitale (senza cadere nel lamento)

È impossibile leggere Persona senza sentire la sua risonanza con il nostro tempo. Un tempo in cui la soggettività sembra implodere sotto il peso dell’autoesposizione, della performance continua, dell’identità trasformata in brand. Ma Paolucci non si rifugia in un atteggiamento nostalgico o apocalittico. Non denuncia la morte dell’io, né si lamenta per la superficialità delle nuove forme comunicative. Piuttosto, osserva. Analizza. E mostra come, anche nelle modalità più effimere della comunicazione odierna, continui a operare quel meccanismo profondo e affascinante che ci fa essere qualcuno per qualcun altro.

In un’epoca in cui tutto sembra diventare “profilo”, Persona non rinuncia alla profondità. Ma lo fa senza superiorità. Il libro ci accompagna, con rispetto e ironia, dentro il nostro stesso linguaggio, come a suggerire che anche il soggetto più disperso ha ancora – sempre – la possibilità di prendersi la parola.

Un’opera aperta, non una teoria chiusa

Chi cerca in questo libro una definizione rassicurante di “persona”, rimarrà deluso. Ma chi cerca un pensiero vivo, capace di accendere domande e rilanciare il senso della riflessione sul sé, troverà in queste pagine un compagno di strada prezioso. Paolucci non offre una teoria chiusa, ma una mappa in divenire. Non un dogma, ma una grammatica flessibile per orientarsi nel caos dell’identità contemporanea.

Il suo linguaggio, pur essendo preciso e concettualmente esatto, non perde mai di vista il lettore. C’è una cura nella scrittura, una gentilezza argomentativa, che trasforma la lettura in un’esperienza intellettuale ma anche affettiva. Persona è uno di quei libri che non si leggono una volta sola. Chiede di essere abitato, meditato, ripreso. Perché parla di noi. Di quel noi che non si vede mai tutto intero, ma che risuona in ogni frase che comincia con “io” – o con “egli”.


Proseguo e l'iintero corpo sarà una vera e propria costellazione critica attorno al concetto di soggetto, con comparazioni teoriche approfondite (Butler, Foucault, Agamben, Haraway) e un’estensione del pensiero di Paolucci in ambito teatrale, performativo, linguistico e corporeo. Il testo è pensato per occupare lo spazio di un saggio critico, senza spoiler dei contenuti del volume Persona (Bompiani).


Dalla persona al soggetto: genealogie, fratture, reinvenzioni. Con Paolucci, oltre Paolucci

Il soggetto moderno – erede dell’“anima razionale” agostiniana, del cogito cartesiano, del monologo interiore dell’io lirico – è una figura che l’Occidente ha investito di un potere quasi mitico: fondamento della responsabilità, garante della coerenza narrativa, motore dell’agire morale. Ma negli ultimi decenni questa figura ha subito un processo di disarticolazione radicale, che ha trovato nelle scienze umane, nella filosofia del linguaggio e nella semiotica – ma anche nelle arti performative – non solo gli strumenti della decostruzione, ma anche la possibilità di nuove forme di pensabilità.

In questa traiettoria si inserisce il libro Persona di Claudio Paolucci. La sua proposta teorica – che restituisce la persona come maschera enunciativa, come configurazione discorsiva e non come centro intenzionale – si inscrive con forza e originalità nel dibattito filosofico contemporaneo. Ma al tempo stesso se ne distacca, aprendo spazi inediti alla riflessione. È per questo che un confronto con figure come Judith Butler, Michel Foucault, Giorgio Agamben e Donna Haraway non è solo pertinente: è essenziale.

Judith Butler: il soggetto come iterazione, vulnerabilità, esposizione

Per Butler, il soggetto non è un punto di partenza, ma un risultato: un prodotto performativo, cioè una posizione costruita attraverso pratiche linguistiche e sociali. Il soggetto esiste solo nella misura in cui viene continuamente reiterato: è l’effetto di una stylization of the body, di una continua ripetizione che conferma, ma potenzialmente anche disfa, le norme che lo fondano. Paolucci, in modo diverso ma contiguo, spoglia la persona dalla sua pretesa di stabilità e identità, riconducendola a una funzione enunciativa: l’“io” è sempre una posizione nel testo, un punto di attacco discorsivo, e mai una sostanza che precede il discorso.

In Giving an Account of Oneself, Butler introduce un tema chiave: non esiste narrazione di sé che non sia già “implicata” in un ordine simbolico. Ogni tentativo di racconto è già dentro una lingua, un’istituzione, un dispositivo. Paolucci, nella sua prospettiva semiotica, offre una struttura simile: ciò che chiamiamo “persona” non è altro che l’articolazione di ruoli e funzioni nel dispositivo linguistico. È dunque impossibile “essere se stessi” in modo originario: il soggetto non si dà fuori dal discorso. Anzi: è una sua funzione.

Michel Foucault: soggetto, dispositivi, genealogia

In Foucault, il soggetto è l’effetto di una molteplicità di forze: epistemiche, politiche, linguistiche. Da Les mots et les choses in poi, ogni pretesa di un “uomo” come fondamento del sapere viene messa in discussione. Il soggetto moderno – tanto nell’ordine delle scienze quanto in quello morale – è una costruzione tardiva, contingente, storicamente situata.

Paolucci non lavora con le genealogie né con la storia delle istituzioni, ma propone una mossa complementare: mostra come, a livello microscopico dell’enunciazione, il soggetto sia continuamente prodotto e riprodotto. Se Foucault guarda ai grandi dispositivi (la scuola, la prigione, la clinica), Paolucci guarda al testo, alla frase, all’organizzazione linguistica dell’io. Ma la logica è la stessa: il soggetto non è mai libero, mai “autentico”. È posizionato. È un effetto, non una causa.

In questo senso, Paolucci potrebbe essere letto come un teorico dell’enunciazione come dispositivo. Ogni parola in prima persona, ogni costruzione pronominale, ogni uso dell’indice deittico “io” è già una forma di assoggettamento e posizionamento. Ma al tempo stesso è anche lo spazio di una possibilità: di riappropriazione, di gioco, di reinscrizione.

Giorgio Agamben: l’inoperosità del sé e la soglia del linguaggio

Il pensiero di Agamben è percorso da un’idea fondamentale: il linguaggio non è semplicemente uno strumento di comunicazione, ma il luogo originario in cui l’essere umano si costituisce. In L’uso dei corpi e Mezzi senza fine, Agamben delinea la figura di un soggetto che non si definisce per identità, ma per uso: il soggetto non è chi è, ma ciò che fa con se stesso, con la propria voce, con la propria posizione.

Paolucci non utilizza il lessico agambeniano, ma lo sfiora spesso. L’idea che la “persona” sia un’articolazione linguistica e non una sostanza è profondamente affine all’“inoperosità” agambeniana: disattivare le funzioni prescrittive del soggetto per far emergere la sua nudità enunciativa. L’“io” non agisce, ma viene articolato, portato in scena, declinato. È una soglia, un passaggio. La persona, così come la pensa Paolucci, non è un attore ma un atto: è il momento in cui il linguaggio si fa carne, gesto, forma del mondo.

Donna Haraway: il soggetto come assemblaggio, ibrido, rete

Con Haraway ci troviamo davanti a un pensiero post-organico. Il soggetto – o meglio il cyborg, la figura teorica e politica al centro del suo Manifesto – è già contaminato, attraversato da codici, tessuti, dispositivi. L’identità è un nodo di relazioni, una rete di affiliazioni: non c’è più un dentro o un fuori, ma solo interconnessioni.

Paolucci non si muove nel campo della teoria postumanista, ma la sua visione della “persona” come maschera, funzione, dispositivo è perfettamente compatibile con questa visione. La “persona” è un costrutto, non un’identità biologica o morale. È il modo in cui il linguaggio attraversa il corpo, lo nomina, lo investe, lo rende leggibile. E in questo senso, è già una macchina. Una macchina enunciativa. Una macchina affettiva. Una macchina sociale.


Persona come scena: verso una drammaturgia dell’enunciazione

A partire da questi riferimenti, è possibile immaginare un’estensione performativa del pensiero di Paolucci. Perché se la “persona” è un effetto di discorso, allora ogni scena teatrale, ogni performance, ogni esposizione pubblica del sé è un laboratorio di soggettivazione.

La scena non è il luogo della rappresentazione, ma della comparsita. L’attore non incarna un personaggio, ma una posizione. Ogni battuta, ogni gesto, ogni cambio di tono è una variazione della persona. Come in una partitura enunciativa, la scena diventa il luogo in cui il soggetto si “compone” e si “scompone” – dove la soggettività non è né data né cercata, ma accade, si mostra, si espone.

Pensiamo a una drammaturgia costruita non su un conflitto psicologico, ma su una molteplicità di funzioni enunciative. Un attore che parli sempre in terza persona, come un narratore esterno di sé. Un altro che usi solo l’“io”, ma in modo dissonante, contraddittorio, scivoloso. Un terzo che agisca per indici, per gesti deittici, per affermazioni incomplete. Non ci sarebbero “personaggi”, ma forme di soggettivazione. Non ci sarebbe trama, ma processi enunciativi. Sarebbe teatro come pensiero incarnato. Come semiotica in atto. Come linguaggio che si fa corpo.

E ancora: si potrebbe immaginare una scena in cui le voci non corrispondono ai corpi, in cui gli attori si scambiano pronomi, funzioni, soglie. Una macchina teatrale dove la soggettività non sia mai possesso, ma sempre passaggio. Un teatro in cui il soggetto sia il risultato di un montaggio.



Il soggetto come movimento

Claudio Paolucci, con il suo Persona, si inserisce con decisione in uno dei compiti teorici più urgenti e cruciali del nostro tempo: ripensare radicalmente il soggetto, svincolandolo dalle tradizioni metafisiche che lo hanno concepito come un'entità compatta, stabile, autonoma. In questa prospettiva, il soggetto non è più fondamento né centro unitario dell’esperienza; non è più un’identità fissa, chiusa in se stessa, coerente e sempre identica, bensì un movimento: un moto instabile tra posizioni differenti, un attraversamento di soglie, un continuo scivolamento che avviene attraverso gli atti del linguaggio, della relazione, del gesto. Il soggetto, in questo senso, si mostra come un evento — non qualcosa che è, ma qualcosa che accade, che si produce nella rete delle enunciazioni e delle pratiche, che prende forma solo nell’atto stesso del suo farsi.

In questo scenario di profonda revisione, le voci teoriche di Butler, Foucault, Agamben, Haraway — ciascuna a partire da traiettorie diverse ma convergenti — hanno contribuito a decostruire l'idea di un soggetto unitario, trasparente e naturale. Judith Butler, ad esempio, ha mostrato come l’identità di genere non sia un dato ma una performance iterativa; Michel Foucault ha scavato nelle genealogie del sé, mettendo in luce le tecnologie del potere e del sapere che lo costituiscono; Giorgio Agamben ha interrogato il rapporto tra linguaggio, potere e soggettivazione, ponendo l’attenzione sulla nuda vita; Donna Haraway ha introdotto una visione postumana, ibrida, cyborgica della soggettività. A questa costellazione critica, Paolucci aggiunge una forza concettuale ulteriore, che proviene dalla semiotica: propone infatti una “semiotica del sé”, una grammatica che non descrive tanto le essenze quanto le funzioni, una struttura che non si limita a catalogare identità ma a rappresentare il gioco mutevole delle maschere linguistiche e delle posture comunicative.

Ciò che emerge, allora, è una nozione di persona completamente riformulata: non più come qualcosa da recuperare, come un’essenza da ritrovare nel profondo, ma come qualcosa da produrre attivamente. La persona non è il risultato di una scoperta interiore, ma di una costruzione esteriorizzata, scenica, teatrale. O, per essere più precisi: è una messa in scena, una rappresentazione che si rinnova ogni volta, che si reinventa continuamente. Ogni atto enunciativo, ogni interazione, ogni contesto ci costringe a ricreare la persona che siamo o che possiamo diventare. Non c’è un volto unico da rivelare, ma una pluralità di maschere da abitare, disfare, ricombinare. La soggettività, in questa luce, è un laboratorio instabile, un processo di modulazione continua, una soglia sempre aperta tra ciò che siamo stati, ciò che sembriamo essere, e ciò che potremmo diventare.