La mostra attualmente in corso al PAC – Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, interamente dedicata all’opera di Shirin Neshat e visitabile fino all’8 giugno, si configura come una delle più dense e complesse retrospettive dedicate all’artista iraniana in ambito europeo. Ma sarebbe riduttivo considerarla una semplice antologia delle sue opere più rappresentative. Al contrario, l’esposizione assume le sembianze di un vero e proprio attraversamento critico, un itinerario stratificato che non si accontenta di ricostruire il percorso dell’artista in termini cronologici o tematici, bensì si pone come un dispositivo vivo, un’esperienza immersiva in grado di mobilitare sensibilità e pensiero. In questo senso, la mostra si situa oltre la logica celebrativa o documentaria, scegliendo piuttosto di interrogare, mettere in crisi, provocare domande. Ogni opera esposta non è semplicemente “vista”, ma agita, attiva, risvegliata in relazione al contesto che la ospita e al corpo dello spettatore che la attraversa.
L’approccio curatoriale rifugge l’idea di un contenitore neutro e propone invece una struttura espositiva che funge da strumento di analisi e da architettura concettuale. Le sale non si succedono secondo uno schema convenzionale, ma sono pensate come stanze del pensiero, spazi in cui immagine, parola e memoria si intrecciano fino a creare un linguaggio visivo che chiama lo spettatore a una partecipazione intellettuale ed emotiva. Il dialogo tra le opere e lo spettatore si fa corpo a corpo, scontro fecondo, occasione di ascolto e disorientamento. La mostra non offre un percorso rassicurante, ma organizza un campo percettivo instabile, in cui la responsabilità dello sguardo viene continuamente rinegoziata. Ogni immagine è una soglia da attraversare, una porta che non conduce mai a un solo significato, ma apre a una molteplicità di narrazioni in conflitto tra loro.
Al centro di questa esperienza si impone con forza il nodo centrale della ricerca di Shirin Neshat: la costruzione di un’identità femminile diasporica, continuamente messa alla prova dalle frizioni tra appartenenza e alienazione, tra radicamento culturale e desiderio di emancipazione. Questa identità, mai pacificata, si declina attraverso una costellazione di opposizioni solo apparenti: Oriente e Occidente, modernità e arcaicità, silenzio e grido. Le celebri fotografie dell’artista — volti femminili in primo piano, attraversati da calligrafie in farsi che scorrono come vene sulla pelle — esprimono una condizione esistenziale scissa, in cui il corpo diventa luogo di scrittura, palinsesto di storie e memorie conflittuali. L’immagine, dunque, non è mai pura rappresentazione: è carne politica, linguaggio incarnato, testimonianza e provocazione.
L’allestimento stesso lavora attivamente contro l’inerzia della visione passiva. Non si limita a presentare le opere come reliquie museali, ma le innesta in una trama di rimandi visivi e concettuali che ne moltiplica la risonanza. Ogni dettaglio dello spazio espositivo — la disposizione delle luci, l’acustica delle sale, la successione delle immagini — è studiato per destabilizzare l’ordine dello sguardo e costringere lo spettatore a un continuo riassestamento percettivo. L’arte, in questo contesto, non è più solo oggetto di contemplazione, ma pratica ermeneutica, strumento di interrogazione critica. Il museo non è più uno spazio neutro, ma una zona liminale in cui le gerarchie epistemiche vengono messe in discussione e la fruizione diventa esperienza politica.
I dualismi che attraversano l’opera di Neshat non vengono mai proposti come opposizioni rigide, ma come forze in costante tensione, come polarità fluide che sfuggono a ogni tentativo di sistematizzazione. La mostra costruisce attorno a queste tensioni un’architettura poetica che ne esalta la natura ambigua e dinamica. Laddove ci si attende un messaggio chiaro, l’immagine si fa opaca; laddove si cerca una chiave interpretativa univoca, l’opera si stratifica, si complica, si vela di significati molteplici. È proprio in questa ambivalenza che risiede la potenza della visione: nella capacità di aprire varchi di senso piuttosto che chiuderli, di generare domande invece che risposte.
L’eco teorica di autrici e autori fondamentali del pensiero postcoloniale e femminista — da Trinh T. Minh-ha a Gayatri Chakravorty Spivak, da Edward Said a Homi K. Bhabha — attraversa il percorso espositivo in modo sotterraneo ma persistente. Le loro riflessioni sul soggetto marginale, sull’alterità radicale, sulla resistenza simbolica dei corpi subalterni, sembrano risuonare nel tessuto stesso delle opere, non come citazioni esplicite, ma come trama ideologica e affettiva che ne sostiene la grammatica visiva. La questione della voce femminile, costretta al silenzio o deformata dal filtro dello sguardo egemonico, diventa così un nodo irrisolto ma continuamente rilanciato, un’urgenza etica e politica che si manifesta nell’estetica stessa dell’opera.
In questo contesto, l’esperienza del visitatore si trasforma radicalmente. Non più spettatore distaccato, ma soggetto coinvolto, chiamato a mettere in gioco la propria posizione, la propria storia, le proprie categorie interpretative. La mostra si configura allora come un vero e proprio dispositivo di attivazione critica: non invita alla contemplazione, ma alla decostruzione; non conferma certezze, ma sollecita dubbi. Ogni passaggio, ogni transizione tra un’opera e l’altra è pensato per aprire spazi di riflessione, per costringere lo spettatore a rallentare, a sostare, a interrogare se stesso. L’arte, in questo senso, si fa strumento di resistenza contro l’omologazione percettiva, contro la rapidità del consumo visivo, contro la riduzione dell’immagine a merce o spettacolo.
L’universo poetico di Neshat è abitato da ferite, da vuoti eloquenti, da lacerazioni che non cercano guarigione, ma verità. Il suo lavoro non propone soluzioni, né messaggi rassicuranti. È un’arte dell’assenza, del non detto, del non mostrato: e proprio in questo silenzio si apre uno spazio di libertà interiore, un luogo in cui la soggettività può ritrovare il proprio potere trasformativo. È una libertà conquistata, mai data: si gioca nel confronto con l’altro, nella fatica dell’interpretazione, nella tensione tra i codici e nella moltiplicazione delle voci. L’immagine diventa così un campo di possibilità, uno spazio generativo in cui la memoria, la storia e il desiderio si incontrano.
In un panorama artistico internazionale sempre più assuefatto a linguaggi consensuali e globalizzati, l’opera di Neshat si impone come una contro-narrazione necessaria. Non blandisce lo spettatore con l’esotismo, né lo seduce con estetiche accomodanti. Al contrario, rivendica il diritto alla complessità, alla differenza, alla difficoltà. La sua voce — plurale, spezzata, irrisolta — si fa portavoce di una soggettività altra, irriducibile ai codici dell’universalismo occidentale. La mostra del PAC non è quindi soltanto un evento espositivo, ma un laboratorio critico, uno spazio di messa in discussione, una zona di frizione epistemica. È qui, in questa soglia fragile e potente, che il visitatore è invitato a ripensare la propria posizione nel mondo, a farsi carico del peso delle immagini, ad assumere lo sguardo come responsabilità.
In definitiva, l’opera di Neshat non ci chiede di capire, ma di ascoltare. Non ci offre verità, ma ci spinge a sopportare l’ambiguità. È arte che non consola, ma emancipa. È un gesto che interroga — e ci interroga — senza fine.