Una mostra alla Palestra Grande (fino al 31 gennaio 2026)
Ci sono domande che si ostinano a restare vive, come braci sotto la cenere, anche quando tutto sembra volerle seppellire: domande che attraversano i secoli, risalendo dai detriti della storia con la forza invincibile di ciò che non smette di cercare risposta. Cosa significa essere donna? Cosa ha significato nei tempi remoti, nel tessuto quotidiano di una società come quella di Pompei, che ci pare distante ma che riaffiora, di continuo, dalle pietre, dalle rovine, dai frammenti che il tempo ha lasciato come indizi sparsi? Il passato non è mai davvero scomparso: pulsa sotto i nostri piedi, come una sorgente carsica. E la mostra “Essere donna nell’antica Pompei”, accolta nella cornice silenziosa e austera della Palestra Grande, non pretende di offrire una risposta netta, definitiva. Non si erge a giudice né a portavoce del tempo antico. Piuttosto, invita a sporgersi su un precipizio narrativo, su un vuoto che chiede di essere guardato. Apre un varco, uno squarcio nel tempo, una fessura nel muro compatto della narrazione ufficiale. Un varco che ci chiama a riconsiderare non solo la storia, ma anche il nostro modo di leggerla, di tramandarla, di darle senso.
Nel passato, così come nei nostri sguardi, ciò che è stato a lungo ritenuto marginale – lo spazio della casa, il gesto silenzioso, l’affetto quotidiano, la scrittura nascosta, la cura anonima – prende qui il centro della scena. La mostra non fa della donna antica un’icona, né una figura idealizzata da ammirare da lontano. Al contrario, si avvicina con rispetto e fermezza a quei vissuti che non hanno mai avuto il privilegio della voce storica. La mostra è un gesto radicale, che non mira a restaurare un quadro incompleto, ma a renderci consapevoli delle sue crepe, delle omissioni che lo attraversano come nervature invisibili. Ricostruire una memoria franta non significa chiudere un cerchio, ma accettare la sua forma spezzata, irriducibile.
Guardare dove non si è guardato
L’immaginario collettivo che evoca Pompei – e più in generale il mondo romano – è ancora fortemente maschile: è un immaginario di potere, di ordine, di costruzione civile e militare. I nomi che ricordiamo sono quelli degli uomini: magistrati, generali, filosofi, senatori. Gli spazi che visitiamo sono i fori, le terme, le arene, i templi. I testi che studiamo sono scritti da mani maschili. Ma basta scostare appena il velo della narrazione dominante per scoprire che a Pompei c’è stata, da sempre, un’altra città: quella delle assenze. Una città silenziosa, fatta di stanze domestiche, di cortili chiusi, di cunicoli oscuri dove si consumava la fatica, la maternità, la dedizione. C’è stata la Pompei delle bambine mai registrate, delle adolescenti vendute come schiave, delle mogli che aspettavano, delle levatrici che tacevano, delle nutrici che consolavano. E ci sono state le donne che la cenere ha sorpreso mentre proteggevano il corpo di un figlio, o lo stringevano, o lo cercavano nel buio.
La mostra non inventa una Pompei al femminile: la dissotterra. La libera dalla polvere dell’ideologia e dell’indifferenza. Non si tratta solo di portare alla luce oggetti, ma di leggere le tracce invisibili, di riconoscere nelle assenze una forma di presenza. Perché nell’archeologia – e ancor più nella storia culturale – ciò che manca dice tanto quanto ciò che resta. Dove sono le parole delle donne? Dove sono le lettere, i pensieri, i racconti? E come fare a parlare di chi non ha potuto parlare? Come dare forma a un soggetto che il tempo ha dissolto, e che tuttavia continua a interrogare il nostro sguardo?
“Essere donna nell’antica Pompei” è, in fondo, un esercizio di immaginazione storica. Un atto di fede nella possibilità di tradurre il silenzio. Di leggere tra le righe del tempo. Di cogliere le vibrazioni di una vita che non si è potuta scrivere, ma che è stata vissuta, e che ancora pulsa nelle fibre sottili del nostro presente.
Una mostra come atto politico e poetico
Non si sceglie di raccontare il mondo antico dalla parte delle donne senza assumersi una responsabilità: quella di mettere in discussione l’intero edificio della storiografia tradizionale. Significa spostare il baricentro, dislocare l’epicentro del potere. Ma significa anche operare un atto poetico, perché poesia è ciò che nomina ciò che non era mai stato detto. È un gesto di traduzione e di trasgressione insieme: traduzione di un’esperienza plurale e profonda, trasgressione di un canone che ha sistematicamente escluso o ridotto il vissuto femminile a note a piè di pagina.
La donna pompeiana non è un’unità definita, ma una molteplicità mobile: una figura franta, sfaccettata, viva. Non ci sono ruoli fissi, ma intersezioni: tra norma e desiderio, tra potere e oppressione, tra bellezza e dolore. Non è un’icona da adorare, ma un prisma che rifrange luci diverse. La mostra si oppone a ogni romanticismo, a ogni tentativo di addolcire il passato. Non idealizza, non edulcora. Al contrario, restituisce complessità, ambiguità, tensione. Rende visibile il conflitto, la ferita, la lotta. E in questo fa dell’archeologia non un esercizio erudito, ma una forma di testimonianza.
Scavare nel terreno, certo. Ma anche nel tempo interiore. Nei depositi psichici della storia. Perché la donna – nel mondo antico – è stata spesso più oggetto che soggetto, più corpo che voce, più funzione che presenza. E tuttavia, proprio da questa marginalità, da questa zona d’ombra, può emergere oggi una forma nuova di soggettività, più autentica, più difficile, più nostra.
Un’etica dello sguardo
Guardare una mostra come questa implica un cambiamento di postura. Non si tratta di apprendere nuove nozioni, ma di disimparare quelle vecchie. Di abbandonare la pretesa di possedere il passato, di dominarlo. Si tratta di accettare la fragilità, l’incompletezza, il dubbio. Di restare in ascolto. Di riconoscere che esistono voci che non parlano con le nostre parole, che non si lasciano archiviare, ma che tuttavia continuano a vibrare. È un esercizio di silenzio attivo: non assenza di suono, ma disponibilità all’ascolto. Uno spazio di attenzione, in cui anche ciò che è stato dimenticato può ancora dire qualcosa.
La mostra ci pone domande che vanno ben oltre l’antichità: chi decidiamo di ascoltare? Chi includiamo nei nostri racconti? Chi lasciamo fuori? Ogni scelta narrativa è un atto politico, un gesto etico. E ogni atto etico è anche una forma di poesia, perché implica un’apertura, una disponibilità all’altro, un atto di fiducia nella possibilità di comprendere chi è stato messo ai margini.
In questo senso, la Pompei delle donne non è un oggetto del passato, ma un soggetto del presente. Non è solo una città sepolta, ma una condizione umana che ci appartiene. È un corpo collettivo, una memoria condivisa, un nodo emotivo che ancora ci tocca, ci scuote, ci cambia.
Un percorso interiore e collettivo
Ogni mostra è un viaggio, ma non sempre questo viaggio è lineare o consolatorio. A volte è una discesa. Una discesa negli strati più profondi della storia, e insieme nei recessi più nascosti della coscienza. Visitare “Essere donna nell’antica Pompei” è accettare di scendere: nei cunicoli della memoria, nei solchi della perdita, nei corpi rimossi. È confrontarsi con ciò che non conosciamo, ma che ci abita. Con ciò che non abbiamo saputo vedere, ma che ci riguarda.
La Pompei che riemerge da questo percorso non è più la stessa. Ma nemmeno lo spettatore lo è. Perché ogni incontro con l’invisibile, ogni gesto di attenzione verso chi non ha avuto voce, ci trasforma. Ci rende più consapevoli della nostra stessa parzialità, della nostra esposizione, della nostra fragilità. Ogni donna senza nome che la mostra evoca, ogni sguardo che ci interpella dalle teche, ogni oggetto che racconta un frammento di vita, ci parla anche di noi. Di quello che siamo. Di quello che potremmo diventare.
E allora sì, forse, questa mostra è anche un gesto d’amore. Ma non un amore consolatorio, bensì esigente. Un amore che domanda cura, presenza, rispetto. Un amore che non vuole ricucire le ferite, ma ascoltarle. Che non vuole parlare al posto dell’altro, ma camminare al suo fianco. Un amore che si fa spazio. Spazio per chi non ne ha avuto. Spazio per restare. Per esistere. Per significare.