Il fumo negli occhi
Il merito non esiste. Esiste l’uso del merito. Il richiamo al merito è la nuova parola d’ordine di chi ha già vinto, il modo elegante con cui i vincitori si autocelebrano. È una pacca sulle spalle data a se stessi. Nessuno invoca il merito per gli altri. Il merito è sempre proprio, mai altrui.
Il problema non è il merito. È la narrazione che ne fanno. È l’occhio che ne seleziona la forma, il suono, il vestito. Il merito, dicono, premia chi si è fatto da sé. Ma guarda caso, si fanno da sé solo quelli che piacciono a chi comanda. Gli altri si sono “persi”, o “non avevano i mezzi”, o “hanno mollato”. Il merito, così inteso, è una fiaba darwinista raccontata da chi ha già in tasca l’eredità del trono.
Ma il merito vero, quello che non si annuncia da solo, è scomodo. Non si lascia inserire nei salotti. Non si presta ai selfie, non conosce i codici dei palazzi, non ha genuflessioni da offrire. È il merito del ragazzo che scrive poesie senza sapere a chi mandarle. Della donna che tiene insieme figli, notti di lavoro e un’idea ancora non detta. Dell’uomo che ha studiato tutta la vita fuori orario, senza ricevere in cambio altro che silenzio.
A nessuno interessa quel merito. È un merito che non può essere cooptato, quindi non conta. Il vero merito fa paura. Perché è un promemoria vivente dell’ingiustizia.
Allora lo coprono. Lo neutralizzano. Lo etichettano con parole che non significano nulla: “particolare”, “eccentrico”, “intenso ma disomogeneo”. Non è “organico”. Non è “strategico”. Non “rientra nel percorso”. Come se la verità dovesse rientrare in qualcosa.
Il merito, in questa versione tossica, è solo una lente rotta. Un modo per non vedere. Un fumo negli occhi, per coprire che tutto funziona ancora con le stesse logiche di sempre: appartenenza, familiarità, mutua protezione. Il merito è solo la scusa.
Eppure, c’è chi vede lo stesso. Anche da fuori. Anche dalla panchina.
I padroni del merito
Ci sono quelli che lo distribuiscono, il merito. Come se fosse loro. Come se spettasse a loro dire chi vale. Parlano come se non avessero mai sbagliato nulla. Come se il loro stesso potere fosse prova del loro valore, e non della loro fortuna.
Chi ha potere pensa di sapere chi ha merito. È il primo errore. Poi, lo fa sistema. Chi seleziona crede di vedere oltre. Ma non vede niente. Vede ciò che gli somiglia. Ciò che lo fa sentire al sicuro. Ciò che non lo mette in discussione. E chi non somiglia, chi porta una lingua diversa, un gesto spostato, uno stile che rompe, quello viene lasciato fuori. Ma con stile. Con eleganza. Con complimenti formali. Con promesse vuote.
C’è chi viene “notato”. E chi no. Ma non è il talento la misura. È l’intreccio. È la rete. È il “ti metto in cc”, “ti faccio conoscere”, “gli ho parlato di te”. Il merito, dicono. In realtà è solo il permesso. Il merito non ti dà nulla se non hai anche il permesso. E il permesso lo danno loro. I padroni.
Padroni sorridenti, progressisti, inclusivi a parole. Ma guai a scavalcarli. Guai a non passare da loro. Il sistema è aperto, dicono. Ma ci sono porte. E dietro ogni porta c’è un custode. Non uno che legge. Uno che decide. Uno che gestisce l’accesso. Il merito deve passare da lì. Deve bussare, inchinarsi, attendere. Deve sapere chi salutare.
Così il talento si piega. O si spezza. Così il desiderio diventa marketing. Così l’arte diventa progetto. Così il pensiero diventa CV. E se non impari il trucco, resti fuori. Nonostante tutto. Nonostante la verità che porti.
I padroni del merito non sanno creare. Sanno solo validare. Hanno bisogno del tuo sangue, ma non del tuo spirito. Ti vogliono utile, non libero.
Ma il merito vero, prima o poi, si stanca. E quando si stanca, non chiede più di entrare. Inizia a costruire altrove. E allora tremano. Perché il loro potere si basa sull’illusione che fuori non ci sia niente.
Ma fuori c’è il futuro.
I servi del merito
Ci sono poi loro: quelli che ci credono. Che non comandano, non distribuiscono, ma eseguono. Con zelo. Con entusiasmo. Con quell’energia cieca di chi ha bisogno di sentirsi giusto.
I servi del merito si allenano presto. Studiano, sorridono, si presentano bene. Non disturbano. Sanno dove mettere la virgola. Ma soprattutto sanno dove mettersi loro: un passo indietro dai padroni, un passo avanti agli esclusi.
Non fanno domande. Fanno carriera.
Sono quelli che non ti diranno mai “non vali”, ma ti diranno: “non è il momento”. Che non ti tagliano la lingua, ma ti tolgono il microfono. Sono quelli che parlano di “opportunità” mentre difendono gerarchie. Che citano Foucault, ma chiedono “chi te lo pubblica?”. Che sorridono a tutti, ma segnalano solo gli amici. Che credono nella giustizia, ma non la disturbano.
Il servo del merito sa perfettamente come si gioca. Ma non cambia le regole. Ci si adatta. Ci si specchia. Ci si consacra.
Scrive, certo. Crea, forse. Ma sempre all’interno. Mai contro. Mai troppo. Mai troppo fuori misura. E se uno eccede? Se uno rompe? Se uno ha ragione ma non ha stile? Allora è “troppo”. Allora è “da rivedere”. Allora è “non in linea con il progetto editoriale”.
Il servo del merito non lotta. Compila. Non inventa. Risponde. Non vive. Rappresenta.
E se un giorno si accorge che non basta? Che anche servendo bene, il merito non arriva? Che il premio va sempre a un altro? Che la fila si allunga ma la porta resta stretta? Allora si arrabbia. Ma non cambia. Cerca un altro padrone.
Perché in fondo, non vuole libertà. Vuole riconoscimento. Vuole una pacca sulla spalla. Un invito. Un posto al tavolo.
Sono tanti. E sono ovunque. E mentre si moltiplicano, la verità si fa più timida. Il gesto necessario si isola. Il pensiero libero viene archiviato come “inusuale”.
Ma senza padroni, i servi non saprebbero chi essere. E senza servi, i padroni non durerebbero un giorno.
I traditori del merito
Non sono molti. Ma esistono. I traditori del merito non si riconoscono subito. A volte hanno vinto premi. A volte li hanno rifiutati. Non sempre urlano. Ma quando parlano, cambiano l’aria.
Non vogliono "emergere". Non cercano una posizione. Cercano un varco. E se non c’è, lo scavano.
Sono quelli che stanno zitti quando si deve parlare, e parlano quando il silenzio è comodo. Che non chiedono niente, ma portano domande. Che non si giustificano mai: rispondono solo a ciò che li chiama davvero.
Non vogliono farsi strada. Vogliono cambiare mappa.
Hanno capito che il merito non misura niente. Che è una favola per tenere buoni i buoni. Che non ci sarà mai una giuria giusta, un regolamento perfetto, un "meritato" per tutti. Hanno smesso di sperare che gli altri se ne accorgano. E hanno cominciato a vivere come se la scena fosse già cambiata.
A volte li accusano di superbia. Di non partecipare. Di non mettersi in gioco. Ma loro lo sanno: è un altro il gioco. E non c’è campo da tennis che regga un volo.
I traditori del merito sono impazienti. Ma non fanno carriera. Fanno opere. O errori. Ma veri. Non consegnati, non approvati, non misurati. Veri. Disordinati. A volte splendidi.
Li riconosci dal fatto che non si aspettano più nulla. E per questo fanno tutto.
Amano senza chiedere pubblico. Scrivono senza chiedere collana. Accolgono senza chiedere appartenenza. Si fanno da parte quando serve, e tornano quando manca qualcosa. Non per occupare. Ma per riempire un vuoto che conoscono bene.
Non cercano di farsi un nome. Cercano di restare vivi.
Ogni tanto qualcuno li chiama “maestri”. Ma loro non insegnano: offrono. Poi spariscono.
I traditori del merito non vogliono distruggere il sistema. Vogliono dimenticarlo. Lasciarlo lì, in un angolo, come un vecchio giornale che non serve più.
E intanto, fanno spazio. Aprono stanze. Liberano voci. Rompono la catena.
Non sono eroi. Sono stanchi. Ma dentro quella stanchezza, c’è un principio. C’è un “basta” che è anche un “adesso”.
Del premio e della ferita
Il premio è una scena. Ha luci, un centro, un applauso. La ferita, invece, non ha testimoni. Non ha scalette. Non ha discorsi da fare.
Il premio viene dato. La ferita resta.
A volte coincidono. Il premio può ferire. La ferita può premiare. Ma quasi mai nello stesso momento. C’è uno scarto, una dissonanza, uno sguardo altrove che chi ha ricevuto non può ancora vedere. E chi ha perduto, forse sì.
Il premio vuole dire: sei giusto, sei nostro, sei dentro. La ferita sussurra: sei vero, anche se resti fuori.
Chi riceve il premio entra in una storia. Chi porta la ferita ne fonda una.
È sottile la differenza. Ma profonda.
Il premio si espone. La ferita si nasconde. Eppure, se guardi bene, ogni opera necessaria nasce da lì: da quel punto in cui si è stati dimenticati, rifiutati, respinti. Umiliati anche. Ma ancora vivi.
Ci sono persone che scrivono per guarire. Altre per vendicarsi. Altre ancora per trasformare la ferita in un dono. Non sempre riescono. Ma quando accade, succede qualcosa che non ha più bisogno di riconoscimento.
C'è chi dice che il premio dà forza. È vero. Ma la ferita dà profondità. Il premio ti alza. La ferita ti scava. E solo chi è stato scavato può contenere davvero qualcosa.
Molti cercano il premio per riempire un vuoto. I più lucidi sanno che quel vuoto non va colmato, va abitato. Non è una lacuna: è un luogo. E in quel luogo si può restare. O scrivere. O amare. Senza più chiedere di uscirne.
Alcuni, dopo aver ricevuto il premio, non sanno più che fare. Si afflosciano. Non reggono l’eco. Altri, invece, mai premiati, continuano a generare. Come se la ferita fosse una porta. Una che non si chiude mai.
E allora forse è questo il premio più alto: una voce che resta, anche quando nessuno ascolta. Un gesto che parla, anche dopo la fine. Un’opera che si fa, non per avere — ma per non perdere ciò che altrimenti si spegnerebbe.
Il premio è un istante. La ferita è una fiamma.
E chi ha acceso quella fiamma, lo sa: il riconoscimento non sarà mai all’altezza della verità.
Chi resta nell’ombra
Ci sono vite che non emergono. Non per mancanza di valore, ma per eccesso di silenzio. O per destino. O per scelta.
Non si tratta di anonimato, ma di una posizione. Una postura esistenziale: laterale, discreta, costante. Una fedeltà alla propria voce anche quando nessuno ascolta. Un ardere senza platea.
Chi resta nell’ombra a volte conosce più luce di chi è sotto i riflettori. Perché non ha mai dovuto tradirsi per piacere. Né svilirsi per esistere.
In quell’ombra si lavora. Si pensa. Si tenta. Si rifà.
C’è una nobiltà nel non essere visibili. Non è umiliazione. È raccoglimento. È spazio che protegge invece di esporre. È tempo che fermenta invece di consumarsi.
Non sono i dimenticati. Non sono i falliti. Sono i presenti senza clamore. I vivi senza rumore.
L’ombra non è buio. È qualità del chiaroscuro. È quella zona dove il mondo non guarda, e perciò si può ancora essere veri. Dove si può sbagliare senza essere condannati. Dove si può riuscire senza essere posseduti.
Molti di loro non hanno lasciato opere pubblicate. Ma hanno lasciato impronte nelle persone. Gesti che hanno guarito. Parole dette una sola volta — e ricordate per sempre.
Li si ritrova nei diari altrui. Nei ringraziamenti di libri che non hanno scritto. Nei sorrisi che hanno evitato un abisso. In qualche casa lontana, con un tavolo e una finestra e nessuna pretesa di essere visti.
Chi resta nell’ombra custodisce. Non espone, non compete, non cerca. Ma se lo si ascolta, parla. E dice la verità.
Non tutti reggono la luce. Alcuni la reggono meglio da dentro. E ci sono fuochi che, proprio perché nascosti, non cessano mai di ardere.
Il corpo che porta la voce
Ci sono parole che non stanno sulla pagina. Escono, scivolano fuori, reclamano un corpo. Perché il corpo è la condizione prima del dire. È il tamburo che precede il canto, il gesto che precede il verbo.
Non si parla mai solo con la bocca. Si parla con la schiena, con le mani, con le pause. Si parla con le ferite che si portano addosso e con le febbri che non si confessano. Si parla anche stando zitti, quando il corpo non smette di dire.
Ogni voce ha un corpo che la contiene, ma anche che la tradisce. Perché il corpo è imperfetto, e proprio per questo necessario. Il tono della voce, l’inflessione, il respiro trattenuto prima di una parola: tutto viene da lì, da una carne che ha vissuto, che ha atteso, che ha amato o temuto.
Ci sono corpi che non si sono mai sentiti autorizzati a parlare. Perché sbagliati, giudicati, emarginati. Ma è da loro che viene la voce più vera: quella che ha attraversato la vergogna e ha scelto comunque di farsi sentire.
La voce è una resistenza fisica. È il rifiuto di sparire. È un apparire che non si limita al volto ma si espande — petto, ventre, spalle, tremito.
Chi parla davvero lo fa con tutto sé. E chi ascolta davvero, ascolta anche quel che non è detto.
Il corpo che porta la voce è fragile, ma non è mai muto. Anche da solo, in una stanza, emette. E anche se nessuno risponde, rimane vibrazione nell’aria. Memoria sonora. Prova d’esistenza.
Non basta scrivere. Non basta dire. Bisogna esserci. Bisogna lasciar passare attraverso il corpo ciò che si ha da dire. Solo allora diventa parola incarnata. Solo allora qualcuno — anche uno solo — potrà credere che è vera.
I nomi che ci hanno nominato
Il nome è la prima parola che ci viene detta, spesso senza che possiamo opporci. È un marchio che si stampa sulla pelle invisibile della nostra identità, il primo racconto che qualcuno fa di noi, prima ancora che possiamo cominciare a raccontare noi stessi.
Ci sono nomi che pesano come pietre, eredità di famiglie, di storie, di aspettative che non abbiamo scelto. E ci sono nomi che sono un dono, un invito a essere ciò che ancora non siamo ma potremmo diventare.
Quando ci chiamano, rispondiamo. A volte con gioia, a volte con resistenza. Perché il nome non è mai neutro: contiene il passato, la memoria di chi eravamo e di chi speravano che fossimo.
Ma il nome non è soltanto ciò che ci danno: è anche ciò che scegliamo di essere. È un atto di ribellione chiamarsi diversamente, aggiungere, togliere, reinventare. Un nome può essere un campo di battaglia, un luogo di liberazione.
I nomi che ci hanno nominato possono essere catene, ma anche ponti. Ci legano a chi ci ha preceduto, ma possono essere il primo passo per tracciare la nostra strada.
Rinunciare a un nome, o cambiarlo, è un gesto radicale: è dire che non si vuole più essere quello che gli altri hanno deciso. È una rivendicazione di libertà.
Ma non sempre è possibile. Il nome ci segue, a volte ci rincorre, anche quando proviamo a scappare. È la nostra impronta sonora nel mondo.
E così impariamo a convivere con il nostro nome, a portarlo come un vestito che non sempre calza perfettamente, ma che possiamo modellare, cucire, rendere più nostro.
Il nome è un invito continuo a rispondere, a esserci, a scegliere chi vogliamo essere, ogni giorno.
Il merito nascosto
Spesso il merito non si mostra in piena luce. Sta nascosto, timido, dietro le quinte di una vita che non vuole apparire. Non si annuncia con clamore, non reclama onori o palcoscenici. Vive nel silenzio delle piccole azioni, nelle scelte quotidiane che nessuno vede.
Il merito nascosto è quello di chi lavora senza testimoni, di chi persiste nonostante le sconfitte, di chi si alza ogni mattina con la determinazione di non arrendersi. È il merito di chi sostiene gli altri senza aspettarsi nulla in cambio, di chi insegna senza la gloria del riconoscimento.
È un merito che non si misura in premi o applausi, ma in costanza, umiltà, e amore per ciò che si fa. È il merito di chi conosce il valore del sacrificio e della pazienza, e lo tiene custodito come un tesoro segreto.
Spesso la società premia il merito visibile, spettacolare, facile da esibire. Ma dimentica il merito nascosto, quello che costruisce le fondamenta su cui tutto si regge.
Riconoscere il merito nascosto significa valorizzare ciò che è invisibile agli occhi, ma essenziale per la crescita di una comunità. Significa imparare a vedere oltre l’apparenza, a cogliere la fatica e l’impegno che stanno dietro ogni successo.
Il merito nascosto è la vera essenza di una società giusta, perché ricorda che nessuno si salva da solo e che ogni traguardo è il risultato di molti piccoli passi.
Conclusione: Il merito, un impegno quotidiano
Il merito non è un’idea astratta o un principio da sbandierare in occasioni solenni. È un impegno quotidiano, una battaglia continua contro il familismo, il privilegio ingiusto, e l’indifferenza verso chi lotta in silenzio.
È scegliere ogni giorno di riconoscere il valore negli altri, di aprire porte dove ci sono muri, di costruire ponti laddove ci sono barriere invisibili.
Il merito è, in fondo, un atto di giustizia e di speranza. Un invito a diventare, davvero, ciò che si è, liberi dai vincoli della nascita e delle convenienze.
Chiudiamo allora questa riflessione con la certezza che la vera rivoluzione sarà meritocratica solo quando tutti potranno camminare sul sentiero dei destini incrociati, senza paura, senza ostacoli, con dignità.
E finché questo non accadrà, il nostro dovere sarà quello di alzare la voce, di lottare, di non accontentarci mai.
Perché il merito non è un privilegio. È un diritto.