giovedì 15 maggio 2025

Il corpo come soglia. Fakir Musafar e la mistica della carne

Non si può entrare nel corpo di Fakir Musafar senza prima disimparare a leggere il proprio. Non si può raccontarlo restando immobili, senza che qualcosa — un nodo nella gola, un formicolio sotto la pelle, una pulsazione tra le gambe — cominci a rispondere. Perché Fakir, nel suo nome scelto e nella carne offerta come linguaggio, è stato prima di tutto una frattura: tra il dicibile e l’indicibile, tra l’anatomia e il mito, tra il rito arcaico e l’iconoclastia queer del postmoderno. Parlare di lui non è un esercizio critico, ma una presa di posizione: somatica, etica, erotica.

Questo lavoro nasce da una contaminazione. L’incontro con le pratiche e il pensiero di Fakir Musafar — o meglio, con il sistema simbolico incarnato in lui — non avviene mai a distanza. Non c’è modo di limitarsi a un’osservazione esterna: o si entra, o si resta ciechi. Di fronte alle sue sospensioni, ai suoi piercing cerimoniali, alle strette dei corsetti che scolpiscono il corpo come un monaco plasma il silenzio, non si può che lasciarsi ferire. Ma è una ferita che illumina, che apre, che chiama. Come ogni ferita iniziatica, essa promette una soglia.

È da questa soglia che il presente testo prende forma. Più che una biografia, è una geografia del dissenso: un tentativo di mappare, attraverso gli atti estremi e le parole rarefatte di Fakir, una visione del corpo come terreno sacro e politico insieme. Dalla sua prima definizione di Modern Primitive — coniata negli anni ’60 per descrivere il bisogno ancestrale di sacralizzare il corpo anche fuori da una cultura tribale — fino alla sua influenza diretta nei mondi del BDSM, dell’arte performativa, del pensiero postumano, la sua figura si espande oltre la singola vita, divenendo archetipo.

Fakir non è stato solo un “uomo modificato”: è stato il portavoce di un corpo-messaggio. Un corpo che parla nel linguaggio del fuoco, della pelle incisa, dell’estasi e del dolore come riscrittura delle gerarchie simboliche. Le sue pratiche non vanno imitate, ma comprese nel loro valore rituale, decoloniale, de-patologizzante. Chi lo osserva superficialmente, scorge un feticista; chi lo attraversa con lentezza, trova un mistico. La differenza è tutta nella postura: guardare o offrire lo sguardo. Toccare o farsi toccare.

In queste pagine, ogni sezione cerca di ricostruire una risonanza. Con l’antropologia e il pensiero magico, con la filosofia del cyborg e le sacre trasgressioni queer, con il bisogno di spiritualità che abita chiunque sia stato esiliato dal linguaggio dominante. Perché è questo che Fakir ha fatto, in fondo: ha riaperto una porta. Su un altrove carnale, sacro, impuro e necessario. Un altrove in cui — come ci insegna la teologia trans — non c’è nulla di più divino dell’osceno, quando smette di chiedere perdono.

Scrivere di Fakir Musafar, oggi, significa interrogarsi sul futuro del corpo. Sulle sue mutazioni, sulle sue resistenze, sulle sue possibilità di essere ancora un territorio rivoluzionario. Ma soprattutto significa osare una forma di prossimità: una vicinanza radicale a tutto ciò che in noi è ancora informe, e che attende solo un gesto per diventare mondo.



In un’epoca che idolatra la pelle liscia, la chirurgia invisibile e la rimozione sistematica del dolore, la figura di Roland Loomis – meglio conosciuto come Fakir Musafar – emerge come un contrappunto radicale, una sfida incarnata, un enigma che ha attraversato il Novecento come una lama rituale. Nato nel 1930 nel cuore di una provincia americana ancora pervasa dai miti del progresso e della normalizzazione, Loomis avrebbe scelto di non appartenere. Di non conformarsi. Di non credere al dogma dell’integrità corporea come garanzia di salute mentale o sociale. La sua intera esistenza è un percorso di disidentificazione rispetto ai codici dominanti del corpo occidentale: un cammino teso alla riscoperta – o forse alla reinvenzione – di una spiritualità arcaica incarnata, brutale, dolente, ma pienamente vissuta.

Fakir Musafar non fu un artista nel senso convenzionale del termine, né un performer, sebbene la sua opera abbia influenzato profondamente sia l’estetica che la filosofia della body art contemporanea. La sua ricerca non nasceva dal desiderio di stupire o scandalizzare, bensì da una necessità più profonda, intima, viscerale: la ricerca di un senso attraverso il dolore, la trasformazione, il limite. Più che un manipolatore di segni, era un corpo che si lasciava attraversare da ciò che la cultura occidentale aveva rimosso, marginalizzato o definito patologico. Il dolore, l’estasi, la resistenza fisica, il sangue: tutto ciò che nelle società moderne viene espulso dallo spazio della rappresentazione, in lui tornava a vivere come gesto rituale, come offerta, come apertura a un'altra dimensione dell'esistenza.

Il termine “Modern Primitives”, coniato da Loomis nel 1967, non è un’ironica provocazione né una posa intellettuale: è una dichiarazione ontologica. Esso definisce un individuo non appartenente a un contesto tribale, ma che avverte, con forza istintiva, la necessità di ricongiungersi a pratiche arcaiche di modificazione corporea come mezzo per rispondere a un bisogno primario, non mediato, quasi animale, di identità e di espressione. È il riconoscimento che la civiltà moderna, pur avendo portato benessere e sicurezza, ha anche tagliato i fili che ci collegavano alla nostra dimensione più antica e corporea, al senso del sacro che passa per la carne, al sapere che si radica nel dolore.

In questo senso, le pratiche cui si sottoponeva non erano meri atti di spettacolarizzazione o sfida ai tabù sociali. Piercing multipli, scarificazioni rituali, sospensioni del corpo tramite ganci infilzati nella pelle, l’uso estremo del tightlacing fino a modificare permanentemente la struttura della cassa toracica, il bondage inteso non come gioco erotico ma come vincolo meditativo e percorso di catarsi: ogni gesto era codificato, pensato, vissuto come passaggio iniziatico. E ogni trasformazione lasciava una traccia visibile, permanente, non solo sul suo corpo, ma anche sul tessuto simbolico della nostra cultura, che ha lentamente cominciato a riconoscere – grazie a lui – una nuova sacralità della pelle incisa, cucita, sospesa.

Fakir Musafar fu anche un maestro. Un uomo che condivideva con i suoi discepoli – e con chiunque fosse disposto ad ascoltare senza pregiudizi – una visione del corpo come territorio sacro e mutevole. Le sue conferenze, le sue fotografie, i suoi scritti non erano manifesti ideologici, ma testi sapienziali, trasmissioni orali e visive di una conoscenza che non si insegnava nei college o nelle scuole d’arte, ma si trasmetteva con il sangue, il respiro, la cicatrice. Per questo divenne un punto di riferimento imprescindibile per intere comunità alternative: dalle sottoculture BDSM e feticiste, fino ai movimenti queer più radicali, che in lui riconobbero un archetipo, un antesignano, una guida spirituale non dogmatica ma esperienziale.

La sua immagine – con il volto scavato, il torso attraversato da corde o aghi, lo sguardo trasfigurato da una calma sciamanica – è oggi un’icona che va ben oltre i confini dell’underground. È l’incarnazione di un sapere che ha osato farsi carne, di un pensiero che ha scelto la via del sacrificio estetico, della disciplina interiore, dell’abbandono del sé come atto creativo. La sua vita, lontana da ogni forma di narcisismo, fu una lunga meditazione sul corpo come porta verso l’invisibile. Un invito, rivolto a chiunque osi ascoltare, a disimparare ciò che ci è stato detto sul dolore, sulla bellezza, sul limite – e a riscoprirne, nel segreto della carne, un senso tutto nuovo.



Nella storia del Novecento vi sono figure che si stagliano come fenditure, fratture nelle superfici levigate del consenso sociale: uomini che non solo hanno vissuto al di fuori delle norme, ma che hanno operato una riflessione radicale sul significato di normalità, di identità, di corpo. Roland Loomis, che il mondo avrebbe conosciuto come Fakir Musafar, è una di queste figure rare. Non fu un semplice trasgressore né un ribelle di professione. Fu un viaggiatore metafisico, un testimone di stati alterati, un mistico incarnato che scelse il corpo come terreno di sperimentazione mistica e artistica. Non cercò di apparire diverso, ma di divenire altro, facendo del dolore un linguaggio e della trasformazione un atto sacro.

Nato in un’America ancora profondamente puritana e binaria, Loomis crebbe percependo un’inquietudine sorda nei confronti dell’ordine imposto: il corpo come involucro da addomesticare, l’identità come maschera sociale, la bellezza come forma codificata. Da giovanissimo, cominciò a esplorare pratiche che negli anni Cinquanta sarebbero state considerate aberranti: il tightlacing (la costrizione del busto attraverso corsetti estremi), il piercing rituale, la sospensione tramite ganci, la scarificazione, la meditazione attraverso la privazione sensoriale. In un’epoca in cui la chirurgia plastica era agli albori e il corpo veniva pensato come superficie da perfezionare secondo canoni estetici univoci, Fakir iniziò a modificare il suo in modo deliberato, spesso doloroso, ma sempre profondamente significativo.


Il corpo come mandala e come soglia spirituale

Uno dei tratti più profondi e meno noti del suo percorso riguarda la tensione spirituale che muoveva ogni sua scelta. Le sue pratiche non erano fini a sé stesse, né animate da un’estetica dello shock. Esse attingevano a un bagaglio millenario di saperi: dallo yoga tantrico all’ascetismo sufi, dal fakirismo musulmano (da cui deriva il suo nome d’arte) alla mistica del dolore propria di certe tradizioni cristiane e buddhiste. Fakir considerava il corpo non come prigione dell’anima, ma come veicolo di una coscienza espansa. Ogni modifica, ogni lesione volontaria, ogni sospensione era preparata con lunghi tempi di meditazione, digiuno, ascolto interiore. Parlava spesso del “pain trance”, quello stato estatico in cui il dolore non si elimina ma si attraversa, fino a diventare pura vibrazione, apertura psichica, dissoluzione del sé. In questi momenti, descriveva la realtà come “velata”, il tempo come sospeso, l’Io come evaporato.

A questo si univa una profonda consapevolezza del simbolismo insito nei gesti: inchiodare la carne, comprimere il respiro, incidere la pelle, significa scrivere un alfabeto primordiale, scavare solchi nella memoria del corpo, dissotterrare archetipi. Per Fakir, la spiritualità non passava dalle parole, ma dai pori. La sua visione era una mistica concreta, carnale, vulnerabile, dove il corpo stesso diventava un mandala da costruire e poi dissolvere.

La ricezione nel mondo dell’arte e l’influenza sulla body art contemporanea

Sebbene inizialmente ignorato o rimosso dal sistema ufficiale dell’arte, Fakir Musafar ha avuto un impatto profondo e trasversale sulle generazioni successive di artisti visivi, performer e teorici del corpo. Artisti come Marina Abramović, Ron Athey, Orlan, Stelarc e Franko B hanno tratto forza dalla sua radicalità. Non tanto per imitarne le pratiche, quanto per interiorizzare la sua visione del corpo come campo aperto, come luogo di insubordinazione ontologica.

Laddove l’arte concettuale aveva progressivamente smaterializzato l’opera, Fakir riportava tutto sulla carne viva, sulla pelle come superficie scrivibile, sulla ferita come gesto poetico. La sua estetica, spesso brutalmente documentata in fotografie, filmati e autoritratti, ha anticipato tutta una riflessione sull’operare con il corpo che oggi viene studiata nei corsi di arte contemporanea, di estetica del trauma, di teoria del genere.

Persino i musei, un tempo riluttanti ad accogliere queste forme, hanno finito per esporre i suoi materiali: non più come bizzarrie, ma come testimonianze cruciali di un’epoca che ha ridefinito il confine tra arte, corpo, spiritualità e dissenso. Fakir, senza mai definirsi artista in senso stretto, ha ridisegnato lo spazio del performativo, restituendo all’arte una funzione rituale, sciamanica, profondamente trasformativa.

Fakir Musafar e il corpo queer: oltre il binarismo, oltre la norma

Un’altra dimensione ancora più profonda – e oggi centrale – della sua eredità è quella che riguarda il rapporto tra corpo, identità e desiderio. Fakir Musafar è una figura chiave per comprendere come si sia costruita, all’interno delle culture marginali, una nuova etica del corpo queer. Non solo nel senso sessuale, ma nel senso più ampio e destabilizzante del termine: queer come eccedenza, come devianza creativa, come rifiuto del dato biologico come destino.

Pur non essendosi mai esplicitamente definito all’interno di categorie come “gay” o “trans”, Fakir è stato un antesignano di tutto ciò che oggi chiamiamo post-identitario. Il suo corpo, volontariamente modificato, non aderiva più a un genere preciso, a una funzione prestabilita, a una grammatica sociale fissa. Il tightlacing, per esempio, che ridusse la sua vita a una circonferenza quasi femminile, non era un travestimento, ma una riscrittura simbolica del corpo sessuato. La sua pelle trapassata da aghi non era segno di sottomissione, ma di trascendenza. Il dolore non era punizione, ma apertura. La sessualità non era delimitata, ma fluida, rituale, profondamente spirituale.

Questo ha fatto sì che intere generazioni di corpi “altri” – non conformi, trans, kinky, radicali – trovassero in lui un maestro. Non un modello da imitare, ma una figura da cui attingere forza e visione. Nei suoi workshop, nei suoi testi, nei suoi silenzi, Fakir non insegnava uno stile di vita, ma un’etica della presenza. La presenza a sé, al proprio desiderio, alla propria potenza corporea. Una presenza che passava per l’accettazione del limite, ma anche per la sua trasformazione.



Il corpo come archivio: fotografia, iconografia e memoria visiva

Per comprendere appieno l’impatto culturale di Fakir Musafar è necessario soffermarsi sul modo in cui ha documentato il proprio operare. Le sue fotografie non erano semplici “testimonianze” o reperti clinici delle modificazioni corporee. Esse rappresentano, piuttosto, un corpus iconografico strutturato, una sorta di liturgia visiva attraverso cui egli costruiva e trasmetteva il suo pensiero incarnato. Ogni immagine era meditata, pensata come scena rituale: il corpo non veniva solo mostrato, ma offerto, esposto alla luce come un altare di pelle, nervi e volontà.

Molte delle sue immagini sono autoritratti in bianco e nero, spesso in spazi neutri o su sfondi simbolici, che evocano le ambientazioni dei templi o delle camere delle torture sacre. L’iconografia è colta, stratificata: c’è il martire cristiano, il fachiro, il derviscio, il bodhisattva, il maestro taoista, l’eremita zen. Ma anche il freak da circo, il punk iniziatico, il fetish-monaco. Ogni fotografia è un documento e una visione, un oggetto magico destinato a parlare anche a distanza di decenni, come certe reliquie che non perdono il potere taumaturgico.

Dopo la sua morte nel 2018, gran parte del suo archivio fotografico, video e testuale è stato digitalizzato e custodito dalla Fakir Musafar Foundation. Ma l’accesso è parziale, e molte immagini continuano a circolare in modo sotterraneo, all’interno di circuiti BDSM, gallerie radicali o mostre semi-clandestine. Questo contribuisce a mantenere il suo mito in una zona liminale: non del tutto musealizzato, non del tutto dissociato dalle comunità che lo hanno amato. La sua memoria è viva soprattutto dove brucia, dove si cerca ancora un’immagine del corpo che non sia pacificata, mercificata, addomesticata.

Oltre l’individuo: genealogie dell’estremo da Pasolini a Galás

Per capire la profondità spirituale e politica del lavoro di Fakir Musafar, può essere utile accostarlo ad altre figure radicali del secolo breve. Non tanto per somiglianza biografica, quanto per consonanza simbolica, per comunanza nell’attraversare il corpo come soglia, come campo di battaglia tra desiderio e norma, tra pulsione e linguaggio.

Con Pier Paolo Pasolini, ad esempio, condivide una tensione sacrale, una visione del corpo come luogo di scandalo e redenzione. Se Pasolini cercava nei corpi sottoproletari una purezza arcaica, Fakir rintracciava negli strumenti del dolore un accesso alla verità. Entrambi diffidavano della modernità come anestesia dell’anima. Entrambi vedevano nella carne non una materia da sublimare, ma una scrittura politica. La flagellazione nel film Il Vangelo secondo Matteo ha la stessa intensità rituale di una sospensione di Fakir: entrambe scuotono, entrano, feriscono per risvegliare.

Yukio Mishima, d’altro canto, rappresenta un parente ancora più prossimo. In lui troviamo la stessa ossessione per la forma, per la disciplina estrema, per la bellezza come costruzione violenta. Anche Mishima trasformò il proprio corpo, lo scolpì, lo mitizzò. Anche lui cercò un’estasi che unisse estetica e morte, Eros e Thanatos, in un gesto definitivo. Ma mentre Mishima scelse l’atto conclusivo, Fakir preferì restare in vita, portare avanti quella trasformazione giorno dopo giorno, come un asceta nel tempo lungo della pratica.

E poi Diamanda Galás, la sacerdotessa dell’urlo. Con lei, Fakir condivide la dimensione performativa della sofferenza. Galás, con la sua voce che lacera e incanta, ha fatto del proprio corpo una cassa di risonanza per i dolori dei reietti, degli appestati, dei marginali. Come Fakir, canta e urla per conto di chi è stato privato della parola. I suoi concerti sono messe nere, riti apocalittici. E anche lei – come lui – non cerca di rappresentare il dolore, ma di essere dolore, attraversarlo, donarlo.


In questo panorama, Fakir Musafar appare come una figura spartiacque. Non ha fondato un movimento canonico, non ha lasciato una scuola formalizzata, ma ha inciso profondamente nelle carni dell’immaginario. Il suo corpo è diventato un testo sacro queer, un vangelo non scritto in cui ancora oggi molti leggono un possibile riscatto. Il riscatto non da un’identità imposta, ma da un’intera civiltà che pretende di separare la mente dal corpo, il piacere dalla spiritualità, il dolore dalla creazione.

Il suo gesto è stato quello di un sacerdote senza tempio, che ha riportato la carne nel cuore del pensiero. Un pensiero che brucia, ancora.


APPENDICE. Suturare la carne al pensiero (Declinazioni contemporanee dell’eredità di Fakir Musafar)

Nel vasto paesaggio delle riflessioni contemporanee sul corpo, sulla spiritualità incarnata, sulla performatività queer e sull’oltrepassamento dei limiti umani, l’eredità di Fakir Musafar agisce come una radiazione sottile e persistente. Non si tratta solo di un’eredità artistica o teorica, ma di un contagio simbolico, una pulsazione che attraversa le fibre del pensiero critico e delle pratiche corporee radicali. È un’eredità che si incarna, più che essere tramandata. Come una traccia sulla pelle, come una memoria impressa nel dolore volontario e nella gioia della trasgressione rituale.

In questa appendice, propongo un’esplorazione approfondita – dilatata, stratificata, ossessiva – delle molteplici ramificazioni che l’opera di Musafar ha assunto nel pensiero contemporaneo, concentrandoci su tre assi interpretativi: il postumanesimo, il cyborg-femminismo e la teologia trans. Ciascuno di questi orizzonti, già densi in sé, trova nel corpo martirizzato, celebrato, offerto di Musafar un detonatore poetico e politico, un nocciolo incandescente da cui si diramano nuove costellazioni speculative e pratiche.


I. Posthuman: il corpo come portale, non come prigione

Nel pensiero postumano contemporaneo, il corpo non è più visto come confine identitario, ma come interfaccia dinamica, spazio di attraversamento, laboratorio in continua mutazione. Rosi Braidotti parla di soggettività postumana come soggettività nomade, dispersa, decentrata, aperta all’alterità non-umana. Donna Haraway, già negli anni Ottanta, immaginava un futuro cyborg dove l’umano si ibrida con la macchina e con l’animale, generando nuove forme di convivenza e di coscienza.

In questo scenario, Fakir Musafar emerge come un antesignano, ma anche come un visionario. Non ha teorizzato il postumano: lo ha vissuto. Lo ha inciso sulla propria pelle. Il suo corpo è stato al tempo stesso oggetto di esperimento e soggetto pensante. La sospensione corporea – appeso a ganci, come nelle cerimonie dei Mandan del Nord America – non era una performance esotica, ma un tentativo radicale di superare la condizione umana attraverso il rituale del dolore. Il suo gesto anticipa, con una chiarezza abissale, il desiderio postumano di dissolvere l’ego nel flusso della materia.

Musafar non usa il corpo: è il corpo. E il suo corpo non è gabbia ma portale. È un campo di forze, un territorio mistico e politico insieme. L’ibridazione, l’auto-mutazione, la contaminazione diventano pratiche sovversive, che disarticolano l’idea di un “corpo naturale” e spalancano alla pluralità degli immaginari. È un pensiero incarnato, dove la carne pensa, e il dolore non è punizione ma atto conoscitivo.

Questo modo di abitare la corporeità dialoga con il pensiero di Stelarc, con gli interventi chirurgici di ORLAN, con le meditazioni del filosofo Jean-Luc Nancy sulla pelle come limite e apertura. Ma Musafar, con la sua semplicità visionaria, resta inclassificabile. Le sue immagini – ieratiche, ierofaniche – sono icone di una trascendenza post-biologica, che non rinnega la carne ma la intensifica fino all’estasi.


II. Cyborg-feminism: la carne come codice, il genere come estasi

Nel cyborg-feminism – quel crocevia tra teorie femministe, tecnologie del corpo e istanze queer – il gesto di Fakir Musafar acquisisce una luce nuova. Se Haraway ha scritto il “Manifesto Cyborg” come provocazione contro le essenzializzazioni biologiche del femminile, Musafar ha incarnato quella provocazione in forma rituale. Il suo uso del tightlacing – lo stringersi il busto fino a modellare una silhouette iperfemminile – non è una parodia del genere, ma una catarsi erotico-politica.

Il corpo cyborg è un corpo hackerato, riscritto, riprogrammato: proprio come quello di Musafar. Ogni foro, ogni cicatrice, ogni sospensione è una riscrittura del codice biologico. E come nel femminismo queer, anche in Musafar l’identità non è un dato, ma un campo di possibilità. Egli è uomo, donna, spirito, animale totemico, macchina sacra. Nella sua iconografia troviamo il travestimento rituale, il make-up da sciamano post-industriale, le pose da diva e da martire. È un’estetica cyborg ante litteram, ma è anche una prassi politica: far vedere il corpo che cambia significa far vedere che tutto può cambiare.

Non si tratta solo di trasformazione: si tratta di trasfigurazione. Musafar costruisce una mitologia individuale dove ogni segno corporeo è linguaggio, ogni dolore è sintassi, ogni orgasmo è visione. In questa grammatica mutante si riflette il pensiero di Paul B. Preciado, che descrive il corpo come campo farmacopornografico, o quello di Sandy Stone, madre fondatrice del transfemminismo. Ma in Musafar c’è qualcosa in più: una tenerezza del mostruoso, una pietà erotica che non ha bisogno di dottrina.

La carne diventa teatro della trasformazione, tempio laico di una fede che non redime ma trasfigura. Il genere non è una gabbia da rompere, ma una musica da modulare, una vibrazione da espandere. E in questo, l’eredità musafariana è rivoluzionaria: fa del corpo non un ostacolo, ma uno strumento mistico di rivoluzione permanente.


III. Trans-teologia: la carne come epifania, la mutazione come preghiera

Se esiste un luogo in cui l’eredità di Fakir Musafar trova una risonanza insospettata, è nel pensiero teologico queer e trans. Negli ultimi anni, una nuova ondata di teologi e teologhe ha proposto una rilettura radicale delle Scritture e della spiritualità, alla luce dell’esperienza trans. Non si tratta solo di accogliere le persone transgender all’interno delle chiese, ma di riconoscere che la transizione è di per sé un gesto sacro: una rivelazione.

Linn Marie Tonstad, teologa queer americana, scrive che Dio si manifesta nel desiderio che ci spinge a diventare altro. Jay Emerson Johnson parla della “trasformazione come sacramento”. In questo contesto, Fakir Musafar appare come un profeta laico, un mistico del mutamento. Le sue pratiche – fatte di estasi dolorosa, di cicatrici rituali, di elevazioni fisiche – non sono semplici performance: sono atti teologici. La carne viene aperta non per ferire, ma per far passare luce.

Ogni sospensione, ogni penetrazione, ogni incisione è un rito. Un rito senza religione, ma pieno di numinoso. Fakir è sacerdote del corpo sacro: non quello normato dalla biologia o dalla morale, ma quello fluido, mutante, splendente nel proprio disordine. È una spiritualità della soglia: tra maschile e femminile, tra umano e non umano, tra dolore e godimento. In lui, il sacro non è altrove, ma incarnato. E il corpo, lungi dall’essere tempio da rispettare, è laboratorio di continue trasfigurazioni.

La carne, in questa visione, è epifania mobile. Non ha più bisogno di redenzione, ma di attenzione. Non ha bisogno di dogmi, ma di rituali minimi: gesti, aperture, ferite che si fanno simboli. Musafar, da questo punto di vista, è non solo anticipatore di una teologia queer, ma suo inconsapevole liturgo: scrive con la pelle ciò che altri tentano con la carta. E lo fa con una dolcezza feroce, con un erotismo disarmato.


Coda: verso una nuova liturgia del corpo

Se c’è qualcosa che Fakir Musafar ci lascia, è la possibilità di pensare il corpo come luogo teoretico e teologico, come spazio di costruzione di sé e di sovversione del potere. Non basta più “accettare il corpo” – bisogna riscriverlo, ricantarlo, riaprirlo. In un tempo in cui i dispositivi tecnologici ci avvolgono, ci monitorano, ci normano, il suo esempio resta un monito e una promessa: non si può cancellare il corpo, ma si può trasfigurarlo.

Ogni cicatrice è un testo. Ogni rito è una domanda. Ogni dolore è un inizio.

E nella carne mutante di chi si sospende, di chi si fora, di chi si riscrive, può ancora brillare – per un istante – la possibilità di una presenza assoluta.

Una teologia incarnata, profanamente sacra.

Un manifesto che non si legge: si vive sulla pelle.




Nota d’autore

Questo testo non è neutro. Nasce da una scelta, da un’urgenza, da una posizione politica. Parlare di Fakir Musafar oggi significa prendere parola là dove il sistema — patriarcale, bianco, medico, eteronormato — ha costruito silenzi, ferite e oblio. Fakir è stato un profanatore delle regole, un veggente della carne, un rivoluzionario del corpo inteso come spazio di resistenza, rito e riscrittura. Le sue ferite non sono estetiche: sono linguaggio, gesto sacro, rifiuto.

Scrivere di lui è anche un atto di alleanza con chi oggi continua a vivere il corpo come campo di battaglia: le soggettività LGBTQIA+ che reclamano visibilità e autodeterminazione; i percorsi transfemministi che smantellano i paradigmi della norma binaria; le voci anticoloniali che rifiutano la medicalizzazione razzista e la cancellazione dei saperi ancestrali. In tutte queste lotte il corpo non è oggetto, ma soggetto attivo, insorgente, capace di produrre verità altre.

In The Uses of the Erotic, Audre Lorde ci ricorda che «l’erotico è una fonte di conoscenza e potere profondamente femminile e spirituale, radicato nella nostra connessione con il mondo» — una connessione che il sistema teme, proprio perché trasforma la vulnerabilità in forza, il piacere in visione politica. Fakir ha portato questa intuizione sul piano del gesto, dell’incarnazione, della materia viva. Il suo corpo cucito, perforato, sollevato, era una preghiera carnale rivolta a ciò che non può essere catturato dalle logiche della produttività o del decoro.

Paul B. Preciado, nei suoi testi, ha parlato di corpi in transizione non solo come soggettività trans*, ma come dispositivi dissidenti capaci di aprire falle nella narrazione dell’identità. Il corpo di Fakir, costantemente "in transizione rituale", è un antesignano di queste pratiche: un corpo che non si lascia dire, che sfida il biologico, che si costruisce con utensili sacri e desideranti.

E infine Gloria Anzaldúa, nella sua mestiza consciousness, afferma: «La mia pelle è un confine tra ciò che il mondo vuole che io sia e ciò che io sono». Fakir ha preso quel confine e l’ha reso permeabile, pulsante, mistico: ha fatto della pelle una soglia. Una soglia verso l’alterità, verso l’oltre, verso un’identità non più domestica ma visionaria, mutante, postumana.

Il pensiero e la pratica di Fakir Musafar si intrecciano con queste istanze, le anticipano e le illuminano. Non è un eroe solitario, ma un nodo di una costellazione vasta e irregolare fatta di dissidenti, streghe, pervertiti, decolonizzatori, visionari. Le sue sospensioni, i suoi piercing, le sue prostrazioni rituali, sono una grammatica del disordine necessario. Un’eresia erotica che ci ricorda quanto il corpo sappia, prima ancora del pensiero, da che parte stare.

Questo testo non vuole spiegare né pacificare. Vuole infiammare. È un’offerta, un’arma, una carezza. A chi leggerà, non chiedo consenso. Chiedo ascolto, apertura, rischio. Perché solo chi si lascia bruciare può riconoscere la sacralità di una cicatrice.