domenica 29 giugno 2025

Elias Canetti: Il libro che non muore

Nel Novecento, secolo di genocidi, guerre mondiali e stermini ideologici - come questo nostro, del resto - Elias Canetti si caricò di un compito che nessun teologo avrebbe osato assumersi fino in fondo: scrivere un libro contro la morte. Non una riflessione, non un trattato filosofico o un'esegesi escatologica, ma un vero e proprio libro contro, un'opera che si opponesse frontalmente, con le sole armi del pensiero, alla morte in quanto tale. Canetti non si accontentava né delle consolazioni della religione né del rassegnato silenzio della scienza. Rifiutava la sottomissione dell’umano all’inevitabile. Con rabbia, con ostinazione, con una forma di disperazione attiva, si propose di combattere l’ultima delle tirannie: non morire. O almeno: non accettarlo.

E non è un caso che questo libro sia rimasto perennemente in potenza, mai del tutto scritto, sempre in sospeso tra l’urgenza e il fallimento. Lo annuncia nel 1937, lo evoca per quarantacinque anni, lo promette a se stesso e a noi, ma non lo compone mai davvero. Ne produce, invece, una galassia frammentaria di pensieri, schegge, appunti, anatemi, sentenze, parabole, esplosioni. Un magma non ordinabile, che però è oggi leggibile grazie al lavoro postumo, filologico e devoto, pubblicato da Adelphi. Quel lavoro non è un semplice atto editoriale: è un'operazione archeologica dell'anima, un tentativo di dare forma all’informe, di raccogliere i brandelli dispersi della battaglia più lunga e più privata dello scrittore.

Il punto di partenza non è astratto: è la morte della madre, avvenuta nel 1937. La data è precisa. Da quel giorno, la scrittura di Canetti cambia forma e missione. Ogni pagina diventa un’esortazione al ricordo, una liturgia laica, una protesta. Il lutto non si trasforma in poesia, ma in militanza esistenziale. Si tratta di non dimenticare i morti, di non lasciarli svanire nel nulla. Ma anche di non permettere alla morte di conservare intatto il suo potere. Scrivere, annotare, prendere posizione — tutto questo diventa una forma di resistenza metafisica.

Il suo è un rifiuto lucido e radicale: la morte è un crimine. E se le religioni hanno cercato di renderla sopportabile, è perché si sono alleate con essa, la hanno incorporata nei loro dogmi, come si incorporano le tasse in una fattura inevitabile. Ma Canetti non accetta il compromesso. Non crede nella resurrezione, ma nemmeno nella necessità della fine. E si spinge oltre: accusa Dio stesso di aver inventato la morte, e quindi l’umanità di averne fatto un’abitudine, una strategia, una giustificazione della violenza.

Lui non vuole uccidere nessuno. Non vuole imitare i carnefici della storia. Vuole smascherare, disincantare, scorticare la bellezza mortale dell’ideologia sacrificale. E lo fa con una lingua che brucia, piena di detti che sembrano arrivare dalla notte dei tempi e insieme dal futuro: “Le guerre si fanno per amore della guerra”, “Prima o poi troverò frasi che faranno vergognare Dio al mio cospetto”.

C’è qualcosa in Canetti che lo avvicina a un profeta, ma senza religione. A un eremita che ha rifiutato il silenzio. In lui convivono l’intellettuale e il superstite, lo storico della psiche e l’ossesso della parola. Non a caso la sua opera maggiore, “Massa e potere”, è anch’essa una mappa dell'annientamento, una radiografia del consenso e del dominio. Ma mentre quel libro tenta un sistema, “Il libro contro la morte” nega ogni sistemazione. È pensiero a brandelli. È materia refrattaria all’ordine. È, paradossalmente, la forma più pura e più onesta di pensiero.

Chi si avvicina a questo “libro mancato” deve abbandonare l’idea di una narrazione lineare. Troverà invece una costellazione di intuizioni, aforismi, sdegni, visioni. Pascal compare, ma non come modello: è un termine di paragone cronologico. Se Pascal è morto a 39 anni dopo aver lasciato in eredità i suoi “Pensieri” — che difendono il cristianesimo —, Canetti si avvia a 37 a formulare i suoi pensieri in difesa dell’uomo, dalla morte. Si tratta, dunque, di una nuova apologia: non della fede, ma della vita contro il morire.

Eppure, in questa furia c’è anche una strana tenerezza. Lo si vede nell’annotazione che riguarda la propria tomba. Canetti immagina il momento del suo seppellimento con ironia dolceamara: sarà sepolto accanto a Joyce, che non gli piaceva nemmeno tanto. E tuttavia, nel bosco di Fluntern, il pensiero della vicinanza con Veza e Hera — le due donne della sua vita — lo conforta. Quel che resta, allora, è la comunità degli affetti, non la gloria letteraria.

La grandezza del “Libro contro la morte” non sta solo nei suoi contenuti. Sta nella sua forma: o meglio, nella sua non-forma. È un’opera che ha scelto di non concludersi. È una lotta prolungata che rifiuta la sintesi, rifiuta il finale, rifiuta la catarsi. In questo senso, assomiglia a certi manoscritti di Kafka, a certe elucubrazioni di Simone Weil, o ancora al “Diario” di Kierkegaard: scritture in cui il pensiero è sempre in corsa, mai soddisfatto, mai salvo.

Ecco perché oggi, a distanza di decenni, questo libro postumo è tanto più necessario. Perché rappresenta un gesto di sfida a tutto ciò che ci chiede di rassegnarci. In un’epoca che ha normalizzato la morte attraverso lo spettacolo, i numeri, l’abitudine, la burocrazia del lutto, Canetti ci ricorda che morire non è naturale. È un atto che ci viene inflitto. Un’assurdità che solo il pensiero può contenere, anche se non abolire.

In un mondo che continua a uccidere — per ideologie, per profitto, per disprezzo, per noia —, Canetti ci sfida con una domanda senza risposta: e se davvero potessimo vivere senza uccidere? E se la morte non fosse inevitabile, ma solo un’ipotesi?

Il lascito canettiano, più che una teoria, è una pratica dell’intransigenza. Le 15.000 pagine di appunti mai pubblicati sono un archivio della resistenza ontologica. Le sue frasi sono fatte per essere pensate, riscritte, rilanciate, mai per essere accettate come definitive. Eppure, ciascuna porta dentro di sé il seme di un altro mondo.

Qui c’è un libro che non si legge: si insegue. Un libro che non si trova sugli scaffali se non sotto forma di ombra, frammento, relitto luminoso. È “Il libro contro la morte” di Elias Canetti. Ma chiamarlo “libro” è già un’imprecisione, quasi un’offesa. Non si tratta di un’opera compiuta: si tratta di una ferita verbale che attraversa cinquant’anni di pensiero. Un vortice di carte, un arcipelago di appunti, un progetto continuamente annunciato e costantemente sabotato.

In questo progetto c’è un’impossibilità lucida. Scrivere contro la morte — non “sulla” morte, non “intorno” alla morte — implica un gesto radicale: non accettare il limite biologico, storico e linguistico dell’umano. Canetti lo sa. Ma non cede. Resiste come resiste un superstite, come resiste chi ha già visto l’abisso. Chi ha perso la madre. Chi ha conosciuto la Shoah. Chi ha imparato che i morti, per restare vivi, devono essere scritti.

Nel 1937, quando la madre muore, Canetti inizia la sua battaglia. Ma non è una battaglia di vendetta. È un’eresia interiore, una teologia senza Dio, una mistica della negazione. La morte non è un fenomeno naturale: è una violenza, un attentato contro l’esistenza, una trappola giustificata da secoli di religione e cultura. Il vero compito dell’uomo pensante, per Canetti, è rifiutare l’accettazione. È ricusare il compromesso che le civiltà hanno stipulato con la morte per potersi organizzare.

Ecco allora la sua promessa: “Scriverò il Libro contro la morte.”
E ogni giorno, in ogni frase, quella promessa si fa sempre più urgente, e sempre più impossibile.

La forma è già la battaglia. Canetti non costruisce trattati, non sistema nulla. Le sue frasi non sono aforismi alla maniera di Nietzsche o Cioran, non sono sentenze da scolpire: sono mine anti-uomo, capsule esplosive lanciate nel tempo. Ognuna nasce da una scintilla d’indignazione, da una paura ragionata, da una compassione travestita da invettiva.

“Prima o poi troverò frasi che faranno vergognare Dio al mio cospetto.”

È un’espressione che pare blasfema, ma che contiene una forma di sacralità rovesciata. Non è Dio che giudica l’uomo, ma l’uomo che giudica Dio. Dio ha fallito perché ha creato la morte. E l’uomo ha fallito perché l’ha accettata. Così Canetti si pone in una posizione scandalosa, ma necessaria: un tribunale che mette l’invisibile sul banco degli imputati. Il pensiero come atto di accusa. La scrittura come sentenza contro la fine.

Nel suo mondo, il frammento non è un vezzo stilistico. È la sola forma possibile per dire l’impossibile. Un libro intero sulla morte sarebbe una resa. Meglio scrivere per allusioni, per lacerti, per scatti e spasmi: come chi grida nella notte e sa che nessuno gli risponderà, ma grida lo stesso, e così salva almeno l’atto del gridare.

Uno dei passaggi più audaci della riflessione canettiana è la denuncia della connivenza millenaria tra religione e morte. Il cristianesimo, scrive, si regge da duemila anni sulla fede nella resurrezione. Ma questa fede, ai suoi occhi, non è una speranza: è un contentino metafisico, un premio postumo offerto a una creatura sottomessa, a condizione che obbedisca, che accetti la fine, che si sacrifichi.

Qui anche la guerra appare sotto una nuova luce:

“Le guerre si fanno per amore della guerra.”

Non c’è scopo più profondo che la guerra stessa. La distruzione come desiderio. L’annientamento come impulso primario. Canetti rifiuta tutte le giustificazioni ideologiche, tutte le dottrine della difesa e del progresso: gli uomini vogliono morire e uccidere, e in questo desiderio rivelano una malattia originaria. E finché questo desiderio sarà vivo, nessuna teologia potrà salvarli. Solo una rivolta interiore, radicale, linguistica potrà avere un senso.

Canetti allora non è né pacifista né nichilista: è un rivoluzionario della parola, un araldo disarmato che cerca di estorcere al linguaggio un’arma nuova — una lingua che non uccide, che non condanna, che non accetta il silenzio della morte come destino.

Il corpo morto, il corpo che muore: la madre, gli amici, le due compagne, gli sconosciuti uccisi dalle guerre, i martiri della storia, i dimenticati. Canetti si fa custode memoriale di una comunità perduta, come un monaco laico che ogni giorno recita i nomi per evitare che svaniscano.

La tomba che si sceglie a Fluntern, accanto a Joyce, è emblematica:

“Mi dà pace pensare alla mia tomba, posta ai margini del bosco, non lontano da Joyce... Lo disturberà forse la mia vicinanza?”

Questa frase contiene il senso canettiano della morte come convivenza, come campo d’energia, come ironia e vertigine. Joyce, l’unico che davvero aveva trasformato la lingua in universo, non lo amava. Canetti ricambia con rispetto distaccato. Ma il legame più profondo resta con le donne: Veza Taubner-Calderon e Hera Buschor. Accanto a loro, finalmente, Canetti si ammette felice. Non per la sepoltura, ma per la contiguità affettiva dei nomi. I nomi salvano. I nomi restano. I nomi combattono contro il nulla.

Quando la figlia Johanna afferma che gli scritti non pubblicati di Canetti ammontano a oltre 15.000 pagine, ci troviamo di fronte a qualcosa che non è più letteratura: è una condizione esistenziale. Nessun autore scrive così tanto senza comporre, se non per abitare la scrittura come unica forma possibile di resistenza.

Eppure, in questo magma non c’è disordine. C’è una costellazione invisibile, un movimento coerente, una musica interiore che chi legge può percepire solo immergendosi con lentezza. Si scopre allora che il “Libro contro la morte” non è fallito. È riuscito nella sua non-conclusione. Ha creato un’onda lunga, che non si arresta, che continua a generare pensiero, a inquietare, a invocare nuove voci.

Chi lo legge, chi lo scrive ancora, ne diventa parte. Ne continua il gesto.

Il lascito di Canetti non consola. Non redime. Non salva.
Non ci dice che la morte si può evitare.
Ma ci dice che accettarla è una scelta, non un obbligo.
Ci mostra che ogni parola scritta contro la morte è un atto sacro, un fuoco, un’offerta al tempo.

Canetti ha creato una liturgia del dissenso, una teologia negativa che non ha bisogno di Dio, ma solo della memoria, della precisione, del rifiuto.

E allora, oggi più che mai, il “Libro contro la morte” è un libro da continuare.
Un libro che non può morire, perché vive in ogni lettore che osa non accettare.
In ogni pensiero che rifiuta di essere un necrologio.

Scrivere contro la morte non è morire più tardi.
È vivere più profondamente.

E nel farlo, forse, salvare anche i morti.
Perché Canetti non ha mai voluto vivere per sé.
Ha voluto vivere — e scrivere — per chi non poteva più parlare.

Per questo “Il libro contro la morte” non è un libro da leggere, ma da continuare a scrivere.
Ogni lettore che vi si immerge diventa parte di questa sfida. Diventa uno scriba di Canetti, un prolungamento della sua voce, un testimone del suo rifiuto.

E allora sì, la promessa del titolo viene mantenuta. Non perché Canetti abbia vinto contro la morte, ma perché noi, leggendo, teniamo aperta la possibilità di quella vittoria.

Scrivere contro la morte, leggere contro la morte, ricordare contro la morte:
è tutto ciò che ci resta.
Ed è moltissimo.