Lo sbilico (Einaudi, 2025) di Alcide Pierantozzi si impone come un’opera che attraversa i confini tra testimonianza psichica, scrittura diaristica e sperimentazione linguistica. Il testo elabora una forma romanzesca che si sottrae alle convenzioni del genere per esplorare – attraverso una lingua irregolare e profondamente incarnata – la condizione psichica come fatto politico, epistemologico e poetico. La presente analisi si concentra sulle dinamiche strutturali, retoriche e tematiche dell’opera, evitando qualsiasi anticipazione di eventi o sviluppi specifici.
Lo sbilico si presenta come un dispositivo testuale ibrido, in cui convergono elementi della scrittura clinica, del memoir e del romanzo lirico. Il titolo stesso, coniato ex novo dall’autore, introduce fin da subito il tema dell’instabilità percettiva, cognitiva, affettiva, e anticipa una ricerca linguistica condotta a partire da uno squilibrio esperienziale reale, profondo, non esemplare.
L’opera si iscrive nel più ampio orizzonte di quelle narrazioni che – a partire dalla seconda metà del Novecento – mettono in discussione il rapporto tra normalità e devianza, tra salute mentale e sistema simbolico. Tuttavia, la sua originalità consiste nel rifiuto tanto della costruzione terapeutica quanto della retorica vittimistica, aprendo a una terza via: quella di una letteratura che non redime ma espone, che non risolve ma accompagna.
Dal punto di vista stilistico, Pierantozzi costruisce un linguaggio che si muove su più registri, oscillando tra l’iper-precisione clinica e il deragliamento poetico. La sintassi spezzata, l’uso ricorrente di neologismi, l’alternanza di toni e la tendenza all’interruzione improvvisa creano un effetto di spaesamento che non è mai fine a sé stesso. Al contrario, tali strategie contribuiscono alla costruzione di un dispositivo che cerca di rendere forma a ciò che normalmente resta privo di voce e rappresentazione.
Il linguaggio, lungi dall’essere uno strumento trasparente, diventa nel testo l’oggetto stesso dell’indagine. Non solo racconta l’instabilità psichica, ma la mima, la attraversa, la disloca. In tal senso, Lo sbilico può essere letto anche come una riflessione sulla possibilità – o impossibilità – di esprimere la sofferenza mentale all’interno delle strutture linguistiche comuni.
Un aspetto di particolare rilievo è il modo in cui l’opera elabora una geografia interiore proiettata nello spazio reale. Ambienti urbani e spazi privati vengono percorsi da un io narrante che non li descrive mai come sfondi neutri, ma come configurazioni simboliche del proprio stato d’animo. La città non è semplicemente uno scenario, ma una presenza che dialoga con la mente, la pressiona, la spinge al limite.
Tale attenzione alla dimensione spaziale non si limita alla descrizione esterna, ma assume il valore di una mappa emotiva, in cui ogni luogo corrisponde a una modalità percettiva differente. L’opera mostra come l’instabilità psichica non sia mai confinata all’interiorità, ma si esprima in una continua negoziazione con il paesaggio, con le istituzioni, con il tempo stesso.
Lo sbilico non è un testo autobiografico nel senso stretto del termine, né si configura come una narrazione terapeutica. La scrittura non assolve una funzione catartica, ma critica. L’esperienza soggettiva viene messa a disposizione di un discorso più ampio, che chiama in causa le strutture cliniche, sociali e culturali attraverso cui la sofferenza mentale viene definita e gestita.
Questo libro può essere letto come un atto politico: non nella misura in cui denuncia esplicitamente, ma nel suo stesso esistere come scrittura disfunzionale, come corpo linguistico difforme che rifiuta le norme della comunicazione. In un contesto in cui il disagio psichico tende a essere immediatamente ricondotto a categorie cliniche o ridotto a contenuto da spettacolarizzare, Lo sbilico oppone una resistenza silenziosa ma potente: quella dell’arte che si fa sintomo e forma.
L’opera ha ricevuto un’attenzione significativa, nonostante – o forse proprio grazie a – la sua natura ibrida e spiazzante. La critica ha riconosciuto in Pierantozzi una voce autentica, capace di restituire un’esperienza estrema senza indulgere né all’estetizzazione né alla banalizzazione. La sua scrittura si distingue per rigore, onestà e una singolare coerenza tra forma e contenuto.
Nel più ampio contesto della letteratura italiana contemporanea, Lo sbilico si colloca tra le esperienze più originali degli ultimi anni per il modo in cui affronta il tema della salute mentale senza aderire a modelli precostituiti. L’autore si allontana dalle convenzioni dell’autofiction, così come da quelle della narrativa di denuncia, e propone una forma nuova: una scrittura sintomatica che ha come obiettivo non la chiarezza, ma la verità.
Lo sbilico è un libro che sfida la narrazione come rassicurazione. Esso non offre spiegazioni né soluzioni, ma apre un varco. Leggerlo significa confrontarsi con un’altra modalità di stare al mondo, di percepire, di nominare. Significa riconoscere nella parola un luogo di lotta, ma anche – forse – una possibilità di tregua.
Pierantozzi non propone un modello, non chiede adesione. Offrendo la propria instabilità come materia di scrittura, rende però visibile un campo d’esperienza che riguarda, in modo più o meno diretto, un’intera collettività: quella che, in silenzio, vive ogni giorno nella distanza tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.