mercoledì 25 giugno 2025

«L’eterosessualità come regime: Monique Wittig e la decostruzione dell’ordine simbolico»



1. Smascherare l’“eterosessualità obbligatoria”: genealogia e rottura epistemica

Nel testo Le Pensée straight, tradotto in italiano come Il pensiero eterosessuale, Monique Wittig sviluppa una critica strutturale dell’ordine simbolico fondato sulla differenza sessuale, assumendo come bersaglio polemico tanto la naturalizzazione della divisione binaria tra i sessi quanto il regime politico che tale divisione istituisce. L’assunto teorico di partenza è che la cosiddetta “differenza sessuale” non esista se non in quanto costruzione ideologica funzionale alla riproduzione di rapporti di potere. In tal senso, Wittig opera una discontinuità rispetto a un femminismo che, pur dichiarandosi critico del patriarcato, continua ad ancorarsi a una concezione sostanzialista del sesso biologico o a una mitologia della differenza.

L’obiettivo è dunque radicale: non già rivendicare un’identità femminile distinta o valorizzata, bensì decostruire la stessa nozione di “donna” in quanto categoria sociale prodotta dalla posizione subalterna all’interno del contratto sessuale. Wittig elabora questa critica attingendo al materialismo marxista, ma depurandolo di ogni economicismo, per riformularlo in termini di “classe di sesso”. Le donne, scrive Wittig, costituiscono una classe oppressa, e la loro oppressione non è secondaria ma strutturale: si esercita attraverso i meccanismi dell’eterosessualità istituzionalizzata, e si riproduce simbolicamente attraverso le forme linguistiche e narrative del pensiero dominante.

In questa prospettiva, la critica al pensiero eterosessuale si configura come una vera e propria genealogia delle categorie sessuali, che mira a smascherarne la funzione normativa. Il lessico stesso della differenza – “maschile/femminile”, “natura/cultura”, “attivo/passivo” – si rivela come parte integrante di una grammatica del dominio, piuttosto che di una descrizione neutra della realtà. L’intervento teorico di Wittig è dunque epistemologico prima ancora che politico, e si pone come gesto insurrezionale all’interno del discorso filosofico moderno.


2. Il lesbismo come fuoriuscita dal sistema di genere: diserzione e fondazione di un’altra soggettività


Uno dei contributi più originali e destabilizzanti del pensiero di Wittig risiede nell’elaborazione del lesbismo come posizione teorica e politica che eccede e contraddice l’ordine di genere eterosessuale. Wittig rigetta ogni concezione identitaria del lesbismo come variante della sessualità femminile o come appartenenza minoritaria; al contrario, ne rivendica la potenza antisistemica e de-costruttiva. In una delle sue tesi più celebri, afferma che “la lesbica non è una donna” – proposizione che ha suscitato ampie controversie ma che va letta nella cornice della sua critica al concetto stesso di “donna” come posizione derivata all’interno della relazione eterosessuale.

La posizione lesbica, secondo Wittig, non implica una semplice variazione dell’orientamento sessuale, bensì una rottura con l’intero sistema di riproduzione sociale basato sulla complementarietà dei sessi. Il lesbismo, inteso in questa accezione, è l’atto attraverso cui un soggetto assegnato al genere femminile rifiuta di occupare la posizione di “donna” all’interno dell’ordine simbolico eterosessuale. È una fuga dalla funzione, una sottrazione strategica che rende possibile pensare e praticare forme di esistenza svincolate dalla gerarchia di genere.

Ciò che Wittig propone, in ultima analisi, è una rivoluzione semantica del lesbismo: da oggetto di rappresentazione e identificazione, esso diviene agente epistemico, produttore di una differente articolazione del reale. Il lesbismo non è quindi una minoranza tra le minoranze, ma una figura politica e teorica che disarticola l’ordine stesso del pensabile. In questo, Wittig anticipa alcuni elementi del pensiero queer, pur mantenendo un ancoraggio alla materialità storica dei dispositivi di potere che sarà poi parzialmente rielaborato da autrici come Judith Butler.


3. Discorso, linguaggio e dominio: il pensiero come campo di battaglia


Il nucleo della riflessione wittighiana sull’eterosessualità obbligatoria si completa con una teoria del linguaggio come spazio di riproduzione (ma anche di possibile rovesciamento) delle norme di genere. La lingua, per Wittig, non è mai neutra: è l’elemento attraverso cui il potere si incarna, si perpetua, si naturalizza. Le categorie grammaticali, i pronomi, la sintassi stessa sono i veicoli invisibili attraverso cui si impone una concezione binaria e gerarchica della soggettività.

Questa consapevolezza conduce Wittig a elaborare una prassi teorico-politica che potremmo definire guerriglia linguistica: il discorso diventa lo spazio da sabotare, da riscrivere, da reinventare. La sua scrittura teorica – densa, frammentaria, iperconcettuale – si accompagna alla sperimentazione letteraria che attraversa opere come Les Guérillères o Le corps lesbien, in cui il linguaggio viene forzato fino a far emergere un’alterità non riconciliata con il discorso dominante.

In questo senso, Wittig radicalizza le intuizioni foucaultiane sul potere discorsivo, e prefigura alcune delle tesi centrali della teoria performativa del genere. Tuttavia, a differenza di Butler, Wittig conserva una postura insurrezionale che fa del linguaggio non solo un ambito di analisi, ma un terreno operativo per la trasformazione. Non basta, per lei, rivelare le norme: occorre disarticolarle materialmente, anche sul piano linguistico.


4. Wittig, Butler e il pensiero queer: divergenze, consonanze, disallineamenti


Il confronto tra Monique Wittig e Judith Butler costituisce uno dei passaggi teorici fondamentali per comprendere le articolazioni del pensiero queer contemporaneo. Se Butler, in Gender Trouble, riconosce apertamente l’influenza del pensiero wittighiano, ne riformula tuttavia i presupposti a partire da una teoria della performatività ispirata da Austin e Derrida. Mentre per Wittig il genere è un dispositivo politico-materiale che organizza la divisione sessuale del lavoro e la riproduzione simbolica della società, per Butler il genere è un effetto performativo, ossia una ripetizione stilizzata di atti che producono retroattivamente l’illusione di un’identità stabile.

Questa differenza non è soltanto terminologica, ma investe il livello ontologico della teoria del soggetto. Wittig conserva una nozione conflittuale ma strutturata di soggettività politica, legata alla possibilità di negare le appartenenze imposte e di fondare una prassi di resistenza. Butler, al contrario, insiste sull’instabilità costitutiva del soggetto, decostruendone l’unità e proponendo una politica dell’ambivalenza, del fallimento performativo, della disidentificazione.

Inoltre, Butler si mostra più scettica nei confronti della possibilità di un linguaggio emancipato, ritenendo che ogni discorso sia già intriso di norme e che la subversione possa avvenire solo all’interno di esse. Wittig, al contrario, conserva una fiducia (forse utopica, ma feconda) nella possibilità di rifondare il linguaggio attraverso la letteratura e la pratica teorica. In tal senso, Wittig rappresenta un punto d’origine radicale del pensiero queer, ma anche un’eccezione teorica che non si lascia integrare facilmente nelle sue narrazioni canoniche.


5. Attualità e inassimilabilità di Monique Wittig: un pensiero ancora insurgente


Nel contesto odierno, in cui le lotte per il riconoscimento tendono a essere inglobate nelle logiche neoliberali della rappresentanza e della diversità, il pensiero di Monique Wittig conserva una carica dirompente che lo rende, per molti versi, inattuale – e proprio per questo imprescindibile. Wittig non rivendica l’inclusione dei soggetti devianti all’interno dell’ordine esistente, ma ne contesta le fondamenta: propone un’antropologia altra, un regime simbolico post-identitario, una prassi di esistenza che disattiva la norma alla radice.

La sua scrittura teorica – radicale, visionaria, refrattaria alla sistematizzazione – continua a offrire strumenti analitici e pratiche di dissenso capaci di interpellare il presente. In un’epoca in cui il discorso sulla parità di genere rischia spesso di appiattirsi su rivendicazioni formalistiche o simboliche, Wittig ci costringe a confrontarci con le dimensioni strutturali della dominazione, e a rifiutare ogni compromesso con il pensiero della differenza come destino.

Il suo pensiero, in definitiva, non si lascia addomesticare: resta un pensiero insurgente, che esige di essere pensato contro il tempo, e che invita a concepire la trasformazione sociale non come adattamento, ma come rottura – linguistica, politica, epistemologica. In questo senso, Wittig non appartiene al passato del femminismo, ma alla sua possibilità futura.