mercoledì 25 giugno 2025

nessuno più senza nome

CANTO I

Nacquero in case basse, senza padre,
o con padri che urlavano al silenzio.
Le madri li guardavano da parte,
un poco intenerite, un po’ spaventate.

Uno giocava solo con le bambole,
un altro si truccava nei bagni,
un altro si fasciava il petto piano
perché odiava il nome che portava.

Qualcuno fu il migliore a scuola, e muto,
qualcuno rideva sempre, anche di notte.
Tutti però sapevano già presto
che il corpo era una frase da tradire.

Avevano negli occhi il temporale,
un modo di star fermi come altrove.
Non li chiamavano per nome, mai,
ma con parole storte, sporche, false.

Eppure camminavano leggeri,
cadevano, ma senza farsi male.
Il mondo era un vestito troppo stretto:
lo slacciavano a morsi, oppure a baci.


CANTO II

Crescevano nei bar, tra i cessi luridi,
o dietro le colonne dei portoni.
La sera si annodavano tra i fumi,
tra i maschi già sposati e le madonne.

Ridevano di tutto, anche del niente,
e avevano nomi nuovi ogni settimana.
Qualcuno li chiamava puttanelle,
ma loro si sentivano comete.

Una si fece il seno con la gomma,
un altro andava in giro coi tacchi a scuola,
e un altro, al militare, si mostrava
peloso come un dio della vergogna.

Bevevano, scopavano, piangevano,
e poi scrivevano poesie nei treni.
Avevano amori che non durano,
ma restano in un odore sulla pelle.


CANTO III

Alcuni se ne andarono lontano,
verso città più larghe e meno buie.
Parigi, Berlino, Barcellona,
oppure il mare dove si è nessuno.

E trovarono stanze, e labbra, e mani,
più simili a quel fuoco che ardevano.
C’era chi si vestiva da sirena,
e chi invece da Cristo crocifisso.

Vivevano di sogni e di lavoretti,
e condividevano gli armadi.
La sera si truccavano da eroi,
coi capezzoli nudi sotto il cielo.

E si amavano fortissimo, di fretta,
come chi ha solo il buio per dormire.
Avevano la pelle tatuata,
non coi disegni, ma con le carezze.


CANTO IV

Poi venne il tempo delle morti bianche,
dei corpi già malati a vent’anni,
degli amici scomparsi in una sera,
e dei funerali senza nomi.

Qualcuno li evitava per paura,
qualcuno per disprezzo, o per vergogna.
Ma loro si stringevano più forte,
e scrivevano i nomi sui muri.

"Giulio vive". "Davide è luce pura".
"Andrea è diventato una cometa".
Cantavano per strada a carnevale,
coi glitter mischiati alle lacrime.

Si curavano l’un l’altro con la voce,
con gli occhi, con i gatti e con i baci.
Nessuno li capiva, ma sapevano:
l’amore è resistenza, non salvezza.


CANTO V

Poi tornarono indietro, lentamente.
Nei paesi dove erano sbagliati.
Con le camicie aperte, i fianchi larghi,
le barbe tinte, i seni dritti e fieri.

Qualcuno fu insultato, un altro amato,
qualcuno accolto come un dio in ritardo.
Altri finirono di nuovo in ombra,
ma stavolta col cuore più pesante.

Fondarono dei bar, delle librerie,
organizzarono cineforum e veglie.
Si misero a insegnare ai più giovani
che il dolore è una casa, se lo vuoi.

E qualcuno adottò, qualcuno scrisse,
qualcuno si spogliò su OnlyFans.
Ma tutti avevano la stessa voglia:
che nulla fosse più detto per caso.


CANTO VI

In sogno si parlavano ogni notte,
i vivi coi morti, senza rancori.
Si riconoscevano dai capelli,
dal modo in cui ridevano da soli.

"Ti ricordi la festa in quel cortile?"
"E il bacio dato in treno, coi finestrini?"
"Hai ancora quella felpa coi buchi?"
"Ti amo, anche se non ci sei più".

Era un paradiso senza altari,
solo corpi stesi uno sull’altro,
e parole d’amore pronunciate
con la voce che il cielo ci ha rubato.

E si svegliavano con la pelle viva,
col desiderio ancora tra le cosce.
Portavano i fantasmi nel respiro,
ma con orgoglio, come medaglie.


CANTO VII

Chi resta ora cammina un po’ più lento,
ma guarda tutti dritto negli occhi.
Porta stivali rossi anche d’inverno,
e ha imparato a dire: sono questo.

Racconta ai nuovi il tempo delle fiamme,
delle notti sudate nelle saune,
delle botte, dei baci, delle fughe,
della prima mano presa in pubblico.

E insegna che l’amore non è un fine,
ma un modo di restare, anche a pezzi.
Che un corpo non si cambia per dovere,
ma perché vuole nascere davvero.

E sotto i lampioni ancora accesi,
balla, quando nessuno lo guarda.
Perché la gioia è un atto di giustizia,
la più queer di tutte le rivolte.