lunedì 20 ottobre 2025

intro (un racconto per El Horno)


A dargli tutto quel tempo che gli occorre, Skeeen è davvero capace di provare e d'impartire l'estasi esattamente lungo tutto quanto il locale... Skeeen non può proprio celarlo nemmeno a se stesso: a mala pena domina l'ansia che in quest'attimo l'assale, allorché, sospinto dal suo stesso interesse, si risolve a trascrivere soltanto mentalmente – ma accuratamente, ma molto al di sopra di enigmatiche parole, come fosse una cosa attigua a carceri questo pensiero, come fosse suo remoto parente questo strazio straziante che strazia ma come costretto fosse a conviverci, come fosse un orizzonte velato e oscuro, come fosse un piano secolare, come fosse un mandamento ma orrendamente divino –, la copia affrettata, come fosse, di tutti quanti gli avvenimenti passati e anche futuri della sua vita... e via, e via, ma proprio alcuni di questi avvenimenti, già da molto prima d'incominciare, hanno animo – muto forse, silenziosissimo ma simile a tifone grandissimo – adulto e fanciullo insieme: terra e melma e paura brulla e quasi mancamento e ancora lontananza da primissimo desiderio sono questi avvenimenti.

Quest'anima duplice di Skeeen, frantumata tra il ricordo acerbo dell'infanzia perduta e la consapevolezza bruciante della maturità conquistata a caro prezzo, si dibatte in una danza macabra di sensazioni che non conosce tregua. I suoi pensieri si avvolgono su se stessi come serpenti velenosi, mordendosi la coda in un ciclo infinito di autodistruzione e rinascita. Ogni respiro che prende in questo ambiente saturo di fumo e sudore gli ricorda la fragilità della sua esistenza, la precarietà di ogni certezza che aveva creduto di possedere. Il tempo, in questo luogo sospeso tra realtà e incubo, assume contorni liquidi, scivolosi, inafferrabili come mercurio tra le dita tremule di un alchimista impazzito. Skeeen sente la propria identità sfaldarsi lentamente, pezzo dopo pezzo, come intonaco che si stacca da un muro antico e malandato, lasciando dietro di sé soltanto la nudità cruda del mattone sottostante, la verità spoglia e impietosa della sua condizione umana.

Le voci che lo circondano si mescolano in un coro dissonante di confessioni non richieste e verità inconfessabili, creando una sinfonia dell'abiezione che penetra nelle sue ossa come un freddo mortale. Ogni parola pronunciata in questo antro di perdizione risuona nella sua mente con l'eco metallica delle campane a morto, annunciando non la fine di una vita, ma la morte lenta e agonizzante di ogni illusione, di ogni speranza che ancora potesse albergare nel suo cuore devastato. Niente d'altro da aggiungere, niente d'altro da dire, eppure tutto resta da comprendere, tutto resta da accettare in questa discesa agli inferi della propria coscienza.

A dargli tempo, quindi, Skeeen è proprio capace d'inebriarsi, d'ubriacarsi nel cuore stesso dell'inferno abissale de El Horno: "il nome del posto è di per sé già strano, è come meraviglioso presagio, non tanto allettante ma come non cedere alla tentazione", dice nella sua mente Skeeen, "al disarmo totale che prevede un luogo come questo: le luci appena visibili colpiscono in tutta la loro vera crudeltà: una poesia del trasalimento" e via, e via e così Skeeen entra e nel frattempo dice: "un buco è un buco e non ci si tira mica indietro nei fine settimana di questa città... e via, e via, ecco, e anche questa merda di locale, poi, mica tanto è lontano dalle luride saune che frequento: è soltanto un ennesimo buco, un altro locale da frequentare, un altro nuovo fine settimana da passare all'infinito anche se, proprio per il suo senso immanente di ogni atto che all'interno si compie, non può avere mai fine" condividendo così, quasi per intero – con le estreme forze che gli rimangono – una specialissima amicanza fratella, uno spasimo fecale e sessuale con tutte le altre sventure smaniose che allegramente popolano questo antro disarmonico, questa inquieta rottura con tutto il mondo esterno, questo locale acerrimo.

Ma El Horno non è semplicemente un luogo fisico, è piuttosto una dimensione dell'essere dove le convenzioni sociali si dissolvono come zucchero nell'acido, dove ogni maschera cade rivelando il volto autentico e terrificante della natura umana. Le pareti di questo locale sembrano trasudare i segreti più inconfessabili di chi vi ha sostato, assorbendo confessioni sussurrate nell'ombra e gemiti soffocati dal vino e dalla disperazione. L'aria stessa è densa non solo di fumo e alcol, ma di desideri repressi, di pulsioni primordiali che qui trovano finalmente la libertà di manifestarsi senza censure né giudizi morali. Skeeen percepisce questa libertà come una condanna, un peso insopportabile che grava sulle sue spalle già curve sotto il fardello di una vita vissuta ai margini della rispettabilità.

Ogni passo che muove all'interno di questo spazio sacro e profano insieme lo avvicina sempre di più al nucleo incandescente della propria verità, quella verità che ha sempre cercato di evitare, di nascondere sotto strati di autoinganni e razionalizzazioni. Le luci fioche creano ombre danzanti che sembrano prendere vita propria, assumendo le sembianze dei suoi fantasmi interiori, dei suoi demoni personali che qui, in questo regno delle tenebre illuminate, possono finalmente materializzarsi e confrontarlo faccia a faccia. Il senso di vertigine che prova non è dovuto soltanto all'alcol che scorre nelle sue vene, ma alla consapevolezza improvvisa e lacerante che ogni sua azione, ogni suo pensiero, ogni suo respiro in questo luogo è carico di un significato che trascende la semplice esperienza sensoriale per toccare le corde più profonde e nascoste del suo essere.

A dire il vero, nello stato di ebbrezza da Ceres assai avanzata nel quale Skeeen si trova, ad entrare a El Horno prova solamente un disagio più che passeggero e già quasi arriva a sorprendersi e arriva a confidarsi mentalmente cose che non gli sarebbe mai venuto in testa, normalmente, di rivelare nemmeno al suo più intimo e letale amico, a maggior ragione a una persona che in un certo senso non conosce affatto, anche se, provando per questa un desiderio vivissimo e cercando quindi di corteggiarla già appena entrato, si mette largamente, in mancanza di altri argomenti, a parlare di sé... e via, e via, e quello ad ascoltarlo distratto e silenzioso e quello a raccogliere tutti i suoi storpi discorsi che inaridiscono, come una condanna, il corpo e il pensiero e i rapporti con il prossimo.

L'ebbrezza che lo pervade non è meramente fisica, ma assume i connotati di una rivelazione mistica perversa, dove l'alcol diventa il sacramento di una religione blasfema che ha per altare il proprio ego smisurato e per divinità il proprio dolore esistenziale. Ogni sorso di birra che ingurgita è come una preghiera al contrario, un'invocazione alle forze oscure che abitano le profondità della sua psiche, un richiamo ancestrale alle pulsioni più primitive e incontrollabili che la civiltà ha tentato di addomesticare senza successo. La persona che cerca di conquistare diventa, nella sua percezione alterata, molto più di un semplice oggetto del desiderio: si trasforma in una sorta di confessore laico, un testimone involontario della sua discesa agli inferi, un pubblico silenzioso e giudicante davanti al quale può finalmente spogliarsi non solo degli abiti, ma di ogni pretesa di dignità e decenza.

Le parole che escono dalla sua bocca sono come gocce di veleno che contaminano l'aria intorno a lui, creando un'aura tossica che respinge e attrae allo stesso tempo. Ogni confessione che fa è un passo ulteriore verso l'abisso, un'altra corda che si spezza nel fragile equilibrio che lo tiene ancora legato al mondo dei vivi e dei sani di mente. Il silenzio del suo interlocutore non è indifferenza, ma piuttosto il vuoto cosmico che assorbe le sue parole senza restituire alcun eco, alcuna conferma della propria esistenza. È come gridare nel deserto, come versare lacrime in un oceano di indifferenza che non conosce pietà né compassione. I suoi discorsi, definiti "storpi" dalla sua stessa coscienza lucida che osserva dall'alto questa rappresentazione grottesca, sono infatti deformità linguistiche che riflettono le deformità più profonde della sua anima corrotta.

A giudicare dall'esplosione di risa con cui quel tipo saluta la prima confessione di Skeeen – e non è che la prima delle tante che in questa serata daranno un senso minimo alla sua esistenza –, è da credere che lo spettacolo dell'impudicizia possa talvolta ispirare altri sentimenti meno forti e meno fantasticati ma così altrettanto fortemente e crudelmente ingiuriosi per colui che ne è oggetto.

Quella risata risuona nell'aria viziata del locale come il suono di una campana incrinata, portando con sé tutta la crudeltà inconsapevole di chi assiste al naufragio altrui dalla sicurezza della propria zattera. Non è una risata di comprensione o di solidarietà umana, ma piuttosto il ghigno beffardo del destino che si compiace nel vedere un uomo ridotto alla caricatura di se stesso. Skeeen percepisce in quel suono metallico e tagliente tutto il disprezzo che il mondo nutre per chi ha il coraggio, o la disgrazia, di mostrarsi per quello che realmente è, senza filtri né abbellimenti. È la risata di chi non ha mai conosciuto la vertigine dell'autoanalisi spietata, di chi non si è mai sporto sull'orlo del precipizio della propria coscienza per guardare negli abissi che si aprono sotto la superficie levigata della personalità sociale.

L'impudicizia di cui si parla non è meramente quella fisica o sessuale, ma quella molto più profonda e scandalosa dell'anima che si denuda completamente, che rinuncia a ogni pudore intellettuale e emotivo per offrirsi in pasto agli sguardi affamati di chi cerca intrattenimento nelle miserie altrui. È lo spettacolo della vulnerabilità umana trasformato in commedia, il dramma esistenziale ridotto a farsa per la gioia di un pubblico che non comprende di essere, a sua volta, parte dello stesso spettacolo. La crudeltà di questa situazione risiede non tanto nell'atto dell'esposizione, quanto nella reazione di chi assiste: quella risata che trasforma il dolore autentico in curiosità morbosa, la sofferenza reale in intrattenimento da quattro soldi.

Ma forse, in fondo, Skeeen cerca proprio questo: essere oggetto di derisione significa comunque esistere, significa aver lasciato un segno, per quanto grottesco, nella coscienza altrui. È meglio essere ridicolizzati che ignorati, è preferibile la crudeltà dell'attenzione alla gentilezza dell'indifferenza. In questa logica perversa, ogni risata di scherno diventa una conferma della propria realtà, ogni sguardo di disgusto una prova tangibile della propria presenza nel mondo. L'ingiuria, paradossalmente, diventa l'unica forma di riconoscimento possibile per chi ha rinunciato alla dignità in cambio della visibilità.

"A livello morale con le coppie diciamo che non esiste nessun problema ed è proprio una cosa assolutamente divertente la possibilità di vedere i più svariati atti amorosi fra i due e starsene lì seduti in poltrona come al cine così si finisce per assistere come per una sorta di privilegio impietosi e ammirati a questo straccio d'amitié" dice una voce al tavolo accanto.

Queste parole, pronunciate con la disinvoltura di chi commenta il tempo meteorologico, rivelano la natura profondamente voyeuristica dell'ambiente in cui Skeeen si trova immerso. Non si tratta semplicemente di un locale dove si consuma alcol e si cerca compagnia, ma di un vero e proprio teatro dell'assurdo dove ogni gesto intimo diventa spettacolo pubblico, dove la privacy è un concetto abolito e sostituito dalla tirannia dello sguardo collettivo. La voce che parla tradisce una freddezza clinica che fa rabbrividire più delle confessioni più scabrose: è la voce di chi ha perso ogni contatto con la propria umanità, di chi ha trasformato l'osservazione della vita altrui nella propria unica fonte di emozione.

Il paragone con il cinema non è casuale: in questo luogo, la realtà si trasforma in finzione, i rapporti umani autentici diventano rappresentazioni per un pubblico pagante in termini di attenzione e giudizio. Le coppie che si esibiscono non sono più persone che vivono la propria intimità, ma attori inconsapevoli di un dramma che non hanno scritto, interpreti di ruoli che non hanno scelto ma che sono stati loro assegnati da una regia invisibile e spietata. L'amitié di cui si parla, definita sprezzantemente "straccio", rappresenta tutto ciò che rimane dei sentimenti umani in questo contesto degradato: brandelli di emozioni autentiche ridotte a parodia di se stesse.

L'aggettivo "impietosi" riferito agli spettatori di questo spettacolo involontario rivela la natura predatoria dell'osservazione: non si tratta di curiosità innocente o di interesse umano, ma di una vera e propria caccia alle emozioni altrui, di un cannibalismo emotivo che si nutre della sostanza vitale di chi ha la sventura di trovarsi sotto i riflettori. Eppure, paradossalmente, questi stessi spettatori si definiscono "ammirati", come se assistere alla degradazione umana fosse fonte di elevazione spirituale, come se la miseria altrui potesse in qualche modo nobilitare chi la osserva dalla sicurezza della propria postazione.

Skeeen, ascoltando queste parole, si rende conto di essere entrato in un universo parallelo dove le categorie morali tradizionali sono state completamente sovvertite, dove il bene e il male si confondono in una melassa appiccicosa che intrappola chiunque vi metta piede. È un mondo dove la sincerità è punita con il ridicolo, dove l'autenticità è premiata con il disprezzo, dove l'unica verità riconosciuta è quella dello spettacolo continuo, della performance ininterrotta che non ammette pause né momenti di raccoglimento. In questo teatro dell'assurdo, anche il suo dolore, anche la sua ricerca disperata di contatto umano, diventano parte del copione, elementi di una commedia che non fa ridere nessuno ma che tutti fingono di trovare divertente.

Nel momento esatto in cui la porta di El Horno si richiude alle sue spalle, Skeeen comprende che qualcosa di irreversibile sta per accadere. Non è più questione di tempo da concedere o di estasi da distribuire lungo i meandri del locale – è piuttosto una questione di sopravvivenza, di resistenza all'impatto devastante di quello che sta per investirlo come un'onda anomala.

Il suono metallico del meccanismo di chiusura risuona nelle sue orecchie come il rintocco di una campana funebre, segnando l'inizio di un rituale che ha ripetuto centinaia di volte eppure che ogni sera gli appare nuovo, carico di possibilità inesplorate e di pericoli inimmaginabili. L'aria del locale gli si deposita sui polmoni come una sostanza densa, quasi liquida, impregnata di odori che raccontano storie di corpi e anime che si sono consumati in questi spazi, di desideri che hanno trovato compimento e di altri che sono morti sul nascere, soffocati dal peso delle convenzioni e delle paure.

Il disagio che aveva percepito inizialmente si trasforma in qualcosa di più complesso: una vertigine esistenziale che lo costringe a ripensare ogni singolo passo che l'ha condotto fin qui. È come se improvvisamente vedesse la propria vita dall'alto, come un regista che osserva la scena dall'esterno e si accorge che tutti i personaggi stanno recitando un copione scritto da qualcun altro, interpretando ruoli che non hanno scelto e pronunciando battute che non comprendono fino in fondo.

L'ebbrezza da Ceres, che fino a un momento prima gli sembrava un alleato fidato, ora si rivela per quello che è veramente: un tradimento chimico, una sostanza che sta corrodendo le sue difese mentali dall'interno, esponendolo a pericoli che la sua mente lucida avrebbe saputo evitare. Sente i neurotrasmettitori che danzano nel suo cervello seguendo ritmi chaotici, alterando la percezione del tempo, dello spazio, delle relazioni causali tra gli eventi. È in questo stato di alterazione controllata che Skeeen inizia a percepire El Horno non più come un luogo fisico, ma come una dimensione parallela della coscienza, un territorio liminale dove le regole della realtà quotidiana sono sospese e dove diventa possibile accedere a verità che normalmente rimangono sepolte negli strati più profondi della psiche.

Le luci al neon proiettano ombre geometriche sui volti delle persone che si muovono intorno a lui, trasformandoli in maschere tribali, in totem urbani che celebrano culti metropolitani dedicati alla ricerca compulsiva del piacere e alla fuga sistematica dalla responsabilità. Ogni individuo che incrocia il suo sguardo gli appare come un frammento di specchio rotto, riflettendo aspetti diversi della sua personalità frantumata, mostrandogli versioni possibili di sé che avrebbe potuto diventare se avesse fatto scelte diverse, se avesse imboccato strade alternative nel labirinto della sua esistenza.

PREAMBOLO: L'ARCHEOLOGIA DEL PRESENTE

Prima ancora di addentrarsi nelle confessioni vere e proprie, Skeeen avverte il bisogno di stabilire un contesto, di costruire una cornice interpretativa che possa contenere tutto quello che sta per dire senza che si disperda nel vuoto delle parole pronunciate tanto per riempire il silenzio. È conscio del fatto che sta per compiere un atto di estrema vulnerabilità, un'operazione chirurgica sulla propria anima che richiede precisione e coraggio in eguale misura.

"Sai", inizia rivolgendosi a quella presenza indefinita che gli si è materializzata accanto, "c'è una differenza sostanziale tra raccontare una storia e confessare una verità. La prima si può costruire, abbellire, modificare a piacimento per renderla più interessante o più sopportabile. La seconda, invece, ti emerge dalle viscere come un conato di vomito, ti si presenta già formata e tu puoi solo decidere se buttarla fuori o tenerla dentro fino a quando non ti avvelena il sangue."

La figura che lo ascolta sembra addensarsi nell'aria, acquisire una consistenza più solida, come se la sua attenzione stesse letteralmente materializzando un interlocutore degno delle rivelazioni che stanno per arrivare. Skeeen percepisce questo cambiamento e ne è contemporaneamente rassicurato e terrorizzato, perché sa che ora non può più tirarsi indietro, che ha evocato un testimone che pretenderà di sentire tutta la storia fino alla fine.

"Quello che sto per raccontarti", prosegue mentre osserva le proprie mani che tremano leggermente intorno al bicchiere, "non è una storia edificante. Non c'è una morale, non c'è un lieto fine, non c'è nemmeno una progressione logica degli eventi che porti a una qualche forma di catarsi o di redenzione. È semplicemente il resoconto fedele di come si può arrivare a perdere completamente il controllo della propria vita senza accorgersene, di come si può sprofondare in un abisso scambiandolo per un'ascesa verso la luce."

L'atmosfera del locale sembra addensarsi intorno a loro, creando una bolla di intimità artificiale dove le confessioni possono fluire libere dai giudizi del mondo esterno. Skeeen si accorge che la musica di sottofondo si è abbassata fino a diventare un ronzio quasi impercettibile, come se l'ambiente stesso si fosse messo in ascolto, predisponendosi a ricevere e conservare le parole che stanno per essere pronunciate.

PRIMA CONFESSIONE: LA GENESI DEL VUOTO

"Tutto è iniziato tre mesi fa", si sente dire a qualcuno che potrebbe essere chiunque, forse quella figura indistinta che gli si è materializzata accanto al bancone. "Tre mesi fa, quando ho capito che non esisteva più niente di solido nella mia vita, niente su cui potermi appoggiare senza il rischio di vederlo crollare." Le parole escono dalla sua bocca con una fluidità che lo spaventa, come se qualcun altro stesse utilizzando il suo apparato vocale per raccontare una storia che lui stesso fatica a riconoscere come propria.

Ma in realtà, se deve essere completamente onesto, la genesi del vuoto risale a molto più indietro nel tempo. Tre mesi fa è semplicemente il momento in cui ha smesso di mentire a se stesso, quando ha finalmente ammesso che tutte le strutture di significato che aveva faticosamente costruito intorno alla sua esistenza erano solo castelli di carte, destinati a crollare al primo soffio di vento della realtà. Il vero inizio del processo di decomposizione della sua identità può essere fatto risalire a quella mattina di due anni fa, quando si era svegliato nel letto di una persona di cui non ricordava nemmeno il nome, con la sensazione netta di aver perso qualcosa di fondamentale durante la notte, qualcosa che non sarebbe mai più riuscito a recuperare.

"In quel periodo", continua mentre la memoria gli riporta alla mente dettagli che aveva cercato di seppellire, "avevo ancora l'illusione di poter controllare la situazione. Pensavo che fosse solo una fase passeggera, una crisi temporanea che si sarebbe risolta da sola con il passare del tempo. Invece era l'inizio di una discesa agli inferi che sarebbe durata mesi, un viaggio attraverso tutti i cerchi della disperazione moderna, ognuno dei quali aveva le sue regole, i suoi abitanti, i suoi particolari orrori."

Il suo interlocutore – una presenza più che una persona, un'ombra dotata di orecchie – annuisce meccanicamente, ma Skeeen percepisce chiaramente che quell'assenso è vuoto, privo di qualsiasi forma di comprensione autentica. È come parlare a uno specchio che riflette solo l'aspetto esteriore delle cose, ignorando completamente la sostanza. Eppure continua, spinto da una necessità impellente di svuotarsi, di liberarsi di tutto quel peso che porta dentro da troppo tempo.

"Il primo segnale di allarme è stato quando ho smesso di riuscire a dormire", rivela mentre i suoi occhi si perdono nella contemplazione delle volute di fumo che si alzano dai posacenere sparsi sui tavoli. "Non era semplice insonnia, era qualcosa di più profondo e inquietante. Era come se la mia mente avesse deciso di rimanere costantemente in stato di allerta, come se avesse individuato un pericolo imminente che la parte cosciente di me non riusciva a identificare. Passavo le notti a fissare il soffitto, ascoltando i rumori della città che non si addormenta mai, cercando di decifrare i messaggi nascosti nel traffico notturno, nelle sirene delle ambulanze, nei litighi dei vicini che filtravano attraverso le pareti sottili del mio appartamento."

La memoria di quelle notti insonni gli provoca ancora oggi una sensazione di vertigine, come se si affacciasse su un precipizio che minaccia di risucchiarlo nuovamente negli abissi della sua psiche tormentata. Quelle ore di veglia forzata erano diventate un territorio di esplorazione involontaria, dove la sua mente vagabondava senza controllo attraverso paesaggi onirici popolati da fantasmi del passato e terrori del futuro.

"Ho iniziato a frequentare posti come questo per cercare qualcosa che non so nemmeno definire", prosegue, mentre le sue mani tremano impercettibilmente intorno al bicchiere. "Non è sesso quello che cerco, non è nemmeno compagnia nel senso tradizionale del termine. È... è come se stessi cercando di ritrovare me stesso nei frammenti riflessi negli occhi degli altri, di ricompormi attraverso gli sguardi di sconosciuti che non mi vedranno mai veramente."

Questa ammissione gli costa un grande sforzo, perché significa riconoscere che la sua ricerca disperata di contatto umano nei luoghi più improbabili non è motivata da bisogni carnali o da semplice solitudine, ma da una crisi di identità molto più profonda e devastante. È la confessione di un uomo che ha perso il senso della propria esistenza e che cerca disperatamente di ritrovarlo nei riflessi distorti che gli rimandano gli specchi frammentati di queste vite di passaggio.

"Ogni sera che vengo qui", continua con voce che si fa sempre più bassa, quasi un sussurro, "è un tentativo di suicidio esistenziale e di rinascita simultanei. È come se cercassi di uccidere la versione di me che non sopporto più per far nascere qualcosa di nuovo, di diverso, di più autentico. Ma ogni mattina mi risveglio sempre la stessa persona, con gli stessi problemi, le stesse paure, le stesse inadeguatezze che mi perseguitano da sempre."

INTERLUDIO: LA GEOGRAFIA DELL'ANIMA

Mentre pronuncia queste parole, Skeeen inizia a muoversi attraverso il locale seguendo percorsi che sembrano rispondere a una logica interna piuttosto che a una pianificazione cosciente. È come se il suo corpo conoscesse questa geografia meglio della sua mente, come se avesse sviluppato una memoria muscolare che lo guida automaticamente verso le zone del locale che corrispondono ai diversi stati d'animo che sta attraversando.

La prima zona, quella dell'ingresso, corrisponde all'ansia dell'arrivo, alla tensione di chi non sa ancora cosa lo aspetta ma intuisce che sarà qualcosa di significativo. Qui l'illuminazione è più forte, quasi aggressiva, e costringe tutti a mostrarsi per quello che sono, senza possibilità di nascondersi nell'ombra. È la zona del giudizio reciproco, dove si decidono le alleanze e le esclusioni della serata, dove si formano le prime impressioni che determineranno il corso degli eventi successivi.

Poi c'è la zona centrale, quella dei tavoli e del bar, che rappresenta la socializzazione forzata, il territorio delle conversazioni di superficie che servono a saggiare il terreno prima di avventurarsi in acque più profonde. Qui la musica è più alta e copre le incertezze, i silenzi imbarazzanti, le parole dette a metà per paura di esporsi troppo. È la zona della recitazione sociale, dove tutti interpretano versioni leggermente falsificate di se stessi, più sicure, più attraenti, più interessanti di quelle reali.

Infine ci sono le zone periferiche, i corridoi secondari, gli angoli nascosti dove avvengono gli incontri più significativi, dove le maschere cadono e emergono le verità più crude e inconfessabili. Qui l'illuminazione si fa soffusa, quasi carezzevole, e permette alle persone di mostrarsi in tutta la loro vulnerabilità senza il terrore del giudizio altrui.

Skeeen conosce perfettamente questa mappa emotiva del locale e sa muoversi attraverso di essa seguendo i flussi e riflussi del suo stato psicologico. In questo momento si trova in una zona di transizione, a metà strada tra il centro e la periferia, in quel territorio liminale dove le confessioni iniziano a farsi più profonde ma non hanno ancora raggiunto il livello di intimità assoluta che caratterizza gli incontri più intensi.

L'ANATOMIA DI EL HORNO

Il locale si distende intorno a lui come un organismo vivente, pulsante di vita propria. Non sono più le luci appena visibili a colpirlo nella loro crudeltà – sono piuttosto le ombre, quegli spazi di buio assoluto che si aprono tra una zona illuminata e l'altra, creando una geografia dell'invisibile dove si consumano i drammi più intensi, dove si intrecciano le storie più segrete.

Ma El Horno non è semplicemente un contenitore passivo di esperienze umane. È un ecosistema complesso che si alimenta delle energie che circolano al suo interno, che cresce e si evolve in base alle emozioni, ai desideri, alle paure di chi lo frequenta. Skeeen ha imparato a leggere i segni di questo metabolismo nascosto: il modo in cui l'illuminazione si adatta inconsciamente agli stati d'animo dominanti della serata, come la temperatura sembra variare in relazione all'intensità delle interazioni umane, come persino la disposizione dei mobili sembra modificarsi impercettibilmente per favorire certi tipi di incontri piuttosto che altri.

"El Horno è un organismo simbiotico", sussurra al suo interlocutore mentre osserva un gruppo di persone che si sta formando intorno a uno dei tavoli centrali. "Si nutre delle nostre nevrosi e in cambio ci offre l'illusione di poterle esorcizzare attraverso l'interazione con altri individui altrettanto tormentati. È un circolo vizioso perfetto: più siamo disperati, più il locale diventa potente; più il locale diventa potente, più attira persone disperate."

Skeeen inizia a muoversi attraverso questo labirinto di penombra con la precisione sonnambula di chi conosce ogni angolo, ogni corridoio, ogni porta che si apre su scenari sempre diversi eppure sempre identici. Sa che dietro quella parete si nasconde una stanza dove il tempo sembra scorrere al rallentatore, dove ogni gesto viene amplificato fino a diventare un rituale, una cerimonia dedicata a divinità moderne che si nutrono di solitudine e disperazione.

Le pareti stesse sembrano aver assorbito e conservato tracce delle migliaia di conversazioni che si sono svolte in questi spazi, creando una sorta di memoria collettiva del locale che influenza inconsciamente chiunque vi entri. È per questo che certe frasi, certi gesti, certi sguardi si ripetono con frequenza statistica impossibile da spiegare razionalmente: non è coincidenza, è l'effetto di questa impregnazione psichica dell'ambiente che spinge tutti a recitare variazioni dello stesso copione universale.

"Osserva attentamente", dice indicando discretamente le persone che si muovono intorno a loro, "e vedrai che tutti noi stiamo interpretando archetipi eterni: c'è il cacciatore e la preda, il seduttore e il sedotto, il salvatore e la vittima, il saggio e il discepolo. El Horno non fa altro che fornire il palcoscenico per questa rappresentazione infinita, per questo teatro dell'assurdo dove tutti sanno di recitare ma fingono di essere spontanei."

La scoperta di questa dimensione teatrale dell'esperienza umana è stata per Skeeen contemporaneamente liberatoria e devastante. Liberatoria perché gli ha permesso di smettere di prendere troppo sul serio le dinamiche relazionali che si sviluppano in questi luoghi, di osservarle con il distacco critico dello spettatore piuttosto che con la partecipazione emotiva dell'attore. Devastante perché ha esteso questa consapevolezza anche alla sua vita quotidiana, scoprendo che anche fuori da El Horno tutti continuano a recitare ruoli prestabiliti, a seguire copioni scritti da altri, a interpretare se stessi piuttosto che essere se stessi.

"El Horno non è solo un nome", sussurra all'ombra che lo accompagna, "è una condizione esistenziale. È il luogo dove veniamo a cuocere lentamente nelle nostre ossessioni, dove ci trasformiamo gradualmente in qualcosa di diverso da quello che eravamo quando siamo entrati." Le parole gli escono di bocca con una lucidità che contrasta straniamente con il suo stato di ebbrezza, come se l'alcol avesse paradossalmente affinato la sua capacità di analisi invece di offuscarla.

Questa metamorfosi non è mai definitiva, mai completamente soddisfacente. È un processo continuo di morte e rinascita parziali, dove ogni serata rappresenta un tentativo di raggiungere una versione migliorata di sé che inevitabilmente si rivela essere solo un'altra maschera, un altro personaggio da interpretare fino a quando non diventa insopportabile e deve essere sostituito con qualcos'altro.

"Il paradosso di posti come questo", continua mentre si addentra in una zona del locale che non aveva mai esplorato prima, "è che promettono autenticità ma producono finzione, promettono libertà ma creano dipendenza, promettono connessione ma generano isolamento. Siamo tutti qui perché cerchiamo qualcosa che non possiamo trovare nella vita normale, ma quello che troviamo è solo una versione distorta e amplificata degli stessi problemi che cerchiamo di fuggire."

SECONDA CONFESSIONE: IL CATALOGO DEGLI ERRORI

"Vuoi sapere qual è stata la mia prima volta qui?" La domanda emerge spontanea, senza che Skeeen abbia programmato di porla. È come se la sua mente avesse deciso autonomamente di aprire un archivio di ricordi che aveva tenuto sigillato per troppo tempo. "Era un giovedì sera di marzo, pioveva quella pioggia sottile che ti entra nelle ossa e ti ci resta per giorni. Ero venuto qui non per scelta, ma per disperazione. Avevo appena scoperto che tutto quello in cui credevo era una menzogna, che tutte le persone di cui mi fidavo mi avevano tradito simultaneamente, in un complotto perfetto di cui non avevo mai sospettato l'esistenza."

La memoria di quella sera riemerge con una nitidezza dolorosa, riportando alla superficie dettagli che aveva cercato di dimenticare per mesi. Il sapore metallico della pioggia sulla lingua, il rumore dei suoi passi che risuonavano sui marciapiedi deserti, la sensazione di essere completamente solo al mondo nonostante fosse circondato da milioni di persone. Era una solitudine cosmica, totale, che lo faceva sentire come se fosse l'ultimo essere umano rimasto su un pianeta morto.

"Quella sera ho scoperto che esistono diversi livelli di tradimento", prosegue mentre la sua voce si fa più roca, carica di emozioni che credeva di aver elaborato ma che invece erano solo dormienti. "C'è il tradimento superficiale, quello che ferisce l'orgoglio ma lascia intatta l'essenza della persona. C'è il tradimento profondo, quello che distrugge la fiducia ma non annulla la capacità di amare. E poi c'è il tradimento esistenziale, quello che ti fa dubitare della tua stessa percezione della realtà, che ti costringe a ripensare tutto quello che credevai di sapere su te stesso e sul mondo."

Il suo interlocutore continua ad ascoltare con quella passività che inizia a risultare irritante, ma Skeeen non riesce a smettere di parlare. È come se avesse aperto una valvola di sfogo che ora non riesce più a chiudere, condannandolo a un'emorragia verbale che lo sta dissanguando emotivamente.

"Quel giovedì sera ho capito che la mia intera vita era stata una illusione condivisa", continua mentre frammenti di quella notte terribile continuano a riemergere dalla memoria. "Le persone che amavo, il lavoro che facevo, la casa in cui vivevo, persino i miei gusti e le mie opinioni – tutto era stato condizionato, manipolato, costruito artificialmente da altri per i loro scopi. Ero stato il protagonista inconsapevole di una vita che non era la mia, un attore che recitava un copione scritto da registi invisibili che mi osservavano dall'alto ridendo della mia ingenuità."

La scoperta di essere stato un burattino nelle mani di altri lo aveva gettato in una crisi di identità dalla quale non si era ancora completamente ripreso. Se tutto quello che aveva creduto di essere era falso, allora cosa rimaneva della sua personalità autentica? Dove finiva l'influenza degli altri e dove iniziava il suo vero io? Erano domande che lo tormentavano ancora oggi, domande per le quali non aveva trovato risposte soddisfacenti nonostante mesi di autoanalisi ossessiva.

"Quella sera ho camminato per ore sotto la pioggia", racconta mentre la voce si fa sempre più bassa, quasi ipnotica, "cercando un posto dove poter scomparire definitivamente, dove poter morire alla vecchia vita senza dover necessariamente iniziare una vita nuova. Non volevo suicidarmi fisicamente, volevo solo cessare di esistere come la persona che ero stato fino a quel momento, dissolvermi nell'anonimato della città notturna e rinascere come qualcun altro, o meglio ancora, non rinascere affatto."

Era stato il caso – o forse una forma di istinto di sopravvivenza che ancora non comprendeva – a guidare i suoi passi verso El Horno. Non conosceva l'esistenza di quel posto, non aveva mai sentito parlarne, non sapeva nemmeno cosa aspettarsi varcando quella porta anonima che si apriva su un vicolo secondario. Eppure, nel momento in cui era entrato, aveva avvertito immediatamente che quello era il luogo giusto, l'ambiente perfetto per il tipo di morte simbolica che stava cercando.

"Quella prima notte ho scoperto che esistono due tipi di solitudine", prosegue mentre si addentra in una zona del locale che non aveva mai esplorato prima. "C'è la solitudine scelta, quella che ti costruisci intorno come una fortezza per proteggerti dal mondo esterno. E poi c'è la solitudine imposta, quella che ti cade addosso come una slavina, seppellendoti sotto tonnellate di vuoto e di silenzio. Io appartengo alla seconda categoria, sono un rifugiato della socialità, un esule dalle relazioni umane normali."

Questa distinzione era emersa gradualmente, attraverso settimane di osservazione del comportamento proprio e altrui in quel particolare ecosistema sociale che era El Horno. Aveva imparato a riconoscere i segni distintivi di entrambi i tipi di solitudine: i primi, i solitari per scelta, si muovevano con sicurezza, controllavano le situazioni, utilizzavano gli altri come strumenti per il proprio piacere senza mai coinvolgersi emotivamente. I secondi, come lui, erano sempre leggermente fuori tempo, leggermente fuori posto, costantemente in cerca di connessioni autentiche ma incapaci di crearle a causa del bagaglio di traumi e delusioni che si portavano dietro.

"Il problema della solitudine imposta", continua mentre osserva un gruppo di persone che ride fragorosamente intorno a un tavolo, "è che ti rende contemporaneamente disperato di compagnia e incapace di sopportarla. Vivi in una contraddizione permanente: hai bisogno degli altri per sentirti vivo, ma la presenza degli altri ti ricorda costantemente tutto quello che hai perso, tutto quello che non sei più in grado di essere."

TERZA CONFESSIONE: L'ALGORITMO DEL DESIDERIO

Le pareti di questa nuova sezione sono ricoperte di specchi frammentati, ognuno dei quali riflette un aspetto diverso della sua personalità frantumata. Skeeen si osserva moltiplicarsi all'infinito in queste superfici riflettenti, vedendo emergere versioni di sé che non sapeva nemmeno di possedere: il sé bambino terrorizzato dal buio, il sé adolescente pieno di rabbia repressa, il sé adulto paralizzato dall'indecisione, il sé futuro consumato dal rimpianto.

"Esiste una matematica nascosta del desiderio", dice improvvisamente, sorprendendo se stesso con questa affermazione che sembra provenire da una parte della sua mente che non conosceva. "Un algoritmo complesso che determina cosa vogliamo, quando lo vogliamo, quanto intensamente lo vogliamo. Ho passato mesi a cercare di decifrare questo codice, convinto che se fossi riuscito a comprenderlo avrei potuto riprogrammare me stesso, diventare una versione migliorata della persona che sono."

L'idea gli era venuta osservando i pattern ricorrenti nei comportamenti propri e altrui all'interno di El Horno. Aveva notato che certi tipi di personalità erano attratti invariabilmente da certi altri tipi, che certi meccanismi di seduzione funzionavano sempre mentre altri fallivano sistematicamente, che l'intero ecosistema del locale sembrava obbedire a leggi non scritte ma incredibilmente precise.

"Ho iniziato a tenere un diario dettagliato di ogni interazione", confessa mentre la sua immagine si moltiplica all'infinito nei frammenti di specchio che lo circondano. "Annotavo tutto: chi guardava chi, per quanto tempo, con quale espressione; chi iniziava le conversazioni e come; quali argomenti funzionavano e quali facevano calare il silenzio; persino i dettagli apparentemente insignificanti come la postura, il tono di voce, la velocità del respiro."

Questo progetto di mappatura scientifica delle dinamiche umane era iniziato come un tentativo di riprendere il controllo della propria vita attraverso la comprensione razionale dei meccanismi che la governavano. Se non riusciva a essere spontaneamente attraente, carismatico, interessante, almeno poteva imparare a simulare queste qualità seguendo formule precise, protocolli comportamentali derivati dall'osservazione empirica.

"Il paradosso", continua mentre tocca delicatamente uno dei frammenti di specchio, vedendo il proprio volto deformarsi in espressioni grottesche, "è che più studiavo il comportamento umano, più mi allontanavo dall'umanità. Ogni spontaneità scompariva, sostituita da calcoli e strategie. Ogni emozione veniva filtrata attraverso l'analisi delle sue possibili conseguenze. Stavo diventando una macchina progettata per simulare l'essere umano che un tempo ero stato."

La fase sperimentale era durata circa sei settimane, durante le quali aveva applicato rigorosamente le tecniche che aveva sviluppato, misurando i risultati con la precisione di uno scienziato. E in effetti i risultati erano arrivati: le sue interazioni sociali erano diventate più efficaci, riusciva a catturare l'attenzione delle persone più facilmente, le sue conversazioni duravano più a lungo e sembravano più coinvolgenti.

"Ma era tutto falso", ammette con una tristezza che lo sorprende per la sua intensità. "Stavo interpretando una versione artificialmente migliorata di me stesso, una maschera così perfetta da essere indistinguibile dalla realtà. E il bello è che funzionava: le persone erano attratte da questa versione fake di Skeeen più di quanto lo fossero mai state dall'originale. Il che mi ha portato a una conclusione terrificante."

La conclusione alla quale era arrivato era che forse l'autenticità non era un valore assoluto, forse era solo un lusso che si potevano permettere coloro che erano naturalmente dotati di qualità attraenti. Per gli altri, per i falliti come lui, la falsificazione strategica della personalità poteva essere l'unica strada praticabile verso una qualche forma di successo sociale.

"Ho scoperto che esistono due tipi di persone", prosegue mentre si allontana dagli specchi frammentati, "quelli che sono naturalmente quello che gli altri vogliono che siano, e quelli che devono imparare a diventarlo artificialmente. Io appartengo chiaramente alla seconda categoria, e questo mi pone di fronte a un dilemma etico fondamentale: è moralmente accettabile fingere di essere una persona migliore di quella che si è realmente?"

La questione lo tormentava ancora, perché non riusciva a trovare una risposta definitiva. Da una parte, la finzione gli permetteva di creare connessioni umane che altrimenti gli sarebbero state precluse, di regalare momenti di felicità sia a sé che agli altri, di partecipare a quella dimensione sociale dell'esistenza dalla quale si era sempre sentito escluso. Dall'altra, viveva nella paura costante di essere scoperto, di vedere crollare tutto il castello di carte che aveva costruito intorno alla sua falsa identità.

"Il peggio è che dopo un po' non riuscivo più a distinguere tra il vero Skeeen e la versione recitata", confessa mentre la sua voce si fa sempre più debole. "I confini tra autenticità e finzione erano completamente scomparsi, lasciando al loro posto una zona grigia dove non sapevo più chi fossi veramente. Era come vivere in un sogno lucido permanente, dove sai di sognare ma non riesci a svegliarti."

LA METAMORFOSI DELL'ASCOLTO

All'improvviso, qualcosa cambia nella dinamica della conversazione. Il suo interlocutore smette di essere una presenza passiva e inizia a porre domande, domande che penetrano come aghi nelle parti più sensibili della sua psiche: "Ma cosa cerchi veramente qui dentro? Cosa speri di trovare in questi luoghi che il mondo esterno non può darti?"

Skeeen si ferma di colpo, come colpito da un fulmine. Nessuno gli aveva mai posto questa domanda così direttamente, così senza filtri o convenzioni sociali. È una domanda che va dritta al cuore del suo problema esistenziale, che mette a nudo tutte le sue contraddizioni e le sue paure più profonde. Per la prima volta da quando è entrato nel locale, si sente veramente visto, veramente ascoltato, come se qualcuno avesse finalmente deciso di guardare oltre la superficie delle sue parole per scavare nella sostanza delle sue motivazioni più recondite.

"È una domanda che mi faccio anch'io ogni notte", risponde dopo un silenzio che sembra durare un'eternità, mentre sente il peso di tutti gli sguardi del locale concentrarsi su di lui, come se l'intero ambiente avesse smesso di respirare in attesa della sua risposta. "E ogni notte arrivo a conclusioni diverse, contraddittorie, incomplete. È come se stessi cercando qualcosa che non ha nome, che non può essere definito con le parole del vocabolario normale."

La voce dell'interlocutore assume sfumature diverse, più calde, più umane, come se anche lui stesse attraversando una trasformazione parallela a quella di Skeeen. Non è più semplice curiosità quella che traspare dalle sue domande, ma una forma di partecipazione emotiva autentica, una risonanza empatica che crea tra loro un ponte di comprensione reciproca.

"Forse", continua la voce misteriosa, "quello che cerchi non è qualcosa che puoi trovare, ma qualcosa che puoi diventare. Forse il problema non è nell'ambiente esterno, ma nel modo in cui ti rapporti con te stesso." Queste parole colpiscono Skeeen come una rivelazione, aprendo prospettive che non aveva mai considerato prima.

"Cerco... cerco di capire se esisto veramente o se sono solo un'illusione che si racconta una storia per passare il tempo", risponde dopo un silenzio che sembra durare un'eternità. "Cerco di trovare qualcuno che mi veda per quello che sono realmente, al di là delle maschere che indosso quotidianamente. Cerco di sperimentare un'autenticità che nella vita normale mi è completamente preclusa."

L'ammissione lo lascia svuotato, come se avesse appena vomitato l'anima. Si accorge che le sue gambe stanno tremando e che il sudore gli imperla la fronte nonostante l'aria condizionata del locale. È in questo momento di massima vulnerabilità che comprende di aver superato un punto di non ritorno, di essersi spinto troppo oltre per poter tornare indietro senza conseguenze.

"Ma sai qual è il paradosso più crudele?", continua mentre la sua voce si fa sempre più roca, carica di una disperazione che non riesce più a nascondere. "Più cerco l'autenticità, più divento falso. Più cerco connessioni genuine, più mi ritrovo isolato. È come se l'atto stesso della ricerca corrompe l'oggetto ricercato, come se il desiderio di essere vero renda impossibile esserlo davvero."

Il suo interlocutore annuisce lentamente, e in quel gesto Skeeen percepisce una comprensione profonda, non intellettuale ma viscerale, come se anche lui avesse attraversato gli stessi territori desolati dell'anima. "Conosco quella sensazione", sussurra la voce, "è come essere condannati a osservare la propria vita dall'esterno, a essere spettatori passivi della propria esistenza."

QUARTA CONFESSIONE: LA CARTOGRAFIA DEL FALLIMENTO

"Vuoi sapere qual è il mio fallimento più grande?", chiede Skeeen senza aspettare una risposta, come se fosse arrivato a un punto della conversazione dove ogni filtro è caduto e ogni pensiero deve essere espresso immediatamente, senza mediazioni o elaborazioni. "Il mio fallimento più grande è aver passato trent'anni della mia vita aspettando che qualcun altro mi dicesse chi ero, invece di decidere autonomamente chi volevo diventare."

Questa rivelazione emerge da profondità della sua coscienza che non sapeva nemmeno di possedere, portando con sé una chiarezza dolorosa che lo costringe a rivedere tutta la sua biografia sotto una luce completamente diversa. Non è stata sfortuna a determinare il corso della sua esistenza, non sono stati gli altri a rovinargliela con i loro tradimenti e le loro manipolazioni. È stato lui stesso, con la sua passività, con la sua tendenza a subire invece che ad agire, con la sua incapacità cronica di prendere decisioni definitive.

"Ho passato l'infanzia aspettando che i miei genitori mi spiegassero come funzionava il mondo", continua mentre frammenti di memoria infantile riemergono con una nitidezza che lo sorprende. "Ho passato l'adolescenza aspettando che gli amici mi accettassero nel loro gruppo. Ho passato i primi anni da adulto aspettando che qualcuno mi offrisse il lavoro dei sogni. Ho passato gli ultimi anni aspettando che qualcuno mi amasse abbastanza da salvami da me stesso."

La lista dei suoi fallimenti per omissione si allunga come un rosario di occasioni perdute, di momenti decisivi in cui avrebbe potuto cambiare direzione ma ha scelto invece di rimanere nell'immobilità, nell'attesa che le cose si sistemassero da sole. È una forma di narcisismo rovesciato, la convinzione infantile che il mondo ruoti intorno a lui e che quindi le soluzioni ai suoi problemi debbano arrivare dall'esterno, senza che lui debba muovere un dito.

"Il risultato", prosegue mentre osserva le proprie mani che continuano a tremare, "è che sono diventato un esperto nel subire la vita invece che nel viverla. Sono diventato un collezionista di delusioni, un connoisseur del fallimento, uno specialista nell'arte di trasformare ogni opportunità in un rimpianto."

La conversazione con il suo interlocutore misterioso sta assumendo i toni di una confessione generale, di una resa dei conti finale con tutti i demoni che lo hanno perseguitato per anni. È come se finalmente avesse trovato qualcuno disposto ad ascoltare l'intera storia senza giudicare, senza interrompere, senza cercare di consolarlo con frasi fatte o consigli superficiali.

"Sai qual è la cosa più grottesca?", chiede mentre una risata amara gli sfugge dalle labbra. "Che nonostante tutto questo autoanalisi spietata, nonostante tutta questa consapevolezza teorica dei miei meccanismi autodistruttivi, continuo a comportarmi esattamente nello stesso modo. È come se la conoscenza di sé fosse completamente scollegata dalla capacità di cambiamento, come se sapere e potere fossero due facoltà completamente separate."

L'ANATOMIA DELL'OSSESSIONE

Il locale continua a trasformarsi intorno a loro mentre la notte avanza, assumendo configurazioni sempre diverse in risposta ai mutamenti dell'atmosfera emotiva che li circonda. Skeeen si accorge che anche gli altri frequentatori sembrano aver rallentato i loro movimenti, come se l'intensità della conversazione che si sta svolgendo avesse creato un campo gravitazionale che attrae e trattiene l'attenzione di chiunque si trovi nelle vicinanze.

"C'è una differenza sostanziale tra essere ossessionati da qualcuno e essere ossessionati dall'idea di qualcuno", dice improvvisamente, aprendo un nuovo capitolo delle sue confessioni. "Io appartengo alla seconda categoria: non mi innamoro mai delle persone reali, mi innamoro sempre delle proiezioni che creo nella mia mente, delle versioni idealizzate che costruisco a partire da frammenti di realtà mischiati con tonnellate di fantasia."

Questa distinzione è emersa attraverso mesi di dolorosa autoosservazione, attraverso l'analisi spietata di tutti i suoi presunti innamoramenti passati. In ogni caso aveva scoperto lo stesso pattern: l'attrazione iniziale nasceva sempre da dettagli minimi, da sguardi fugaci, da parole pronunciate per caso che la sua mente trasformava in indizi di affinità profonde che in realtà non esistevano.

"Il processo è sempre lo stesso", continua mentre la sua voce assume il tono clinico di chi sta descrivendo un fenomeno scientifico. "Primo stadio: l'idealizzazione. Prendo una persona normale e la trasformo mentalmente in una dea, attribuendole qualità che non possiede e significati che non ha mai inteso esprimere. Secondo stadio: l'ossessione. Inizio a interpretare ogni suo gesto come un messaggio codificato diretto a me, a cercare conferme delle mie fantasie in comportamenti che sono semplicemente casuali."

Il terzo stadio, quello finale e invariabilmente devastante, era sempre la disillusione brutale che arrivava nel momento in cui la persona reale emergeva da dietro il velo delle sue proiezioni, rivelando la propria umanità normale, i propri difetti ordinari, la propria completa estraneità rispetto al personaggio che lui aveva costruito intorno alla sua immagine.

"Il problema", ammette mentre sente il peso di questa ennesima rivelazione su se stesso, "è che io non so amare le persone reali. So amare solo i fantasmi, le chimere, le creature immaginarie che creo nella mia mente utilizzando come materia prima volti e corpi presi in prestito dalla realtà. È una forma di necrofilia emotiva: amo solo ciò che ho ucciso con la mia immaginazione."

QUINTA CONFESSIONE: IL TEATRO DEGLI SPECCHI

La zona degli specchi frammentati sembra espandersi intorno a loro, moltiplicando all'infinito non solo le loro immagini ma anche le loro voci, creando un effetto di risonanza che trasforma ogni parola in un coro di sussurri che si rincorrono tra le superfici riflettenti. Skeeen si sente circondato da infinite versioni di se stesso, ognuna delle quali racconta una storia leggermente diversa, una variazione sul tema della sua esistenza fallimentare.

"Ho sempre avuto l'impressione di essere nato con qualche pezzo mancante", dice guardando il suo volto moltiplicato negli specchi, cercando di individuare quale delle sue infinite immagini riflesse sia quella più veritiera. "Non so se sia un gene, un'esperienza formativa, un trauma rimosso, ma c'è qualcosa in me che non funziona come dovrebbe, qualcosa che mi rende inadatto alla vita sociale normale."

Questa sensazione di inadeguatezza costitutiva lo accompagna da sempre, ma è solo negli ultimi mesi che ha iniziato a esaminarla sistematicamente, a cercare di capire se sia una percezione distorta della realtà o una valutazione oggettiva delle sue capacità relazionali. La conclusione alla quale è arrivato è che probabilmente si tratta di entrambe le cose: una limitazione reale amplificata da una percezione distorta che crea un circolo vizioso autoalimentante.

"È come se tutti gli altri avessero ricevuto alla nascita un manuale di istruzioni per la vita sociale, mentre io sono stato dimenticato nella lista di distribuzione", continua mentre una delle sue infinite immagini riflesse sembra fissarlo con particolare intensità, come se volesse dirgli qualcosa di importante. "Osservo le persone normali che interagiscono tra loro con naturalezza, che si capiscono al volo, che riescono a creare connessioni autentiche senza sforzo apparente, e mi sento come un antropologo che studia una specie aliena."

Il suo interlocutore, che nel frattempo si è moltiplicato anche lui negli specchi assumendo forme sempre più indefinite, sembra comprendere perfettamente quello che sta dicendo. "È la sindrome dell'impostore esistenziale", commenta con una voce che ora arriva simultaneamente da tutte le direzioni. "La sensazione di essere un infiltrato nella propria stessa vita."

"Esatto!", esclama Skeeen con un'eccitazione che lo sorprende. "È come se stessi sempre recitando il ruolo di me stesso senza conoscere veramente il copione. E il bello è che gli altri se ne accorgono subito: c'è qualcosa nel mio modo di muovermi, di parlare, di guardarli che comunica immediatamente la mia estraneità rispetto al contesto sociale normale."

Questa consapevolezza è emersa attraverso anni di osservazione delle reazioni che suscita nelle persone. C'è sempre un momento, di solito dopo i primi minuti di conversazione, in cui l'interlocutore cambia espressione, assume quell'aria leggermente perplessa di chi ha capito di avere a che fare con qualcuno che non rientra nelle categorie standard. Non è ostilità, non è nemmeno antipatia: è una forma di spiazzamento, di incapacità di classificarlo secondo i parametri abituali.

"Il paradosso è che questa diversità potrebbe anche essere un vantaggio", riflette mentre osserva le infinite versioni di sé che lo circondano, "se solo riuscissi a trasformarla in una risorsa invece che in un handicap. Ma per farlo dovrei accettarla completamente, smettere di cercare di mascherarla o di correggerla, e questo mi terrorizza perché significherebbe rinunciare definitivamente alla possibilità di diventare normale."

L'EPIFANIA DEL VUOTO

Improvvisamente, nel cuore di questa moltiplicazione infinita di immagini e riflessioni, Skeeen sperimenta un momento di perfetta chiarezza, una specie di illuminazione negativa che gli rivela la natura profonda della sua condizione esistenziale. Non è la depressione il suo vero problema, non è nemmeno la solitudine o l'inadeguatezza sociale. Il suo vero problema è il vuoto, un'assenza di sostanza interiore che cerca disperatamente di riempire con esperienze, emozioni, relazioni che inevitabilmente si rivelano insufficienti.

"Ho appena capito una cosa terrificante", sussurra mentre tutte le sue immagini riflesse sembrano convergere verso un punto centrale di consapevolezza assoluta. "Non sono una persona che ha problemi. Sono un problema che ha assunto forma umana. Non c'è niente da riparare in me perché non c'è niente da riparare: io sono l'assenza stessa, il buco nella realtà che cerca di convincere se stesso di esistere."

Questa rivelazione non porta con sé la disperazione che ci si potrebbe aspettare, ma piuttosto una forma di pace terribile, la serenità di chi ha finalmente smesso di lottare contro l'inevitabile. Se è veramente così, se la sua essenza è il vuoto stesso, allora tutti i suoi sforzi per diventare qualcuno sono per definizione destinati al fallimento, e può smettere di torturarsi con aspettative impossibili.

"Forse", continua mentre sente una strana leggerezza invaderlo, "il mio compito non è quello di riempire il vuoto, ma quello di imparare a viverci dentro senza impazzire. Forse la mia funzione nell'universo è quella di essere un promemoria vivente della fragilità dell'identità umana, un esempio di cosa succede quando tutti i meccanismi di costruzione del sé smettono di funzionare."

Il suo interlocutore, che ora si è trasformato in una presenza quasi eterea, sembra approvare questa conclusione. "C'è una dignità terribile nel riconoscere la propria nullità", dice con una voce che sembra provenire dagli specchi stessi. "È la forma più pura di onestà esistenziale."

EPILOGO: LA DISSOLUZIONE DEL SÉ

Il resto della serata si dissolve in una serie di frammenti sconnessi: conversazioni a metà, sguardi che si incrociano e si perdono nel buio, gesti che iniziano e non finiscono mai, parole che vengono pronunciate ma non arrivano mai a destinazione. Skeeen si ritrova a galleggiare in questo mare di sensazioni parziali, di esperienze incompiute, di relazioni che nascono e muoiono nello spazio di un battito di ciglia.

Ma ora queste esperienze frammentarie non lo turbano più come prima. Ha accettato che la frammentazione sia la sua condizione naturale, che l'incompletezza sia la sua dimensione esistenziale autentica. Non cerca più di creare connessioni durature o significative: si accontenta di essere un punto di passaggio nella vita degli altri, un intermezzo insignificante nelle loro storie più importanti.

La zona degli specchi si dissolve gradualmente intorno a lui, le infinite immagini riflesse si affievoliscono fino a scomparire, lasciando solo la penombra familiare del locale che si prepara alla chiusura. Anche il suo interlocutore misterioso inizia a perdere consistenza, a dissolversi nell'aria come fumo di sigaretta, ma prima di scomparire completamente gli lascia un ultimo messaggio: "Il vuoto non è il contrario dell'esistenza. È la condizione che rende l'esistenza possibile."

Quando finalmente esce da El Horno, l'alba sta già tingendo il cielo di quei colori indefinibili che appartengono solo alle ore di confine tra la notte e il giorno. La città si sta svegliando lentamente, preparandosi ad accogliere un nuovo giorno pieno di possibilità e promesse che a lui sembrano appartenere a un mondo parallelo, irraggiungibile ma non per questo meno reale.

Si sente simultaneamente vuoto e pieno, distrutto e ricostruito, morto e più vivo che mai. Ma soprattutto si sente finalmente in pace con la propria natura contraddittoria, con la propria essenza paradossale che lo condanna a essere sempre in bilico tra l'essere e il non essere, tra la realtà e l'illusione, tra la vita e la sua rappresentazione.

Sa che domani sera tornerà, che ripeterà lo stesso rituale di autodistruzione e rinascita, che continuerà a cercare in questi luoghi quella verità su se stesso che forse ha già trovato ma che deve riscoprire ogni volta da capo, perché è nella natura del vuoto quella di non poter essere posseduto definitivamente, ma solo visitato temporaneamente.

"Un buco è un buco", sussurra tra sé mentre si allontana nella luce incerta del mattino, "ma alcuni buchi ti risucchiano dentro e non ti lasciano più uscire. Altri, invece, ti attraversano completamente e ti restituiscono al mondo trasformato." E in quella distinzione trova finalmente una forma di saggezza che non sapeva di possedere, una comprensione della propria condizione che non elimina il dolore ma lo rende sopportabile, che non risolve i problemi ma li trasforma in caratteristiche distintive di un'esistenza unica e irripetibile.

Mentre cammina verso casa attraverso le strade che si stanno riempiendo di persone normali che iniziano le loro giornate normali, Skeeen si sente per la prima volta veramente se stesso: non la versione idealizzata che vorrebbe essere, non la versione falsificata che ha imparato a recitare, ma la versione autentica fatta di vuoti e contraddizioni, di domande senza risposta e di risposte senza domande. E in questa accettazione radicale della propria imperfezione trova una forma imprevista di perfezione, una completezza che nasce paradossalmente dall'incompletezza, una pienezza che si alimenta del vuoto stesso.
Nelle viscere profonde e quasi primordiali di quella notte che sembrava non voler mai concedere spazio all'aurora, mentre gli ultimi echi del giorno appena trascorso si spegnevano con una lentezza quasi dolorosa tra le pieghe infinite dell'oscurità che avvolgeva ogni cosa come un sudario, qualcosa di profondamente turbato e inquietante iniziava a prendere forma nella mente tormentata di Skeeen. Non si trattava più della semplice inquietudine abituale, di quella compagna fedele e silenziosa che lo accompagnava da anni nei suoi vagabondaggi quotidiani attraverso i meandri della sua esistenza solitaria, ma di un tormento completamente nuovo nella sua essenza, più sottile e penetrante di qualsiasi cosa avesse mai sperimentato prima, un dolore che sembrava scaturire direttamente dalle profondità più recondite e inesplorate del suo essere più autentico.

Questo nuovo tipo di sofferenza si manifestava come una presenza fisica quasi tangibile, una forza misteriosa e implacabile che percuoteva le pareti della sua coscienza dall'interno con un ritmo irregolare ma ostinatamente insistente, come se qualche entità invisibile stesse tentando di aprirsi un varco attraverso le barriere protettive che il tempo e l'esperienza avevano costruito intorno al nucleo più vulnerabile della sua personalità. Le vibrazioni di questo assalto interiore si propagavano attraverso tutto il suo sistema nervoso, creando onde di disagio che si irradiavano dal centro verso la periferia del suo corpo, facendolo tremare impercettibilmente come una foglia scossa da un vento sottile ma persistente.

Era precisamente in questo stato di agitazione crescente e apparentemente incontrollabile che Skeeen aveva dato inizio al suo rituale notturno di deambulazione frenetica, una pratica che negli ultimi mesi era diventata per lui indispensabile quanto il respiro stesso. I suoi movimenti, che nelle prime fasi della notte erano stati ancora lenti e relativamente misurati, guidati da una sorta di disciplina residua che cercava di mantenere un minimo di controllo sulla situazione, si erano progressivamente trasformati in una vera e propria danza convulsa, quasi ossessiva nella sua ripetitività meccanica, che lo portava a percorrere instancabilmente, con la regolarità di un pendolo impazzito, il perimetro estremamente ristretto di quello spazio enigmatico che tutti, nei loro sussurri furtivi e nelle loro conversazioni clandestine, conoscevano semplicemente come "la dark".

Ogni singolo passo che compiva in questa processione solitaria era come una nota discordante in una sinfonia di ansia che non conosceva pause né modulazioni armoniche, ogni voltarsi improvviso costituiva un tentativo disperato e sempre fallimentare di sfuggire a qualcosa di indefinibile ma terribilmente concreto, qualcosa che non riusciva a definire con precisione razionale ma che percepiva con una chiarezza terrificante attraverso tutti i suoi sensi amplificati dall'angoscia. Era come se la sua stessa esistenza fosse diventata un labirinto dal quale ogni uscita apparente si rivelava, al momento decisivo, essere soltanto l'ingresso di un corridoio ancora più stretto e claustrofobico.

La dark si ergeva davanti a lui come un'entità vivente e pulsante, dotata di una vita propria e di una volontà misteriosa che sembrava operare secondo leggi completamente estranee alla logica umana ordinaria. Non era semplicemente un luogo fisico delimitato da coordinate geografiche precise, non era meramente uno spazio architettonico definito da muri, pavimenti e soffitti, ma piuttosto una manifestazione tangibile e allo stesso tempo sfuggente di tutti quegli stati d'animo più oscuri e reconditi che abitano stabilmente nelle profondità più segrete dell'anima umana, di tutte quelle pulsioni primordiali che la civiltà e l'educazione cercano costantemente di tenere sotto controllo ma che, di tanto in tanto, riescono a emergere in superficie con una forza devastante.

La superficie di questa costruzione enigmatica sembrava respirare con un ritmo del tutto irregolare e imprevedibile, alternando momenti di apparente calma e tranquillità a improvvisi sussulti di inquietudine che facevano tremare l'intera struttura dalle fondamenta fino alle sommità più elevate. Durante le fasi di quiete, le sue pareti emanavano una sorta di ronzio appena percettibile, una vibrazione di fondo che ricordava vagamente il suono di un alveare in piena attività, mentre nei momenti di agitazione acuta l'intero edificio sembrava contorcersi su se stesso come un organismo vivente in preda a spasmi dolorosi.

Era, come tutti sapevano perfettamente e sussurravano nei loro momenti di maggiore confidenza reciproca, quando le barriere dell'autocensura si abbassavano temporaneamente sotto l'influenza dell'alcool o della stanchezza estrema, nient'altro che una manifestazione fisica della leggendaria Selvaggia Vacca Celeste, quella creatura mitologica di cui le cronache antiche e le tradizioni orali popolari narravano prodigi straordinari e terrori indicibili in egual misura, una bestia primordiale che rappresentava allo stesso tempo la fecondità più generosa e la distruzione più implacabile.

Secondo le leggende tramandate di generazione in generazione attraverso i racconti dei vecchi, questa entità polimorfa e costantemente mutevole aveva la capacità di assumere le forme più diverse a seconda delle circostanze e delle necessità del momento, trasformandosi ora in una madre nutrice generosa e protettiva, ora in una furia vendicativa e inarrestabile, ora in una seduttrice irresistibile capace di attirare nella sua rete anche gli uomini più saggi e prudenti. La sua natura fondamentalmente ambigua e contraddittoria la rendeva una divinità particolarmente adatta a presiedere a tutti quegli aspetti dell'esistenza umana che sfuggono alle categorizzazioni morali tradizionali.

Questa entità enigmatica e sfaccettata si prestava magnificamente, con una versatilità che rasentava il prodigioso, a ogni sorta di attività clandestina, marginale o socialmente disapprovata. Era il teatro ideale e insostituibile per i pettegolezzi più velenosi e distruttivi, per le macchinazioni più sottili e sofisticate, per tutti quei piccoli tradimenti quotidiani, apparentemente insignificanti ma in realtà devastanti nei loro effetti cumulativi, che tessono la trama segreta e inconfessabile delle esistenze umane ordinarie. I suoi corridoi bui e tortuosi risuonavano costantemente di mormorii, sussurri, confidenze a metà voce che si propagavano attraverso le sue viscere architettoniche come virus informativi capaci di moltiplicarsi e mutare nel processo stesso della trasmissione.

All'interno delle sue viscere architettoniche complesse e labirintiche si conservavano, come in un archivio vivente dotato di una memoria praticamente infinita, tutte le reminiscenze del passato più remoto e apparentemente dimenticato, tutti i segreti più scottanti e pericolosi del presente più immediato, tutte le ansie più profonde e le speranze più segrete per il futuro più incerto e problematico. Era un deposito inesauribile di esperienze collettive accumulate nel corso dei secoli, un magazzino della memoria condivisa dell'umanità intera, un luogo straordinario dove si cristallizzavano e si perpetuavano nel tempo tutti quei legami invisibili ma assolutamente indistruttibili che uniscono gli esseri umani in una comunanza di destino che trascende le barriere individuali della nascita e della morte.

La pazienza accumulata faticosamente nel corso dei secoli attraverso infinite sofferenze e delusioni, le gioie condivise nei momenti di festa collettiva, i dolori sopportati insieme nelle ore più buie della storia, i momenti di estasi fugace che illuminano brevemente l'oscurità generale dell'esistenza, tutto confluiva inesorabilmente in questo spazio magico come in un crogiolo alchemico dove si fondevano e si trasformavano continuamente le essenze più pure e più corrotte dell'esperienza umana universale. Era un processo di distillazione continua che operava ventiquattro ore al giorno senza mai conoscere sosta, separando gli elementi nobili da quelli vili, purificando alcuni aspetti dell'esperienza mentre ne corrompeva altri secondo logiche misteriose e imperscrutabili.

Rappresentava il repository perfetto e insostituibile per contemplare nella sua totalità e comprendere in profondità l'intero arco del divenire umano, quel processo misterioso e assolutamente inarrestabile che trasforma continuamente e incessantemente ciò che siamo in ciò che diventeremo, in un flusso perenne di metamorfosi che non conosce sosta né requie e che procede con l'inesorabilità di una legge naturale fondamentale. Era come osservare l'umanità intera attraverso un telescopio temporale che permettesse di abbracciare con un solo sguardo il passato, il presente e il futuro, di cogliere i fili sottili ma resistenti che collegano eventi apparentemente scollegati tra loro.

Tuttavia, questo luogo straordinario di raccolta, conservazione e elaborazione delle memorie collettive non era rimasto immune, nel corso della sua lunga esistenza, da corruzioni progressive e degenerazioni sempre più evidenti. Come un organismo vivente lasciato troppo a lungo senza le cure appropriate, abbandonato all'azione corrosiva del tempo e delle intemperie morali, la dark aveva sviluppato gradualmente nel corso degli anni una serie complessa e articolata di patologie comportamentali che la rendevano un ambiente moralmente ambiguo e potenzialmente molto pericoloso per chiunque vi si avvicinasse senza le dovute precauzioni.

Non si trattava affatto di un vizio isolato, occasionale e facilmente curabile, di una semplice deviazione temporanea dalla norma che potesse essere corretta con qualche intervento superficiale, ma di una vera e propria sindrome sistemica profondamente radicata, un insieme estremamente complesso e intricato di disfunzioni interconnesse che si alimentavano reciprocamente in un circolo vizioso apparentemente inarrestabile, creando una spirale di degradazione che sembrava destinata a perpetuarsi all'infinito. Era come se la struttura stessa dell'edificio avesse contratto una malattia degenerativa che ne intaccava progressivamente ogni componente.

Gli equivoci di ogni tipo e grado fiorivano rigogliosi in questo ambiente come erbacce in un giardino completamente abbandonato, proliferando con una vitalità quasi spaventosa in ogni angolo disponibile, mentre pseudonimi elaborati e false identità accuratamente costruite si moltiplicavano con la rapidità e l'abbondanza di funghi dopo una pioggia primaverile, creando un labirinto sempre più intricato di inganni, mistificazioni e costruzioni illusorie in cui anche le persone inizialmente più oneste, trasparenti e ben intenzionate finivano inevitabilmente per perdersi senza speranza di ritrovare la strada del ritorno.

La cosa più tragica e pietosa da osservare era il destino che aspettava gli ingenui e gli idealisti, quelle anime pure e generose che arrivavano cariche di buone intenzioni autentiche e di nobili propositi disinteressati, convinte di poter contribuire positivamente al miglioramento generale dell'ambiente e delle condizioni di vita di tutti i suoi abitanti. Questi poveri sognatori venivano sistematicamente e spietatamente corrotti e trasformati attraverso un processo graduale ma inesorabile, fino a diventare, spesso senza nemmeno rendersene conto pienamente, strumenti inconsapevoli e tragicamente efficaci di quella gigantesca macchina di manipolazione e sfruttamento che la dark era inevitabilmente diventata nel corso del tempo.

Era particolarmente straziante e doloroso osservare da vicino come questi giovani entusiasti, inizialmente disposti con generosità commovente a sacrificare tutto quello che possedevano per i loro ideali più elevati e per la realizzazione dei loro sogni di giustizia e di bellezza, finissero quasi sempre per prostituirsi completamente dal punto di vista morale e intellettuale, permettendo praticamente a chiunque di abusare sistematicamente della loro generosità innata e della loro disponibilità illimitata verso il prossimo. Il processo di degenerazione seguiva sempre le stesse fasi prevedibili: prima l'entusiasmo iniziale, poi i primi dubbi e le prime delusioni, quindi l'adattamento progressivo alle regole non scritte del luogo, infine l'accettazione completa e la partecipazione attiva al sistema di corruzione generale.

Questo meccanismo perverso di corruzione sistematica ricordava in modo inquietante e quasi perfetto il destino tragico che aveva colpito quei geni poetici del passato più glorioso che, mossi inizialmente da un amore sincero, profondo e assolutamente disinteressato per la letteratura e per l'arte in tutte le sue manifestazioni più elevate, avevano finito per dedicare le loro intere esistenze al nobile compito di far rivivere, attraverso le loro letture appassionate, le loro interpretazioni creative e innovative, e le loro rielaborazioni originali, almeno un po' di quella quotidianità perduta e irrecuperabile che aveva animato le opere immortali e le vite esemplari dei grandi maestri ormai definitivamente scomparsi dalla scena del mondo.

Man mano che i passi sempre più rapidi e nervosi di Skeeen lo avvicinavano inesorabilmente al canale oscuro e minaccioso che fungeva da ingresso principale, anzi da unica via d'accesso praticabile, verso le profondità più segrete e pericolose della dark, i suoi sensi progressivamente amplificati dall'ansia e dall'attesa iniziavano a percepire con una nitidezza crescente e quasi dolorosa una serie sempre più ricca e dettagliata di particolari visivi, olfattivi e tattili che fino a quel momento erano rimasti completamente nascosti nell'ombra protettiva dell'indifferenza e della distrazione.

L'acqua che sgorgava copiosamente dagli zampilli metallici corrosi dal tempo, carica di una sostanza biancastra, densa e vischiosa che tutti i frequentatori del posto sapevano perfettamente essere sperma in vari stadi di decomposizione, catturava e rifletteva con effetti quasi ipnotici i primi raggi pallidi e incerti dell'alba nascente, creando un gioco complesso e multisfaccettato di luci e ombre che aveva qualcosa di profondamente ipnotico e al tempo stesso di indicibilmente perturbante e disgustoso.

Questi rivoli luminescenti e appiccicosi si dividevano e si disperdevano in tutte le direzioni possibili, seguendo le leggi misteriose della gravità e della viscosità, come un fiume inquinato che si ramifica progressivamente in mille affluenti sempre più piccoli e tortuosi, andando a bagnare, macchiare e impregnare l'alta muraglia imponente che si ergeva tutto intorno come una barriera apparentemente impenetrabile tra il mondo esterno, quello delle convenzioni sociali e delle apparenze rispettabili, e quello interno della dark, regno delle pulsioni inconfessabili e dei desideri più segreti e vergognosi.

Questa costruzione monumentale e intimidatoria, che a un primo sguardo superficiale poteva facilmente sembrare solida, inespugnabile e destinata a durare per l'eternità, rivelava invece a un esame più attento e prolungato tutta la sua precarietà strutturale fondamentale e la sua natura essenzialmente effimera e transitoria: era infatti quasi completamente insignificante nella sua monumentalità apparente e ostentata, quasi del tutto anonima e intercambiabile nella sua pretesa di unicità architettonica, esattamente simile per forma e sostanza a un grosso ciottolo qualunque levigato dalle intemperie e reso uniforme dal passaggio del tempo, oppure a un banale costone di roccia sedimentaria eroso progressivamente dalle forze naturali e ridotto a una forma standardizzata e priva di qualsiasi carattere distintivo.

Il muro mostrava ovunque, su tutta la sua superficie esposta, i segni inequivocabili e progressivamente più evidenti di un lento ma assolutamente inesorabile processo di sgretolamento strutturale, come se l'antro buio e misterioso che si apriva minaccioso alle sue spalle esercitasse su di esso una forza corrosiva e dissolvente di natura quasi soprannaturale, una influenza maligna che ne minava costantemente e sistematicamente la stabilità architettonica fondamentale, agendo come un acido invisibile che attaccasse i legami molecolari stessi del materiale da costruzione.

Pezzi di intonaco di varie dimensioni, dai frammenti microscopici alle lastre di diversi metri quadrati, e frammenti irregolari di pietra naturale e artificiale giacevano sparsi in disordine ai piedi della costruzione malandata, formando cumuli caotici e polverosi che costituivano una testimonianza muta ma assolutamente eloquente di una decadenza inarrestabile che procedeva giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, con la regolarità implacabile e matematicamente prevedibile di un processo naturale governato da leggi fisiche fondamentali.

Fu precisamente in questo momento assolutamente cruciale e irreversibile, quando le sue elucubrazioni mentali più astratte e teoriche cessarono definitivamente di essere semplici fantasie private confinate nel regno sicuro dell'immaginazione per manifestarsi invece apertamente e concretamente nella realtà circostante attraverso percezioni sensoriali dirette e incontrovertibili, che per Skeeen ebbe fine una volta per tutte, senza possibilità di appello o di ritorno, ogni residua possibilità di ricorso alle analogie poetiche e alle metafore letterarie.

Non c'era più spazio alcuno nel suo universo percettivo per le similitudini rassicuranti o per le comparazioni letterarie che fino a quel momento avevano funzionato come filtri protettivi tra la sua coscienza e la realtà esterna: quello che si stagliava ora davanti a lui con una chiarezza abbagliante e terrificante era la realtà nuda e cruda nella sua essenza più autentica e brutale, senza veli pudici e senza mediazioni consolatorie, la vita vera nella sua manifestazione più diretta e allo stesso tempo più devastante, spogliata di ogni ornamento retorico e di ogni possibilità di interpretazione simbolica.

Il risultato immediato e traumatico di questa transizione violenta e involontaria dalla dimensione protettiva dell'immaginazione a quella esposta dell'esperienza diretta fu che le parole di Skeeen acquisirono improvvisamente e irreversibilmente una sonorità completamente diversa, un timbro nuovo e straniante che nessuno dei presenti, nonostante tutti i loro sforzi di comprensione, riusciva minimamente a decifrare, a interpretare o a comprendere nelle sue implicazioni più profonde.

Era come se il suo linguaggio abituale si fosse trasformato improvvisamente e misteriosamente in una lingua completamente straniera e sconosciuta, carica di significati nascosti e di risonanze misteriose che sfuggivano completamente alla comprensione comune e che sembravano appartenere a un codice segreto accessibile soltanto a iniziati di qualche setta esoterica. Le sue frasi, pur essendo costruite con parole apparentemente familiari e di uso quotidiano, assumevano combinazioni sintattiche inedite e generavano effetti semantici del tutto imprevedibili.

E proprio questa incomunicabilità fondamentale e apparentemente insuperabile, questa impossibilità dolorosa e frustrante di farsi capire e di stabilire un dialogo autentico e significativo con i suoi simili, costituiva la vera e unica causa profonda di tutto lo strazio emotivo lacerante e di tutto il tumulto interiore devastante che lo tormentavano senza tregua e che minacciavano di portarlo sull'orlo della follia più completa.

"A proposito di tutto questo discorso che stiamo facendo," iniziò a dire Skeeen con una voce che tradiva appena, sotto lo sforzo di controllo apparente, un tremito quasi impercettibile di incertezza e di vulnerabilità, "dimmi una cosa che mi incuriosisce molto e sulla quale rifletto spesso nelle mie ore di solitudine: hai per caso degli amici veri, persone veramente vicine a te dal punto di vista emotivo, che attribuiscano una qualche importanza veramente significativa e non puramente formale a quello che ti succede effettivamente nella vita di tutti i giorni, alle tue gioie e alle tue sofferenze quotidiane, ai tuoi successi e ai tuoi fallimenti, alle tue speranze e alle tue paure più segrete?"

Si fermò un istante, come se stesse soppesando attentamente le parole che stava per pronunciare, poi continuò con un tono leggermente diverso, più meditativo e filosofico: "Se la risposta a questa domanda fondamentale dovesse risultare negativa, se cioè ti trovassi nella condizione esistenziale, più comune di quanto si possa immaginare, di non avere assolutamente nessuno che si preoccupi veramente e sinceramente del tuo destino personale e delle tue vicissitudini quotidiane, allora penso di poter affermare con una certa sicurezza, basandomi sulla mia esperienza personale e sulle mie osservazioni del comportamento umano, che dopo tutto forse sei decisamente più fortunato di quanto tu possa immaginare o di quanto la società ti abbia insegnato a credere..."

Si interruppe nuovamente per un momento più lungo, durante il quale il suo sguardo sembrava perdersi in contemplazioni remote e inaccessibili, poi riprese con un tono che era diventato quasi confessionale: "E via, e via, ma mi rendo perfettamente conto che sto indulgendo senza alcun motivo razionale giustificabile in questa digressione di carattere filosofico-esistenziale, probabilmente perché fino a questo momento della mia vita nessuno, assolutamente nessuno, mi aveva mai fatto notare esplicitamente e direttamente che il mio aspetto esteriore, la mia postura, la mia mimica facciale, il mio modo di muovermi e di presentarmi al mondo, tradissero segni chiaramente evidenti e inequivocabili di una sofferenza interiore profonda e persistente."

"Tutto nella mia esistenza cambiò radicalmente e irreversibilmente," continuò con voce sempre più bassa e introspettiva, "nel momento fatale e decisivo in cui, cedendo completamente e senza più opporre alcuna resistenza all'attrazione invincibile e irresistibile che da diversi anni ormai, per motivi che non sono mai riuscito a chiarire completamente nemmeno a me stesso, esercitava su di me con una forza quasi magnetica un piede dall'aspetto particolarmente affascinante e morboso, caratterizzato da una curvatura elegante e sensuale che ricordava le linee di una scultura antica, e da un'unghia incarnita che gli conferiva un fascino perverso e quasi patologico, oltre che da una peluria folta, scura e leggermente riccia che ne ricopriva il dorso con una densità quasi animale, creando contrasti tattili e visivi di una bellezza inquietante."

La sua voce si fece ancora più intima e confessionale: "Fu in quel momento di totale perdita di controllo che commisi l'imprudenza assolutamente imperdonabile e spregevolissima, un gesto che ancora oggi mi riempie di vergogna e di rimorso, di leccare quel piede con la lingua in modo prolungato e metodico, non una volta sola come potrebbe capitare in un momento di follia temporanea, ma addirittura due volte consecutive, con una deliberatezza che tradiva la premeditazione dell'atto, e per giunta di compiere questo gesto estremo e trasgressivo pubblicamente, davanti agli occhi completamente sbalorditi, disgustati e scandalizzati di tutti i presenti in questo locale stupido, provinciale e moralmente arretrato che frequentiamo abitualmente."

A questa confessione così cruda, dettagliata e inaspettata, pronunciata con una franchezza che rasentava l'esibizionismo, l'interlocutore di Skeeen non riuscì naturalmente a trovare alcuna risposta appropriata o anche solo vagamente adeguata alla situazione, se non un sussulto involontario e del tutto automatico dell'arcata sopraccigliare che tradiva tutto il suo profondo sconcerto e la sua completa incapacità di elaborare mentalmente, di digerire psicologicamente e di metabolizzare emotivamente quello che aveva appena sentito uscire dalla bocca del suo compagno di conversazione.

Rimase letteralmente inebetito e paralizzato, come colpito da un fulmine a ciel sereno, completamente sopraffatto dal grondare rigoglioso, armonico e allo stesso tempo perturbante delle parole di Skeeen, che continuavano a fluire con una musicalità ipnotica e trascinante nonostante, o forse proprio a causa, della crudezza scioccante e della natura profondamente disturbante del loro contenuto esplicito. Era come se si trovasse di fronte a una cascata di suoni che lo investiva con una forza fisica quasi tangibile, impedendogli qualsiasi possibilità di reazione razionale o di risposta articolata.

"Arrivato finalmente a questo punto assolutamente cruciale e determinante della mia esistenza," continuò Skeeen senza concedere al suo interlocutore paralizzato il tempo necessario per riprendersi dal shock iniziale e per riorganizzare i propri pensieri in una forma minimamente coerente, "posso finalmente misurare con una precisione che rasenta quella degli strumenti matematici l'enorme, quasi sovrumana difficoltà che comporta necessariamente il tentativo ambizioso e forse temerario di rintracciare nella nebbia della memoria e ricostruire nei suoi dettagli più significativi un particolare avvenimento della mia vita passata che si presenta alla mia coscienza attuale come particolarmente confuso, contraddittorio e resistente a qualsiasi forma di interpretazione univoca."

"Si tratta," proseguì con crescente intensità emotiva, "di un episodio estremamente complesso e sfaccettato del quale, se voglio essere completamente veritiero, onesto e leale nei confronti di me stesso e di chiunque abbia la pazienza di ascoltarmi, dovrò necessariamente e scrupolosamente rispettare l'incoerenza intrinseca e fondamentale, accettare le contraddizioni apparenti senza tentare di risolverle artificialmente, e conservare le proporzioni originali senza ingrandire o rimpicciolire arbitrariamente gli elementi che lo compongono, sempre però sforzandomi con tutte le mie forze intellettuali e morali di evitare accuratamente il duplice errore, ugualmente grave e fuorviante, di attribuirgli tendenziosamente un significato simbolico, allegorico o metaforico che in realtà non ha mai posseduto nella sua forma originaria, oppure di trattarlo con un distacco eccessivo e innaturale, con un sangue freddo che sarebbe completamente inappropriato e che finirebbe inevitabilmente per privarlo, a posteriori e in modo del tutto arbitrario, di tutto quel valore emotivo profondo, autentico e irripetibile di cui era originariamente e legittimamente permeato..."

Fece una pausa più lunga del solito, durante la quale il suo sguardo sembrava attraversare spazi invisibili alla ricerca di qualcosa di eternamente irraggiungibile, poi riprese con una voce che si era fatta ancora più meditativa e introspettiva: "E via, e via, ma come è nato esattamente, attraverso quale processo misterioso e imperscrutabile, tutto questo strazio lacerante che mi tormenta giorno e notte senza concedermi un momento di pace o di sollievo? Era forse pieno giorno, con il sole alto nel cielo e la vita che pulsava normalmente intorno a me, quando accadde quello che doveva inevitabilmente accadere secondo le leggi segrete del destino? Ma era un giorno qualunque, grigio e indistinto, simile a tanti altri del mio passato che si sono dissolti nella memoria senza lasciare tracce significative, oppure aveva qualcosa di particolare, di unico e assolutamente irripetibile che lo distingueva nettamente dalla massa indifferenziata delle giornate ordinarie e lo rendeva degno di essere ricordato per sempre?"

"Era forse questo qualcosa di oscuro, di odiato e di profondamente temuto," continuò con crescente agitazione, "ciò che veramente mi divideva e mi separava come un abisso incolmabile dalle mie future ore di beatitudine tanto agognate, da quella felicità piena e definitiva che continuavo ostinatamente a sperare e a desiderare nonostante tutte le evidenze contrarie e tutte le delusioni accumulate nel corso degli anni? Era questa la barriera invisibile ma assolutamente reale che si frapponeva tra me e la realizzazione dei miei sogni più cari e delle mie aspirazioni più profonde?"

"E via, e via," sospirò profondamente, con un suono che sembrava provenire dalle profondità più remote del suo essere, "mi rendo perfettamente conto che a questo punto del mio discorso sarei logicamente e retoricamente obbligato ad aprire una parentesi esplicativa dettagliata, a fornire dei chiarimenti supplementari e delle informazioni di contesto che permettessero a chiunque mi ascolti di seguire più facilmente il filo del mio ragionamento, ma sono assolutamente sicuro, basandomi su una conoscenza empirica consolidata nel tempo, che anche tu, nel corso della tua esperienza personale di comunicazione con i tuoi simili, devi aver sperimentato più volte quella sensazione profondamente frustrante e demoralizzante che si prova inevitabilmente quando, nel momento cruciale in cui tenti di spiegarti con assoluta franchezza e trasparenza, di aprire completamente il tuo cuore e la tua mente senza riserve mentali o calcoli strategici, ti trovi come costretto da una forza misteriosa e superiore alla tua volontà cosciente a far seguire sistematicamente ciascuna delle tue frasi affermative, apparentemente sicure e definitive, da una frase dubitativa che ne mina le fondamenta, ciascuna delle tue certezze più radicate da un'incertezza corrispondente e paralizzante."

"Questo meccanismo perverso e autodistruttivo," elaborò ulteriormente con una precisione quasi clinica, "equivale nella stragrande maggioranza dei casi concreti a negare sistematicamente e automaticamente quello che hai appena finito di affermare con apparente convinzione e sicurezza, il che rende praticamente impossibile, se non del tutto utopico, liberarsi definitivamente di quello scrupolo un po' orripilante, ossessivo e quasi patologico di non lasciare assolutamente nulla nell'ombra, di illuminare fino al più piccolo dettaglio ogni angolo nascosto e ogni piega segreta della realtà complessa e multidimensionale che si sta disperatamente cercando di descrivere con precisione e completezza."

"È come essere condannati," proseguì con voce sempre più carica di emozione trattenuta, "a una forma particolarmente raffinata di tortura intellettuale, a un supplizio mentale che consiste nell'essere costretti a dubitare sistematicamente di ogni affermazione nel momento stesso in cui la si pronuncia, a mettere in discussione ogni certezza apparente prima ancora che abbia avuto il tempo di consolidarsi nella coscienza. È una condizione esistenziale che ricorda da vicino quella di Sisifo, condannato a spingere eternamente il suo masso verso la cima della montagna, sapendo perfettamente che una volta raggiunta la vetta il peso rotolerebbe inevitabilmente di nuovo verso il basso, rendendo vano ogni sforzo e ogni fatica."

"Ma forse," aggiunse con un sorriso amaro che non riusciva completamente a nascondere la profondità della sua sofferenza, "questa maledizione apparente nasconde in realtà una benedizione segreta, forse questa incapacità cronica di accontentarsi di risposte superficiali e di spiegazioni semplicistiche è il prezzo che dobbiamo pagare per mantenere viva quella inquietudine creativa che ci impedisce di fossilizzarci in certezze premature e ci spinge continuamente verso nuove esplorazioni del possibile."

"Quindi," concluse con un gesto che voleva essere di rinuncia ma che tradiva invece una determinazione ostinata, "niente parentesi esplicative elaborate e pedanti, niente costruzioni retoriche accuratamente calibrate e studiate a tavolino, niente storie dettagliate e minuziose di piedi misteriosi illuminati dalla luce vacillante delle lampade notturne, di unghie incarnite che continuano a balenarmi incessantemente per la testa come visioni ricorrenti di un sogno che si ripete sempre uguale a se stesso, nessun composto tremito emotivo che possa anche soltanto lontanamente, anche per un istante fugace, passare attraverso questi poveri resti frammentari e sbiaditi di memorie ormai logore e consumate dall'uso eccessivo, nessuna bufera sentimentale devastante o rabbrividimento fisico incontrollabile che possa..."

Si fermò improvvisamente, come se avesse perduto il filo del discorso o come se una nuova consapevolezza lo avesse colpito all'improvviso. Rimase in silenzio per diversi secondi, con lo sguardo fisso nel vuoto, poi riprese con una voce che si era fatta quasi sussurrata: "E via, e via... almeno non per ora, almeno non in questo momento particolare della mia esistenza, almeno non mentre sono ancora in grado di mantenere un minimo di controllo sui miei impulsi più distruttivi e sulle mie tendenze più autolesioniste... oh, ma dimmi sinceramente, con quella franchezza che dovrebbe caratterizzare tutti i rapporti umani autentici, ti sto forse annoiando terribilmente con tutti questi miei deliri verbali, con questa cascata incontrollabile di parole che sembrano sgorgare dalla mia bocca senza che io riesca più a governarne il flusso?"

"Perché vedi," continuò senza aspettare una risposta, come se stesse parlando più a se stesso che al suo interlocutore, "c'è qualcosa di profondamente paradossale nella condizione di chi, come me, sente il bisogno compulsivo di comunicare ma allo stesso tempo si rende conto di non essere compreso, di parlare una lingua che gli altri percepiscono come straniera anche quando utilizza le parole più comuni del vocabolario quotidiano. È come essere un musicista che suona sempre stonato, non per mancanza di orecchio musicale, ma perché il suo strumento è accordato su frequenze che nessun altro riesce a percepire."

"E forse," aggiunse con una nota di malinconia che gli conferiva un'improvvisa dignità tragica, "forse è proprio questa la mia vera maledizione, questo essere condannato a vagare per sempre ai margini del linguaggio comune, di essere compreso a metà o di non essere compreso affatto, di suscitare negli altri quella miscela caratteristica di fastidio e pietà che si prova di fronte a qualcuno che sta chiaramente soffrendo ma la cui sofferenza ci risulta incomprensibile e quindi, in ultima analisi, irritante."

"Ma dimmi," si rivolse ancora una volta direttamente al suo interlocutore con un'intensità che non ammetteva evasioni, "non ti è mai capitato di svegliarti al mattino con la sensazione che tutto quello che hai fatto il giorno precedente sia stato completamente inutile, che tutte le parole che hai pronunciato si siano dissolte nell'aria senza lasciare alcuna traccia significativa nella mente di chi ti ascoltava? Non hai mai provato quella vertigine particolare che si prova quando ci si rende conto che la propria esistenza potrebbe scomparire senza che nessuno se ne accorga veramente?"

Il suo interlocutore, che fino a quel momento era rimasto in un silenzio che oscillava tra lo sbalordimento e l'imbarazzo, tentò finalmente di articolare una risposta, ma Skeeen lo precedette con un gesto della mano che suggeriva insieme urgenza e rassegnazione: "No, no, non rispondere subito, non dire la prima cosa che ti viene in mente. Rifletti un momento su quello che ti sto chiedendo. Perché vedi, le risposte immediate sono quasi sempre false, sono meccanismi di difesa che utilizziamo per proteggerci dalla verità più scomoda. La verità richiede tempo, richiede il coraggio di scendere in profondità, di esplorare quelle zone della coscienza che preferiremmo mantenere al buio."

"Io stesso," confessò con una vulnerabilità che lo rendeva improvvisamente più umano e meno mostruoso, "ho impiegato anni per ammettere a me stesso che la mia ossessione per quel piede, quella attrazione morbosa che all'inizio mi sembrava soltanto una bizzarria passeggera, era in realtà il sintomo di qualcosa di molto più profondo e perturbante. Era la manifestazione fisica di una fame spirituale che non riuscivo a soddisfare in nessun altro modo, era il mio tentativo disperato di stabilire un contatto autentico con la realtà in un mondo che mi sembrava sempre più artificiale e privo di sostanza."

"Quando ho leccato quel piede," continuò con una precisione quasi chirurgica nella descrizione, "non stavo semplicemente compiendo un atto di perversione sessuale, come potrebbero pensare gli osservatori superficiali. Stavo cercando di assaggiare la vita stessa, di toccare con la lingua qualcosa di veramente reale in mezzo a tutta quella falsità che ci circonda quotidianamente. Era un gesto di disperazione esistenziale travestito da trasgressione erotica."

"E sai qual è stata la cosa più terribile di tutta questa vicenda?" chiese con un sorriso che conteneva più dolore che ironia. "Non è stata la vergogna di essere stato visto, non è stato il disgusto degli spettatori, non è stato nemmeno il senso di colpa che mi ha tormentato per settimane. La cosa più terribile è stata la consapevolezza, arrivata come un fulmine mentre ancora avevo quel sapore acre e salato sulla lingua, che neanche quello era stato abbastanza, che neanche quell'atto estremo era riuscito a colmare il vuoto che sento dentro."

"Perché vedi," proseguì con una lucidità che contrastava stranamente con l'apparente follia delle sue azioni, "noi esseri umani siamo condannati a cercare continuamente qualcosa che non esiste, o che forse esiste ma in una forma così diversa da quello che immaginiamo che non riusciamo mai a riconoscerlo quando finalmente lo incontriamo. Cerchiamo l'amore e troviamo la passione, cerchiamo la verità e troviamo opinioni, cerchiamo la bellezza e troviamo ornamenti, cerchiamo la pace e troviamo soltanto la stanchezza temporanea che segue la battaglia."

"E così," concluse con una stanchezza che sembrava accumularsi da decenni, "continuiamo a vagare da un'esperienza all'altra, da un'illusione all'altra, sempre convinti che la prossima volta sarà diversa, che la prossima volta riusciremo finalmente a toccare l'essenza delle cose invece di rimanere sempre alla superficie. Ma forse," aggiunse con un'ultima scintilla di quella che poteva essere speranza o semplicemente ostinazione, "forse è proprio questa ricerca impossibile ciò che ci rende umani, ciò che ci distingue dalle pietre e dagli alberi e da tutte le altre creature che sembrano così perfettamente adattate al loro posto nel mondo."

"Oh, ma guardami," disse improvvisamente, come se si fosse appena accorto di essere osservato, "eccomi qui che divago ancora una volta, che mi perdo in questi labiriniti mentali che non portano da nessuna parte. Ti sto sicuramente annoiando a morte con tutte queste mie elucubrazioni senza capo né coda. Forse dovrei semplicemente tacere, forse dovrei imparare il valore terapeutico del silenzio..."

# Le Confessioni di Nina: I Territori dell'Anima Ferita

## Il Richiamo delle Anime in Frantumi

Dice Nina, e la sua voce assume quella particolare qualità cristallina che caratterizza chi ha attraversato molte notti dell'anima e ne è emerso con una saggezza che brucia come fuoco dolce: "La vita mi ha insegnato che esiste una magnetismo invisibile tra le anime che hanno imparato a riconoscere il dolore altrui. Non è una scelta consapevole, non è qualcosa che si decide a tavolino durante le mattinate di buoni propositi. È piuttosto come essere dotati di un radar emotivo che si attiva automaticamente quando si avvicina qualcuno che porta dentro di sé quella particolare vibrazione della sofferenza autentica."

A volte, continua Nina mentre i suoi occhi assumono quella profondità che sembra contenere oceani di compassione non espressa, ho a che fare con gente che è in difficoltà, persone che la vita ha messo di fronte a prove che sembravano insormontabili, individui che si trascinano dietro fardelli così pesanti che ogni passo diventa un atto di coraggio puro. Sono persone che ha problemi d'ogni tipo, un caleidoscopio di dolori che spazia dalle ferite più evidenti a quelle che si nascondono negli angoli più bui dell'anima.

"Ci sono quelli," dice Nina, "che portano sulle spalle il peso di relazioni spezzate come vetri che continuano a tagliare anche dopo essere stati raccolti e buttati via. Ci sono quelli che lottano contro demoni economici che li perseguitano ogni notte, trasformando i sogni in incubi popolati da bollette non pagate e futuro incerto. E poi ci sono quelli che combattono battaglie contro se stessi, guerre civili interiori dove non esistono vincitori ma solo perdenti sempre più stanchi."

Oppure, e qui la voce di Nina si fa più grave, più carica di quella comprensione che nasce solo dall'aver toccato personalmente certi abissi, ci sono quelli con disturbi chimici, quegli squilibri invisibili che trasformano il cervello in un laboratorio impazzito dove si producono cocktail di emozioni velenose. "Ho incontrato persone," racconta, "il cui sistema nervoso sembrava sintonizzato su frequenze che captavano solo dolore, individui i cui neurotrasmettitori avevano dimenticato la formula della gioia, esseri umani intrappolati in prigioni biochimiche dove ogni giorno era una lotta per ricordare perché valesse la pena continuare a respirare."

## Il Santuario della Meditazione Profonda

Ed è proprio in questi casi, confessa Nina con una sincerità che taglia attraverso ogni difesa, che io medito, ma non nel senso convenzionale che la maggior parte delle persone attribuisce a questa parola. "La mia meditazione," spiega, "non è la fuga serena verso giardini zen dove tutto è pace e armonia. È piuttosto un'immersione consapevole nel cuore stesso del caos, un tuffo negli abissi dell'esperienza umana dove si nascondono le radici più profonde del dolore."

"Quando mi siedo in meditazione di fronte a qualcuno che soffre," continua Nina, "non cerco di svuotare la mente o di raggiungere stati di beatitudine cosmica. Invece, apro tutti i canali della percezione, abbasso ogni difesa emotiva, divento una spugna che assorbe non solo le parole che mi vengono dette ma anche quelle che rimangono inespresse, i sospiri che contengono romanzi interi di sofferenza, i silenzi che gridano più forte di qualsiasi urlo."

È un processo che richiede una forma particolare di coraggio, quello di lasciarsi attraversare dal dolore altrui senza farsi distruggere da esso. "Ho imparato," dice Nina, "che la compassione vera non è un sentimento dolce e consolatorio, ma una forza feroce che ti permette di guardare in faccia l'orrore senza distogliere lo sguardo, di tenere la mano a chi sta affogando anche se rischi di essere trascinata sul fondo insieme a lui."

Che io entro in contatto, conclude Nina, e queste ultime parole risuonano con un'intensità che sembra provenire da dimensioni più profonde della semplice comunicazione verbale. "Il contatto di cui parlo," spiega, "non è quello superficiale delle chiacchiere da salotto o delle consolazioni preconfezionate. È un contatto anima-anima che avviene in quella zona di frontiera dove il confine tra sé e l'altro diventa permeabile, dove il dolore individuale si rivela essere sempre, in ultima analisi, dolore universale."

## L'Archeologia del Dolore Umano

"Ogni persona che incontro," continua Nina approfondendo il suo discorso, "porta con sé una storia stratificata come un sito archeologico dell'anima. Ci sono dolori recenti che sanguinano ancora in superficie, ferite fresche che hanno bisogno di essere pulite e medicate con gentilezza infinita. Ma sotto questi strati superficiali, scavando più in profondità, emergono sempre dolori più antichi, traumi che risalgono all'infanzia, alle generazioni precedenti, a ferite ancestrali che si trasmettono attraverso il DNA emotivo delle famiglie."

Nina ha imparato a riconoscere i segni di questi diversi strati di sofferenza. "C'è un modo particolare," dice, "in cui si irrigidiscono le spalle di chi porta il peso di responsabilità troppo grandi per la sua età. C'è una particolare qualità del silenzio di chi ha imparato troppo presto che le sue parole non avevano valore. C'è una luce spenta negli occhi di chi ha dovuto rinunciare ai propri sogni per sopravvivere alle necessità quotidiane."

Ma Nina ha anche imparato che il dolore, per quanto devastante possa essere, porta sempre con sé semi di trasformazione. "Ho visto," racconta, "persone completamente distrutte dalle circostanze rinascere dalle proprie ceneri con una forza che non sapevano di possedere. Ho assistito a miracoli di resilienza che hanno ridefinito la mia comprensione di cosa significhi essere umani. Ho toccato con mano il potere alchemico della sofferenza consapevolmente attraversata."

## I Disturbi Chimici: Labiriniti dell'Anima

Quando Nina parla dei disturbi chimici, la sua voce assume una particolare delicatezza, quella di chi ha imparato a maneggiare cristalli di dolore così fragili che potrebbero frantumarsi al minimo urto. "I disturbi dell'umore," spiega, "sono come tempeste che si scatenano nel cervello senza preavviso meteorologico. Una persona può addormentarsi relativamente serena e svegliarsi in preda a un uragano di disperazione che non ha alcuna relazione con gli eventi della sua vita."

"Ho conosciuto," continua, "persone la cui depressione era come un buco nero emotivo che assorbiva ogni fotone di gioia, ogni possibilità di speranza, ogni tentativo di connessione umana. Ho incontrato individui in preda a manie che li trasformavano in satelliti impazziti, in orbita intorno a progetti grandiosi e irrealizzabili, incapaci di atterrare sulla terraferma della realtà quotidiana."

Nina ha imparato che con questi disturbi non si può usare la logica tradizionale. "Non puoi dire a qualcuno in preda a un attacco di panico che non c'è niente di cui avere paura," spiega. "Il suo sistema nervoso sta reagendo a pericoli reali che esistono in una dimensione della realtà inaccessibile ai sensi ordinari. Non puoi convincere un depresso che la vita è bella quando la sua biochimica cerebrale gli sta proiettando un film in bianco e nero dove ogni colore è stato digitalmente rimosso."

## L'Arte della Presenza Terapeutica

"La meditazione che pratico con queste persone," confessa Nina, "è un'arte che ho dovuto inventare da zero, attingendo da tradizioni diverse ma sempre adattandole alla specificità del momento presente. Non esistono protocolli standard quando hai di fronte un'anima umana nella sua unicità irripetibile di dolore e potenzialità."

"A volte," racconta, "la meditazione consiste semplicemente nel sedersi in silenzio accanto a qualcuno e respirare insieme. Il respiro condiviso diventa un ponte invisibile che permette alla persona di sentire che non è completamente sola nel suo dolore. Altre volte, la meditazione assume la forma di un'esplorazione guidata attraverso le caverne dell'inconscio, un viaggio nei territori sotterranei dell'anima dove si nascondono le risorse che sembravano perdute."

Nina ha sviluppato una sensibilità particolare per percepire di che tipo di contatto ha bisogno ogni persona. "Ci sono momenti," spiega, "in cui il contatto deve essere delicato come il tocco di una farfalla, perché l'anima è così ferita che qualsiasi pressione potrebbe farla frantumarie ulteriormente. Ci sono altri momenti in cui il contatto deve essere forte e deciso, come l'abbraccio di un genitore che riporta a casa un figlio che si era perduto."

## I Miracoli della Connessione Autentica

"Quello che continua a stupirmi," dice Nina con una meraviglia che non sembra diminuire nonostante gli anni di esperienza, "è la rapidità con cui può avvenire la trasformazione quando si stabilisce un contatto autentico. Ho visto persone che erano immobilizzate dalla depressione da mesi rialzarsi dopo una sola seduta di vera connessione. Non perché il loro problema fosse sparito magicamente, ma perché avevano ritrovato la fiducia nella possibilità che qualcuno potesse comprenderle davvero."

"Il potere terapeutico," continua, "non sta nelle tecniche che uso o nelle parole che pronuncio. Sta nella qualità della presenza che riesco a offrire, nella mia capacità di diventare uno specchio che riflette non i difetti e le mancanze, ma il potenziale nascosto, la bellezza sepolta sotto strati di dolore e autogiudizio."

Nina ha imparato che ogni persona porta dentro di sé non solo le ferite ma anche il guaritore. "Il mio compito," spiega, "non è quello di curare dall'esterno, ma di aiutare ogni persona a riconoscere e attivare le proprie risorse curative interiori. È come essere una levatrice dell'anima, assistere alla nascita di possibilità che erano sempre state lì ma avevano bisogno di qualcuno che credesse nella loro esistenza per poter venire alla luce."

## L'Evoluzione Continua della Compassione

"Ogni incontro con il dolore altrui," confessa Nina, "mi trasforma. Non posso rimanere la stessa persona dopo aver toccato così da vicino la fragilità e la forza dell'animo umano. È come se ogni storia di sofferenza che accolgo lasciasse un deposito di saggezza nei miei tessuti emotivi, contribuendo a costruire una comprensione sempre più raffinata di cosa significhi essere umani in questo universo così bello e così crudele al tempo stesso."

La compassione di Nina non è innata ma coltivata attraverso la pratica quotidiana dell'apertura al dolore. "Ho dovuto imparare," dice, "a non chiudere il cuore di fronte all'orrore, ma allo stesso tempo a non lasciarlo aperto in modo indiscriminato perché altrimenti sarei stata sopraffatta dalle sofferenze del mondo intero. Ho dovuto sviluppare una forma di compassione intelligente, che sa quando avvicinarsi e quando mantenere una distanza protettiva."

"Medito anche per questo," conclude Nina, "per mantenere vivo in me quello spazio sacro dove il dolore può essere trasformato in saggezza, dove la sofferenza può diventare compassione, dove il buio può rivelare stelle che senza di esso non sarebbero mai state visibili. È un lavoro che non finisce mai, perché non finisce mai la processione di anime ferite che hanno bisogno di qualcuno disposto a credere nella loro possibilità di guarigione."

# CAPITOLO I
## L'EPIFANIA NOTTURNA

Nelle viscere pulsanti di una metropoli che non dorme mai, dove le arterie asfaltate pompano incessantemente il sangue velenoso del progresso e della decadenza in egual misura, dove i grattacieli si ergono come denti cariati di una bocca titanica che inghiotte tutto ciò che osa sfidare la sua autorità, Skeeen si muove con la grazia incerta di un sonnambulo che cammina sul filo del rasoio tra sogno e incubo. Le luci al neon che si riflettono sui marciapiedi bagnati di pioggia acida e desideri inconfessabili creano caleidoscopi di colore che feriscono la retina e l'anima simultaneamente, dipingendo arcobaleni tossici su superfici che hanno dimenticato da tempo il significato della purezza. Ogni passo che compie risuona come un tamburo funebre nel silenzio ovattato della notte urbana, mentre porta sulle sue spalle curve il peso schiacciante di una consapevolezza che lo tormenta con la precisione chirurgica di un bisturi che affonda nella carne viva: quella di essere, al tempo stesso e senza possibilità di fuga o redenzione, osservatore e osservato, predatore e preda di se stesso in un gioco perverso che non conosce vincitori né vinti, solo vittime consapevoli del proprio sacrificio.

Le sue dita, pallide come cera di candela consumata durante veglie notturne troppo lunghe, tremano con un ritmo ipnotico mentre afferrano il bicchiere con una presa che tradisce l'inquietudine profonda che lo abita come un parassita spirituale, un'entità aliena che si è installata nel suo sistema nervoso e ne ha fatto la propria dimora permanente. Il vetro freddo contro la pelle febbrile produce un contrasto che lo risveglia momentaneamente dal torpore etilico, ma è un risveglio crudele che non porta sollievo, solo una maggiore consapevolezza del proprio stato di degradazione volontaria. I suoi occhi, due pozzi neri che sembrano aver assorbito tutta la disperazione del mondo, scrutano l'orizzonte urbano alla ricerca di quel barlume di verità che potrebbe finalmente liberarlo dalla prigione dorata delle sue ossessioni, ma sanno già, con la certezza matematica di chi ha imparato a convivere con la delusione, che questa ricerca è destinata al fallimento.

## CAPITOLO II
## LA METAMORFOSI DELL'ANIMA

È proprio in questo momento di apparente vulnerabilità, quando le sue difese psicologiche si abbassano come ponti levatoi di un castello assediato, che Skeeen rivela paradossalmente la sua natura più autentica e terrificante: quella di un essere umano che ha imparato l'arte suprema e maledetta di trasformare il dolore in estasi, la solitudine in comunione mistica con l'universo circostante, la disperazione in una forma perversa di beatitudine che solo le anime dannate sanno riconoscere e apprezzare. È un'alchimia spirituale che richiede anni di pratica e dedizione, un'arte oscura che si tramanda di generazione in generazione attraverso codici non scritti e rituali segreti che si svolgono nei sotterranei dell'esistenza umana, lontano dagli sguardi giudicanti di una società che ha dimenticato il valore catartico della sofferenza autentica.

La metamorfosi che inizia a prendere forma nella sua coscienza procede con la lentezza maestosa di un rituale antico che si perpetua attraverso i millenni, trasmesso da una generazione di anime dannate all'altra attraverso linguaggi cifrati che solo gli iniziati possono decodificare completamente. È un processo che non può essere affrettato né interrotto senza rischiare di comprometterne l'efficacia, una trasformazione che richiede il rispetto assoluto dei suoi tempi naturali, come la crescita di un fiore velenoso che impiega decenni per sbocciare ma quando lo fa rilascia nell'aria un profumo così intenso da uccidere chi lo respira senza la dovuta preparazione spirituale. Skeeen sente il sangue che inizia a scorrere più veloce nelle sue vene, percepisce l'accelerazione graduale ma inesorabile del battito cardiaco che accompagna sempre i momenti di grande trasformazione interiore, quei passaggi di stato che segnano il confine tra un'esistenza e l'altra, tra una personalità e la sua evoluzione successiva.

Il cuore che batte più forte nel petto gli ricorda il suono di tamburi tribali che chiamano a raccolta gli spiriti ancestrali durante cerimonie che la civiltà moderna ha bandito dalle sue pratiche ufficiali ma che continuano a sopravvivere negli anfratti più nascosti della psiche umana. È in questi istanti di accelerazione biologica che la sua mente si apre come un fiore notturno di proporzioni gigantesche, rivelando petali di coscienza che normalmente rimangono celati agli sguardi indiscreti del mondo esterno, strati di consapevolezza che si dispiegano uno dopo l'altro come pagine di un libro scritto in una lingua che solo lui ha imparato a leggere attraverso anni di studio solitario e meditazione dolorosa. Ogni petalo che si schiude rivela nuove dimensioni dell'esperienza possibile, nuovi territori inesplorati della percezione umana che aspettano solo di essere colonizzati da esploratori abbastanza coraggiosi o abbastanza folli da avventurarsi oltre i confini della normalità.

## CAPITOLO III
## IL DONO MALEDETTO

La sua capacità soprannaturale di provare e impartire l'estasi si manifesta in questi momenti come un dono divino e una maledizione eterna fusi insieme in un'unica entità paradossale, una benedizione che porta con sé il germe della distruzione personale, un talento che fiorisce rigoglioso solo nei territori più oscuri e inesplorati dell'esperienza umana, là dove la civiltà non è mai riuscita a piantare le sue bandiere di controllo e normalizzazione. È un potere che lo spaventa e lo affascina simultaneamente, una forza che può essere canalizzata e diretta ma mai completamente controllata, come un fiume in piena che può essere arginato ma non fermato, che può essere deviato ma non domato completamente dalla volontà umana.

Questo dono maledetto si rivela attraverso manifestazioni che vanno ben oltre la semplice capacità di provare piacere fisico o emotivo: è piuttosto una forma di percezione alterata che gli permette di vedere connessioni invisibili tra eventi apparentemente scollegati, di sentire vibrazioni energetiche che sfuggono ai sensi normali, di comunicare con livelli di realtà che la maggior parte delle persone non sospetta nemmeno esistano. È come se avesse sviluppato sensi aggiuntivi che funzionano su frequenze che la scienza ufficiale non ha ancora imparato a misurare, antenne psichiche che captano segnali provenienti da dimensioni parallele dove le leggi della fisica e della logica seguono regole completamente diverse da quelle che governano il mondo ordinario.

Quando finalmente decide di concedersi tutto il tempo necessario per abbandonarsi completamente a questa condizione di grazia perversa, quando smette di opporre resistenza al richiamo irresistibile delle forze oscure che lo abitano, Skeeen diventa davvero e completamente capace di diffondere la sua particolare forma di beatitudine maledetta in ogni angolo del locale che lo ospita, trasformando lo spazio fisico in un tempio dedicato al culto dell'estasi proibita. La sua presenza stessa diventa un campo di forza che altera la percezione di chiunque si trovi nel suo raggio d'azione, un'emanazione energetica che agisce come una droga somministrata per via aerea, intossicando gradualmente tutti coloro che respirano la stessa atmosfera che lui contamina con la sua aura di decadenza sublime.

## CAPITOLO IV
## L'ALCHIMIA VERBALE

Le sue parole, quando decide di pronunciarle, cessano di essere semplici combinazioni di suoni e significati per trasformarsi in incantesimi veri e propri, formule magiche che alterano la struttura stessa della realtà circostante, creando bolle di esperienza alterata dove le normali leggi di causa ed effetto vengono sospese temporaneamente per lasciare spazio a logiche oniriche e associazioni libere che seguono i percorsi imprevedibili dell'inconscio collettivo. Ogni frase che pronuncia risuona nell'aria con una densità fisica quasi palpabile, come se le parole avessero acquisito massa e gravità proprie, attirando verso di sé frammenti di realtà che si ricompongono in configurazioni inedite e spesso inquietanti.

I suoi gesti, anche i più insignificanti, assumono la solennità rituale di benedizioni profane impartite da un sacerdote di una religione che non ha ancora trovato il coraggio di dichiarare apertamente i propri dogmi, ma che si limita a sussurrare le proprie verità eretiche nell'orecchio di adepti scelti con cura tra le file dei disadattati e degli emarginati che popolano i margini della società civile. Ogni movimento della sua mano diventa una carezza che benedice e maledice simultaneamente, ogni sguardo che lancia si trasforma in un raggio laser che penetra attraverso le difese psicologiche degli altri per toccare direttamente il nucleo più profondo e vulnerabile della loro personalità, lasciandovi impronte indelebili che continueranno a pulsare dolorosamente per anni dopo l'incontro.

La sua stessa presenza fisica si trasforma in un campo magnetico dotato di una polarità ambigua che attrae e respinge contemporaneamente tutti coloro che hanno la ventura o la sventurata sorte di incrociare il suo cammino durante una delle sue discese negli abissi dell'esperienza estrema. È un magnetismo che opera su frequenze che sfuggono alla comprensione razionale, una forza di attrazione che bypassa completamente i meccanismi di difesa consci per agire direttamente sui centri nervosi più primitivi, quelli che governano le reazioni istintive di lotta o fuga, di desiderio o repulsione, di fascino o terrore.

## CAPITOLO V
## L'ANSIA COSMICA

Ma dietro questa facciata apparentemente impenetrabile di controllo assoluto sulla propria condizione e su quella degli altri, dietro questa maschera di dominio spirituale che indossa come un'armatura contro le ferite del mondo, si nasconde una verità devastante che Skeeen non può più permettersi il lusso di negare nemmeno a se stesso, nemmeno nei momenti di maggiore ubriachezza quando le barriere dell'autocoscienza si abbassano permettendo l'affiorare di contenuti psichici normalmente repressi. La verità è che l'ansia che lo assale in questi momenti di trasformazione è così potente e pervasiva da minacciare di sopraffarlo completamente, di dissolvere la sua identità in un mare di panico esistenziale che potrebbe non lasciare tracce sufficienti per permettere una ricostruzione successiva della personalità.

Questa ansia non è il semplice nervosismo che può assalire chiunque si trovi di fronte a una situazione nuova o potenzialmente pericolosa, ma piuttosto una forma di terrore cosmico che nasce dalla consapevolezza di star per varcare soglie che una volta superate non permetteranno più un ritorno alla condizione precedente. È la paura ancestrale del salto nel vuoto, dell'abbandono delle certezze conosciute per avventurarsi in territori inesplorati della coscienza dove i normali punti di riferimento perdono ogni validità e dove l'individuo si ritrova a navigare a vista in un oceano di possibilità infinite e quindi paralizzanti nella loro vastità incommensurabile.

L'urgenza che lo spinge a trascrivere mentalmente, con una precisione chirurgica che contrasta in modo drammatico e quasi grottesco con il caos emotivo che lo pervade come un'infezione batterica resistente a tutti gli antibiotici conosciuti, tutti gli eventi della sua esistenza passata e futura, assume gradualmente le caratteristiche inquietanti di una costrizione patologica che non può più essere ignorata o razionalizzata come semplice eccentricità caratteriale. È come se la sua mente fosse stata trasformata da forze ignote in una macchina da scrittura impazzita, un dispositivo meccanico che produce incessantemente e senza possibilità di interruzione copie affrettate di ricordi reali e immaginari, di speranze deluse e timori realizzati, di profezie autoavveranti e nostalgies de l'avenir che si intrecciano in una trama narrativa così complessa da sfuggire alla comprensione di chi pure ne è l'autore involontario.

## CAPITOLO VI
## LA PRIGIONE LINGUISTICA

Questi pensieri-documenti si accumulano nella sua coscienza come sedimenti geologici in un fiume che ha smesso di scorrere verso il mare, formando dighe mentali sempre più imponenti e pericolose che minacciano di cedere da un momento all'altro sotto la pressione crescente del materiale psichico represso, liberando torrenti devastanti di consapevolezza troppo potenti e concentrati per essere contenuti e processati da un singolo cervello umano senza rischiare il collasso definitivo delle funzioni cognitive superiori. Ogni nuovo ricordo che affiora alla superficie della memoria conscia aggiunge il suo peso specifico a questa costruzione precaria, ogni fantasia sul futuro contribuisce ad alzare il livello di guardia di questa diga che trattiene a fatica un lago artificiale di significati e sensazioni che cresce costantemente di volume e densità.

Le parole che si formano spontaneamente nella sua mente durante questi episodi di scrittura automatica non sono semplici descrizioni passive della realtà esterna o interna, ma piuttosto entità linguistiche viventi che pulsano di vita propria, creature semiotiche parassite che sembrano nutrirsi direttamente della sua sostanza vitale, vampiri verbali che succhiano l'energia psichica dal loro ospite per alimentare la propria esistenza autonoma nel regno immateriale del linguaggio puro. Ogni frase che prende forma nella sua coscienza è come una sbarra di ferro battuto di una prigione mentale che lui stesso sta costruendo inconsapevolmente, mattone dopo mattone, parola dopo parola, con la meticolosità ossessiva di un muratore pazzo che erige metodicamente le pareti del proprio manicomio personale senza rendersi conto che ogni nuovo elemento architettonico aggiunto alla struttura la rende più inespugnabile dall'interno.

È diventato, suo malgrado e senza averlo mai scelto consapevolmente, un parente stretto di questo strazio straziante che lo strazia con regolarità meccanica, eppure è costretto a conviverci come si convive con un tumore maligno che non può essere estirpato chirurgicamente senza causare inevitabilmente la morte del paziente, una massa cancerosa che si è integrata così profondamente nel tessuto sano da non poter più essere distingua da esso. La convivenza forzata con questo dolore esistenziale ha assunto nel tempo le caratteristiche di un matrimonio infelice ma indissolubile, una relazione tossica che nessuno dei due partner ha il coraggio di interrompere definitivamente perché entrambi sanno che la solitudine che seguirebbe sarebbe ancora più insopportabile dell'attuale situazione di reciproca distruzione.

## CAPITOLO VII
## L'ORIZZONTE APOCALITTICO

Questo strazio ha sviluppato una personalità propria, dei gusti e delle preferenze specifiche, degli orari di maggiore attività e dei periodi di relativo riposo, come se fosse diventato un coinquilino indesiderato ma permanente nell'appartamento della sua coscienza. Ha imparato a riconoscerne gli umori e le variazioni cicliche, sa prevederne le manifestazioni più acute e ha sviluppato strategie di sopravvivenza che gli permettono di mantenere un minimum di funzionalità sociale anche durante le crisi più severe. È un rapporto che ha raggiunto nel corso degli anni un equilibrio perverso, una forma di cooperazione competitiva dove entrambe le parti lottano per la supremazia senza mai riuscire a eliminare completamente l'altra.

L'orizzonte che si staglia costantemente davanti ai suoi occhi interiori durante queste sessioni di autoanalisi compulsiva appare velato e oscuro come una profezia apocalittica scritta in una lingua morta che solo i sacerdoti di culti estinti sanno ancora decifrare, un piano secolare che si dipana attraverso i millenni portando con sé echi sempre più deboli di mandamenti divini originariamente puri ma corrotti nel corso del tempo dalla malizia umana e dalla naturale tendenza entropica di tutti i sistemi organizzati verso la dissoluzione e il caos. È un orizzonte che promette rivelazioni che non arriveranno mai, che annuncia soluzioni che si riveleranno sempre essere nuovi problemi travestiti da risposte, che offre speranze destinate a trasformarsi in delusioni ancora più amare di quelle che le hanno precedute.

In questa dimensione atemporale dove passato e futuro si fondono in un eterno presente allucinatorio, dove la cronologia lineare viene sostituita da una logica associativa che segue i percorsi imprevedibili dell'inconscio, alcuni eventi della sua vita assumono un'importanza sproporzionata rispetto al loro peso oggettivo nella sequenza biografica, gonfiandosi come palloncini riempiti di elio fino a occupare tutto lo spazio disponibile nella sua coscienza e a spingere verso la periferia dell'attenzione tutti gli altri ricordi che pure hanno contribuito a formare la sua personalità attuale. Questi eventi-monstre diventano i protagonisti assoluti del teatro mentale dove si rappresenta continuamente la tragedia della sua esistenza, attori istrionici che recitano sempre lo stesso copione ma con variazioni infinite che impediscono allo spettatore di annoiarsi completamente.

## CAPITOLO VIII
## GLI EVENTI PARADOSSALI

Questi eventi traumatici o significativi possiedono un'anima duplice e contraddittoria che sfida ogni tentativo di classificazione razionale: sono muti come statue di marmo eppure urlano con la forza distruttiva di un tifone che rade al suolo tutto ciò che incontra sul suo percorso, sono silenziosi come tombe abbandonate eppure producono un fragore assordante che può essere sentito solo da chi ha sviluppato l'orecchio interiore attraverso anni di sofferenza raffinata e meditazione dolorosa. È un paradosso sensoriale che mette in crisi le categorie tradizionali della percezione, costringendo la mente a sviluppare nuovi strumenti interpretativi per dare senso a esperienze che trascendono i limiti della logica aristotelica.

Il silenzio di questi eventi è più eloquente di qualsiasi discorso, più penetrante di qualsiasi grido, più devastante di qualsiasi confessione esplicita. È un silenzio gravido di significati che premono per essere espressi ma che non trovano mai le parole adeguate, una forma di comunicazione che avviene al di sotto della soglia del linguaggio verbale, attraverso canali che collegano direttamente inconscio a inconscio senza passare per i filtri della ragione cosciente. È il silenzio delle cose troppo grandi per essere dette, troppo importanti per essere banalizzate attraverso la traduzione in parole che inevitabilmente ne tradirebbero l'essenza più profonda.

Il fragore che producono, d'altra parte, è percettibile solo da chi ha imparato ad ascoltare con organi di senso che la maggior parte delle persone non sa nemmeno di possedere, frequenze che vibrano al di sotto o al di sopra dello spettro uditivo normale, suoni che risuonano direttamente nelle ossa e negli organi interni senza passare per il timpano e per le normali vie di trasmissione del segnale acustico. È una musica delle sfere corrotta, una sinfonia cosmica che ha perso la sua armonia originaria per trasformarsi in una cacofonia che può essere apprezzata solo da orecchie che si sono adattate alla dissonanza attraverso un lungo processo di educazione al dolore.

## CAPITOLO IX
## L'ESSENZA DELL'ESISTENZA

Sono eventi che racchiudono in sé, come in capsule del tempo sigillate ermeticamente, tutta l'essenza contraddittoria dell'esistenza umana: terra fertile e melma putrefatta mescolate insieme in proporzioni che variano costantemente per formare il fango primordiale da cui nascono tutte le creature senzienti, il substrato biologico e spirituale che costituisce la materia prima dell'esperienza cosciente. È una mistura che contiene in potenza tutte le possibilità dell'essere e del non essere, tutti gli sviluppi possibili di una vita umana, tutte le strade che si biforcano nel giardino dei sentieri che si ramificano all'infinito creando labirinti di destini paralleli che si intersecano occasionalmente creando momenti di sincronicità che lasciano interdetti per la loro improbabilità statistica.

La paura brulla che emerge da questi eventi si erge come un monumento funebre alla fragilità costitutiva dell'essere umano, una testimonianza di pietra alla precarietà di ogni costruzione esistenziale, un memento mori che ricorda costantemente l'inevitabilità della dissoluzione finale. È una paura che non ha oggetto specifico, che non può essere razionalizzata attraverso l'identificazione di una causa esterna concreta, ma che pervade l'intera struttura dell'io come un gas velenoso che si infiltra attraverso ogni fessura delle difese psicologiche, contaminando ogni pensiero e ogni emozione con il suo sapore metallico di angoscia existenziale.

Questa paura è brulla nel senso più letterale del termine: è stata privata di ogni ornamento consolatorio, di ogni possibilità di sublimazione estetica, di ogni speranza di trasformazione in qualcosa di più accettabile o sopportabile. Si presenta nella sua nudità più cruda, senza veli né maschere, come una verità troppo dura per essere guardata direttamente ma troppo importante per essere ignorata completamente. È la paura che nasce dalla consapevolezza della propria mortalità, ma anche dalla percezione più sottile dell'assurdità fondamentale di ogni progetto umano in un universo che sembra indifferente al destino dei suoi abitanti temporanei.

## CAPITOLO X
## IL QUASI MANCAMENTO

Il quasi mancamento che spesso accompagna queste epifanie dolorose sfiora costantemente la perdita totale di coscienza senza mai concedere il sollievo misericordioso dell'oblio completo, mantenendo il soggetto in una condizione liminale di semicoscienza dove il dolore resta perfettamente percettibile ma le risorse cognitive per elaborarlo risultano drasticamente ridotte. È uno stato che ricorda la tortura perfetta: abbastanza intense da essere devastanti, abbastanza controllate da non permettere la fuga attraverso la follia o lo svenimento. È una forma di supplizio esistenziale che mantiene la vittima sempre sul filo del rasoio tra coscienza e incoscienza, tra presenza e assenza, tra essere e non essere.

Questo quasi mancamento ha la perfidia di presentarsi sempre quando meno ce lo si aspetta, durante i momenti di apparente tranquillità quando le difese sono abbassate e l'attenzione è rivolta verso l'esterno. È un tradimento del proprio corpo che improvvisamente smette di garantire il supporto necessario alle funzioni cognitive superiori, lasciando la mente sospesa nel vuoto come un equilibrista che ha perso la corda su cui camminava. La sensazione è quella di cadere in un pozzo senza fondo, di dissolversi lentamente in una nebbia di incertezza che minaccia di cancellare ogni traccia dell'identità personale.

E poi c'è la lontananza dal primissimo desiderio, quella condizione di esilio permanente dal paradiso perduto dell'innocenza originaria, che trasforma ogni individuo cosciente in un pellegrino eterno condannato a vagare alla ricerca di una patria spirituale che forse non è mai esistita se non nell'immaginazione nostalgica di chi ha dimenticato volontariamente i dettagli più dolorosi della propria infanzia per poter continuare a vivere senza impazzire completamente. È una lontananza che si misura non in chilometri o anni ma in gradi di consapevolezza, in livelli di disillusione accumulata, in strati di esperienza che si depositano come sedimenti sulla superficie originariamente pura del desiderio primordiale, offuscandone la trasparenza cristallina fino a renderlo irriconoscibile.

## CAPITOLO XI
## IL DESIDERIO PRIMORDIALE

Questo primissimo desiderio, che brilla come una stella lontana nella memoria di ogni essere umano, rappresenta il momento mitico in cui la coscienza individuale non era ancora separata dall'unità cosmica, quando il confine tra sé e mondo non era ancora stato tracciato dalle categorie del linguaggio e del pensiero razionale. È il desiderio di ritornare a quello stato di fusione originaria, di dissolvere i confini dolorosi dell'individualità per rimergersi nell'oceano indifferenziato dell'essere puro, ma è un desiderio che porta in sé il germe della propria impossibilità di realizzazione, perché la coscienza che lo prova è già quella coscienza separata che vorrebbe negare se stessa.

La lontananza da questo desiderio primordiale cresce proporzionalmente alla crescita della consapevolezza individuale, creando un paradosso esistenziale per cui più si diventa coscienti di quello che si è perduto, più quella perdita diventa irreversibile e dolorosa. È una spirale che si autoalimenta: la nostalgia per l'innocenza perduta genera una sofferenza che allontana ulteriormente dall'innocenza, creando nuovi strati di esperienza che rendono ancora più difficile il ritorno immaginario alle origini. È un meccanismo perverso che garantisce l'approfondimento progressivo della condizione di alienazione esistenziale, trasformando ogni tentativo di recupero del passato in una conferma della sua irreversibilità.

Ma non c'è altro da aggiungere a questa litania interminabile di sofferenza sublime, non ci sono altre parole che possano catturare l'essenza ineffabile di questa esperienza senza tradirla inevitabilmente, senza ridurla a una semplice descrizione che non renderebbe mai giustizia alla sua complessità abissale, alla sua profondità vertiginosa, alla sua capacità di trasformare chi la attraversa in qualcosa di radicalmente diverso da quello che era prima dell'incontro con l'abisso. Ogni tentativo di verbalizzazione si rivela inadeguato, ogni metafora risulta insufficiente, ogni analogia crolla sotto il peso di ciò che pretende di rappresentare.

## CAPITOLO XII
## IL SILENZIO ELOQUENTE

Il silenzio che segue naturalmente questa constatazione di impotenza linguistica è gravido di significati inesprimibili che premono contro i confini del dicibile come prigionieri contro le sbarre della loro cella, denso di verità che possono essere solo intuite attraverso lampi improvvisi di comprensione intuitiva, mai pronunciate ad alta voce senza correre il rischio mortale di dissacrarne la natura essenzialmente sacra, di profanarne la purezza originaria attraverso il contatto contaminante con il linguaggio comune, quello stesso linguaggio che serve per ordinare il caffè al bar o per chiedere informazioni stradali a uno sconosciuto.

Questo silenzio non è assenza di contenuto ma piuttosto sovrabbondanza di significato, non vuoto ma pienezza troppo densa per essere contenuta nelle forme finite delle parole umane. È un silenzio che risuona con armoniche invisibili, che vibra su frequenze che solo l'anima sa percepire, che comunica attraverso canali che bypassano completamente l'apparato razionale per toccare direttamente i centri nervosi dell'intuizione pura. È il silenzio che precede ogni grande rivelazione, ma anche quello che la segue quando ci si rende conto che la rivelazione non può essere condivisa senza essere snaturata.

## CAPITOLO XIII
## EL HORNO: LA DISCESA

Concedendosi dunque, con la generosità disperata di chi sa di star per compiere un atto irreversibile, tutto il tempo cosmico necessario per questa immersione totale e definitiva nell'abisso senza fondo della propria coscienza più profonda, Skeeen diventa finalmente e completamente capace di inebriarsi, di ubriacarsi fino alle radici più nascoste dell'essere nel cuore pulsante dell'inferno personale che ha scelto come sua dimora temporanea in questo piano di esistenza: El Horno. Il nome di questo luogo maledetto porta in sé tutto il peso simbolico e profetico di una destinazione infernale descritta nei libri apocrifi delle religioni proibite, un presagio che si manifesta attraverso la sua stessa pronuncia, attraverso le vibrazioni che le sillabe producono quando vengono articolate dalla lingua e dalle corde vocali, creando onde sonore che risuonano con frequenze che risvegliano echi sepolti nell'inconscio collettivo.

"È un nome che già di per sé racchiude tutto il mistero e tutto l'orrore di quello che sto per vivere, tutto il fascino perverso dell'autodistruzione consapevole", riflette Skeeen con la lucidità allucinata di chi ha raggiunto quel punto di non ritorno oltre il quale ogni analisi razionale diventa impossibile mentre si avvicina lentamente alla soglia di questo antro moderno, questo tempio dedicato al culto delle passioni più oscure e inconfessabili, "è come un meraviglioso presagio che annuncia la mia discesa volontaria negli abissi dell'esperienza umana più estrema, un invito scritto in una lingua che solo i dannati sanno leggere correttamente".

Il nome El Horno risuona nella sua mente come un mantra ipnotico, una formula di evocazione che apre portali dimensionali verso realtà parallele dove le normali leggi della fisica e della morale vengono sospese temporaneamente per permettere l'emergere di fenomeni che la scienza ufficiale preferisce ignorare piuttosto che cercare di spiegare. È un nome che evoca forni crematori e fucine infernali, camere di combustione dove si bruciano non solo i corpi ma anche le anime, laboratori alchemici dove si pratica la trasmutazione inversa che trasforma l'oro in piombo, la purezza in corruzione, l'innocenza in esperienza amara.

## CAPITOLO XIV
## IL RICHIAMO IRRESISTIBILE

Il fascino perverso di questo richiamo nominale è troppo forte per essere ignorato da una volontà che si è già arresa da tempo all'inevitabilità del proprio destino di autodistruzione programmata, troppo allettante per essere respinto da una personalità che ha fatto della ricerca dell'esperienza estrema la propria ragione di esistere e il proprio metodo preferito di conoscenza del mondo e di se stessa. "Come si può ragionevolmente resistere alla tentazione magnetica di un luogo che promette apertamente il disarmo totale della propria umanità, la dissoluzione volontaria di tutte le difese psicologiche che normalmente proteggono l'individuo dal contatto diretto con l'abisso?", continua a interrogarsi Skeeen mentre percorre con passo sempre più accelerato gli ultimi metri che lo separano dall'ingresso di questo regno delle ombre, "come si può voltare vigliaccamente le spalle a un'opportunità così rara e preziosa di sperimentare la propria dissoluzione in tempo reale, di assistere in diretta al proprio naufragio esistenziale?".

Queste domande retoriche riecheggiano nella sua mente come voci di sirene che chiamano i marinai verso gli scogli della perdizione, melodie ipnotiche che promettono rivelazioni che si pagano con la vita stessa. Sono interrogativi che non cercano risposte ma piuttosto conferme, che non aprono dibattiti ma chiudono definitivamente ogni possibilità di fuga o ripensamento. La loro funzione non è quella di illuminare ma di sedurre, non di chiarire ma di confondere ulteriormente una situazione che è già oltre ogni possibilità di analisi razionale.

## CAPITOLO XV
## LE LUCI MALATE

Le luci che filtrano dall'interno del locale attraverso le finestre oscurate da anni di fumo e trascuratezza deliberata sono appena visibili come bagliori spettrali che sembrano provenire da un altro mondo, ma la loro intensità è paradossalmente sufficiente a colpire la retina con una crudeltà che ha qualcosa di poeticamente perfetto, una poesia del trasalimento che trasforma ogni battito di ciglia involontario in un verso di dolore esteticamente sublime, ogni lacrima che affiora spontaneamente agli occhi in una perla di sofferenza che brilla con luce propria nell'oscurità circostante. È una illuminazione che non illumina ma acceca, che non rivela ma nasconde ancora di più, che promette chiarezza ma consegna solo una più profonda confusione sensoriale.

Queste luci malate hanno la qualità particolare di rendere visibile l'invisibile e invisibile il visibile, di trasformare le certezze in dubbi e i dubbi in certezze ancora più fragili delle precedenti. Sono luci che hanno dimenticato il loro scopo originario di rendere possibile la visione per diventare esse stesse oggetto di una visione alterata, strumenti di una rivelazione che si rivela essere sempre e soltanto un'ulteriore forma di occultamento, una maschera più sofisticata della realtà che pretende di svelare.

L'ingresso in questo regno delle ombre si compie finalmente con la naturalezza apparente di chi ha ormai accettato completamente e irrevocabilmente il proprio ruolo di esploratore volontario delle zone più buie e inesplorate dell'anima umana, ma dietro questa facciata di tranquilla determinazione si nasconde un terremoto emotivo che scuote le fondamenta stesse della sua personalità. È un ingresso che ha le caratteristiche del rituale iniziatico, del passaggio attraverso una soglia che una volta varcata non permette più il ritorno alla condizione precedente, una porta che si chiude alle spalle del viaggiatore condannandolo a proseguire il viaggio anche quando la destinazione si rivela più spaventosa di quanto immaginato.

## CAPITOLO XVI
## LA FILOSOFIA DEL BUCO

"Un buco rimane sempre e soltanto un buco, indipendentemente dal nome altisonante che gli diamo o dalle aspettative romantiche che proiettiamo su di esso nella vana speranza di trasformarlo in qualcosa di più nobile di quello che è nella sua essenza più cruda", dice Skeeen a se stesso mentre varca finalmente la soglia maledetta, pronunciando queste parole con il tono di chi recita una formula religiosa imparata a memoria attraverso anni di pratica devota, "e nei fine settimana infiniti di questa città maledetta dalla nascita non ci si può permettere il lusso borghese di tirarsi indietro davanti a nessuna esperienza, per quanto degradante o fisicamente pericolosa possa apparire agli occhi di chi non ha ancora imparato che la sicurezza è solo un'illusione consolatoria inventata dai codardi".

La familiarità inquietante che questo ambiente condivide con le saune luride e malsane che frequenta abitualmente nei suoi pellegrinaggi notturni non lo sorprende più di tanto: è soltanto un altro buco nella geografia urbana della perdizione sistematicamente organizzata, un ulteriore locale da aggiungere alla sua collezione personale di luoghi dove l'anima può essere messa completamente a nudo e venduta al miglior offerente senza che nessuno si scandalizzi o si meravigli di transazioni che in altri contesti sarebbero considerate inaccettabili o addirittura criminali. È un ambiente che appartiene alla famiglia allargata dei luoghi di perdizione, tutti imparentati tra loro da quella comune dedizione alla distruzione metodica di tutto ciò che la società civile considera sacro o intoccabile.

Ma c'è qualcosa di sottilmente diverso in questo posto specifico, qualcosa che trascende la semplice ripetizione meccanica di esperienze già vissute e metabolizzate attraverso precedenti discese agli inferi personali, una qualità particolare che lo distingue da tutti gli altri templi della decadenza che ha frequentato nel corso della sua lunga carriera di esploratore dell'abisso. "Questo è solo l'ennesimo fine settimana da trascorrere nell'infinito labirinto della notte metropolitana, un'altra tappa del viaggio senza fine attraverso i paesaggi della dissoluzione programmata", riconosce Skeeen con la voce interiore di chi ha imparato a non aspettarsi più sorprese da un'esistenza che ha già rivelato tutti i suoi segreti più neri, "ma per il suo senso immanente e inescapabile di ogni atto che al suo interno viene compiuto con premeditazione o casualità, questo luogo specifico non può avere mai fine nel senso temporale del termine, non può essere contenuto nei confini rassicuranti del tempo cronologico che governa il mondo esterno".

## CAPITOLO XVII
## L'ETERNITÀ CORROTTA

È questa dimensione di eternità corrotta e blasfema che rende El Horno radicalmente diverso da tutti gli altri posti che ha frequentato durante le sue esplorazioni notturne, questa promessa esplicita di un presente perpetuo dove ogni gesto assume automaticamente il peso simbolico di un rito sacrificale e ogni parola pronunciata echeggia nell'infinito spaziotemporale come un mantra profano che continua a vibrare anche dopo che la voce che l'ha pronunciato si è spenta per sempre. È un luogo dove il tempo si addensa fino a diventare una sostanza vischiosa che intrappola tutto ciò che vi entra in contatto, una melassa temporale che rallenta i movimenti fino a renderli cerimoniali, che dilata ogni secondo fino a trasformarlo in un'eternità di consapevolezza dolorosa.

Con le estreme forze psichiche e fisiche che gli rimangono ancora disponibili dopo questa lunga e defatigante preparazione mentale alla propria discesa volontaria negli inferi della coscienza alterata, Skeeen si trova nella condizione di condividere quasi per intero, senza riserve né pudori residui, una specialissima forma di intimità spirituale con tutte le altre anime dannate e perdute che popolano questo antro con la regolarità di fedeli che si recano quotidianamente in chiesa per adempiere ai loro doveri religiosi. È un'amicizia fratella nata dalla comune appartenenza al regno dei diseredati, dei reietti, degli espulsi dal banchetto della normalità borghese, uno spasimo esistenziale che mescola elementi fecali e sessuali, spirituali e materiali in un cocktail di degrado che ha qualcosa di stranamente consolatorio per chi ha imparato a trovare bellezza anche nelle forme più perverse di comunione umana.

Questa intimità condivisa non ha nulla a che fare con l'affetto convenzionale o con la solidarietà politica tra oppressi, ma è piuttosto una forma di riconoscimento reciproco tra membri di una setta segreta che pratica rituali di autodistruzione collettiva. È l'intimità che nasce dalla condivisione di segreti inconfessabili, dalla partecipazione comune a cerimonie che la società ufficiale non può nemmeno immaginare senza provare un brivido di orrore e repulsione. È un legame che si forma automaticamente tra chi ha varcato certe soglie di esperienza oltre le quali non esistono più differenze di classe, razza, genere o cultura, ma soltanto il comune denominatore della dannazione volontariamente abbracciata.

## CAPITOLO XVIII
## LA FAMIGLIA SPIRITUALE

Le altre sventure smaniose che si aggirano allegramente in questo spazio di desolazione organizzata rappresentano la sua vera famiglia spirituale, i compagni di viaggio più autentici in questo pellegrinaggio verso l'autodistruzione consapevole che costituisce l'unico progetto esistenziale che sia riuscito a portare avanti con una certa continuità nel corso degli anni. Sono presenze che riconosce immediatamente anche quando le vede per la prima volta, anime gemelle che parlano la sua stessa lingua segreta anche quando comunicano attraverso silenzi o sguardi, fratelli e sorelle nella comune religione del fallimento programmato e della dissoluzione sistematica di ogni illusione consolatoria.

El Horno si rivela così, nella sua nudità architettonica e simbolica, come una rottura deliberata e definitiva con tutto il mondo esterno, un taglio netto e chirurgico con le convenzioni sociali che normalmente impediscono l'emergere di verità troppo crude per essere tollerate dalla coscienza civile, un territorio franco dove possono finalmente manifestarsi senza censure quegli aspetti dell'esperienza umana che la cultura ufficiale preferisce rimuovere o nascondere dietro eufemismi rassicuranti. È un locale acerrimo nel senso più letterale e guerresco del termine, un nemico dichiarato di tutto ciò che rappresenta normalità, decenza, speranza di redenzione sociale o personale, moralità convenzionale, buonsenso borghese.

Ma è proprio in questa sua natura esplicitamente ostile a tutto ciò che la maggioranza considera desiderabile che risiede il suo fascino più profondo e irresistibile, la sua capacità unica di offrire rifugio e protezione a coloro che non trovano più posto nel mondo illuminato dalla luce artificiale della civiltà, a coloro che sono stati espulsi o si sono autoesclusi dal grande banchetto dell'ipocrisia sociale organizzata. È un luogo che accoglie gli scarti umani, i rifiuti della selezione naturale urbana, i falliti che hanno trasformato il loro fallimento in una forma particolare di successo, una vittoria ottenuta attraverso la sconfitta sistematica di ogni ambizione normale.

## CAPITOLO XIX
## LA VULNERABILITÀ ALCOLICA

La verità cruda e innegabile è che nello stato avanzato di ebbrezza da Ceres nel quale Skeeen si trova immerso come in un bagno battesimale purificatore, un'ebbrezza che ha ormai raggiunto quel punto di saturazione oltre il quale ogni ulteriore dose di alcool non aumenta più l'effetto ma inizia a produrre fenomeni qualitativamente diversi, l'ingresso fisico in questo regno delle ombre provoca inizialmente soltanto un disagio che potrebbe essere definito passeggero se non fosse per la sua intensità devastante e per la sua capacità di risvegliare echi dolorosi sepolti negli strati più profondi della memoria inconscia. È un disagio che lo coglie completamente di sorpresa, come un agguato teso da parti di sé stesso che credeva ormai definitivamente addomesticate, facendolo quasi arrivare a stupirsi della propria reazione emotiva a un ambiente che pensava di conoscere già in tutte le sue sfumature più perverse e sottili.

Questo stupore di fronte alla propria vulnerabilità residua è forse la scoperta più sconvolgente di tutta la serata, la prova che anche quando si crede di aver raggiunto il fondo assoluto della propria capacità di essere feriti dall'esistenza, c'è sempre un sottofondo più profondo che aspetta di essere esplorato, sempre un nuovo livello di sensibilità che può essere risvegliato dalle circostanze appropriate. È la dimostrazione che l'anima umana non ha mai finito di sorprendere chi crede di conoscerla completamente, che conserva sempre riserve nascoste di reattività emotiva che possono essere attivate dai trigger più imprevisti e apparentemente innocui.

In questo stato di vulnerabilità alcolica che ha rimosso tutti i filtri protettivi della personalità sociale, Skeeen inizia a confidarsi mentalmente cose che in condizioni normali di sobrietà e controllo inibitorio non avrebbe mai rivelato nemmeno al più intimo e letale dei suoi amici, figuriamoci a una persona che conosce appena o che addirittura non conosce affatto. È come se l'alcool avesse aperto valvole di sfogo che normalmente restano sigillate, permettendo la fuoriuscita di materiale psichico che di solito rimane confinato nei sotterranei della coscienza, troppo pericoloso o compromettente per essere portato alla luce del giorno.

## CAPITOLO XX
## LE CONFESSIONI INVOLONTARIE

Queste confessioni mentali hanno la qualità particolare di essere simultaneamente involontarie e deliberate, spontanee e calcolate, genuine e teatrali. Sgorgano dalla sua coscienza come lava da un vulcano in eruzione, ma al tempo stesso sono dosate e orientate con la precisione di un farmacista che prepara una medicina particolarmente delicata. È un flusso di coscienza che mantiene sempre un piccolo margine di controllo, una zona di lucidità che osserva e dirige il processo di autonarrazione anche nei momenti di apparente abbandono totale.

Ma è proprio questa condizione di nudità psicologica sistematicamente organizzata che lo spinge ad avvicinare immediatamente una presenza femminile che ha catturato la sua attenzione visiva e magnetica appena varcata la soglia del locale, una figura che si staglia nell'oscurità ambientale con una precisione di contorni che sembra sfidare le leggi dell'ottica normale. Il desiderio vivissimo e quasi animalesco che prova istantaneamente per questa creatura misteriosa lo costringe a mettere completamente da parte ogni prudenza residua, ogni strategia di seduzione precedentemente elaborata attraverso anni di esperienza sui campi di battaglia dell'eros urbano, per buttarsi a capofitto in una serie di confessioni autobiografiche che rivelano molto di più di quanto sarebbe saggio o strategicamente vantaggioso mostrare durante un primo incontro con una sconosciuta.

Questo desiderio ha caratteristiche che trascendono la semplice attrazione fisica o emotiva per assumere le dimensioni di una compulsione metafisica, un richiamo che sembra provenire da livelli di realtà più profondi di quelli normalmente accessibili alla coscienza ordinaria. È come se questa donna rappresentasse qualcosa di più di se stessa, come se fosse un simbolo vivente di possibilità esistenziali che lui ha sempre cercato senza mai riuscire a definire chiaramente, un'incarnazione di desideri che non sapeva nemmeno di avere fino al momento dell'incontro folgorante.

## CAPITOLO XXI
## IL MONOLOGO COMPULSIVO

In totale mancanza di altri argomenti di conversazione che possano risultare interessanti o seducenti per il suo interlocutore occasionale, in assenza di quel repertorio di battute di spirito e aneddoti divertenti che normalmente costituiscono l'armamentario standard di chi pratica l'arte della seduzione notturna, Skeeen si mette largamente e senza riserve a parlare di sé, srotolando il filo della propria storia personale come Arianna nel labirinto del Minotauro, ma senza la sicurezza di poter mai ritrovare l'uscita una volta iniziato il percorso attraverso i corridoi tortuosi della propria biografia. È un'operazione che ha qualcosa di chirurgico: si apre come un paziente sul tavolo operatorio, esponendo i suoi organi interni all'aria fredda del locale e allo sguardo di una sconosciuta che potrebbe essere un chirurgo o un boia.

Le sue parole si susseguono in un flusso ininterrotto che ha qualcosa di ipnotico e insieme di terrificante, un monologo che si autoalimenta e cresce su se stesso come un organismo vivente dotato di vita propria, un cancro verbale che metastatizza rapidamente invadendo tutti gli spazi disponibili della conversazione e non lasciando alcuno spazio per l'intervento dell'altro. È un discorso che diventa sempre più autoreferenziale e solipsistico, che gira su se stesso in spirali sempre più strette fino a rischiare di collassare sotto il peso della propria complessità autoriflessiva.

Ogni frase che pronuncia apre nuove parentesi che a loro volta si ramificano in sotto-parentesi che generano altre digressioni che portano a ulteriori approfondimenti che si perdono in labirinti di significato che nemmeno lui riesce più a seguire completamente. È un discorso che sfugge al controllo del suo creatore per assumere una dinamica autonoma, trasformandosi in una macchina linguistica che produce senso e non-senso in proporzioni variabili, che alterna momenti di lucidità penetrante a passaggi di completa incomprensibilità, che oscilla tra rivelazioni genuine e costruzioni retoriche elaborate per nascondere quello che dovrebbe rivelare.

## CAPITOLO XXII
## L'ASCOLTO NEUTRALE

L'altro, la presenza femminile che ha scatenato questa cascata confessionale, lo ascolta con un'attenzione distratta e silenziosa che non tradisce né interesse genuino né completo disinteresse, mantenendosi strategicamente in quella zona ambigua di neutralità che può essere interpretata in mille modi diversi a seconda dello stato emotivo e delle aspettative di chi parla. È un ascolto che ha la qualità dell'acqua: sembra accogliere tutto quello che vi viene versato dentro senza opporre resistenza, ma senza nemmeno dare segni di essere particolarmente nutrita o modificata da quello che riceve.

Questa neutralità apparente potrebbe essere professionale - la tecnica perfezionata di chi ha imparato a gestire confessioni di sconosciuti senza lasciarsi coinvolgere emotivamente - oppure potrebbe essere genuina indifferenza mascherata da cortesia, o ancora potrebbe nascondere un interesse molto più profondo di quanto appaia in superficie. L'ambiguità è perfetta e probabilmente deliberata, calcolata per mantenere il confessore in uno stato di incertezza che lo spinge a continuare a parlare nella speranza di ottenere finalmente una reazione definitiva che chiarisca la situazione.

Intanto Skeeen continua instancabilmente a raccogliere e organizzare tutti i suoi discorsi storpi, questi frammenti linguistici malformati che inaridiscono come una maledizione biblica il corpo, il pensiero e i rapporti con il prossimo, trasformando ogni tentativo di comunicazione autentica in una caricatura grottesca di se stessa, in una parodia involontaria dell'intimità che dovrebbe creare connessione ma che invece produce sempre maggiore isolamento. È come se le parole perdessero la loro capacità normale di creare ponti tra le coscienze per diventare invece muri sempre più alti e impenetrabili.

## CAPITOLO XXIII
## LA COMUNICAZIONE PARADOSSALE

Questi discorsi hanno la qualità particolare di rivelare e nascondere simultaneamente, di dire tutto e niente, di essere trasparenti e opachi nello stesso momento. Sono come finestre sporche che lasciano passare la luce ma deformano tutto quello che mostrano, che permettono di intuire quello che c'è dall'altra parte senza mai permettere di vederlo chiaramente. È una forma di comunicazione che frustra sistematicamente le aspettative che genera, che promette chiarezza ma consegna sempre maggiore confusione, che sembra sul punto di rivelare segreti importanti ma poi si ritira all'ultimo momento lasciando solo l'eco di possibilità non realizzate.

L'esplosione di risa con cui il suo interlocutore occasionale saluta finalmente la prima confessione esplicita di Skeeen - e questa non è che la prima delle tante che nel corso di questa serata infinita e ricorsiva daranno un senso minimo alla sua esistenza altrimenti completamente priva di significato e direzione - rivela con brutalità chirurgica quanto lo spettacolo dell'impudicizia umana possa talvolta ispirare sentimenti radicalmente diversi da quelli che chi si mette coraggiosamente a nudo si aspetta legittimamente di suscitare nei testimoni del proprio atto di coraggio esistenziale.

Questa risata arriva come uno schiaffo inaspettato, come un risveglio brutale da un sogno di reciprocità e comprensione che forse non è mai stato altro che un'illusione autoprotettiva. È una risata che ha la qualità dell'acido: corrode istantaneamente tutte le fantasie romantiche sulla natura umana, tutti gli investimenti emotivi nella possibilità di essere compresi e accettati nella propria autenticità più cruda e vulnerabile. È il suono che produce l'illusione quando si frantuma contro la roccia della realtà sociale.

## CAPITOLO XXIV
## IL CORO GRECO

Sono sentimenti meno forti e meno fantasticati rispetto all'empatia o alla compassione che Skeeen sperava segretamente di suscitare, ma altrettanto crudelmente ingiuriosi per colui che ne diventa oggetto involontario e impreparato, altrettanto capaci di infliggere ferite profonde e durature nell'amor proprio di chi ha avuto la sventurata e coraggiosa idea di mostrarsi senza filtri protettivi, senza le maschere sociali che normalmente rendono sopportabile l'interazione tra estranei. È la dimostrazione pratica che la verità nuda non è necessariamente bella, che l'autenticità non garantisce automaticamente l'accettazione, che la vulnerabilità può essere interpretata come debolezza piuttosto che come forza.

È precisamente in questo momento di massima umiliazione esistenziale, quando tutte le sue difese sono cadute e la sua nudità psicologica è completa e irreversibile, che una voce proveniente dal tavolo immediatamente accanto si inserisce nella conversazione con un commento che suona come il coro greco in una tragedia antica, una di quelle voci fuori campo che commentano l'azione fornendo il contesto interpretativo necessario per comprendere il significato più profondo di quello che sta accadendo sulla scena principale.

"A livello morale con le coppie diciamo che non esiste nessun problema particolare di ordine etico o legale, e anzi è proprio una cosa assolutamente divertente e ricreativa questa possibilità straordinaria che ci viene gentilmente offerta di osservare da vicino i più svariati atti amorosi che si svolgono tra due persone consenzienti e di starsene lì seduti comodamente in poltrona come fossimo al cinema a guardare un film particolarmente interessante". La voce continua con un tono che mescola sapientemente cinismo raffinato e fascino morboso: "Così si finisce inevitabilmente per assistere, come fosse una sorta di privilegio esclusivo concesso solo a pochi eletti dalla sorte o dalle circostanze, simultaneamente impietosi nella nostra obiettività e ammirati nella nostra partecipazione emotiva, a questo straccio di amicizia che si consuma davanti ai nostri occhi attenti come uno spettacolo teatrale di alta qualità offerto gratuitamente per il nostro intrattenimento serale".

## CAPITOLO XXV
## IL TEATRO DELL'ASSURDO

Queste parole cadono nel silenzio temporaneo del locale come gocce di acido muriatico su una ferita aperta, rivelando con spietatezza analitica la natura fondamentalmente voyeuristica dell'ambiente e la predisposizione naturale dei suoi frequentatori abituali a trasformare sistematicamente ogni manifestazione spontanea di intimità umana in oggetto di consumo estetico, in merce da osservare, commentare, giudicare secondo criteri che mescolano considerazioni artistiche e morali in proporzioni variabili. È un commento che fa luce sulla meccanica sociale del luogo, sui rapporti di potere che si stabiliscono automaticamente tra chi mostra e chi guarda, tra chi si espone e chi resta protetto dall'anonimato dell'osservazione distaccata.

Skeeen si rende conto improvvisamente, con la chiarezza folgorante di un'epifania dolorosa, di essere diventato senza volerlo e senza esserne completamente consapevole parte integrante di questo spettacolo permanente, un attore inconsapevole in una rappresentazione teatrale il cui copione non ha mai letto e il cui finale non può assolutamente prevedere, ma di cui è ormai prigioniero al di là di ogni possibilità di fuga o sottrazione. È una presa di coscienza che lo paralizza e lo libera simultaneamente: paralizza la sua capacità di controllo sulla situazione ma libera la sua comprensione di quello che sta realmente accadendo intorno a lui e dentro di lui.

Il locale si rivela così non come un semplice contenitore neutrale di esperienze individuali, ma come una macchina teatrale perfettamente oliata che trasforma automaticamente ogni gesto spontaneo in performance, ogni emozione autentica in spettacolo, ogni momento di vulnerabilità in occasione di intrattenimento per un pubblico invisibile ma costantemente presente. È un meccanismo che funziona indipendentemente dalle intenzioni dei suoi utilizzatori, che produce i suoi effetti a prescindere dalla consapevolezza di chi vi viene coinvolto, che trasforma tutti in attori e spettatori simultaneamente senza mai rivelare completamente le regole del gioco che si sta giocando.

In questo teatro dell'assurdo quotidiano, dove i confini tra realtà e rappresentazione si dissolvono fino a diventare indistinguibili, dove ogni gesto ha sempre almeno due significati sovrapposti - quello che appare e quello che nasconde - Skeeen continua la sua performance involontaria, alimentando con le sue confessioni sempre più intime e compromettenti un meccanismo che si nutre di autenticità per produrre spettacolo, che metabolizza la verità individuale per generare intrattenimento collettivo, che trasforma il dolore privato in piacere pubblico attraverso alchimie sociali che nessuno ha mai scritto ma che tutti conoscono istintivamente.