Prima non c’era un’idea. C’era un vuoto, e dentro il vuoto una vibrazione, una specie di rumore di fondo, come quando una stanza sembra silenziosa ma in realtà è piena di microsuoni: il frigorifero, l’acqua nei tubi, un motore lontano. La scrittura è cominciata così, come un disturbo impercettibile. Non come un progetto, non come una direzione. Piuttosto come un inciampo. Una parola chiamava l’altra senza saperlo, e ciò che ne usciva non era un discorso ma una frattura. Non una costruzione, ma una serie di scarti.
Solo dopo, molto dopo, mi sono accorto che ciò che chiamavo “mio stile” non era uno stile, ma un sintomo. E che quei vuoti, quelle ripetizioni, quelle fughe improvvise dal discorso, non erano soltanto scelte formali, ma reazioni. Reazioni a una pressione invisibile, a una fatica più grande di me, a una specie di cedimento dell’ossatura culturale dentro cui avevo imparato a pensare. Scrivevo come si respira quando l’aria è compromessa: a strappi, a colpi brevi, con paura.
Non so quando ho cominciato a capire che le angosce che mi attraversavano durante la stesura, le esitazioni, i ripensamenti, l’ossessione per le varianti, non appartenevano solo alla mia biografia, ma erano il riflesso di qualcosa di più vasto. Non erano solo mie. Venivano da lontano. Venivano da una cultura che aveva perso il proprio centro di gravità e continuava a muoversi come un corpo che non sa ancora di essere morto. Una cultura che accumula segni ma non riesce più ad abitarli. Che produce interpretazioni su interpretazioni, ma non riesce più a fidarsi di nessuna.
La mia scrittura è diventata allora una superficie di attrito. Un luogo in cui le contraddizioni non si risolvono, ma si urtano. È una scrittura fatta di aggiunte successive che non pacificano mai ciò che le ha precedute. Ogni frase sembra voler correggere la precedente e insieme tradirla. Ogni passaggio tenta una ricucitura che subito si riapre. Il testo avanza come una ferita che si cicatrizza male. Ci sono interruzioni che non servono a respirare, ma a spezzare. Ci sono ripetizioni che non chiariscono, ma assediano. Ci sono lacune che non sono dimenticanze, ma veri e propri buchi di senso.
Solo che questo non è più un fatto privato. Non riguarda più soltanto me come individuo che scrive. È diventato un indice. Un rivelatore. La prova che una certa forma di cultura non riesce più a nascondersi dietro i suoi veli, le sue buone maniere interpretative, la sua retorica della continuità. Non c’è più nessuna pietà, nessuna liturgia simbolica capace di ricomporre le crepe. È tutto esposto. Il corpo è scoperto. La ferita è visibile.
E qui avviene la rottura più grave, quella che non ha più nulla di estetico: ciò che emerge non è in continuità con la tradizione che lo ha prodotto. La interrompe. La spezza nel punto stesso in cui essa chiedeva ancora fiducia. La tradizione, per esistere, aveva bisogno che qualcuno le credesse. Che qualcuno potesse ancora stare dentro la sua radice senza provare vergogna o sospetto. Che qualcuno potesse intrattenere con essa un rapporto che non fosse solo critico, ma quasi religioso. Ma quel tempo è finito. E la mia scrittura, senza volerlo, lo denuncia.
Scrivo senza pazienza. Scrivo come se il tempo non fosse più disponibile. Come se ogni frase dovesse essere gettata prima che crolli il pavimento. Questa impazienza non è solo emotiva: è una vera e propria hybris interpretativa. Una tracotanza che pretende di intuire il tutto partendo da frammenti minimi, di costruire mappe con pochi resti, di spiegare un’origine senza poterne garantire il terreno. Mi basta un indizio, uno scarto, una dissonanza, e subito si mette in moto uno schema generale, una macchina interpretativa che vorrebbe spiegare tutto. La mia scrittura funziona così: prende un dettaglio e lo carica di un peso che nessun dettaglio potrebbe sostenere.
Eppure, più questa pretesa si allarga, più mostra il suo fallimento. Perché la smisuratezza dell’interpretazione mette a nudo l’impossibilità del fondamento. Non c’è più un suolo sicuro da cui partire. Non c’è più un’origine garantita. Ogni tentativo di risalire a un principio si perde in una catena di rinvii. Ogni costruzione poggia su un’altra costruzione che non regge. Ogni spiegazione chiede un’altra spiegazione. E così all’infinito, fino allo sfinimento.
È qui che la mia scrittura diventa una radiografia involontaria di una condizione più vasta. Non è soltanto la mia impossibilità a trovare un centro. È quella di una cultura intera che ha consumato i propri fondamenti e continua a parlare come se non fosse accaduto nulla. Che continua a produrre sistemi, ma non crede più in nessun sistema. Che continua a invocare la verità sapendo che la parola “verità” è diventata un residuo, un fantasma linguistico.
Il risultato è una sorta di oscillazione permanente. Tra il bisogno di credere e l’impossibilità di farlo. Tra il desiderio di radice e la consapevolezza che quella radice è marcia. Tra la nostalgia di una forma stabile e l’evidenza che ogni forma si sfalda appena la si tocca. La mia scrittura vive in questo battito. Non è mai del tutto nichilista, ma non riesce più a essere fiduciosa. Non è mai del tutto distruttiva, ma non riesce più a edificare davvero.
C’è un punto, però, in cui tutto questo smette di essere soltanto una diagnosi e diventa una specie di confessione. Perché io non subisco semplicemente questo stato di cose: lo desidero, in parte. C’è qualcosa di seducente nella rovina dei fondamenti. C’è un’ebbrezza nel sapere che nulla regge più. La vertigine di poter dire tutto senza essere obbligato a garantirlo. La libertà di non dover più rispondere a nessun centro. Ma questa libertà è ambigua. È una libertà che libera e insieme condanna. Perché se tutto è possibile, niente è necessario. E se niente è necessario, ogni gesto diventa, in fondo, superfluo.
Scrivere, allora, diventa un atto doppiamente contraddittorio. Scrivo per cercare un senso e insieme per smascherare l’illusione del senso. Scrivo per costruire e insieme per testimoniare l’impossibilità di costruire. Scrivo per legarmi a qualcosa e insieme per dimostrare che ogni legame è ormai precario. La pagina non è più un luogo di fondazione, ma un campo di forze instabili. Un territorio sismico.
Ci sono momenti in cui questa condizione si fa quasi insopportabile. La scrittura si inceppa. Si arrotola su sé stessa. Ripete le stesse ossessioni. Torna sugli stessi nodi. Non per chiarirli, ma per verificare che sono ancora lì. Come se avessi paura che, distogliendo lo sguardo, possano sparire. Ma non spariscono. Resistono. E io continuo a urtarli, a toccarli, a riaprirli.
È allora che mi rendo conto che ciò che davvero mi paralizza non è l’assenza di risposte, ma l’eccesso di domande. Non è il silenzio, ma il rumore. Non è il vuoto, ma il sovraccarico. Vivo dentro una cultura che produce interpretazioni come una fabbrica produce scarti. E io stesso sono parte di questa produzione. Il mio stesso gesto critico contribuisce all’ingorgo che denuncia. Non c’è fuori. Non c’è posizione privilegiata da cui osservare. Ogni tentativo di sottrarsi è già catturato.
Forse per questo la mia scrittura non cerca più una soluzione. Non cerca una sintesi. Non promette una via d’uscita. Si limita, se così si può dire, a tenere aperta la ferita. A non richiuderla troppo in fretta. A non fingere che la continuità non sia già spezzata. È un gesto minimale, forse disperato. Ma è l’unico che mi sembra ancora onesto: non ricomporre ciò che non può essere ricomposto.
E tuttavia, da qualche parte, in profondità, continua a resistere una specie di impulso originario. Qualcosa che non è del tutto distrutto. Un resto minimo di fiducia, di desiderio di senso, di attesa. Non so da dove venga. So soltanto che senza quel residuo non scriverei più. È da lì che nasce anche la contraddizione più dolorosa: so che non posso più credere davvero, eppure continuo a scrivere come se, forse, fosse ancora possibile.
La mia scrittura nasce da questa oscillazione incessante. Non è la celebrazione della fine, né la promessa di una rinascita. È il gesto di chi cammina su una soglia che non si lascia oltrepassare. Il gesto di chi sa che i fondamenti sono crollati, ma continua a misurare i detriti come se, da qualche parte, potesse ancora nascondersi una figura, un frammento intatto, una sopravvivenza.
E forse è proprio qui, in questo gesto che non risolve nulla ma non si arrende, che si origina ciò che chiamo ancora, ostinatamente, scrittura.