sabato 25 aprile 2026

Resistenza e memoria: Il contributo eroico di Rom e Sinti alla lotta contro il fascismo

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana è una pagina di storia troppo spesso dimenticata, ma che merita di essere raccontata e celebrata. Queste comunità, tradizionalmente marginalizzate e perseguitate, hanno contribuito in modo significativo alla lotta contro il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, dimostrando un eroismo e una generosità straordinari. Tuttavia, questo capitolo della storia è stato spesso messo in ombra, sia per la politica dello Stato italiano dell'epoca che per il pregiudizio sistemico che ancora oggi affligge le popolazioni rom e sinti.

La Resistenza italiana fu un movimento variegato che coinvolse persone provenienti da ogni parte della società, da militari disertori a intellettuali, da contadini a operai. Tra questi, vi furono anche i rom e i sinti, che non solo subirono le atrocità del fascismo, ma furono anche attivamente coinvolti nel sabotaggio, nelle azioni di guerriglia e nel soccorso degli altri partigiani e degli ebrei. Questi gruppi, purtroppo, sono stati raramente celebrati nelle narrazioni ufficiali della Resistenza, spesso a causa delle politiche discriminatorie dello Stato italiano, che continuò a trattare i rom e i sinti come "indesiderabili" anche durante e dopo la fine della guerra.

Un esempio emblematico di come i rom e i sinti abbiano contribuito alla lotta di Liberazione è la formazione dei "Leoni di Breda Solini", una brigata partigiana composta da sinti italiani, che operò nelle regioni centrali e settentrionali del paese, in particolare tra le province di Mantova, Modena, Reggio Emilia e Cremona. Questa brigata si formò grazie alla fuga di molti sinti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia (MO), dove erano detenuti dai fascisti, subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Nonostante l’assenza di una preparazione militare formale, i membri della brigata si distinsero per il coraggio e l'efficacia nelle azioni di sabotaggio, come la distruzione di ponti, la raccolta di armi e l’assalto ai convogli tedeschi. La loro lotta non si limitò alla semplice resistenza armata, ma fu anche un atto di sfida alle ingiustizie razziali e sociali che avevano affrontato tutta la loro vita.

I "Leoni di Breda Solini" utilizzavano un camion che, con una serie di modifiche ingegnose, diventò un veicolo per trasportare armi e munizioni, permettendo loro di compiere incursioni nei territori occupati dai nazisti. La loro abilità nel muoversi e nel restare anonimi nel territorio, ma anche nella costruzione di alleanze con i gruppi partigiani locali, li rese una forza rispettata. La figura di Giacomo "Gnugo" De Bar, uno dei leader dei Leoni, divenne simbolo della determinazione di questi uomini e della loro lotta contro l'oppressione.

Purtroppo, molti altri partigiani rom e sinti sono caduti nell’oblio. Tra loro, Giuseppe "Tarzan" Catter, ucciso dai fascisti nell’area dell'Imperiese, è uno dei nomi più significativi che ancora oggi merita di essere ricordato. Altri, come Walter "Vampa" Catter e Lino "Ercole" Festini, furono fucilati il 11 novembre 1944 a Vicenza per la loro partecipazione alle azioni di resistenza. Questi uomini, insieme a molti altri, furono decorati al valore per il loro coraggio e il loro impegno a favore della libertà e della giustizia, ma le loro storie sono state spesso ignorate dai racconti ufficiali della guerra di Liberazione.

La resistenza dei rom e dei sinti non si limitò al solo combattimento armato. Molti membri di queste comunità si trovarono coinvolti in azioni di supporto, come l’aiuto a prigionieri ebrei, la protezione delle famiglie più vulnerabili, e la creazione di reti di rifugiati per nascondere gli oppositori del regime fascista. La loro determinazione nel contribuire alla liberazione d’Italia fu un atto di eroismo che merita finalmente di essere riconosciuto nella memoria storica del nostro paese.

Nonostante il loro contributo alla Resistenza, le comunità rom e sinti furono anche vittime di una sistematica persecuzione durante la Seconda Guerra Mondiale. Molti furono deportati nei campi di concentramento, dove subirono torture, esperimenti medici e la morte. Il genocidio a loro destinato, conosciuto come "Porrajmos" (in lingua romani, "grande divoramento") o "Samudaripen" ("tutti uccisi"), è una parte della storia europea che ha ricevuto poca attenzione, ma che rappresenta uno degli aspetti più crudeli della persecuzione razziale messa in atto dal regime nazista.

Il razzismo fascista e nazista ha considerato i rom e i sinti non solo come minoranze razziali da eliminare, ma come una minaccia da estirpare per “purificare” la razza. La violenza e la brutalità del regime si riflettevano anche nei trattamenti che queste persone ricevevano nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa, in un contesto di sistematica esclusione sociale e discriminazione.

Nonostante il loro fondamentale contributo alla lotta contro il nazifascismo, la memoria dei rom e dei sinti nella Resistenza è stata a lungo marginalizzata. L’indifferenza e il pregiudizio verso queste comunità hanno impedito che la loro partecipazione venisse adeguatamente riconosciuta. Solo negli ultimi decenni si sono registrati dei tentativi di recuperare queste storie, sia attraverso la pubblicazione di libri e articoli, che mediante la creazione di mostre e documentari. A queste iniziative si sono aggiunti importanti momenti di riflessione come la Giornata della Memoria, che ha cominciato a ricordare il genocidio dei rom e sinti, accanto a quello degli ebrei.

Negli ultimi anni, anche grazie all'impegno di attivisti, storici e membri delle stesse comunità rom e sinti, sono emerse nuove testimonianze e ricerche che stanno lentamente restituendo loro il giusto riconoscimento. Progetti come il Museo Nazionale della Resistenza e iniziative locali stanno facendo luce su queste figure dimenticate, cercando di costruire una memoria collettiva più inclusiva e giusta. La storia dei rom e sinti nella Resistenza non è più relegata nell’ombra, ma sta prendendo piede come un capitolo fondamentale nella narrazione della liberazione italiana.

È ora che il contributo di queste persone venga riconosciuto pienamente. Non solo come vittime del razzismo e della persecuzione, ma anche come eroi che hanno lottato con coraggio e determinazione per la libertà. La storia delle comunità rom e sinti nella Resistenza è una storia di resistenza non solo contro i fascisti, ma contro le ingiustizie di ogni tipo, e di un impegno che ha contribuito alla costruzione di una società più giusta e libera.

E ci sono ancora molti aspetti che vale la pena esplorare riguardo al contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza, e alla loro memoria storica, che spesso rimane in ombra. Ecco alcuni punti che potrebbero essere aggiunti per ampliare ulteriormente la narrazione:

Alcune delle storie più toccanti e significative di partecipazione delle comunità rom e sinti alla Resistenza provengono dalle testimonianze dirette di chi visse quei momenti. Purtroppo, molte di queste voci si sono perse con il passare del tempo, ma alcune sono state raccolte e continuano a essere diffuse grazie agli sforzi di storici e attivisti. Alcune di queste testimonianze raccontano di azioni di sabotaggio, ma anche di gesti quotidiani di solidarietà, come l’offrire rifugio a partigiani in fuga o la protezione di chi, per motivi politici o religiosi, era a rischio di arresto. Queste testimonianze sono fondamentali non solo per onorare il coraggio di queste persone, ma anche per contrastare l’oblio a cui sono state condannate.

Un altro aspetto che potrebbe essere approfondito è l’impatto delle politiche post-belliche sulla memoria delle comunità rom e sinti. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo italiano, come molti altri in Europa, non ha fatto molto per riconoscere i crimini perpetrati contro le popolazioni rom e sinti. La loro lotta per il riconoscimento dei diritti civili e il recupero delle memorie storiche è stata ostacolata da un pregiudizio istituzionale che ha perpetuato l’idea di queste comunità come “straniere” e non integrate nella società. Questo ha avuto conseguenze dirette sulla loro inclusione nei racconti ufficiali della Resistenza e, più in generale, sulla loro visibilità all’interno della società italiana.

È importante sottolineare che il contributo dei rom e dei sinti alla Resistenza non si è limitato alle brigate partigiane o alle azioni di combattimento diretto. Molti di loro, infatti, hanno contribuito alla “Resistenza diffusa”, quella fatta di atti quotidiani di opposizione al regime fascista. Si trattava di atti di disobbedienza civile, di rifiuto di piegarsi alla violenza del regime, di difesa della propria identità culturale in un contesto che cercava di omologare e cancellare qualsiasi forma di diversità. Il rifiuto delle politiche di razza e l'affermazione di un’identità libera e autonoma, spesso associata all'intransigenza e alla ribellione, è una forma di resistenza che merita di essere esplorata in modo più profondo.

Un aspetto che potrebbe essere ulteriormente approfondito riguarda il ruolo delle donne rom e sinti durante la Resistenza. Come in molte altre situazioni, il contributo femminile è stato spesso trascurato, ma numerose donne delle comunità rom e sinti hanno avuto un ruolo fondamentale nelle reti di resistenza, sia in azioni dirette di sabotaggio che nel supporto logistico e nell’assistenza ai partigiani. Alcune di queste donne si sono distinte anche per il loro coraggio nel proteggere le famiglie dai rastrellamenti fascisti e nazisti, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri cari.

Un altro aspetto importante da aggiungere riguarda il riconoscimento ufficiale di questa parte di storia. La Legge 211 del 2000, che ha istituito la Giornata della Memoria in Italia, ha rappresentato un primo passo importante nel riconoscere anche le vittime rom e sinti del nazismo e del fascismo. Tuttavia, c'è ancora molto da fare per includere adeguatamente il loro contributo alla Resistenza nei curriculum scolastici, nei musei e nelle commemorazioni ufficiali. È fondamentale che le nuove generazioni siano consapevoli del ruolo che queste comunità hanno avuto nella lotta per la libertà e che imparino a riconoscere il valore della loro partecipazione.

Uno degli obiettivi più importanti nel raccontare questa storia è creare una memoria condivisa, che vada oltre le differenze culturali e sociali, per costruire una narrazione inclusiva che riconosca le sofferenze e i sacrifici di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà e contro le ingiustizie. In un mondo che spesso si trova diviso da conflitti razziali e culturali, il racconto delle storie di resistenza dei rom e dei sinti è una lezione di solidarietà, di coraggio e di speranza, che può contribuire a un futuro più giusto e rispettoso della diversità.

Il racconto della Resistenza rom e sinti non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di rivendicazione di una memoria collettiva più equa. Il loro contributo alla lotta contro il fascismo e il nazismo è parte integrante della storia della nostra libertà. Riconoscere e celebrare questo contributo non solo restituisce dignità a queste comunità, ma arricchisce anche la comprensione della nostra Resistenza, rendendola più completa, più giusta e più universale.

Un altro aspetto che potrebbe arricchire ulteriormente il racconto del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza riguarda il legame tra la memoria storica e le politiche contemporanee di inclusione e di lotta contro la discriminazione. Ecco alcuni punti da considerare:

Oggi, la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza ha acquisito una nuova centralità, in parte grazie agli sforzi di attivisti, storici e membri delle stesse comunità. Tuttavia, la strada per un riconoscimento ufficiale è ancora lunga. Le politiche attuali di inclusione, che mirano a garantire pari diritti e opportunità alle minoranze, devono essere accompagnate da un impegno concreto nella valorizzazione della memoria storica. La lotta contro il razzismo e le discriminazioni, che ancora oggi affliggono i rom e i sinti in molte società europee, non può prescindere dal riconoscimento delle loro radici storiche e dal rendere giustizia ai loro sacrifici passati.

In questo contesto, il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza può essere visto come un simbolo di resistenza non solo al nazifascismo, ma anche all’intolleranza e alla marginalizzazione. Questa riscoperta storica, infatti, diventa un punto di partenza per una riflessione critica sulle politiche di inclusione sociale in atto oggi, e per un impegno costante nella costruzione di una società che accolga la diversità come valore, piuttosto che come minaccia.

In molte occasioni, le politiche razziste italiane ed europee del passato e del presente continuano a emarginare le comunità rom e sinti. La loro visibilità, in particolare nella storia della Resistenza, è stata spesso omessa o distorta. Questo è stato il risultato di politiche sistemiche che trattavano le comunità rom e sinti come "non italiane" o "estranee", anche se molte di esse avevano radici secolari in Italia e in altre parti d’Europa. La discriminazione razziale e sociale continua a essere una realtà per molte di queste persone, che si trovano ad affrontare una doppia discriminazione: quella legata alla loro identità etnica e quella legata alla povertà.

Riconoscere e celebrare il loro contributo storico alla lotta per la libertà e contro il fascismo è un passo essenziale per combattere il razzismo istituzionale che ancora persiste. Solo attraverso un impegno collettivo per riparare le ingiustizie storiche e per restituire dignità e visibilità a queste comunità si potrà costruire una società veramente inclusiva, in cui nessuno venga emarginato o dimenticato.

Uno degli strumenti più potenti per combattere l’oblio e la discriminazione è l'educazione. Integrare il contributo delle comunità rom e sinti nella Resistenza nei programmi scolastici e nelle attività educative è essenziale per costruire una memoria condivisa che non solo recuperi le storie di chi ha combattuto per la libertà, ma che sia anche un monito per il futuro. La scuola, infatti, è il luogo in cui si formano le coscienze e dove si possono gettare le basi per una cultura del rispetto e della solidarietà. Insegnare ai giovani la storia del Porrajmos, la resistenza dei rom e dei sinti, e il loro impegno nella lotta contro il nazifascismo è un modo per sensibilizzare le future generazioni a non ripetere gli errori del passato.

A tale scopo, diversi musei, archivi e centri di ricerca in Italia e in Europa hanno avviato progetti didattici che si concentrano sulla storia dei rom e dei sinti, cercando di rendere giustizia al loro ruolo cruciale nella Resistenza. In molti casi, queste iniziative sono affiancate da testimonianze orali e da incontri diretti con le persone che appartengono ancora a queste comunità, rendendo la storia più tangibile e personale.

Anche dopo la fine della guerra, la verità sui crimini contro i rom e i sinti, e più in generale sui crimini di guerra compiuti dai nazifascisti, è stata a lungo negata o minimizzata. L’inchiesta ufficiale sul genocidio dei rom è arrivata in ritardo, e non ha avuto lo stesso impatto della memoria degli ebrei vittime del nazismo. Tuttavia, negli ultimi anni, c'è stato un crescente interesse da parte delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali nel perseguire la verità e la giustizia per le vittime rom e sinti. L'adozione di risoluzioni e dichiarazioni da parte dell'Unione Europea, dei governi nazionali e di organizzazioni per i diritti umani è un passo importante, ma ancora non basta. È fondamentale che la giustizia post-bellica riguardi anche i crimini commessi contro le comunità rom e sinti, attraverso risarcimenti, scuse ufficiali e il riconoscimento della loro sofferenza storica.

La commemorazione del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza deve passare attraverso momenti significativi di riflessione collettiva. Le celebrazioni del 25 aprile, la Giornata della Memoria, e altre occasioni di riflessione sulla storia del fascismo e del nazismo devono essere anche un momento di riconoscimento per chi ha lottato non solo contro l’occupazione tedesca, ma contro ogni forma di oppressione. È importante che le generazioni future siano educate a riconoscere la storia di tutte le persone che hanno sacrificato la propria vita per la libertà, indipendentemente dalla loro origine etnica o sociale.

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale. È fondamentale che queste storie vengano raccontate, celebrate e condivise, per rendere giustizia a chi ha lottato per la libertà, ma anche per ispirare le nuove generazioni a continuare a combattere per una società più giusta e inclusiva.

E ci sono ancora altre prospettive che potrebbero arricchire ulteriormente il racconto e l'analisi del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Ecco alcuni ulteriori aspetti che potrebbero essere esplorati:

La Resistenza rom e sinti non può essere separata dal più ampio contesto della memoria del Porrajmos, ovvero il genocidio che ha colpito queste comunità durante l'occupazione nazista. Il termine “Porrajmos” significa “devastazione” in romani e descrive l'annientamento sistematico a cui i rom e i sinti furono sottoposti dai nazisti. Tuttavia, molte delle storie legate alla Resistenza non sono state incluse nei racconti ufficiali del genocidio, in parte perché la lotta dei rom e dei sinti è stata marginalizzata.

Affermare con forza che le comunità rom e sinti non furono solo vittime del nazismo ma anche attori principali della Resistenza implica una rilettura critica della memoria del Porrajmos, un recupero della visibilità di chi, pur affrontando la persecuzione, decise di non arrendersi e di combattere. La connessione tra la memoria del genocidio e quella della lotta partigiana può fornire una visione complessa ma necessaria di una resistenza che si sviluppa su più fronti: quello fisico e quello culturale, in cui le tradizioni e l'identità rom e sinti hanno continuato a resistere non solo attraverso la lotta armata, ma anche attraverso la preservazione della propria storia e lingua.

Non solo in Italia, ma in molte altre nazioni europee le comunità rom e sinti giocarono un ruolo significativo nella Resistenza. In Francia, ad esempio, alcuni gruppi rom e sinti si unironoin alle forze di liberazione, impegnandosi in attività di sabotaggio, assistenza ai rifugiati e ai combattenti della Resistenza. In paesi come la Germania, l'Ungheria e la Polonia, i rom furono anch'essi attivi nel resistere all'occupazione nazista e nel combattere contro il regime. Un'analisi comparata tra i diversi paesi europei potrebbe rendere ancora più evidente il ruolo fondamentale che queste comunità ebbero nella lotta per la libertà. La loro partecipazione si inserisce in un contesto europeo più ampio, dove le popolazioni emarginate furono spesso le prime a mobilitarsi contro la violenza fascista.

Oltre alla Resistenza armata, va sottolineata anche la dimensione della resistenza civile che le comunità rom e sinti continuarono a portare avanti nel dopoguerra, spesso in contesti di povertà estrema, isolamento e discriminazione. Mentre il paese si riorganizzava dopo la guerra, le persone rom e sinti dovettero affrontare non solo la persecuzione fascista, ma anche un'ulteriore marginalizzazione da parte della società italiana e delle istituzioni. In questo senso, la resistenza non si limitò al periodo bellico, ma si estese anche agli anni successivi, in cui le comunità si trovarono a lottare per la sopravvivenza, per i propri diritti e per il riconoscimento della propria dignità. La lotta per la giustizia sociale, per il lavoro, per la casa e per il riconoscimento dei diritti civili delle comunità rom e sinti può essere vista come una continuità della Resistenza, in cui le persone non hanno mai smesso di combattere per la propria libertà e per l'uguaglianza.

Un altro aspetto importante da esplorare riguarda le sfide odierne nella lotta contro la distorsione della memoria storica. Il negazionismo, che cerca di minimizzare o negare la portata della persecuzione e del genocidio dei rom e sinti, continua a essere una minaccia. La ricerca di giustizia storica non può fermarsi al recupero delle storie, ma deve continuare con un costante impegno contro chi cerca di riscrivere la storia in modo da cancellare il contributo delle comunità rom e sinti. Il negazionismo si manifesta in vari modi, dalle dichiarazioni pubbliche di politici e leader di movimenti di estrema destra, fino alla rappresentazione stereotipata delle comunità rom e sinti nei media. La resistenza al negazionismo è oggi una delle battaglie principali per le nuove generazioni, che devono confrontarsi con la sfida di preservare la verità storica e combattere contro ogni tentativo di revisionismo.

Le giovani generazioni rom e sinti giocano un ruolo cruciale nel recupero della memoria storica e nella sua diffusione. Le nuove generazioni, spesso più consapevoli e coinvolte nei movimenti per i diritti civili e per la giustizia sociale, hanno il compito di trasmettere e mantenere viva la memoria del passato, ma anche di affrontare le sfide moderne in modo attivo. Molti giovani rom e sinti si impegnano oggi in progetti educativi, artistici e culturali per preservare la loro identità e per fare in modo che la Resistenza e la storia della loro comunità siano conosciute e riconosciute. Questi giovani non solo si ispirano alla memoria storica, ma anche alla speranza di un futuro in cui la discriminazione e la marginalizzazione siano definitivamente superate.

Il ruolo della cultura e dell’arte è fondamentale per mantenere viva la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Molti artisti rom e sinti, così come non-rom, si sono impegnati per raccontare queste storie attraverso film, documentari, musica, letteratura e altre forme di espressione culturale. L’arte diventa uno strumento potente per sensibilizzare le persone e per combattere l’oblio. Attraverso il linguaggio universale dell’arte, si può raccontare una storia di coraggio, resistenza e speranza che non solo riguarda il passato, ma che continua a ispirare e a impegnare tutti coloro che credono nella libertà e nella giustizia.

L'approfondimento della memoria delle comunità rom e sinti nella Resistenza, sia attraverso il recupero delle storie individuali che l’analisi delle dinamiche sociali e politiche del periodo, arricchisce la comprensione di una parte fondamentale della storia europea. Oggi, più che mai, è necessario dare voce a queste storie, rendere visibile la loro resistenza e riaffermare l’importanza della memoria come strumento di lotta contro l’intolleranza, il razzismo e l’ingiustizia. Solamente attraverso una comprensione profonda di questa memoria collettiva si potrà costruire una società più giusta e inclusiva.

Oggi, quando parliamo della Resistenza italiana, è essenziale includere anche il coraggio di queste comunità, affinché il loro contributo non venga mai più dimenticato e affinché le future generazioni possano conoscere la vera portata di questa lotta di Liberazione.

domenica 29 giugno 2025

Elias Canetti: Il libro che non muore

Nel Novecento, secolo di genocidi, guerre mondiali e stermini ideologici - come questo nostro, del resto - Elias Canetti si caricò di un compito che nessun teologo avrebbe osato assumersi fino in fondo: scrivere un libro contro la morte. Non una riflessione, non un trattato filosofico o un'esegesi escatologica, ma un vero e proprio libro contro, un'opera che si opponesse frontalmente, con le sole armi del pensiero, alla morte in quanto tale. Canetti non si accontentava né delle consolazioni della religione né del rassegnato silenzio della scienza. Rifiutava la sottomissione dell’umano all’inevitabile. Con rabbia, con ostinazione, con una forma di disperazione attiva, si propose di combattere l’ultima delle tirannie: non morire. O almeno: non accettarlo.

E non è un caso che questo libro sia rimasto perennemente in potenza, mai del tutto scritto, sempre in sospeso tra l’urgenza e il fallimento. Lo annuncia nel 1937, lo evoca per quarantacinque anni, lo promette a se stesso e a noi, ma non lo compone mai davvero. Ne produce, invece, una galassia frammentaria di pensieri, schegge, appunti, anatemi, sentenze, parabole, esplosioni. Un magma non ordinabile, che però è oggi leggibile grazie al lavoro postumo, filologico e devoto, pubblicato da Adelphi. Quel lavoro non è un semplice atto editoriale: è un'operazione archeologica dell'anima, un tentativo di dare forma all’informe, di raccogliere i brandelli dispersi della battaglia più lunga e più privata dello scrittore.

Il punto di partenza non è astratto: è la morte della madre, avvenuta nel 1937. La data è precisa. Da quel giorno, la scrittura di Canetti cambia forma e missione. Ogni pagina diventa un’esortazione al ricordo, una liturgia laica, una protesta. Il lutto non si trasforma in poesia, ma in militanza esistenziale. Si tratta di non dimenticare i morti, di non lasciarli svanire nel nulla. Ma anche di non permettere alla morte di conservare intatto il suo potere. Scrivere, annotare, prendere posizione — tutto questo diventa una forma di resistenza metafisica.

Il suo è un rifiuto lucido e radicale: la morte è un crimine. E se le religioni hanno cercato di renderla sopportabile, è perché si sono alleate con essa, la hanno incorporata nei loro dogmi, come si incorporano le tasse in una fattura inevitabile. Ma Canetti non accetta il compromesso. Non crede nella resurrezione, ma nemmeno nella necessità della fine. E si spinge oltre: accusa Dio stesso di aver inventato la morte, e quindi l’umanità di averne fatto un’abitudine, una strategia, una giustificazione della violenza.

Lui non vuole uccidere nessuno. Non vuole imitare i carnefici della storia. Vuole smascherare, disincantare, scorticare la bellezza mortale dell’ideologia sacrificale. E lo fa con una lingua che brucia, piena di detti che sembrano arrivare dalla notte dei tempi e insieme dal futuro: “Le guerre si fanno per amore della guerra”, “Prima o poi troverò frasi che faranno vergognare Dio al mio cospetto”.

C’è qualcosa in Canetti che lo avvicina a un profeta, ma senza religione. A un eremita che ha rifiutato il silenzio. In lui convivono l’intellettuale e il superstite, lo storico della psiche e l’ossesso della parola. Non a caso la sua opera maggiore, “Massa e potere”, è anch’essa una mappa dell'annientamento, una radiografia del consenso e del dominio. Ma mentre quel libro tenta un sistema, “Il libro contro la morte” nega ogni sistemazione. È pensiero a brandelli. È materia refrattaria all’ordine. È, paradossalmente, la forma più pura e più onesta di pensiero.

Chi si avvicina a questo “libro mancato” deve abbandonare l’idea di una narrazione lineare. Troverà invece una costellazione di intuizioni, aforismi, sdegni, visioni. Pascal compare, ma non come modello: è un termine di paragone cronologico. Se Pascal è morto a 39 anni dopo aver lasciato in eredità i suoi “Pensieri” — che difendono il cristianesimo —, Canetti si avvia a 37 a formulare i suoi pensieri in difesa dell’uomo, dalla morte. Si tratta, dunque, di una nuova apologia: non della fede, ma della vita contro il morire.

Eppure, in questa furia c’è anche una strana tenerezza. Lo si vede nell’annotazione che riguarda la propria tomba. Canetti immagina il momento del suo seppellimento con ironia dolceamara: sarà sepolto accanto a Joyce, che non gli piaceva nemmeno tanto. E tuttavia, nel bosco di Fluntern, il pensiero della vicinanza con Veza e Hera — le due donne della sua vita — lo conforta. Quel che resta, allora, è la comunità degli affetti, non la gloria letteraria.

La grandezza del “Libro contro la morte” non sta solo nei suoi contenuti. Sta nella sua forma: o meglio, nella sua non-forma. È un’opera che ha scelto di non concludersi. È una lotta prolungata che rifiuta la sintesi, rifiuta il finale, rifiuta la catarsi. In questo senso, assomiglia a certi manoscritti di Kafka, a certe elucubrazioni di Simone Weil, o ancora al “Diario” di Kierkegaard: scritture in cui il pensiero è sempre in corsa, mai soddisfatto, mai salvo.

Ecco perché oggi, a distanza di decenni, questo libro postumo è tanto più necessario. Perché rappresenta un gesto di sfida a tutto ciò che ci chiede di rassegnarci. In un’epoca che ha normalizzato la morte attraverso lo spettacolo, i numeri, l’abitudine, la burocrazia del lutto, Canetti ci ricorda che morire non è naturale. È un atto che ci viene inflitto. Un’assurdità che solo il pensiero può contenere, anche se non abolire.

In un mondo che continua a uccidere — per ideologie, per profitto, per disprezzo, per noia —, Canetti ci sfida con una domanda senza risposta: e se davvero potessimo vivere senza uccidere? E se la morte non fosse inevitabile, ma solo un’ipotesi?

Il lascito canettiano, più che una teoria, è una pratica dell’intransigenza. Le 15.000 pagine di appunti mai pubblicati sono un archivio della resistenza ontologica. Le sue frasi sono fatte per essere pensate, riscritte, rilanciate, mai per essere accettate come definitive. Eppure, ciascuna porta dentro di sé il seme di un altro mondo.

Qui c’è un libro che non si legge: si insegue. Un libro che non si trova sugli scaffali se non sotto forma di ombra, frammento, relitto luminoso. È “Il libro contro la morte” di Elias Canetti. Ma chiamarlo “libro” è già un’imprecisione, quasi un’offesa. Non si tratta di un’opera compiuta: si tratta di una ferita verbale che attraversa cinquant’anni di pensiero. Un vortice di carte, un arcipelago di appunti, un progetto continuamente annunciato e costantemente sabotato.

In questo progetto c’è un’impossibilità lucida. Scrivere contro la morte — non “sulla” morte, non “intorno” alla morte — implica un gesto radicale: non accettare il limite biologico, storico e linguistico dell’umano. Canetti lo sa. Ma non cede. Resiste come resiste un superstite, come resiste chi ha già visto l’abisso. Chi ha perso la madre. Chi ha conosciuto la Shoah. Chi ha imparato che i morti, per restare vivi, devono essere scritti.

Nel 1937, quando la madre muore, Canetti inizia la sua battaglia. Ma non è una battaglia di vendetta. È un’eresia interiore, una teologia senza Dio, una mistica della negazione. La morte non è un fenomeno naturale: è una violenza, un attentato contro l’esistenza, una trappola giustificata da secoli di religione e cultura. Il vero compito dell’uomo pensante, per Canetti, è rifiutare l’accettazione. È ricusare il compromesso che le civiltà hanno stipulato con la morte per potersi organizzare.

Ecco allora la sua promessa: “Scriverò il Libro contro la morte.”
E ogni giorno, in ogni frase, quella promessa si fa sempre più urgente, e sempre più impossibile.

La forma è già la battaglia. Canetti non costruisce trattati, non sistema nulla. Le sue frasi non sono aforismi alla maniera di Nietzsche o Cioran, non sono sentenze da scolpire: sono mine anti-uomo, capsule esplosive lanciate nel tempo. Ognuna nasce da una scintilla d’indignazione, da una paura ragionata, da una compassione travestita da invettiva.

“Prima o poi troverò frasi che faranno vergognare Dio al mio cospetto.”

È un’espressione che pare blasfema, ma che contiene una forma di sacralità rovesciata. Non è Dio che giudica l’uomo, ma l’uomo che giudica Dio. Dio ha fallito perché ha creato la morte. E l’uomo ha fallito perché l’ha accettata. Così Canetti si pone in una posizione scandalosa, ma necessaria: un tribunale che mette l’invisibile sul banco degli imputati. Il pensiero come atto di accusa. La scrittura come sentenza contro la fine.

Nel suo mondo, il frammento non è un vezzo stilistico. È la sola forma possibile per dire l’impossibile. Un libro intero sulla morte sarebbe una resa. Meglio scrivere per allusioni, per lacerti, per scatti e spasmi: come chi grida nella notte e sa che nessuno gli risponderà, ma grida lo stesso, e così salva almeno l’atto del gridare.

Uno dei passaggi più audaci della riflessione canettiana è la denuncia della connivenza millenaria tra religione e morte. Il cristianesimo, scrive, si regge da duemila anni sulla fede nella resurrezione. Ma questa fede, ai suoi occhi, non è una speranza: è un contentino metafisico, un premio postumo offerto a una creatura sottomessa, a condizione che obbedisca, che accetti la fine, che si sacrifichi.

Qui anche la guerra appare sotto una nuova luce:

“Le guerre si fanno per amore della guerra.”

Non c’è scopo più profondo che la guerra stessa. La distruzione come desiderio. L’annientamento come impulso primario. Canetti rifiuta tutte le giustificazioni ideologiche, tutte le dottrine della difesa e del progresso: gli uomini vogliono morire e uccidere, e in questo desiderio rivelano una malattia originaria. E finché questo desiderio sarà vivo, nessuna teologia potrà salvarli. Solo una rivolta interiore, radicale, linguistica potrà avere un senso.

Canetti allora non è né pacifista né nichilista: è un rivoluzionario della parola, un araldo disarmato che cerca di estorcere al linguaggio un’arma nuova — una lingua che non uccide, che non condanna, che non accetta il silenzio della morte come destino.

Il corpo morto, il corpo che muore: la madre, gli amici, le due compagne, gli sconosciuti uccisi dalle guerre, i martiri della storia, i dimenticati. Canetti si fa custode memoriale di una comunità perduta, come un monaco laico che ogni giorno recita i nomi per evitare che svaniscano.

La tomba che si sceglie a Fluntern, accanto a Joyce, è emblematica:

“Mi dà pace pensare alla mia tomba, posta ai margini del bosco, non lontano da Joyce... Lo disturberà forse la mia vicinanza?”

Questa frase contiene il senso canettiano della morte come convivenza, come campo d’energia, come ironia e vertigine. Joyce, l’unico che davvero aveva trasformato la lingua in universo, non lo amava. Canetti ricambia con rispetto distaccato. Ma il legame più profondo resta con le donne: Veza Taubner-Calderon e Hera Buschor. Accanto a loro, finalmente, Canetti si ammette felice. Non per la sepoltura, ma per la contiguità affettiva dei nomi. I nomi salvano. I nomi restano. I nomi combattono contro il nulla.

Quando la figlia Johanna afferma che gli scritti non pubblicati di Canetti ammontano a oltre 15.000 pagine, ci troviamo di fronte a qualcosa che non è più letteratura: è una condizione esistenziale. Nessun autore scrive così tanto senza comporre, se non per abitare la scrittura come unica forma possibile di resistenza.

Eppure, in questo magma non c’è disordine. C’è una costellazione invisibile, un movimento coerente, una musica interiore che chi legge può percepire solo immergendosi con lentezza. Si scopre allora che il “Libro contro la morte” non è fallito. È riuscito nella sua non-conclusione. Ha creato un’onda lunga, che non si arresta, che continua a generare pensiero, a inquietare, a invocare nuove voci.

Chi lo legge, chi lo scrive ancora, ne diventa parte. Ne continua il gesto.

Il lascito di Canetti non consola. Non redime. Non salva.
Non ci dice che la morte si può evitare.
Ma ci dice che accettarla è una scelta, non un obbligo.
Ci mostra che ogni parola scritta contro la morte è un atto sacro, un fuoco, un’offerta al tempo.

Canetti ha creato una liturgia del dissenso, una teologia negativa che non ha bisogno di Dio, ma solo della memoria, della precisione, del rifiuto.

E allora, oggi più che mai, il “Libro contro la morte” è un libro da continuare.
Un libro che non può morire, perché vive in ogni lettore che osa non accettare.
In ogni pensiero che rifiuta di essere un necrologio.

Scrivere contro la morte non è morire più tardi.
È vivere più profondamente.

E nel farlo, forse, salvare anche i morti.
Perché Canetti non ha mai voluto vivere per sé.
Ha voluto vivere — e scrivere — per chi non poteva più parlare.

Per questo “Il libro contro la morte” non è un libro da leggere, ma da continuare a scrivere.
Ogni lettore che vi si immerge diventa parte di questa sfida. Diventa uno scriba di Canetti, un prolungamento della sua voce, un testimone del suo rifiuto.

E allora sì, la promessa del titolo viene mantenuta. Non perché Canetti abbia vinto contro la morte, ma perché noi, leggendo, teniamo aperta la possibilità di quella vittoria.

Scrivere contro la morte, leggere contro la morte, ricordare contro la morte:
è tutto ciò che ci resta.
Ed è moltissimo.