sabato 25 aprile 2026

Resistenza e memoria: Il contributo eroico di Rom e Sinti alla lotta contro il fascismo

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana è una pagina di storia troppo spesso dimenticata, ma che merita di essere raccontata e celebrata. Queste comunità, tradizionalmente marginalizzate e perseguitate, hanno contribuito in modo significativo alla lotta contro il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, dimostrando un eroismo e una generosità straordinari. Tuttavia, questo capitolo della storia è stato spesso messo in ombra, sia per la politica dello Stato italiano dell'epoca che per il pregiudizio sistemico che ancora oggi affligge le popolazioni rom e sinti.

La Resistenza italiana fu un movimento variegato che coinvolse persone provenienti da ogni parte della società, da militari disertori a intellettuali, da contadini a operai. Tra questi, vi furono anche i rom e i sinti, che non solo subirono le atrocità del fascismo, ma furono anche attivamente coinvolti nel sabotaggio, nelle azioni di guerriglia e nel soccorso degli altri partigiani e degli ebrei. Questi gruppi, purtroppo, sono stati raramente celebrati nelle narrazioni ufficiali della Resistenza, spesso a causa delle politiche discriminatorie dello Stato italiano, che continuò a trattare i rom e i sinti come "indesiderabili" anche durante e dopo la fine della guerra.

Un esempio emblematico di come i rom e i sinti abbiano contribuito alla lotta di Liberazione è la formazione dei "Leoni di Breda Solini", una brigata partigiana composta da sinti italiani, che operò nelle regioni centrali e settentrionali del paese, in particolare tra le province di Mantova, Modena, Reggio Emilia e Cremona. Questa brigata si formò grazie alla fuga di molti sinti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia (MO), dove erano detenuti dai fascisti, subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Nonostante l’assenza di una preparazione militare formale, i membri della brigata si distinsero per il coraggio e l'efficacia nelle azioni di sabotaggio, come la distruzione di ponti, la raccolta di armi e l’assalto ai convogli tedeschi. La loro lotta non si limitò alla semplice resistenza armata, ma fu anche un atto di sfida alle ingiustizie razziali e sociali che avevano affrontato tutta la loro vita.

I "Leoni di Breda Solini" utilizzavano un camion che, con una serie di modifiche ingegnose, diventò un veicolo per trasportare armi e munizioni, permettendo loro di compiere incursioni nei territori occupati dai nazisti. La loro abilità nel muoversi e nel restare anonimi nel territorio, ma anche nella costruzione di alleanze con i gruppi partigiani locali, li rese una forza rispettata. La figura di Giacomo "Gnugo" De Bar, uno dei leader dei Leoni, divenne simbolo della determinazione di questi uomini e della loro lotta contro l'oppressione.

Purtroppo, molti altri partigiani rom e sinti sono caduti nell’oblio. Tra loro, Giuseppe "Tarzan" Catter, ucciso dai fascisti nell’area dell'Imperiese, è uno dei nomi più significativi che ancora oggi merita di essere ricordato. Altri, come Walter "Vampa" Catter e Lino "Ercole" Festini, furono fucilati il 11 novembre 1944 a Vicenza per la loro partecipazione alle azioni di resistenza. Questi uomini, insieme a molti altri, furono decorati al valore per il loro coraggio e il loro impegno a favore della libertà e della giustizia, ma le loro storie sono state spesso ignorate dai racconti ufficiali della guerra di Liberazione.

La resistenza dei rom e dei sinti non si limitò al solo combattimento armato. Molti membri di queste comunità si trovarono coinvolti in azioni di supporto, come l’aiuto a prigionieri ebrei, la protezione delle famiglie più vulnerabili, e la creazione di reti di rifugiati per nascondere gli oppositori del regime fascista. La loro determinazione nel contribuire alla liberazione d’Italia fu un atto di eroismo che merita finalmente di essere riconosciuto nella memoria storica del nostro paese.

Nonostante il loro contributo alla Resistenza, le comunità rom e sinti furono anche vittime di una sistematica persecuzione durante la Seconda Guerra Mondiale. Molti furono deportati nei campi di concentramento, dove subirono torture, esperimenti medici e la morte. Il genocidio a loro destinato, conosciuto come "Porrajmos" (in lingua romani, "grande divoramento") o "Samudaripen" ("tutti uccisi"), è una parte della storia europea che ha ricevuto poca attenzione, ma che rappresenta uno degli aspetti più crudeli della persecuzione razziale messa in atto dal regime nazista.

Il razzismo fascista e nazista ha considerato i rom e i sinti non solo come minoranze razziali da eliminare, ma come una minaccia da estirpare per “purificare” la razza. La violenza e la brutalità del regime si riflettevano anche nei trattamenti che queste persone ricevevano nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa, in un contesto di sistematica esclusione sociale e discriminazione.

Nonostante il loro fondamentale contributo alla lotta contro il nazifascismo, la memoria dei rom e dei sinti nella Resistenza è stata a lungo marginalizzata. L’indifferenza e il pregiudizio verso queste comunità hanno impedito che la loro partecipazione venisse adeguatamente riconosciuta. Solo negli ultimi decenni si sono registrati dei tentativi di recuperare queste storie, sia attraverso la pubblicazione di libri e articoli, che mediante la creazione di mostre e documentari. A queste iniziative si sono aggiunti importanti momenti di riflessione come la Giornata della Memoria, che ha cominciato a ricordare il genocidio dei rom e sinti, accanto a quello degli ebrei.

Negli ultimi anni, anche grazie all'impegno di attivisti, storici e membri delle stesse comunità rom e sinti, sono emerse nuove testimonianze e ricerche che stanno lentamente restituendo loro il giusto riconoscimento. Progetti come il Museo Nazionale della Resistenza e iniziative locali stanno facendo luce su queste figure dimenticate, cercando di costruire una memoria collettiva più inclusiva e giusta. La storia dei rom e sinti nella Resistenza non è più relegata nell’ombra, ma sta prendendo piede come un capitolo fondamentale nella narrazione della liberazione italiana.

È ora che il contributo di queste persone venga riconosciuto pienamente. Non solo come vittime del razzismo e della persecuzione, ma anche come eroi che hanno lottato con coraggio e determinazione per la libertà. La storia delle comunità rom e sinti nella Resistenza è una storia di resistenza non solo contro i fascisti, ma contro le ingiustizie di ogni tipo, e di un impegno che ha contribuito alla costruzione di una società più giusta e libera.

E ci sono ancora molti aspetti che vale la pena esplorare riguardo al contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza, e alla loro memoria storica, che spesso rimane in ombra. Ecco alcuni punti che potrebbero essere aggiunti per ampliare ulteriormente la narrazione:

Alcune delle storie più toccanti e significative di partecipazione delle comunità rom e sinti alla Resistenza provengono dalle testimonianze dirette di chi visse quei momenti. Purtroppo, molte di queste voci si sono perse con il passare del tempo, ma alcune sono state raccolte e continuano a essere diffuse grazie agli sforzi di storici e attivisti. Alcune di queste testimonianze raccontano di azioni di sabotaggio, ma anche di gesti quotidiani di solidarietà, come l’offrire rifugio a partigiani in fuga o la protezione di chi, per motivi politici o religiosi, era a rischio di arresto. Queste testimonianze sono fondamentali non solo per onorare il coraggio di queste persone, ma anche per contrastare l’oblio a cui sono state condannate.

Un altro aspetto che potrebbe essere approfondito è l’impatto delle politiche post-belliche sulla memoria delle comunità rom e sinti. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo italiano, come molti altri in Europa, non ha fatto molto per riconoscere i crimini perpetrati contro le popolazioni rom e sinti. La loro lotta per il riconoscimento dei diritti civili e il recupero delle memorie storiche è stata ostacolata da un pregiudizio istituzionale che ha perpetuato l’idea di queste comunità come “straniere” e non integrate nella società. Questo ha avuto conseguenze dirette sulla loro inclusione nei racconti ufficiali della Resistenza e, più in generale, sulla loro visibilità all’interno della società italiana.

È importante sottolineare che il contributo dei rom e dei sinti alla Resistenza non si è limitato alle brigate partigiane o alle azioni di combattimento diretto. Molti di loro, infatti, hanno contribuito alla “Resistenza diffusa”, quella fatta di atti quotidiani di opposizione al regime fascista. Si trattava di atti di disobbedienza civile, di rifiuto di piegarsi alla violenza del regime, di difesa della propria identità culturale in un contesto che cercava di omologare e cancellare qualsiasi forma di diversità. Il rifiuto delle politiche di razza e l'affermazione di un’identità libera e autonoma, spesso associata all'intransigenza e alla ribellione, è una forma di resistenza che merita di essere esplorata in modo più profondo.

Un aspetto che potrebbe essere ulteriormente approfondito riguarda il ruolo delle donne rom e sinti durante la Resistenza. Come in molte altre situazioni, il contributo femminile è stato spesso trascurato, ma numerose donne delle comunità rom e sinti hanno avuto un ruolo fondamentale nelle reti di resistenza, sia in azioni dirette di sabotaggio che nel supporto logistico e nell’assistenza ai partigiani. Alcune di queste donne si sono distinte anche per il loro coraggio nel proteggere le famiglie dai rastrellamenti fascisti e nazisti, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri cari.

Un altro aspetto importante da aggiungere riguarda il riconoscimento ufficiale di questa parte di storia. La Legge 211 del 2000, che ha istituito la Giornata della Memoria in Italia, ha rappresentato un primo passo importante nel riconoscere anche le vittime rom e sinti del nazismo e del fascismo. Tuttavia, c'è ancora molto da fare per includere adeguatamente il loro contributo alla Resistenza nei curriculum scolastici, nei musei e nelle commemorazioni ufficiali. È fondamentale che le nuove generazioni siano consapevoli del ruolo che queste comunità hanno avuto nella lotta per la libertà e che imparino a riconoscere il valore della loro partecipazione.

Uno degli obiettivi più importanti nel raccontare questa storia è creare una memoria condivisa, che vada oltre le differenze culturali e sociali, per costruire una narrazione inclusiva che riconosca le sofferenze e i sacrifici di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà e contro le ingiustizie. In un mondo che spesso si trova diviso da conflitti razziali e culturali, il racconto delle storie di resistenza dei rom e dei sinti è una lezione di solidarietà, di coraggio e di speranza, che può contribuire a un futuro più giusto e rispettoso della diversità.

Il racconto della Resistenza rom e sinti non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di rivendicazione di una memoria collettiva più equa. Il loro contributo alla lotta contro il fascismo e il nazismo è parte integrante della storia della nostra libertà. Riconoscere e celebrare questo contributo non solo restituisce dignità a queste comunità, ma arricchisce anche la comprensione della nostra Resistenza, rendendola più completa, più giusta e più universale.

Un altro aspetto che potrebbe arricchire ulteriormente il racconto del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza riguarda il legame tra la memoria storica e le politiche contemporanee di inclusione e di lotta contro la discriminazione. Ecco alcuni punti da considerare:

Oggi, la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza ha acquisito una nuova centralità, in parte grazie agli sforzi di attivisti, storici e membri delle stesse comunità. Tuttavia, la strada per un riconoscimento ufficiale è ancora lunga. Le politiche attuali di inclusione, che mirano a garantire pari diritti e opportunità alle minoranze, devono essere accompagnate da un impegno concreto nella valorizzazione della memoria storica. La lotta contro il razzismo e le discriminazioni, che ancora oggi affliggono i rom e i sinti in molte società europee, non può prescindere dal riconoscimento delle loro radici storiche e dal rendere giustizia ai loro sacrifici passati.

In questo contesto, il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza può essere visto come un simbolo di resistenza non solo al nazifascismo, ma anche all’intolleranza e alla marginalizzazione. Questa riscoperta storica, infatti, diventa un punto di partenza per una riflessione critica sulle politiche di inclusione sociale in atto oggi, e per un impegno costante nella costruzione di una società che accolga la diversità come valore, piuttosto che come minaccia.

In molte occasioni, le politiche razziste italiane ed europee del passato e del presente continuano a emarginare le comunità rom e sinti. La loro visibilità, in particolare nella storia della Resistenza, è stata spesso omessa o distorta. Questo è stato il risultato di politiche sistemiche che trattavano le comunità rom e sinti come "non italiane" o "estranee", anche se molte di esse avevano radici secolari in Italia e in altre parti d’Europa. La discriminazione razziale e sociale continua a essere una realtà per molte di queste persone, che si trovano ad affrontare una doppia discriminazione: quella legata alla loro identità etnica e quella legata alla povertà.

Riconoscere e celebrare il loro contributo storico alla lotta per la libertà e contro il fascismo è un passo essenziale per combattere il razzismo istituzionale che ancora persiste. Solo attraverso un impegno collettivo per riparare le ingiustizie storiche e per restituire dignità e visibilità a queste comunità si potrà costruire una società veramente inclusiva, in cui nessuno venga emarginato o dimenticato.

Uno degli strumenti più potenti per combattere l’oblio e la discriminazione è l'educazione. Integrare il contributo delle comunità rom e sinti nella Resistenza nei programmi scolastici e nelle attività educative è essenziale per costruire una memoria condivisa che non solo recuperi le storie di chi ha combattuto per la libertà, ma che sia anche un monito per il futuro. La scuola, infatti, è il luogo in cui si formano le coscienze e dove si possono gettare le basi per una cultura del rispetto e della solidarietà. Insegnare ai giovani la storia del Porrajmos, la resistenza dei rom e dei sinti, e il loro impegno nella lotta contro il nazifascismo è un modo per sensibilizzare le future generazioni a non ripetere gli errori del passato.

A tale scopo, diversi musei, archivi e centri di ricerca in Italia e in Europa hanno avviato progetti didattici che si concentrano sulla storia dei rom e dei sinti, cercando di rendere giustizia al loro ruolo cruciale nella Resistenza. In molti casi, queste iniziative sono affiancate da testimonianze orali e da incontri diretti con le persone che appartengono ancora a queste comunità, rendendo la storia più tangibile e personale.

Anche dopo la fine della guerra, la verità sui crimini contro i rom e i sinti, e più in generale sui crimini di guerra compiuti dai nazifascisti, è stata a lungo negata o minimizzata. L’inchiesta ufficiale sul genocidio dei rom è arrivata in ritardo, e non ha avuto lo stesso impatto della memoria degli ebrei vittime del nazismo. Tuttavia, negli ultimi anni, c'è stato un crescente interesse da parte delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali nel perseguire la verità e la giustizia per le vittime rom e sinti. L'adozione di risoluzioni e dichiarazioni da parte dell'Unione Europea, dei governi nazionali e di organizzazioni per i diritti umani è un passo importante, ma ancora non basta. È fondamentale che la giustizia post-bellica riguardi anche i crimini commessi contro le comunità rom e sinti, attraverso risarcimenti, scuse ufficiali e il riconoscimento della loro sofferenza storica.

La commemorazione del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza deve passare attraverso momenti significativi di riflessione collettiva. Le celebrazioni del 25 aprile, la Giornata della Memoria, e altre occasioni di riflessione sulla storia del fascismo e del nazismo devono essere anche un momento di riconoscimento per chi ha lottato non solo contro l’occupazione tedesca, ma contro ogni forma di oppressione. È importante che le generazioni future siano educate a riconoscere la storia di tutte le persone che hanno sacrificato la propria vita per la libertà, indipendentemente dalla loro origine etnica o sociale.

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale. È fondamentale che queste storie vengano raccontate, celebrate e condivise, per rendere giustizia a chi ha lottato per la libertà, ma anche per ispirare le nuove generazioni a continuare a combattere per una società più giusta e inclusiva.

E ci sono ancora altre prospettive che potrebbero arricchire ulteriormente il racconto e l'analisi del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Ecco alcuni ulteriori aspetti che potrebbero essere esplorati:

La Resistenza rom e sinti non può essere separata dal più ampio contesto della memoria del Porrajmos, ovvero il genocidio che ha colpito queste comunità durante l'occupazione nazista. Il termine “Porrajmos” significa “devastazione” in romani e descrive l'annientamento sistematico a cui i rom e i sinti furono sottoposti dai nazisti. Tuttavia, molte delle storie legate alla Resistenza non sono state incluse nei racconti ufficiali del genocidio, in parte perché la lotta dei rom e dei sinti è stata marginalizzata.

Affermare con forza che le comunità rom e sinti non furono solo vittime del nazismo ma anche attori principali della Resistenza implica una rilettura critica della memoria del Porrajmos, un recupero della visibilità di chi, pur affrontando la persecuzione, decise di non arrendersi e di combattere. La connessione tra la memoria del genocidio e quella della lotta partigiana può fornire una visione complessa ma necessaria di una resistenza che si sviluppa su più fronti: quello fisico e quello culturale, in cui le tradizioni e l'identità rom e sinti hanno continuato a resistere non solo attraverso la lotta armata, ma anche attraverso la preservazione della propria storia e lingua.

Non solo in Italia, ma in molte altre nazioni europee le comunità rom e sinti giocarono un ruolo significativo nella Resistenza. In Francia, ad esempio, alcuni gruppi rom e sinti si unironoin alle forze di liberazione, impegnandosi in attività di sabotaggio, assistenza ai rifugiati e ai combattenti della Resistenza. In paesi come la Germania, l'Ungheria e la Polonia, i rom furono anch'essi attivi nel resistere all'occupazione nazista e nel combattere contro il regime. Un'analisi comparata tra i diversi paesi europei potrebbe rendere ancora più evidente il ruolo fondamentale che queste comunità ebbero nella lotta per la libertà. La loro partecipazione si inserisce in un contesto europeo più ampio, dove le popolazioni emarginate furono spesso le prime a mobilitarsi contro la violenza fascista.

Oltre alla Resistenza armata, va sottolineata anche la dimensione della resistenza civile che le comunità rom e sinti continuarono a portare avanti nel dopoguerra, spesso in contesti di povertà estrema, isolamento e discriminazione. Mentre il paese si riorganizzava dopo la guerra, le persone rom e sinti dovettero affrontare non solo la persecuzione fascista, ma anche un'ulteriore marginalizzazione da parte della società italiana e delle istituzioni. In questo senso, la resistenza non si limitò al periodo bellico, ma si estese anche agli anni successivi, in cui le comunità si trovarono a lottare per la sopravvivenza, per i propri diritti e per il riconoscimento della propria dignità. La lotta per la giustizia sociale, per il lavoro, per la casa e per il riconoscimento dei diritti civili delle comunità rom e sinti può essere vista come una continuità della Resistenza, in cui le persone non hanno mai smesso di combattere per la propria libertà e per l'uguaglianza.

Un altro aspetto importante da esplorare riguarda le sfide odierne nella lotta contro la distorsione della memoria storica. Il negazionismo, che cerca di minimizzare o negare la portata della persecuzione e del genocidio dei rom e sinti, continua a essere una minaccia. La ricerca di giustizia storica non può fermarsi al recupero delle storie, ma deve continuare con un costante impegno contro chi cerca di riscrivere la storia in modo da cancellare il contributo delle comunità rom e sinti. Il negazionismo si manifesta in vari modi, dalle dichiarazioni pubbliche di politici e leader di movimenti di estrema destra, fino alla rappresentazione stereotipata delle comunità rom e sinti nei media. La resistenza al negazionismo è oggi una delle battaglie principali per le nuove generazioni, che devono confrontarsi con la sfida di preservare la verità storica e combattere contro ogni tentativo di revisionismo.

Le giovani generazioni rom e sinti giocano un ruolo cruciale nel recupero della memoria storica e nella sua diffusione. Le nuove generazioni, spesso più consapevoli e coinvolte nei movimenti per i diritti civili e per la giustizia sociale, hanno il compito di trasmettere e mantenere viva la memoria del passato, ma anche di affrontare le sfide moderne in modo attivo. Molti giovani rom e sinti si impegnano oggi in progetti educativi, artistici e culturali per preservare la loro identità e per fare in modo che la Resistenza e la storia della loro comunità siano conosciute e riconosciute. Questi giovani non solo si ispirano alla memoria storica, ma anche alla speranza di un futuro in cui la discriminazione e la marginalizzazione siano definitivamente superate.

Il ruolo della cultura e dell’arte è fondamentale per mantenere viva la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Molti artisti rom e sinti, così come non-rom, si sono impegnati per raccontare queste storie attraverso film, documentari, musica, letteratura e altre forme di espressione culturale. L’arte diventa uno strumento potente per sensibilizzare le persone e per combattere l’oblio. Attraverso il linguaggio universale dell’arte, si può raccontare una storia di coraggio, resistenza e speranza che non solo riguarda il passato, ma che continua a ispirare e a impegnare tutti coloro che credono nella libertà e nella giustizia.

L'approfondimento della memoria delle comunità rom e sinti nella Resistenza, sia attraverso il recupero delle storie individuali che l’analisi delle dinamiche sociali e politiche del periodo, arricchisce la comprensione di una parte fondamentale della storia europea. Oggi, più che mai, è necessario dare voce a queste storie, rendere visibile la loro resistenza e riaffermare l’importanza della memoria come strumento di lotta contro l’intolleranza, il razzismo e l’ingiustizia. Solamente attraverso una comprensione profonda di questa memoria collettiva si potrà costruire una società più giusta e inclusiva.

Oggi, quando parliamo della Resistenza italiana, è essenziale includere anche il coraggio di queste comunità, affinché il loro contributo non venga mai più dimenticato e affinché le future generazioni possano conoscere la vera portata di questa lotta di Liberazione.

mercoledì 20 agosto 2025

Protocollo di risposte. Manuale di sopravvivenza social


Quando l'Autore di turno ti fa sudare il mouse 

Succede anche ai migliori: hai appena pubblicato una recensione, ringrazi un autore per averla presa in considerazione e… puff! Arriva un secondo messaggio, puntuale come un caffè alle 11, con una domanda a cui non vuoi (o non puoi) rispondere. Cosa fai?

Ti agiti, inventi dettagli, rischi di sparare inesattezze… oppure applichi il Protocollo di risposte, il mio piccolo manuale di sopravvivenza social.


1️⃣ Ringrazia sempre per primo

Prima regola d’oro: un “Grazie, mi fa piacere” oppure "Grazie per avermi letto" chiudono la conversazione con eleganza, senza compromettere nulla. Non serve spiegare tutto, basta riconoscere l’attenzione.

2️⃣ Non sentirti obbligato a replicare

Se il secondo messaggio è scomodo, irrilevante o ti richiede dettagli che non ricordi, non rispondere. Il silenzio diventa un’arma: la conversazione è già chiusa.

3️⃣ Distrazione elegante

Postare qualcosa di nuovo, anche leggero, sposta l’attenzione in modo naturale. Un meme, una citazione, un pensiero improvviso: voilà, la tua rete sociale continua a scorrere senza imbarazzi.

4️⃣ Risposte evasive e neutre

Se proprio devi dire qualcosa, tienila generica:

  • “Ne conservo un bel ricordo, anche se non ricordo i dettagli.”
  • “Mi colpì molto all’epoca, resta tra i miei ricordi positivi.”
    In questo modo resti elegante e credibile.

5️⃣ Ironia misurata

Una battuta o un’emoji strategica valgono più di mille parole:

  • “Ah, ormai è tutto un ricordo sfocato 😎”
    Ironia leggera, senza mai scadere nella scortesia.

6️⃣ Salvaguarda la memoria e la reputazione

Non inventare dettagli o attribuzioni che non ricordi. Meglio restare vaghi e sinceri: i tuoi lettori (e l’autore) apprezzeranno la trasparenza.


In sintesi: sopravvivere con stile 

Il Protocollo di risposte non è solo un trucco da social: è filosofia di vita digitale. Alcune conversazioni vanno salutate con un sorriso, altre lasciate scivolare nel flusso. Così ti resta solo il piacere di aver gestito tutto senza impicci, senza falsità e senza dover ricordare frasi che il tempo ha già sfocato.

E se funziona… beh, l'Autore di turno può anche aspettare. 😏


La luce e l’ombra del tempo: visioni di "Otranto” di Roberto Cotroneo



Il romanzo Otranto di Roberto Cotroneo si presenta come un’esperienza narrativa che ambisce a superare i limiti della mera rappresentazione, per trasformarsi in un laboratorio di percezione, un esercizio sul rapporto fra immaginazione, tempo e luce. La sua natura non è quella di un semplice racconto di vicende, ma quella di un testo che cerca di dislocare la sensibilità del lettore, collocandolo in una zona di confine fra il reale e il visionario, fra la cronaca storica e l’eco del mito. Sin dalle prime pagine, infatti, emerge con chiarezza che il romanzo si fonda su due assi concettuali che ne determinano il tono e la struttura: la fascinazione per l’ora meridiana e per la luce intesa in senso metafisico.

L’ora meridiana è presentata come momento di sospensione: quando il sole è allo zenit, la vita sembra arrestarsi, il mondo è colpito da una luce implacabile che non produce solo chiarezza ma anche vertigine, una luce che, nella cultura mediterranea, è tradizionalmente associata ai démons du midi, figure ambigue, capaci di generare inquietudine e disorientamento. Accanto a questa percezione popolare e quasi antropologica, si colloca la seconda dimensione: la luce come categoria mistica, simbolo dell’incontro tra la speculazione filosofica araba e quella cristiana. Non è un caso che la Cattedrale di Otranto, con il suo rosone a sedici raggi, diventi un punto focale dell’intero romanzo: quell’architettura, che è già in sé un emblema di incontro di culture, viene interpretata come dispositivo simbolico, un’apertura verso un altrove in cui lo spirituale e il materiale si sovrappongono.

Su queste premesse concettuali si innesta l’elaborazione narrativa, che si articola attorno alla città di Otranto, trasfigurata da semplice località reale a vero e proprio organismo mitico. Le sue mura, le piazze bizantine e romaniche, il castello reso immortale dalla letteratura gotica di Walpole, diventano nel testo luoghi di un’esperienza estetica e psichica. Cotroneo sceglie deliberatamente di guardare questa città con occhi estranei: quelli della protagonista, una restauratrice proveniente dall’Olanda. Tale scelta ha un significato preciso: l’estraneità è ciò che permette di vedere, di cogliere la magia e la sospensione del tempo, là dove gli abitanti locali hanno ormai perso lo stupore, ciechi per consuetudine, incapaci di percepire la dimensione simbolica del proprio spazio quotidiano.

Il lavoro della protagonista sul mosaico della Cattedrale è molto più di un intervento tecnico: si configura come un atto di immersione nell’immaginario storico e spirituale della città. Il mosaico non è un semplice reperto del XII secolo, ma un oggetto enigmatico e stratificato, capace di contenere un intero sistema di segni. Basti pensare alla presenza, fra le sue figure, di un re Artù raffigurato con un gatto di Losanna a cavallo di un caprone: un’immagine sorprendente, quasi provocatoria, che destabilizza ogni tentativo di interpretazione univoca. È a partire da questa ambiguità iconografica che la protagonista inizia a percepire presenze che gli altri non vedono: fantasmi meridiani, eredità del massacro otrantino, presenze che non agiscono come minacce concrete, ma come epifanie perturbanti, figure liminali che testimoniano un passato non pacificato.

Questo incontro con l’invisibile non si esaurisce nella dimensione storica. Al contrario, esso si intreccia con la vicenda personale della protagonista, segnata dalla scomparsa della madre in mare presso un faro olandese. L’assenza della madre è una ferita mai cicatrizzata, un trauma che sembra riattivarsi proprio nell’ambiente otrantino, come se la città fosse in grado di amplificare le mancanze e di trasformarle in visioni. Non sorprende che il romanzo conduca progressivamente la protagonista verso un incontro impossibile: nel finale, la madre riappare in un ipogeo, vestita come il giorno della scomparsa, scalza, con una cicatrice al collo che ha la forma di una collana. Questa apparizione, che potrebbe sembrare un artificio di genere, assume invece un valore simbolico: rappresenta il punto in cui la memoria personale si congiunge con la memoria collettiva, e in cui la dimensione privata si apre a un destino più ampio, quello della città stessa, intesa come deposito di traumi e rivelazioni.

La struttura narrativa di Otranto riflette questa complessità. Da un lato, la voce in prima persona della restauratrice, che offre al lettore un accesso diretto ai suoi pensieri, alle sue percezioni, ai suoi turbamenti; dall’altro, un narratore onnisciente che interviene in chiusura di capitolo, ricomponendo frammenti, collegando eventi distanti, fornendo interpretazioni che la protagonista non può avere. Questa duplicità crea una costante tensione tra soggettività e oggettività, tra l’esperienza individuale e il disegno complessivo della storia, e produce un effetto di continua oscillazione, come se il romanzo stesso fosse un mosaico da ricostruire.

A livello stilistico, Cotroneo opera una scelta precisa: privilegia un linguaggio lirico, più vicino alla poesia in prosa che alla narrativa tradizionale. Le anafore, le ripetizioni, i ritmi rallentati, generano una sensazione di sospensione temporale, coerente con la tematica del tempo immobile. Due passaggi risultano emblematici: «Qui il tempo sembra non esserci e il mio orologio è l’unico appiglio mentre cammino lenta per una strada che passa in mezzo a un bosco di olivi. Il tempo qui è immobile, e ha una sua solidità. Il tempo qui è un monolite che rende gli orologi dei giocattoli inutili, buoni solo per farti sentire del ticchettio preciso» e «In queste righe cerco di cancellare il tempo: c’è soltanto luce, la luce di cui sono fatte le riflessioni che sto appuntando con rapidità; la luce che domina Otranto come un alchimista domina i propri elementi». In queste frasi si manifesta la cifra distintiva del romanzo: un discorso in cui il tempo viene sospeso e sostituito dalla luce come principio ordinatore dell’esperienza.

La città diventa quindi un personaggio, la luce un agente narrativo, il mosaico un simbolo dell’enigma del tempo. Tutto il romanzo si configura come una costruzione arabescata, dove l’elemento storico e quello visionario si intrecciano, producendo una narrazione che non mira alla linearità, ma alla stratificazione. Non sorprende, allora, che molte pagine possano essere lette autonomamente come esercizi di prosa poetica, quasi che la trama sia solo un pretesto per la creazione di un mondo di immagini.

Otranto si inserisce così in una linea di narrativa contemporanea che rifiuta la semplificazione realistica per cercare l’esperienza estetica e simbolica. È un testo che richiede un lettore disposto a rallentare, ad accettare la sospensione, ad abbandonare la necessità di una spiegazione univoca. In cambio, offre un viaggio nella percezione, una meditazione sul rapporto tra memoria e luogo, tra privato e collettivo, tra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile. Ed è proprio in questa tensione, fra critica e lirismo, che risiede la sua specifica originalità.

martedì 19 agosto 2025

La giuria della fronte

La giuria della fronte, che osserva l'universo con occhi di pietra e cuore di marmo, ha emesso la sua sentenza, inesorabile e implacabile: la fine di ulteriori spoglie, la dissoluzione di ogni traccia di vita che, seppur assopita, ancora cercava un barlume di luce, un'ombra di speranza. Ma questa luce è ormai lontana, troppo lontana per poterla raggiungere. La sentenza è stata pronunciata senza alcuna pietà, come il colpo finale di una lama che squarcia la carne ormai troppo stanca per reagire, troppo consumata per lottare. Non c'è più respiro, non c'è più battito di cuore che possa scuotere le catene del nostro destino, perché la fine si è già insediata tra le pieghe del nostro essere.


Le spoglie, quei resti di carne e spirito, non sono altro che il ricordo di un'esistenza che ha perso il suo scopo, il suo senso, e che ora giace, inutilizzata, come un abito stropicciato che nessuno ha più voglia di indossare. Sono i relitti di sogni che un tempo danzavano nella mente come farfalle in primavera, ora ridotti a polvere che si disperde al primo alito di vento. Ogni fibra di queste spoglie racconta una storia interrotta, un capitolo strappato dal libro della vita prima che potesse essere completato. La giuria della fronte, nel suo silenzio eterno, osserva, giudica e condanna con la freddezza di chi non ha mai conosciuto il calore di un'emozione, l'ebbrezza di una speranza. Non c'è speranza, non c'è redenzione, solo l'immenso vuoto che si espande come un oceano senza sponde, divorando ogni cosa nel suo passaggio inarrestabile.


Eppure, in questa distesa di nulla che si estende oltre ogni orizzonte immaginabile, il demone, spurio e pieno di malizia, volge le spalle, con un gesto di disprezzo che tradisce la sua stessa fragilità, agli specchi che sanno di morte, quegli specchi che, come occhi ciechi eppure onniveggenti, riflettono la verità che nessuno vuole vedere. Essi non raccontano altro che la desolazione, non sono che superfici che conservano le ombre di ciò che è stato e di ciò che non sarà mai. Gli specchi non perdonano, non dimenticano, e ciò che riflettono non è mai bello. Sono le fessure attraverso cui si intravede l'abisso, l'oceano scuro di una verità che nessuno ha il coraggio di affrontare. 


Il demone, sfuggente e ambiguo come una promessa mai mantenuta, non osa più guardarsi in quegli occhi che, con la loro freddezza implacabile, gli svelano i suoi difetti, le sue ferite, la sua miseria più profonda. Ogni riflesso è una confessione forzata, ogni immagine rimandata è un processo senza appello. Egli si volta, scivolando via da quella realtà che non può più essere ignorata, come una bestia che si nasconde nella propria tana per sfuggire al giudizio implacabile di chi vede troppo. Ma il volto che si distoglie non fa altro che manifestare il suo bisogno di fuga, la sua paura ancestrale di essere rivelato nella sua nudità spirituale. Non è altro che un corpo senza anima, una forma che non ha più direzione, che non sa dove andare, perché ha già percorso tutto il suo cammino e ha scoperto che ogni strada conduce al medesimo precipizio.


La sua fuga è quella di chi ha compreso che la propria esistenza è diventata un peso insostenibile, non solo per se stesso ma per l'intero universo che lo circonda. Ogni suo passo lascia impronte di cenere su un terreno già arido, ogni suo respiro consuma l'ossigeno che potrebbe dare vita ad altre creature più meritevoli di esistere. Il demone porta con sé il marchio della propria condanna, un sigillo invisibile che lo rende riconoscibile a tutti gli specchi del mondo, che lo perseguita dovunque vada, che lo costringe a una perpetua migrazione senza meta né speranza di redenzione.


Ma mentre il demone si allontana con passi sempre più incerti, lasciando dietro di sé una scia di rimpianti che si dissolve nell'aria come incenso profano, gli specchi non cessano di riflettere la loro verità implacabile. La superficie lucida, fredda e distorta, conserva l'impronta di ogni viso che vi si è specchiato, l'impronta di ogni anima che ha cercato di sfuggire alla realtà ma che, invece, si è persa dentro di essa come un viaggiatore che si smarrisce in un labirinto di cristallo. Gli specchi non sono che trappole, fessure nell'universo che ci costringono a vedere ciò che non vogliamo vedere, a conoscere ciò che non possiamo conoscere, a toccare ciò che non possiamo più afferrare con le nostre mani ormai logore dall'usura del tempo.


Sono i giudici di una condanna che non conosce pietà, tribunali silenziosi che pronunciano verdetti senza parole, sentenze scritte nella lingua muta della riflessione. E, come il demone, ci abbandonano nella nostra solitudine, nel nostro dolore più acuto, mentre ci costringono a guardare la nostra stessa fine, quella che abbiamo rincorso senza mai accorgerci, quella che si avvicinava a noi con passi felpati mentre noi eravamo impegnati a guardare altrove, a inseguire chimere e miraggi che si dissolvevano non appena tentavamo di afferrarli.


Ogni specchio è un archivio di lacrime non versate, di urla soffocate, di gesti d'amore mai compiuti. Essi raccolgono e conservano tutto ciò che siamo stati incapaci di essere, tutto ciò che avremmo potuto diventare se avessimo avuto il coraggio di guardare in faccia la verità sin dall'inizio. Ma la verità è un lusso che pochi possono permettersi, e ancora meno sono coloro che riescono a sopravvivere alla sua rivelazione senza perdere completamente se stessi nel processo.


Nel frattempo, dai bordi di questa oscurità che tutto inghiotte come un buco nero dell'anima, si sollevano i passeri, quegli innocenti che, pur vivendo nel mondo, non conoscono la durezza di esso. Con ali fragili come foglie d'autunno e sguardi incerti che tradiscono la loro eterna perplessità di fronte ai misteri dell'esistenza, volano, come se fossero in fuga da una verità che non riescono a comprendere né tantomeno ad accettare. Litigiosi, come creature che si contendono un piccolo angolo di vita in un mondo che non ha più spazio per loro, i passeri si sfiorano, si scontrano, si osservano con quella curiosità ingenua che è la loro unica protezione contro la crudeltà del mondo.


Non sanno che, in realtà, la loro lotta è inutile, che il cielo sopra di loro è troppo grande per ospitarli tutti, che ogni battito d'ali li avvicina a un destino che non possono mai sfuggire, non importa quanto velocemente volino o quanto in alto si spingano. Il loro volo è una danza macabra travestita da balletto di vita, una rappresentazione inconsapevole della futilità di ogni sforzo umano di sfuggire al proprio destino.


Eppure, nella loro lotta quotidiana per un tozzo di pane, un ramo su cui posarsi, un angolo di cielo da chiamare casa, nella loro frenesia incessante di volare senza sapere perché né verso dove, si nasconde una bellezza che è al contempo struggente e dolorosa, come una melodia suonata su uno strumento scordato. Essi sono destinati a non capire mai perché volano, ma lo fanno comunque, senza sosta, come se il loro volo fosse una preghiera silenziosa rivolta a un dio sordo, una ricerca di qualcosa che non troveranno mai ma che continuano a inseguire con la testardaggine degli innamorati respinti.


La loro innocenza è la loro condanna, la loro purezza è il loro calvario, la loro forza è la loro debolezza più profonda. In ogni battito delle loro ali minuscole, in ogni volo che li porta da un punto all'altro dello stesso vuoto, vi è la testimonianza di una bellezza che non ha scopo, che non ha senso, che è destinata a svanire senza lasciare traccia, come parole scritte sulla sabbia di una spiaggia battuta dalle onde dell'oblio.


Sono gli angeli dimenticati di un paradiso che non è mai esistito, coloro che non hanno mai avuto il coraggio di guardare in faccia la morte perché la loro natura stessa li protegge da tale consapevolezza, coloro che non hanno mai conosciuto la verità del mondo ma che, purtroppo, non sono mai riusciti a sfuggire al suo abbraccio mortale. La loro ignoranza è benedetta quanto maledetta, perché li preserva dall'orrore della consapevolezza ma li condanna a una vita di illusioni che si frantumeranno inevitabilmente contro la roccia della realtà.


Il loro cinguettio riempie l'aria di una musica che suona falsa alle orecchie di chi ha già sentito il silenzio definitivo, di chi ha già assaggiato il sapore amaro della fine. Eppure, questo cinguettio continua, ostinato nella sua allegria forzata, nella sua determinazione a celebrare una vita che non merita di essere celebrata, un'esistenza che è già stata giudicata e trovata mancante dalla giuria implacabile della fronte.


Così, nel loro incessante volo che non porta da nessuna parte se non verso la stessa fine che attende tutti, i passeri diventano simbolo di una vita che si consuma senza mai trovare pace, una vita che lotta senza mai comprendere il perché della sua lotta, senza mai interrogarsi sul senso di una battaglia che è perduta in partenza. Sono i soldati inconsapevoli di una guerra già finita, i danzatori di un ballo che continua anche dopo che la musica si è fermata.


Ma la loro lotta, purtroppo, è la nostra lotta, quella di chi vive nel mondo senza mai poterne uscire veramente, quella di chi, come il demone che fugge dagli specchi, si volta dagli specchi che riflettono la verità ma non riesce a sfuggire a quella verità che è ormai diventata parte integrante del suo essere, che scorre nelle sue vene come un veleno che lo mantiene vivo proprio mentre lo uccide lentamente.


La giuria della fronte ha già deciso con la solennità di un tribunale cosmico, ha decretato la fine con la fermezza di chi detiene il potere assoluto sulla vita e sulla morte, ma non c'è più modo di tornare indietro, non c'è appello possibile, non c'è grazia che possa essere concessa. Come i passeri che volano verso un cielo che li respinge, come il demone che fugge da specchi che lo inseguono ovunque vada, siamo condannati a cercare una verità che non troveremo mai, a vivere un'esistenza che non ci appartiene veramente, a volare in un cielo che non ci accoglierà mai tra le sue nubi.


Eppure, nel nostro volo disperato e senza meta, come nel loro volo inconsapevole, si cela una bellezza dolorosa, una bellezza che fa male a guardarla troppo a lungo, che brucia gli occhi come il sole di mezzogiorno. Questa bellezza è tutto ciò che ci resta quando tutto il resto è stato portato via, quando ogni illusione è stata strappata via come bandage da una ferita che non guarirà mai. È la bellezza del condannato che canta prima dell'esecuzione, dell'amante abbandonato che continua ad amare, del poeta che scrive versi sapendo che nessuno li leggerà.


Perché in fondo, ciò che ci resta è solo il nostro volo, e la sua infinita, struggente ricerca di qualcosa che non possiamo più raggiungere, qualcosa che forse non è mai esistito se non nella nostra immaginazione febbrile. È la ricerca di un senso in un mondo che ha perso ogni significato, di una speranza in un universo che ha decretato la disperazione come unica verità possibile.


E mentre continuiamo a volare, mentre continuiamo la nostra fuga inutile dagli specchi che ci seguono ovunque, mentre i passeri continuano il loro cinguettio che suona sempre più simile a un lamento, la giuria della fronte ci osserva con i suoi occhi di pietra, immobile e impassibile come una statua eretta a commemorare la fine di tutto ciò che un tempo chiamavamo vita.


Il nostro volo è diventato una danza funebre, una celebrazione della nostra stessa fine, un inno alla bellezza del fallimento e della perdizione. E in questa danza, in questo volo verso il nulla, troviamo l'unica forma di resistenza che ci è ancora concessa: la resistenza di chi continua a muoversi anche quando ogni movimento è inutile, di chi continua a sperare anche quando la speranza è stata dichiarata fuori legge dal tribunale dell'esistenza.

Lo smartphone e l’arte contemporanea: tra strumenti, media e estetiche emergenti

L’avvento dello smartphone, ha segnato una trasformazione radicale non solo nelle pratiche quotidiane e sociali, ma anche nel panorama artistico contemporaneo. Questo dispositivo, originariamente concepito come strumento di comunicazione e intrattenimento, si è progressivamente affermato come medium capace di influenzare modalità di produzione, fruizione e interpretazione dell’arte. Lungi dall’essere un semplice oggetto tecnico, lo smartphone ha operato come catalizzatore di nuove estetiche, ridefinendo concetti tradizionali di opera, autore e spettatore.

L’analisi del ruolo dello smartphone nell’arte contemporanea richiede un approccio multidisciplinare, che combini studi di media art, sociologia della comunicazione, teoria critica e storia dell’arte. Lo smartphone non è solamente un veicolo di immagini digitali: esso costituisce un vero e proprio ambiente tecnologico, capace di generare opere, modificare l’esperienza percettiva e promuovere nuove forme di interattività.

Il primo effetto dello smartphone nell’arte contemporanea riguarda la sua funzione come medium. Attraverso fotocamere integrate, applicazioni di editing e piattaforme di condivisione digitale, l’artista può produrre opere in mobilità, aggirando i tradizionali vincoli spaziali e tecnici del laboratorio o dello studio. L’opera diventa così un’entità fluida, spesso destinata a una circolazione immediata sui social media, dove le logiche di visibilità e interazione giocano un ruolo determinante nella sua percezione.

Un esempio paradigmatico è costituito dalla cosiddetta Instagram Art, fenomeno che ha radicalmente modificato la natura della fruizione estetica. Qui l’opera non è più pensata esclusivamente per il museo o la galleria, ma come immagine destinata a un feed digitale, in grado di suscitare interazioni istantanee e moltiplicare il proprio impatto attraverso la viralità. Tale mutamento ha sollevato questioni teoriche sulla transitorietà dell’opera, sulla sua autonomia estetica e sul rapporto tra arte e economia dell’attenzione.

Un secondo effetto rilevante riguarda la democratizzazione della produzione artistica. Lo smartphone ha abbassato drasticamente le barriere tecniche ed economiche, permettendo a un pubblico ampio e diversificato di accedere a strumenti di creazione avanzati. Fotografia, video, grafica e perfino realtà aumentata sono diventati strumenti alla portata di chiunque possieda uno smartphone, ampliando così il concetto di “autore” e sfidando la tradizionale gerarchia tra artisti professionisti e amatori.

Questo fenomeno ha generato un dibattito critico circa la qualità e la legittimità dell’arte digitale diffusa attraverso dispositivi mobili. Alcuni critici sostengono che la facilità di produzione possa impoverire il discorso estetico, mentre altri evidenziano come la proliferazione di pratiche artistiche indipendenti stimoli innovazione e sperimentazione.

Lo smartphone ha anche modificato le caratteristiche formali dell’arte contemporanea. La possibilità di scattare, registrare e condividere immagini in tempo reale ha introdotto un’estetica dell’immediatezza, in cui la temporalità dell’opera coincide con quella della comunicazione istantanea. Opere fotografiche e video, performance digitali e installazioni interattive spesso si sviluppano in relazione a piattaforme connesse, creando esperienze in cui spettatore e artista sono legati da un continuum tecnologico.

Artisti come Amalia Ulman o Hito Steyerl hanno esplorato le implicazioni sociopolitiche di questa estetica con approcci differenti: Ulman attraverso la costruzione di identità performative online, Steyerl analizzando l’economia globale delle immagini digitali e la loro circolazione istantanea. Entrambi dimostrano come lo smartphone non sia un mero strumento, ma un fattore determinante nella produzione concettuale dell’opera.

Oltre a modificare la fotografia e il video, lo smartphone ha trasformato profondamente la performance artistica contemporanea. L’arte performativa, tradizionalmente legata alla presenza fisica dell’artista e alla condivisione spaziale con il pubblico, ha trovato nel dispositivo mobile un nuovo canale di diffusione. Le performance possono essere trasmesse in diretta, commentate in tempo reale e reinterpretate dal pubblico attraverso interazioni digitali. L’artista non solo produce contenuti, ma orchestrando l’esperienza attraverso lo smartphone diventa un regista di interazioni distribuite.

Un esempio emblematico di questa trasformazione è il lavoro di artisti che operano attraverso live streaming su piattaforme social: qui la performance non ha più una durata limitata, né un luogo fisico vincolante, e il pubblico diventa parte integrante dell’opera, contribuendo alla sua co-creazione. Tale dinamica ridefinisce la nozione stessa di “spazio performativo”, che diventa virtuale, multiplo e accessibile simultaneamente a un pubblico globale.

Nell’arte contemporanea, lo smartphone ha aperto nuove possibilità nell’ambito delle installazioni interattive. Molti artisti contemporanei hanno sperimentato dispositivi mobili come strumento di partecipazione del pubblico, introducendo elementi di realtà aumentata, riconoscimento di immagini e geolocalizzazione. L’opera diventa così un ambiente in cui spettatori e dispositivi interagiscono, modificando la percezione e l’esperienza estetica.

Installazioni come quelle di Rafael Lozano-Hemmer o di Olafur Eliasson dimostrano come la tecnologia mobile possa amplificare il concetto di interattività. Il visitatore, attraverso lo smartphone, partecipa attivamente alla produzione visiva e sonora, trasformando l’opera in un ecosistema dinamico, in cui la tecnologia diventa mediatrice tra intenzione artistica e percezione del pubblico.

La fotografia mobile rappresenta probabilmente l’area più immediata in cui lo smartphone ha impattato l’arte contemporanea. Fotocamere sempre più sofisticate e app di editing avanzate hanno reso possibile la creazione di immagini di elevata qualità senza ricorrere a strumenti professionali. Questa democratizzazione della produzione ha generato nuovi linguaggi visivi, caratterizzati da un’estetica della prossimità, della spontaneità e della narrazione istantanea.

Artisti come Cindy Sherman e Thomas Ruff hanno sperimentato con dispositivi digitali per ridefinire il ritratto e il paesaggio contemporaneo, mentre molti giovani artisti digitali hanno trasformato piattaforme come Instagram in vere e proprie gallerie. La fotografia mobile, in tal senso, non è solo strumento, ma veicolo di una nuova estetica: le immagini non sono più solamente opere da contemplare, ma strumenti di comunicazione istantanea e partecipativa.

Negli ultimi anni, l’integrazione dello smartphone con tecnologie di realtà aumentata (AR) ha aperto scenari del tutto nuovi per l’arte contemporanea. La AR consente di sovrapporre immagini digitali al mondo reale, trasformando lo spazio urbano in un palcoscenico per installazioni virtuali. Questo approccio, oltre a ridefinire i confini dell’opera, sfida il concetto tradizionale di museo e galleria, trasferendo l’esperienza artistica direttamente nella vita quotidiana.

Progetti come quelli di artisti quali KAWS o team di media art sperimentale dimostrano come la AR permetta di creare narrazioni immersive, accessibili attraverso dispositivi mobili, che dialogano con l’ambiente circostante. L’interazione non è più mediata da schermi statici o da spazi fisici delimitati, ma avviene in tempo reale, rendendo lo smartphone non solo strumento di fruizione, ma vero e proprio medium creativo.

Lo smartphone ha profondamente trasformato non solo la forma dell’arte, ma anche il contesto sociale in cui essa viene percepita. La circolazione rapida di contenuti attraverso piattaforme digitali ha moltiplicato le possibilità di visibilità per artisti emergenti, riducendo l’egemonia delle istituzioni tradizionali. Tuttavia, questa democratizzazione presenta anche criticità: la saturazione di immagini e opere digitali può diluire il valore percepito dell’arte, e le logiche algoritmiche delle piattaforme influenzano la ricezione e la popolarità delle opere.

Dal punto di vista culturale, lo smartphone ha favorito la nascita di comunità artistiche globali, in cui linguaggi e pratiche si contaminano rapidamente. L’artista contemporaneo deve confrontarsi non solo con il proprio pubblico locale, ma con un panorama internazionale in costante mutamento, dove la rapidità della comunicazione diventa un elemento strutturale della produzione estetica.

L’introduzione dello smartphone ha comportato un mutamento significativo nel ruolo e nelle modalità operative dei musei contemporanei. Se un tempo la fruizione era legata a spazi fisici e tempi circoscritti, oggi il museo si estende oltre le proprie mura grazie a applicazioni mobile, visite virtuali e contenuti multimediali condivisibili in tempo reale. Questa estensione digitale non solo democratizza l’accesso all’arte, ma modifica profondamente il rapporto tra opera e spettatore.

Le piattaforme digitali collegate allo smartphone permettono esperienze immersive: realtà aumentata, audioguide interattive, proiezioni e app dedicate trasformano la visita in un percorso personalizzabile. Tuttavia, il museo digitale pone anche interrogativi critici: fino a che punto la mediatazione tecnologica altera l’autenticità dell’esperienza estetica? E quale ruolo assumono gli algoritmi nella selezione e nella visibilità delle opere? La fruizione non è più neutra, ma condizionata da meccanismi tecnologici che influenzano percezione, memoria e attenzione del pubblico.

La critica d’arte si trova a dover ridefinire i propri strumenti interpretativi in relazione allo smartphone. La produzione rapida e diffusa di contenuti digitali richiede nuovi criteri di valutazione: non solo estetici, ma anche tecnologici, performativi e sociali. La diffusione virale delle opere sui social media introduce la variabile della popolarità immediata, con conseguenze sul riconoscimento istituzionale e sulla legittimazione critica.

Critici contemporanei come Claire Bishop e Lev Manovich hanno evidenziato come la cultura digitale e mobile modifichi l’ontologia dell’opera: essa non è più un oggetto stabile, ma un evento in divenire, soggetto a remix, condivisione e reinterpretazione istantanea. Il ruolo del critico si estende così oltre l’analisi estetica tradizionale, includendo la comprensione dei flussi digitali, delle piattaforme social e delle interazioni algoritmiche che plasmano la ricezione delle opere.

Uno dei dibattiti più complessi introdotti dallo smartphone riguarda l’autenticità dell’opera. La facilità di riproduzione, la condivisione istantanea e la manipolazione digitale pongono interrogativi sul valore e sulla durata dell’arte contemporanea. L’opera non è più necessariamente unica, ma esiste in molteplici copie digitali, diffuse globalmente e spesso decontestualizzate.

Questo fenomeno richiama alcune riflessioni di Walter Benjamin sulla riproducibilità tecnica, ma in chiave contemporanea: la moltiplicazione digitale delle immagini non solo democratizza l’accesso, ma ridefinisce anche i concetti di aura, unicità e esperienza estetica. Lo smartphone, in tal senso, agisce sia come strumento di produzione che come mediatore di percezione, trasformando radicalmente la nozione di valore artistico.

Il ruolo dello smartphone nell’arte contemporanea non si esaurisce nella tecnica o nella pratica estetica: esso solleva questioni filosofiche profonde sul rapporto tra tecnologia, percezione e identità culturale. La simultaneità della produzione e della fruizione digitale, la pervasività dei social network e la connessione globale introducono una nuova dimensione della temporalità e dello spazio artistico.

La presenza costante del dispositivo modifica la soggettività dello spettatore, il quale diventa parte integrante dell’opera stessa. L’arte mobile non è più una contemplazione passiva, ma una partecipazione attiva e collaborativa, che sfida i confini tra autore, opera e pubblico. Filosofi come Byung-Chul Han e Sherry Turkle hanno sottolineato come la cultura digitale e mobile influisca sulla percezione del sé, sul tempo e sulla memoria, concetti che si riflettono anche nella produzione artistica contemporanea.

In sintesi, lo smartphone ha inciso profondamente sull’arte contemporanea, modificandone strumenti, forme, pratiche e contesti di fruizione. Esso è allo stesso tempo medium, strumento produttivo, veicolo di interattività e agente di democratizzazione culturale. La sua influenza si estende dall’estetica dell’immagine alla performance, dall’installazione interattiva alla realtà aumentata, fino alla critica e alla riflessione teorica.

L’arte contemporanea, nell’era dello smartphone, diventa così un ecosistema complesso e interconnesso, in cui la tecnologia non è mera infrastruttura, ma componente attiva del processo creativo. La sfida per artisti, critici e istituzioni consiste nel comprendere e valorizzare le potenzialità di questa trasformazione, mantenendo al contempo una riflessione critica sulle implicazioni culturali, estetiche e filosofiche di un mondo in cui il dispositivo mobile è ormai centrale nella percezione e nella produzione artistica.

lunedì 18 agosto 2025

Hai vissuto nella gabbia senza saperlo: Zolla ti spiega come uscirne



Prefazione. Lo sguardo che disfa

In un tempo in cui tutto pare congiurare perché ciascuno rimanga ben saldo nel proprio ruolo — cittadino, lavoratore, identità riconoscibile, narrazione vendibile — il pensiero di Elémire Zolla si staglia come un silenzioso atto di sabotaggio. “Uscite dal mondo”, l’opera da cui prende avvio questo saggio, non è infatti un manifesto spirituale né un trattato filosofico, bensì qualcosa di più elusivo e radicale: un invito all’invisibilità interiore, al disincanto senza trauma, alla chiaroveggenza mite che smonta, con poche parole essenziali, interi edifici mentali. Il saggio che segue raccoglie e sviluppa questo invito, restituendo al lettore non una spiegazione, ma un’apertura.

Zolla non propone una visione del mondo: semmai indica un gesto, un atto — uscire. Ma da che cosa, e verso dove? La risposta, se c’è, è contenuta già nel primo paradosso: si esce non muovendosi. Si varca la soglia del reale non attraverso l’azione, ma attraverso la disidentificazione. Uscire dal mondo, allora, significa riconoscere che ciò che chiamiamo “mondo” non è una realtà solida, ma una costruzione. Una forma mentale. Una somma di riflessi condizionati, automatismi, opinioni adottate per imitazione o paura. Zolla non denuncia questa gabbia: la osserva, la disegna con precisione chirurgica, e poi — come il ladro gentile dei racconti zen — scompare lasciandoci solo il vuoto, che comincia a pulsare di vita nuova.

Il saggio che avete tra le mani prende sul serio — e al tempo stesso disarma — questa operazione. Non vi troverete né la canonizzazione di Zolla né l’ennesimo tentativo di tradurlo in concetti digeribili: al contrario, ciò che si persegue è una lunga immersione nel ritmo stesso del suo pensiero, che non spiega ma trasferisce, che non insegna ma disvela. Ogni sezione si muove con la lentezza necessaria a stare davanti all’enigma, senza scioglierlo troppo in fretta. Ed è proprio in questa lentezza che l’autore del saggio riconosce e onora l’intelligenza di Zolla: perché ogni vera conoscenza, quando è tale, si spoglia.

Molti lettori moderni — abituati al consumo dell’io, al rafforzamento continuo dell’identità, alla produzione di senso come moneta simbolica — troveranno in queste pagine un tonfo. Non un urto ideologico, ma qualcosa di più perturbante: un invito a non esserci del tutto, a sospendere la coazione al significato, a stare nel vuoto senza paura. Il cuore del saggio non è una tesi, ma un gesto: guardare senza afferrare. Lasciar essere le cose come appaiono, e in questo apparire riconoscere il vuoto che le sorregge.

Non è un caso che Zolla evochi lo specchio, l’ombra, lo spazio, e non idee più definite. Lo specchio non giudica, l’ombra non grida, lo spazio non trattiene: tutti e tre indicano una presenza non personale, un fondo impersonale di consapevolezza che precede ogni azione. Ed è in questa chiave che si può leggere il lungo confronto con le tradizioni orientali, con Nietzsche, con Heidegger, che nel saggio non sono mai citati come autorità ma come compagni di cammino. Zolla non costruisce un sistema: lascia intravedere un attraversamento.

La bellezza del saggio sta nel saper tradurre questa intuizione in una prosa che non cade mai nella semplificazione: ogni capitolo prende un filo e lo segue con pazienza, fino a ritrovarsi — senza clamore — là dove tutto si scioglie. Ecco allora che l’identità, da fondamento, diventa illusione da contemplare con tenerezza; che il corpo, da tempio o prigione, si fa onda che non trattiene nulla; che il tempo, da freccia lineare, si riconosce nel battito eterno dell’istante. Non è una fuga dal reale, questa: è uno sguardo che disfa il reale senza rinnegarlo.

Una delle intuizioni più forti, che il saggio mette in rilievo, è che non serve una grande catastrofe esistenziale per vedere tutto questo. Serve solo un lieve scarto. Un momento di chiaroveggenza, come quello che dettò a Arthur Schnitzler i versi finali del brano di Zolla: “Sempre giochiamo, chi lo sa è saggio.” È proprio qui che si annida la rivoluzione silenziosa dell’autore: nella risata quieta, nel disincanto privo di amarezza, nella delicatezza con cui mostra che si può smettere di combattere, senza per questo rinunciare a vedere.

Non si entra in questo saggio per restare uguali. Ma nemmeno per diventare qualcun altro. Piuttosto, per scoprire — tra una frase e l’altra, tra un silenzio e un’intuizione — che non c’è nessuno da essere. E che proprio in questa assenza si apre, senza pretese, la libertà.

Non una libertà da esercitare. Ma una libertà che si è.




L'ombra, lo specchio, lo spazio: uscire dal mondo secondo Elémire Zolla

I. L'atto più bello

«Uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l'atto più bello che si possa compiere». Elémire Zolla apre con questa frase un varco su una visione del mondo che è insieme esistenziale, metafisica, e radicalmente antidogmatica. Quel che qui chiama “spazio” è un insieme stratificato di abitudini, automatismi culturali, assuefazioni linguistiche, condizionamenti morali e sociali che, nel tempo, hanno deformato la percezione dell’essere umano. Non si tratta di una storia da conoscere, ma di un’inflessione da cui liberarsi. L’uscita da questo spazio, dunque, è un gesto di libertà suprema — tanto più perché in apparenza minuscolo, interiore, privo di fanfare. Non si esce dalle catene del tempo con una rivoluzione, ma con uno scarto di percezione.

Ciò che Zolla propone non è una fuga, ma una trasformazione della coscienza: un risveglio da uno stato di sonno profondo che ci ha fatto scambiare la superficie del mondo per realtà. A questo risveglio egli non attribuisce forme spettacolari: niente estasi, niente fuochi mistici, niente illuminazioni improvvise. È una chiaroveggenza lieve, dice. Un momento in cui le sovrastrutture si sciolgono, e si vede con limpidezza ciò che si è e dove si è.

II. L’incurvamento del tempo

L’idea che la storia sia una forza deformante piuttosto che costitutiva è uno dei punti più sovversivi del pensiero di Zolla. La cultura occidentale moderna ha posto il tempo e la storia al centro della propria identità: siamo ciò che siamo perché veniamo da un passato, perché abbiamo una genealogia, un’evoluzione. In questo schema, liberarsi dal passato è considerato ingenuo o pericoloso. Ma Zolla propone un altro sguardo: la storia è ciò che ci ha incurvati, come una colonna vertebrale adattata a un carico sbagliato.

L'uscita dal mondo non è una regressione ma un raddrizzamento, una verticalità che riconosce la pressione del tempo come estranea alla vera identità dell’essere umano. Eppure, per compiere questo gesto, occorre sospendere ogni legame con ciò che ci tiene dentro la curva: interessi, paure, bisogni. Il minimo desiderio è già una zavorra, già un ritorno alla curva. La libertà si manifesta solo nel distacco radicale — non per disprezzo, ma per lucidità.

III. Il momento della chiaroveggenza

Ma come si giunge a questo stato di libertà interiore? Zolla è chiaro: non serve fuggire dal mondo, né rifugiarsi in una grotta o in una dottrina. Serve uno sguardo spassionato. Una sospensione momentanea della volontà. È quando l’essere umano si ritrae dai suoi automatismi, anche solo per un attimo, che può raccogliere i dati, disporli nell’ordine giusto, e intravedere la vastità del possibile al di là delle gabbie.

Questa breve chiaroveggenza non è un privilegio mistico, ma una facoltà accessibile, seppure rara: il frutto di uno svuotamento dell’io desiderante. Allora accade una cosa semplice e immensa: si vede. E vedere, in questo caso, è già un atto trasformativo. Non serve cambiare la realtà esterna, basta vedere il recinto perché questo, di colpo, perda potere.

IV. Nietzsche, Heidegger e l’eterno ritorno

Nella riflessione di Zolla si innesta un accostamento che ha il sapore di un lampo: il superuomo nietzschiano, filtrato da Heidegger, e il liberato dell’induismo coincidono. Questa coincidenza non è solo concettuale ma esperienziale. Entrambi, infatti, si sono redenti dalla volontà di vendetta, vale a dire hanno cessato di opporsi alla realtà del tempo, dell’accadere, dell’eterno ritorno dell’identico.

In Nietzsche, questa accettazione è la prova ultima della forza d’animo: amare il proprio destino, accettare l’infinito ripetersi dell’uguale, senza sperare nel cambiamento, senza bramare redenzione. Heidegger, interpretando Nietzsche, ne fa un punto d’arrivo ontologico: il superuomo è colui che abita pienamente il tempo dell’essere. In Zolla, però, tutto questo risuona con un altro archetipo: l’uomo liberato della tradizione vedica, che ha spezzato l’identificazione con il corpo, con la mente, con le illusioni dei sensi. In entrambi i casi, si tratta di un essere che non reagisce più, che ha cessato di essere progettuale, e si limita a essere, nella pienezza del presente.

V. L’io e le sue illusioni

Uno dei passaggi più potenti del brano è quello in cui Zolla smonta l’identificazione tra l’io e le sue forme apparenti. L’io non è il corpo, dice, perché il corpo muta, si ammala, muore. E anche se diciamo “il mio corpo”, sappiamo intuitivamente che noi non siamo il corpo. Ma nemmeno la mente è l’io: i pensieri, le immagini, le associazioni si interrompono nel sonno profondo — eppure l’io in qualche modo persiste, al di là del pensiero.

Questa intuizione è presente in molte tradizioni spirituali, ma Zolla la tratta con un rigore anti-mistico: non basta raggiungere l’illuminazione o la beatitudine, perché anche queste possono essere illusioni transitorie. Se qualcosa è “raggiunto”, può anche essere perso. Dunque non può essere il vero io. Il vero io non è qualcosa da ottenere, ma qualcosa che sempre è.

VI. L’ombra e lo specchio

A questo punto, il testo si fa quasi poetico, eppure resta rigoroso nella sua logica. L’io vero è come un’ombra immancabile, come uno specchio che riflette ogni immagine ma non ne è toccato. È lo spazio stesso in cui le cose accadono, ma che non è mai le cose. Questa metafora dello specchio e dello spazio viene dalla tradizione vedanta, ma Zolla la rielabora con un’essenzialità disarmante.

L’io è ciò che non ha qualità, non ha forma, non ha contenuto, ma porta verso gli oggetti. Non è il conoscente, né il conosciuto, ma il conoscere stesso. Questa è un’idea quasi impossibile da afferrare con la mente razionale — e infatti Zolla non cerca di dimostrarla, ma solo di indicare, con parole limpide, ciò che in noi potrebbe accorgersi di essa. L’io non è un oggetto di conoscenza: è la luce stessa che rende possibile conoscere.

VII. Il gioco e la sapienza

Ed ecco allora che, alla fine del testo, compare Arthur Schnitzler, con quattro versi di mirabile leggerezza. “L’uno nell’altro scorrono sonno e veglia, / verità e menzogna. / Non c’è certezza, / niente sappiamo degli altri o di noi. / Sempre giochiamo, chi lo sa è saggio.” Questi versi sono la chiusura perfetta per la visione zolliana: la realtà è un intreccio ininterrotto di sogno e veglia, di illusione e apparente verità. Non c’è nulla da afferrare, nulla da possedere.

Il saggio, allora, non è colui che conosce più degli altri, ma colui che ha cessato di pretendere certezze. Colui che ha visto il gioco e non cerca più di uscirne, perché sa che uscirne è un’altra forma di giocare. È il punto in cui la chiaroveggenza si fonde con l’ironia. Non si tratta di una rinuncia, ma di una libertà più grande: la libertà di vedere senza più reagire, senza più giudicare.

VIII. Il distacco senza fuga

Importante è anche ciò che Zolla non dice, ma che si intuisce per tutto il testo: questa uscita dal mondo non comporta l’abbandono del mondo. Il liberato non è colui che si ritira dal sociale o dalla vita quotidiana, ma colui che vi abita senza esserne preso. Non è lo stoico che resiste, ma il presente che osserva. Non è il mistico che ascende, ma l’essere che si accorge. È un distacco senza fuga, una presenza senza identificazione.

In questo senso, il testo è anche una critica silenziosa alle spiritualità del consumo, alle nuove religioni dell’io che promettono estasi, potere, autoaffermazione. Il liberato, dice Zolla, non desidera nemmeno l’illuminazione, perché anche quella è una forma sottile di ego. Il suo sguardo è vuoto e pieno insieme, come quello dello specchio.

IX. Conoscere e basta

Ciò che resta, alla fine, è il “conoscere”. Non il conoscere come accumulo, né come processo. Ma come atto puro. Una consapevolezza che non ha bisogno di contenuti per esistere. Zolla non ci dice che dobbiamo diventare qualcun altro, né che dobbiamo intraprendere un percorso. Ci dice che basta accorgersi. E questo “basta” è tremendo e meraviglioso: è tutto, eppure non richiede nulla.

L’io, dice, è ciò che si situa fra sonno e veglia, fra un oggetto e l’altro. È la soglia, lo spazio fra. E in questo fra si apre tutta la potenza del possibile. Non c’è da credere, da fare, da ottenere. C’è da vedere.

X. Uscire dal mondo, restando nel mondo

Zolla ha chiamato il suo libro Uscite dal mondo, ma leggendo queste pagine si capisce che il mondo da cui ci chiede di uscire non è il mondo reale, ma il mondo costruito dalle nostre reazioni, dalle nostre paure, dalle nostre identificazioni. Il mondo, come appare all’occhio del liberato, è lo stesso — ma è visto da un altro luogo. È il gioco, non più la prigione.

E allora la vera “uscita” è una trasfigurazione dello sguardo. Non c’è bisogno di rompere, né di ribellarsi. Basta osservare spassionatamente. Basta una lieve chiaroveggenza. Basta sapere che si gioca. E allora, forse, si può restare nel mondo senza esserne posseduti. E amare tutto, persino il ritorno dell’uguale.


Lo specchio del conoscere: Elémire Zolla e la dissoluzione dell’identità

XI. L’identità come finzione

L’identità personale, secondo Zolla, è una costruzione instabile e transitoria. Il soggetto moderno la difende con tenacia, come fosse un bene inalienabile, ma ciò che chiamiamo “io” è un insieme composito di memorie, condizionamenti, proiezioni. La coscienza ordinaria, quella che dice “io sono questo”, è un’eco, non una voce originaria. Eppure, l’Occidente ha edificato intere civiltà sull’esaltazione dell’individuo come principio primo. In questa ottica, smascherare l’identità significa toccare un nervo scoperto: se l’io non è ciò che credevamo, chi siamo?

Zolla non ci invita a rispondere con nuove definizioni, ma a far crollare la domanda. La vera liberazione non è trovare un altro sé, più vero, più autentico — è vedere che non c’è nessun sé da trovare. E che questo non è affatto un vuoto tragico, ma una condizione di leggerezza, come lo spazio tra le cose. L’identità, allora, si dissolve senza tragedia. Come una maschera che cade con garbo.

XII. Il sapere che illude

L’epoca in cui Zolla scrive è quella dell’accumulazione frenetica di saperi. La conoscenza scientifica, storica, sociologica, psicologica si moltiplica, e con essa l’illusione che sapere equivalga a comprendere. Ma per Zolla il sapere, se non si fonda su un atto di distacco interiore, è un’altra forma di prigione. È il sapere del labirinto, che si ingarbuglia sempre più senza mai uscire dal proprio recinto.

Solo un tipo di sapere merita questo nome: quello che vede l’illusione del sapere stesso. Il vero conoscere, allora, non si attacca a nulla. Non è dogmatico, non ha interesse. È uno sguardo limpido, senza oggetto, che attraversa tutte le forme e le lascia essere. È per questo che Zolla può citare con tanta leggerezza uno scrittore come Schnitzler accanto a un filosofo come Heidegger: per lui sapienza e letteratura, mistica e ironia convivono, si specchiano l’una nell’altra.

XIII. Il tempo come farsa

Una delle implicazioni più profonde del pensiero di Zolla riguarda il tempo. Non il tempo cronologico, ma la temporalità interiore con cui ciascuno struttura la propria vita. Per il moderno, il tempo è un vettore: si va da un punto a un altro, si cresce, si migliora, si evolve. È un tempo narrativo, finalizzato, carico di aspettative. Ma per Zolla questo è il tempo della trappola: ogni passo verso il futuro è un altro passo nella gabbia.

Il liberato, invece, ha interrotto questo vettore. Vive il tempo come ripetizione, come eterno ritorno. Non nel senso che tutto si ripeta uguale — ma nel senso che nulla di ciò che accade ha un prima o un dopo decisivi. Ogni istante è il momento, l’unico possibile. E non c’è progresso, né retrocessione: c’è solo presenza. Una presenza che si espande come uno specchio, senza direzione.

XIV. Il corpo come illusione sensibile

Zolla è radicale anche nel modo in cui decostruisce l’identificazione col corpo. Non si limita a ripetere i mantra della filosofia indiana (“il corpo non è il Sé”), ma cerca di portare il lettore a un punto d’intuizione diretta. Il corpo, dice, è mio ma non sono io. È qualcosa che ci viene affidato, come una casa temporanea, ma di cui non possiamo assumere la piena identità. Né dobbiamo farlo.

Tuttavia, questo non implica disprezzo del corpo. Al contrario, è proprio nel distacco da esso che si può vivere il corpo con pienezza e senza paura. Solo chi non si identifica col corpo può amarlo davvero, perché non lo usa come veicolo del narcisismo o della colpa. Il corpo diventa, allora, un evento, non una definizione. È come un’onda che sorge nello specchio della coscienza e poi ritorna. Niente da trattenere, niente da temere.

XV. L’invisibile tra le cose

Il vero soggetto del testo di Zolla, però, non è il corpo né il pensiero, ma quello che sta in mezzo. Lo spazio tra sonno e veglia, tra un oggetto e l’altro, tra una parola e la successiva. È lì che si annida l’io vero, non come identità ma come funzione silenziosa. Questo spazio non è un vuoto, ma una presenza sottile, una vibrazione che non si può toccare ma che tutto attraversa.

In termini spirituali, potremmo chiamarlo testimone, ma Zolla evita ogni tecnicismo. Preferisce immagini: lo specchio, l’ombra, il vuoto che porta verso. Questo vuoto non è assenza, è la condizione di possibilità di ogni presenza. Ed è lì che si può restare, se si ha il coraggio di non volere nulla.

XVI. Il disincanto come suprema sapienza

La parola chiave del pensiero di Zolla è forse disincanto. Ma non nel senso di cinismo o disillusione. Il disincanto, per lui, è un atto di grande lucidità e persino di tenerezza: è vedere che ogni forma è una maschera, e non amare meno il mondo per questo, ma amarlo meglio. Il disincanto dissolve il fanatismo, l’attaccamento, la paura. Rende ogni cosa trasparente — e dunque giocosa.

Il sapiente è colui che ha visto che si gioca. E che ha smesso di voler vincere o convincere. Gioca con il mondo, senza esserne preda. Parla, ma sa che le parole sono vuote. Ama, ma sa che nulla può essere trattenuto. È, senza bisogno di esserci.

XVII. Il riso del liberato

Nel silenzio dello specchio, dice Zolla, si può anche ridere. Ecco uno dei tratti più sorprendenti del suo pensiero: non c’è serietà nell’illuminazione. O meglio, c’è una serietà che non ha più bisogno di gravità. Il liberato non si prende sul serio, perché ha visto l’assurdo della serietà. Ride come ride un vecchio saggio zen. Non perché nulla abbia senso, ma perché il senso non si può possedere.

Questo riso non è sghignazzo né derisione. È uno stato di grazia: una gioia senza oggetto, che nasce dal fatto di non dover più fingere nulla. E forse è questa la meta più profonda della filosofia zolliana: un riso che attraversa il tempo, che scioglie ogni identità, che gioca con le forme senza più cadere nei loro tranelli.

XVIII. Contro l’industria del sé

In un mondo che vende esperienze, crescita personale, performance spirituali, l’opera di Zolla è una mina piazzata sotto l’intero edificio. Il suo invito è a cessare ogni sforzo, a smascherare ogni anelito, a vedere che la corsa verso il “sé autentico” è solo un altro gioco della mente. Persino la spiritualità, dice implicitamente Zolla, può diventare una prigione se è praticata come strategia.

L’uscita dal mondo è dunque un gesto improduttivo, impensabile per l’ideologia dominante. È uno svuotamento, non un empowerment. Ma proprio per questo è radicale. In un mondo che chiede di essere visibili, vincenti, realizzati, Zolla propone l’invisibilità come forma suprema di presenza. L’ombra, lo specchio, il vuoto.

XIX. Oltre le parole

C’è, infine, un ultimo punto essenziale. Il linguaggio. Zolla lo usa con maestria, ma sempre contro se stesso. Ogni parola che scrive è una corda per scendere nella profondità, ma anche un pericolo, perché può diventare idolo. La parola, dice, è utile solo se si sa che è illusione. Non c’è concetto che possa contenere l’io vero. Non c’è formula, non c’è dottrina.

La scrittura di Zolla ha qualcosa del koan: non dice, ma allude, non spiega, ma porta altrove. È un invito all’esperienza diretta, al silenzio che segue la lettura. E forse è proprio questo il dono più grande del testo: che alla fine, ci lascia muti.

XX. Il possibile si spalanca

E allora, che resta? Solo ciò che era già lì. Lo specchio, l’ombra, lo spazio. Non un’altra realtà da conquistare, ma una realtà che sempre è stata presente, sotto le incrostazioni del mondo. L’uscita non è un luogo, ma uno sguardo. Non un tempo, ma un istante eterno. E da quell’istante, tutto si apre.

Zolla chiude la porta del mondo, ma non per sfuggirgli. Lo fa per vederlo meglio. E quando la porta si richiude, ciò che si spalanca non è un altrove, ma il possibile.




Postfazione. L’atto più bello

«Uscire dallo spazio che su di noi hanno incurvato secoli e secoli è l’atto più bello che si possa compiere». Questa frase, che apre il saggio, torna alla fine come un sigillo. Ma a differenza del suo apparire iniziale — ancora come promessa, quasi come sogno — ora la sentiamo sedimentata, provata, verificata nella lunga traversata del pensiero. Quel gesto, che sembrava utopico, si è rivelato possibile. Non facile, non definitivo, ma possibile. Ed è forse questa la più grande eredità del lavoro che abbiamo attraversato: una possibilità che non è evanescente, ma concreta nella sua radicale semplicità.

Zolla non è mai stato autore di compromessi. Il suo pensiero non mira a convincere, non si cura di conquistare lettori, non si pone l’obiettivo di modernizzarsi per risultare “attuale”. Eppure — e proprio per questo — la sua voce oggi risuona con forza singolare. In un mondo che corre verso l’accelerazione, la prestazione e il rumore, egli parla a partire dal silenzio. In un’epoca di visibilità ossessiva, ci invita all’invisibilità come forma suprema di liberazione. In un tempo che ha paura della nozione di “verità”, Zolla non teme di cercare l’essere. Ma, attenzione, non lo fa da filosofo dogmatico: lo fa da sapiente disincantato, che ha attraversato le immagini e le ha lasciate cadere, una a una.

Il saggio che chiude queste pagine è costruito come un dialogo interno, una lenta epifania che si fa percorso. Non costruisce un edificio, ma apre porte, apre finestre, fa respirare. Ed è proprio in questo scarto rispetto al pensiero sistematico che ritroviamo lo stile zolliano più autentico: quello che unisce il rigore al mistero, la cultura alla rinuncia, la vastità all’invisibile. Zolla leggeva i Veda, Nietzsche, Plotino, Eckhart e i mistici sufi non per comporre un’enciclopedia del sacro, ma per indicare una sola cosa, semplice e scandalosa: che la verità non si trova fuori. E non si trova nemmeno dentro, se per “dentro” si intende una soggettività in cerca di gratificazioni. La verità, come suggerisce il saggio, si trova al di là. Ma per raggiungerla occorre non muoversi. Occorre fermarsi. Occorre disidentificarsi.

Questa parola — che oggi risuona nei contesti dello yoga, della psicoterapia, della mindfulness — in Zolla non è un'espressione tecnica. È un'esperienza. Disidentificarsi significa smettere di coincidere con il ruolo, il pensiero, la paura, il desiderio. Significa accorgersi che l’“io” non è ciò che crediamo: non è il corpo, non è la storia, non è il pensiero. È piuttosto il conoscere stesso, lo spazio che precede ogni contenuto. Il saggio, con grande delicatezza, ci guida fino a questa soglia. E lì si ferma. Perché oltre quel punto non si può più parlare: si può solo essere.

Che valore ha oggi un pensiero così? Non è la domanda giusta. Zolla ci ha insegnato che il pensiero non vale “in quanto utile” o “in quanto attuale”: vale perché è vero. O meglio, perché risuona con ciò che è eterno nell’umano. In questo senso, Zolla non è un autore del passato, ma del futuro. Appartiene a quella stirpe di guardiani del tempo che non hanno timore di perdersi nell’inattuale, perché solo l’inattuale custodisce ciò che non muta. Nietzsche, Simone Weil, René Guénon, Giordano Bruno, Nagarjuna, Meister Eckhart: Zolla dialoga con questi spiriti in una lingua che non è né occidentale né orientale, né moderna né arcaica, ma profondamente umana.

Il saggio, nella sua seconda metà, ci ricorda anche che questa conoscenza non è per pochi eletti. Al contrario, è per chiunque sia disposto a vedere. E vedere non richiede titoli, non richiede sforzo: richiede sguardo. Quello stesso sguardo che fa sì che “i recinti si aprano” e l’immensa distesa del possibile si spalanchi davanti a noi. Non come evasione, ma come presenza. Non come utopia, ma come realismo estremo.

Ecco perché “l’atto più bello” non è un’azione, ma una rinuncia. Rinuncia all’identificazione, all’automatismo, alla vendetta, alla paura del tempo. L’accettazione dell’eterno ritorno, come ci insegna Nietzsche, non è una dottrina: è una condizione spirituale. Non c’è più nulla da combattere, nulla da cambiare: solo da vedere. E chi vede, ha già cominciato a uscire.

Non ci sono conclusioni da trarre. Solo una postura interiore da assumere. E forse — alla fine — anche questa verrà lasciata andare. Perché anche “essere liberi” può diventare una prigione, se si attacca al concetto. Ma finché le parole ci servono come trampolino, lasciamole fluire.

Che il lettore, giunto sin qui, non chiuda questo libro con una risposta, ma con un silenzio nuovo. Uno spazio che si è fatto più ampio, più leggero, più vero. Uno spazio, forse, dove “l’uno nell’altro scorrono sonno e veglia, verità e menzogna” — e dove sapere che si gioca non significa fuggire, ma iniziare, finalmente, a vivere.

domenica 17 agosto 2025

Fare una pace separata. Fernanda Pivano e la traduzione come forma di resistenza


Cammino tra le parole come in una casa disordinata. I mobili sono americani, la luce è piemontese, e da qualche parte si sente ancora l’eco delle lettere di Pavese. Penso a Fernanda Pivano così: con una sigaretta tra le dita, la frangia perfettamente in asse, e l’intelligenza sempre qualche grado più avanti del tempo in cui viveva. Penso a lei come a una traduttrice, nel senso più radicale e critico del termine. Non una traspositrice, non una mediatrice: una guerrigliera del testo, una partigiana della letteratura. E se l’arte della traduzione può diventare atto politico, forma di salvezza o forma di perdizione, Pivano ne ha incarnato la verità più profonda, quella che si nutre di fallimento e fedeltà, di errore e ostinazione.

Questo saggio si propone di rileggere l’opera di Fernanda Pivano alla luce della sua attività di traduttrice, con un’attenzione particolare al modo in cui la sua voce – e non solo la sua penna – ha trasformato il paesaggio culturale italiano del secondo Novecento. Le sue traduzioni non sono state semplici passaggi di frontiera, ma veri e propri contrabbandi d’anima. Da Hemingway a Kerouac, da Ginsberg a Edgar Lee Masters, ogni autore portato in Italia da Pivano è stato accompagnato da un gesto di resistenza: contro l’ottusità del canone, contro il maschilismo dell’accademia, contro la censura, contro la noia.

La traduzione, per Fernanda Pivano, è stato un atto d’amore, certo, ma anche un atto di guerra. Quando traduceva Spoon River sotto lo sguardo vigile di Cesare Pavese, non stava semplicemente trasportando versi: stava aprendo un varco. Dietro quei versi c’era un mondo – un’America che non era solo geografia, ma visione – e lei, ragazza colta e visionaria, aveva deciso di fare della sua vita una porta. Una porta spalancata verso l’altro e, forse, verso un sé che non aveva ancora nome.

Pivano ha scelto gli autori come si scelgono gli amanti: per necessità vitale. Ha difeso Hemingway con la fedeltà di una sorella maggiore, ha tenuto la mano a Ginsberg come si fa con i profeti, ha accarezzato Bukowski come si fa con i mostri sacri e con i cani randagi. Ogni scelta editoriale, ogni prefazione, ogni postfazione, ogni viaggio, ogni lettera – tutto si è fatto corpo nella sua lingua.

Eppure, in questo corpo, non c’era solo il desiderio di servire l’altro. C’era anche una voce che cercava di farsi sentire. C’era, in ogni frase, una pace separata.


Camminando ancora tra le pieghe della vita di Fernanda Pivano, è inevitabile soffermarsi su Cesare Pavese, il maestro che ha inciso una traccia indelebile nel suo percorso culturale e umano. Non un semplice editore o collega, ma una figura che ha rappresentato un paradigma di come si potesse, attraverso la parola, attraversare la tragedia personale e collettiva di un’Italia lacerata dalla guerra e dal dopoguerra.

Il rapporto con Pavese, come quello con Hemingway, si nutre di un’intimità profonda e dolorosa. Da lui Pivano apprende l’importanza di una traduzione che sia non soltanto fedeltà al testo, ma una vera e propria trasfigurazione, una “lettura creativa” in cui il traduttore diventa coautore. Fu così che nacque la sua prima grande impresa: la traduzione di Spoon River Anthology di Edgar Lee Masters, opera che Pavese stesso aveva amato e commentato.

Lo Spoon River per Fernanda fu più di una raccolta di poesie; fu un ritratto di umanità disarmata, ferita, aspra, eppure capace di esprimere una dolcezza a tratti inaspettata. La difficoltà di rendere in italiano quei monologhi di voci spezzate non scoraggiò la giovane traduttrice, al contrario la spinse a cercare una lingua nuova, libera dai vincoli di una tradizione che sembrava incapace di accogliere l’innovazione americana. In quel lavoro si sente già l’eco della sua “guerra” personale con la letteratura ufficiale, con l’accademia che guardava all’America con diffidenza, se non ostilità.

Il senso di quella traduzione si estendeva ben oltre la parola. Spoon River divenne per Pivano una forma di resistenza, un grido sottile contro l’ottusità del tempo e un’apertura verso una cultura altra, viva e pulsante. Con quel testo, Pivano non tradusse soltanto versi, ma l’anelito di un’intera generazione americana che cercava la propria identità tra le macerie del proprio passato.

Questa esperienza segnerà il suo modo di intendere la traduzione per tutta la vita. Non più un esercizio tecnico o accademico, ma un atto politico e poetico: tradurre significava incarnare l’altro, lasciarsi attraversare dalla sua voce, soffrire insieme a lui, resistere a una visione monolitica e censoria della cultura.

Parallelamente, l’incontro con Hemingway, che Pivano definirà spesso come suo “maestro indimenticabile”, rappresenta un altro capitolo fondamentale. Il grande scrittore americano, con la sua prosa asciutta e potente, e la sua idea di una “pace separata” come via di salvezza, si trasforma nell’icona di una letteratura che sa essere insieme dura e compassionevole. Pivano non traduce Hemingway solo con la mente: lo fa con l’anima, con la sensibilità di chi ha imparato che la letteratura americana è anche un modo per dialogare con le proprie ferite, per sopravvivere alle battaglie della vita.

Non è un caso che la “pace separata” di Hemingway venga evocata proprio in relazione alla sua stessa esperienza. Come lei stessa disse in un’intervista, “ho fatto una pace separata”: un compromesso necessario per non soccombere all’onda delle difficoltà personali e storiche, ma anche un modo per mantenere intatta la propria integrità di traduttrice e di donna.

Questo secondo blocco si chiude così su un’immagine: quella di una giovane Fernanda che, tra le pagine di Spoon River e le lettere di Hemingway, impara a costruire un ponte tra culture, generazioni e dolori diversi, usando la traduzione come strumento di resistenza e rinascita.



Nel vortice degli anni Cinquanta e Sessanta, Fernanda Pivano si fa portavoce di una nuova ondata di scrittura americana che scuote gli schemi letterari e sociali italiani. La Beat Generation, con la sua carica anticonformista, il suo respiro di ribellione e di libertà, trova in Pivano un’interprete appassionata e instancabile.

Attraverso le sue traduzioni e le sue traduzioni critiche, Pivano introduce in Italia nomi come Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs: voci che, più di altre, incarnano lo spirito di una generazione in cerca di autenticità e di una nuova esperienza di vita. Non si limita a tradurre i testi, ma li commenta, li contestualizza, ne diventa una sorta di ambasciatrice e di guida.

Con la traduzione di On the Road di Kerouac, Pivano compie un gesto che è anche una dichiarazione di fede: quella nel viaggio, nel movimento come metafora esistenziale, nella ricerca di un’identità fluida e anticonvenzionale. La sua traduzione non è neutrale, ma attraversata da un fervore che cerca di restituire non solo le parole, ma l’urgenza, la musicalità e il ritmo frenetico della scrittura beat.

Similmente, la traduzione delle poesie di Ginsberg, soprattutto di Howl, si fa un atto di sfida culturale. In un’Italia ancora pervasa da rigidi moralismi, Pivano introduce una poesia cruda, scandita da urgenze politiche e spirituali, da una sessualità esplicita e da un dissenso radicale contro la società borghese e repressiva. La traduzione di Urlo diventa così una battaglia culturale e politica, un modo per scardinare i tabù e aprire nuove possibilità di espressione.

L’azione di Pivano si traduce in un impatto profondo sulla cultura italiana: la Beat Generation non rimane confinata a una nicchia ristretta, ma si diffonde in ambienti artistici, letterari e politici, influenzando scrittori, musicisti, attivisti. La traduzione diventa dunque uno strumento di trasformazione sociale, un veicolo di modernità e di rottura.

Non va dimenticato che questo ruolo di Pivano si svolge in un contesto storico di forti tensioni politiche e culturali. L’Italia del dopoguerra vive l’ascesa della Guerra Fredda, la pressione della censura, i vincoli di un sistema editoriale ancora molto conservatore. In questo scenario, la scelta di tradurre e promuovere autori radicali è anche un gesto di coraggio e di militanza culturale.

Fernanda Pivano si colloca quindi nel cuore di una battaglia più ampia, quella per la libertà di espressione e per l’apertura delle frontiere culturali. La sua figura emerge come quella di una intellettuale militante, che crede fermamente nel potere della letteratura di cambiare la realtà, di trasformare le coscienze, di restituire voce a chi è stato messo ai margini.

Con la sua attività di traduttrice, curatrice e divulgatrice, Pivano contribuisce a forgiare un’Italia più aperta, più ricca e più consapevole del proprio ruolo nel panorama culturale internazionale. La sua opera è un invito incessante a guardare oltre, a non accontentarsi delle verità comode, a osare il contatto con l’altro, con il diverso, con l’inedito.



Dietro ogni grande opera di traduzione, dietro ogni scelta coraggiosa di portare in Italia parole difficili e talvolta scandalose, si cela la vita di una donna che ha attraversato tempeste interiori, ostacoli culturali, e disastri personali. Fernanda Pivano, detta Nanda, non ha mai fatto mistero delle sue battaglie private, delle ferite e delle sconfitte che hanno costellato il suo cammino. Eppure, più che una narrazione di cadute, la sua è una testimonianza di resistenza.

La sua frase — “Non mi è riuscito proprio un bel niente. Sono passata da un disastro all’altro. Diciamo che quel che mi è riuscito forse è resistere al disastro” — racchiude una filosofia di vita che si riflette nel suo lavoro di traduttrice e intellettuale. Non un trionfo retorico, ma una constatazione limpida e cruda, che si fa paradossalmente un gesto di forza. Resistere, nel suo caso, non è solo una scelta personale, ma un atto politico.

Le difficoltà non mancavano: il mondo culturale italiano degli anni del dopoguerra e del boom economico non era pronto ad accogliere una figura così libera e determinata. Il sessismo latente, il conformismo letterario, la diffidenza verso le culture straniere rendevano il suo lavoro una sfida quotidiana. Ma Pivano non si piegava, continuava a tradurre, a scrivere, a raccontare. Era consapevole di essere, in un certo senso, una solitaria combattente in trincea.

Allo stesso tempo, la sua vita privata era segnata da una profonda umanità, fatta di legami intensi ma anche di solitudini. Le sue lettere, le sue interviste rivelano un’anima inquieta, sempre in tensione tra il bisogno di appartenenza e il desiderio di libertà. In questo senso, la sua “pace separata” appare come un’esigenza vitale: non una resa, ma una tregua necessaria per poter continuare a camminare senza farsi schiacciare.

In questa luce, il suo ruolo di traduttrice diventa quasi metafora della sua esistenza. Tradurre è attraversare un confine senza perdere se stessi; è entrare nell’altro senza annullarsi; è restare fedeli alla propria voce anche quando la voce dell’altro tenta di sopraffarla. La traduzione come resistenza, dunque, ma anche come forma di sopravvivenza.

Il suo lascito non è soltanto letterario o culturale, ma profondamente umano. Fernanda Pivano ci insegna che la grandezza non sta nella perfezione, nei successi ininterrotti, ma nella capacità di rialzarsi, di continuare a cercare, a tradurre, a vivere nonostante i disastri. Il suo esempio è un invito a fare della vita stessa una «pace separata», un equilibrio precario ma necessario per restare fedeli a se stessi e agli altri.



Guardando oggi alla figura di Fernanda Pivano, è evidente come il suo lavoro abbia lasciato un’impronta profonda non solo nella letteratura italiana, ma anche nel modo in cui intendiamo la traduzione e la mediazione culturale. In un mondo sempre più globalizzato, dove le frontiere si confondono e il dialogo tra culture diventa imprescindibile, il suo esempio appare più che mai rilevante.

Pivano ha incarnato una visione della traduzione come atto creativo e politico, un processo che non si limita a trasferire parole da una lingua all’altra, ma che costruisce ponti di senso, sfida pregiudizi, reinventa prospettive. Questa prospettiva è stata fondamentale per rompere la rigidità di un sistema culturale italiano che, specie nel secondo dopoguerra, si mostrava spesso impermeabile alle novità provenienti dall’America e dal mondo anglofono.

La sua opera di traduttrice e divulgatrice ha contribuito a far entrare nel nostro orizzonte autori che oggi consideriamo canonici, ma che allora rappresentavano una rivoluzione, una scommessa quasi eroica. È per questo che parlarne oggi significa riflettere anche sul ruolo che i traduttori — spesso invisibili e sottovalutati — giocano nella costruzione delle nostre identità culturali.

Inoltre, l’attualità di Pivano si coglie nella sua capacità di unire rigore intellettuale e passione, di muoversi con disinvoltura tra i codici letterari e le istanze politiche, di riconoscere la letteratura come un luogo di battaglia, ma anche di cura e di speranza. Il suo lavoro ci ricorda che tradurre è un atto di responsabilità, che richiede empatia, coraggio e una profonda fedeltà al testo e alla sua umanità.

Nel contesto contemporaneo, in cui le sfide poste dalla tecnologia, dall’intelligenza artificiale e dalla globalizzazione impongono nuove riflessioni sul ruolo della parola e della mediazione, il modello di Fernanda Pivano può essere una bussola preziosa. Una bussola che indica la via della resistenza e della creatività, della pace separata che permette di navigare tra disastri e rinascite.

In conclusione, Fernanda Pivano non è soltanto una traduttrice di testi: è una traduttrice di culture, di tempi, di dolori e di speranze. La sua eredità ci invita a pensare la traduzione come un atto di amore e di rivoluzione, come una possibilità di trasformazione continua, in cui il traduttore diventa coautore e custode di una lingua viva.



Fernanda Pivano non si è mai accontentata di una traduzione meccanica o letterale. Il suo approccio alla traduzione rifletteva un equilibrio instabile e affascinante tra fedeltà al testo e libertà creativa. Più che un semplice passaggio di parole, per lei tradurre era un atto di dialogo intimo con l’autore, un confronto spesso serrato e appassionato con il suo stile, i suoi silenzi, le sue omissioni.

Nelle sue lettere e interviste emerge spesso un tratto decisivo: la consapevolezza che ogni lingua possiede una musicalità unica, e che il traduttore deve imparare a suonare quella musica senza tradire l’originale. Questa sensibilità musicale si rifletteva nei suoi testi, in cui la scelta di una parola piuttosto che un’altra aveva il peso di una nota in un accordo complesso.

Un episodio emblematico racconta di quanto Pivano faticasse a trovare la giusta resa di alcune espressioni gergali o particolari di Kerouac e Ginsberg. In quei casi, non esitava a ricorrere a neologismi, a coniare termini che non esistevano nel lessico italiano, pur di mantenere il ritmo e la forza dell’originale. Non una resa “perfetta” nel senso classico, ma una resa “vera”, autentica, viva.

Questa attitudine la poneva spesso in contrasto con editori e critici più tradizionalisti, che accusavano le sue traduzioni di eccessiva libertà o addirittura di tradimento. Ma Pivano era convinta che il traduttore debba assumersi una responsabilità non solo linguistica, ma anche etica e politica: tradurre significa infatti “portare dentro” una cultura, assumendosi il rischio e l’onere di renderla accessibile e comprensibile, senza snaturarla.

Non è un caso che abbia scelto di tradurre proprio quegli autori che avevano rotto con le forme tradizionali e consolidate, che avevano sfidato le regole della grammatica e del verso. Per Pivano, la traduzione diventava così uno spazio di sperimentazione e di libertà, uno specchio della sua stessa vita irrequieta e intensa.

In più, Fernanda si muoveva con acutezza tra i nodi politici del suo tempo: la Guerra Fredda, la censura, il conservatorismo culturale italiano. Tradurre autori “scomodi” come Ginsberg o Burroughs non era solo un gesto letterario, ma un atto di coraggio politico. Ecco perché la sua traduzione è anche un documento di resistenza, una testimonianza di come la cultura possa opporsi all’oscurantismo e all’oppressione.

Questa parte getta luce su un aspetto forse meno noto, ma fondamentale, della sua opera: la traduzione come pratica artistica e impegno etico, una sfida che Pivano ha raccolto con passione fino all’ultimo giorno.



Nel tracciare la figura di Fernanda Pivano, si delinea un ritratto di donna e intellettuale che ha saputo coniugare passione, rigore e coraggio in un’epoca di grandi trasformazioni e contraddizioni. La sua opera di traduttrice non è soltanto un fatto letterario, ma un paradigma di resistenza culturale e umana, un invito costante a fare della traduzione un atto di responsabilità e di amore verso l’altro.

Pivano ha aperto finestre su mondi lontani, portando in Italia voci che ancora oggi risuonano per la loro forza e la loro verità. Ha tradotto non solo parole, ma ideali, sogni, lotte e paure, lasciando un’eredità che va ben oltre la semplice trasposizione linguistica. Il suo lavoro è un monito a non accontentarsi della superficie, a scavare nelle profondità del testo e dell’esperienza umana.

La “pace separata” evocata in relazione a Hemingway diventa così una chiave di lettura anche per la sua vita e per la sua arte: non una resa, ma un compromesso necessario per poter resistere, per poter continuare a camminare in equilibrio tra mondi e tempi diversi, tra disastri e rinascite.

Nel presente, quando la traduzione si trova a fronteggiare nuove sfide legate alla digitalizzazione, all’intelligenza artificiale, alla globalizzazione, la lezione di Pivano resta fondamentale. Ci ricorda che tradurre è sempre un atto umano, che richiede passione, sensibilità, e soprattutto quella capacità di “fare pace” con la complessità e le contraddizioni della realtà.

Fernanda Pivano, detta Nanda, rimane così una figura esemplare: una traduttrice che ha fatto della sua vita una testimonianza di resistenza e di amore per la parola, un ponte tra culture e generazioni, una guida per chi vuole ascoltare non solo le voci degli autori, ma anche le loro ombre e i loro silenzi.

In questo senso, il suo lascito non è solo da celebrare, ma da continuare a coltivare, affinché la traduzione resti un atto vivo di incontro e di trasformazione.