sabato 25 aprile 2026

Resistenza e memoria: Il contributo eroico di Rom e Sinti alla lotta contro il fascismo

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana è una pagina di storia troppo spesso dimenticata, ma che merita di essere raccontata e celebrata. Queste comunità, tradizionalmente marginalizzate e perseguitate, hanno contribuito in modo significativo alla lotta contro il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, dimostrando un eroismo e una generosità straordinari. Tuttavia, questo capitolo della storia è stato spesso messo in ombra, sia per la politica dello Stato italiano dell'epoca che per il pregiudizio sistemico che ancora oggi affligge le popolazioni rom e sinti.

La Resistenza italiana fu un movimento variegato che coinvolse persone provenienti da ogni parte della società, da militari disertori a intellettuali, da contadini a operai. Tra questi, vi furono anche i rom e i sinti, che non solo subirono le atrocità del fascismo, ma furono anche attivamente coinvolti nel sabotaggio, nelle azioni di guerriglia e nel soccorso degli altri partigiani e degli ebrei. Questi gruppi, purtroppo, sono stati raramente celebrati nelle narrazioni ufficiali della Resistenza, spesso a causa delle politiche discriminatorie dello Stato italiano, che continuò a trattare i rom e i sinti come "indesiderabili" anche durante e dopo la fine della guerra.

Un esempio emblematico di come i rom e i sinti abbiano contribuito alla lotta di Liberazione è la formazione dei "Leoni di Breda Solini", una brigata partigiana composta da sinti italiani, che operò nelle regioni centrali e settentrionali del paese, in particolare tra le province di Mantova, Modena, Reggio Emilia e Cremona. Questa brigata si formò grazie alla fuga di molti sinti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia (MO), dove erano detenuti dai fascisti, subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Nonostante l’assenza di una preparazione militare formale, i membri della brigata si distinsero per il coraggio e l'efficacia nelle azioni di sabotaggio, come la distruzione di ponti, la raccolta di armi e l’assalto ai convogli tedeschi. La loro lotta non si limitò alla semplice resistenza armata, ma fu anche un atto di sfida alle ingiustizie razziali e sociali che avevano affrontato tutta la loro vita.

I "Leoni di Breda Solini" utilizzavano un camion che, con una serie di modifiche ingegnose, diventò un veicolo per trasportare armi e munizioni, permettendo loro di compiere incursioni nei territori occupati dai nazisti. La loro abilità nel muoversi e nel restare anonimi nel territorio, ma anche nella costruzione di alleanze con i gruppi partigiani locali, li rese una forza rispettata. La figura di Giacomo "Gnugo" De Bar, uno dei leader dei Leoni, divenne simbolo della determinazione di questi uomini e della loro lotta contro l'oppressione.

Purtroppo, molti altri partigiani rom e sinti sono caduti nell’oblio. Tra loro, Giuseppe "Tarzan" Catter, ucciso dai fascisti nell’area dell'Imperiese, è uno dei nomi più significativi che ancora oggi merita di essere ricordato. Altri, come Walter "Vampa" Catter e Lino "Ercole" Festini, furono fucilati il 11 novembre 1944 a Vicenza per la loro partecipazione alle azioni di resistenza. Questi uomini, insieme a molti altri, furono decorati al valore per il loro coraggio e il loro impegno a favore della libertà e della giustizia, ma le loro storie sono state spesso ignorate dai racconti ufficiali della guerra di Liberazione.

La resistenza dei rom e dei sinti non si limitò al solo combattimento armato. Molti membri di queste comunità si trovarono coinvolti in azioni di supporto, come l’aiuto a prigionieri ebrei, la protezione delle famiglie più vulnerabili, e la creazione di reti di rifugiati per nascondere gli oppositori del regime fascista. La loro determinazione nel contribuire alla liberazione d’Italia fu un atto di eroismo che merita finalmente di essere riconosciuto nella memoria storica del nostro paese.

Nonostante il loro contributo alla Resistenza, le comunità rom e sinti furono anche vittime di una sistematica persecuzione durante la Seconda Guerra Mondiale. Molti furono deportati nei campi di concentramento, dove subirono torture, esperimenti medici e la morte. Il genocidio a loro destinato, conosciuto come "Porrajmos" (in lingua romani, "grande divoramento") o "Samudaripen" ("tutti uccisi"), è una parte della storia europea che ha ricevuto poca attenzione, ma che rappresenta uno degli aspetti più crudeli della persecuzione razziale messa in atto dal regime nazista.

Il razzismo fascista e nazista ha considerato i rom e i sinti non solo come minoranze razziali da eliminare, ma come una minaccia da estirpare per “purificare” la razza. La violenza e la brutalità del regime si riflettevano anche nei trattamenti che queste persone ricevevano nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa, in un contesto di sistematica esclusione sociale e discriminazione.

Nonostante il loro fondamentale contributo alla lotta contro il nazifascismo, la memoria dei rom e dei sinti nella Resistenza è stata a lungo marginalizzata. L’indifferenza e il pregiudizio verso queste comunità hanno impedito che la loro partecipazione venisse adeguatamente riconosciuta. Solo negli ultimi decenni si sono registrati dei tentativi di recuperare queste storie, sia attraverso la pubblicazione di libri e articoli, che mediante la creazione di mostre e documentari. A queste iniziative si sono aggiunti importanti momenti di riflessione come la Giornata della Memoria, che ha cominciato a ricordare il genocidio dei rom e sinti, accanto a quello degli ebrei.

Negli ultimi anni, anche grazie all'impegno di attivisti, storici e membri delle stesse comunità rom e sinti, sono emerse nuove testimonianze e ricerche che stanno lentamente restituendo loro il giusto riconoscimento. Progetti come il Museo Nazionale della Resistenza e iniziative locali stanno facendo luce su queste figure dimenticate, cercando di costruire una memoria collettiva più inclusiva e giusta. La storia dei rom e sinti nella Resistenza non è più relegata nell’ombra, ma sta prendendo piede come un capitolo fondamentale nella narrazione della liberazione italiana.

È ora che il contributo di queste persone venga riconosciuto pienamente. Non solo come vittime del razzismo e della persecuzione, ma anche come eroi che hanno lottato con coraggio e determinazione per la libertà. La storia delle comunità rom e sinti nella Resistenza è una storia di resistenza non solo contro i fascisti, ma contro le ingiustizie di ogni tipo, e di un impegno che ha contribuito alla costruzione di una società più giusta e libera.

E ci sono ancora molti aspetti che vale la pena esplorare riguardo al contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza, e alla loro memoria storica, che spesso rimane in ombra. Ecco alcuni punti che potrebbero essere aggiunti per ampliare ulteriormente la narrazione:

Alcune delle storie più toccanti e significative di partecipazione delle comunità rom e sinti alla Resistenza provengono dalle testimonianze dirette di chi visse quei momenti. Purtroppo, molte di queste voci si sono perse con il passare del tempo, ma alcune sono state raccolte e continuano a essere diffuse grazie agli sforzi di storici e attivisti. Alcune di queste testimonianze raccontano di azioni di sabotaggio, ma anche di gesti quotidiani di solidarietà, come l’offrire rifugio a partigiani in fuga o la protezione di chi, per motivi politici o religiosi, era a rischio di arresto. Queste testimonianze sono fondamentali non solo per onorare il coraggio di queste persone, ma anche per contrastare l’oblio a cui sono state condannate.

Un altro aspetto che potrebbe essere approfondito è l’impatto delle politiche post-belliche sulla memoria delle comunità rom e sinti. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo italiano, come molti altri in Europa, non ha fatto molto per riconoscere i crimini perpetrati contro le popolazioni rom e sinti. La loro lotta per il riconoscimento dei diritti civili e il recupero delle memorie storiche è stata ostacolata da un pregiudizio istituzionale che ha perpetuato l’idea di queste comunità come “straniere” e non integrate nella società. Questo ha avuto conseguenze dirette sulla loro inclusione nei racconti ufficiali della Resistenza e, più in generale, sulla loro visibilità all’interno della società italiana.

È importante sottolineare che il contributo dei rom e dei sinti alla Resistenza non si è limitato alle brigate partigiane o alle azioni di combattimento diretto. Molti di loro, infatti, hanno contribuito alla “Resistenza diffusa”, quella fatta di atti quotidiani di opposizione al regime fascista. Si trattava di atti di disobbedienza civile, di rifiuto di piegarsi alla violenza del regime, di difesa della propria identità culturale in un contesto che cercava di omologare e cancellare qualsiasi forma di diversità. Il rifiuto delle politiche di razza e l'affermazione di un’identità libera e autonoma, spesso associata all'intransigenza e alla ribellione, è una forma di resistenza che merita di essere esplorata in modo più profondo.

Un aspetto che potrebbe essere ulteriormente approfondito riguarda il ruolo delle donne rom e sinti durante la Resistenza. Come in molte altre situazioni, il contributo femminile è stato spesso trascurato, ma numerose donne delle comunità rom e sinti hanno avuto un ruolo fondamentale nelle reti di resistenza, sia in azioni dirette di sabotaggio che nel supporto logistico e nell’assistenza ai partigiani. Alcune di queste donne si sono distinte anche per il loro coraggio nel proteggere le famiglie dai rastrellamenti fascisti e nazisti, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri cari.

Un altro aspetto importante da aggiungere riguarda il riconoscimento ufficiale di questa parte di storia. La Legge 211 del 2000, che ha istituito la Giornata della Memoria in Italia, ha rappresentato un primo passo importante nel riconoscere anche le vittime rom e sinti del nazismo e del fascismo. Tuttavia, c'è ancora molto da fare per includere adeguatamente il loro contributo alla Resistenza nei curriculum scolastici, nei musei e nelle commemorazioni ufficiali. È fondamentale che le nuove generazioni siano consapevoli del ruolo che queste comunità hanno avuto nella lotta per la libertà e che imparino a riconoscere il valore della loro partecipazione.

Uno degli obiettivi più importanti nel raccontare questa storia è creare una memoria condivisa, che vada oltre le differenze culturali e sociali, per costruire una narrazione inclusiva che riconosca le sofferenze e i sacrifici di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà e contro le ingiustizie. In un mondo che spesso si trova diviso da conflitti razziali e culturali, il racconto delle storie di resistenza dei rom e dei sinti è una lezione di solidarietà, di coraggio e di speranza, che può contribuire a un futuro più giusto e rispettoso della diversità.

Il racconto della Resistenza rom e sinti non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di rivendicazione di una memoria collettiva più equa. Il loro contributo alla lotta contro il fascismo e il nazismo è parte integrante della storia della nostra libertà. Riconoscere e celebrare questo contributo non solo restituisce dignità a queste comunità, ma arricchisce anche la comprensione della nostra Resistenza, rendendola più completa, più giusta e più universale.

Un altro aspetto che potrebbe arricchire ulteriormente il racconto del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza riguarda il legame tra la memoria storica e le politiche contemporanee di inclusione e di lotta contro la discriminazione. Ecco alcuni punti da considerare:

Oggi, la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza ha acquisito una nuova centralità, in parte grazie agli sforzi di attivisti, storici e membri delle stesse comunità. Tuttavia, la strada per un riconoscimento ufficiale è ancora lunga. Le politiche attuali di inclusione, che mirano a garantire pari diritti e opportunità alle minoranze, devono essere accompagnate da un impegno concreto nella valorizzazione della memoria storica. La lotta contro il razzismo e le discriminazioni, che ancora oggi affliggono i rom e i sinti in molte società europee, non può prescindere dal riconoscimento delle loro radici storiche e dal rendere giustizia ai loro sacrifici passati.

In questo contesto, il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza può essere visto come un simbolo di resistenza non solo al nazifascismo, ma anche all’intolleranza e alla marginalizzazione. Questa riscoperta storica, infatti, diventa un punto di partenza per una riflessione critica sulle politiche di inclusione sociale in atto oggi, e per un impegno costante nella costruzione di una società che accolga la diversità come valore, piuttosto che come minaccia.

In molte occasioni, le politiche razziste italiane ed europee del passato e del presente continuano a emarginare le comunità rom e sinti. La loro visibilità, in particolare nella storia della Resistenza, è stata spesso omessa o distorta. Questo è stato il risultato di politiche sistemiche che trattavano le comunità rom e sinti come "non italiane" o "estranee", anche se molte di esse avevano radici secolari in Italia e in altre parti d’Europa. La discriminazione razziale e sociale continua a essere una realtà per molte di queste persone, che si trovano ad affrontare una doppia discriminazione: quella legata alla loro identità etnica e quella legata alla povertà.

Riconoscere e celebrare il loro contributo storico alla lotta per la libertà e contro il fascismo è un passo essenziale per combattere il razzismo istituzionale che ancora persiste. Solo attraverso un impegno collettivo per riparare le ingiustizie storiche e per restituire dignità e visibilità a queste comunità si potrà costruire una società veramente inclusiva, in cui nessuno venga emarginato o dimenticato.

Uno degli strumenti più potenti per combattere l’oblio e la discriminazione è l'educazione. Integrare il contributo delle comunità rom e sinti nella Resistenza nei programmi scolastici e nelle attività educative è essenziale per costruire una memoria condivisa che non solo recuperi le storie di chi ha combattuto per la libertà, ma che sia anche un monito per il futuro. La scuola, infatti, è il luogo in cui si formano le coscienze e dove si possono gettare le basi per una cultura del rispetto e della solidarietà. Insegnare ai giovani la storia del Porrajmos, la resistenza dei rom e dei sinti, e il loro impegno nella lotta contro il nazifascismo è un modo per sensibilizzare le future generazioni a non ripetere gli errori del passato.

A tale scopo, diversi musei, archivi e centri di ricerca in Italia e in Europa hanno avviato progetti didattici che si concentrano sulla storia dei rom e dei sinti, cercando di rendere giustizia al loro ruolo cruciale nella Resistenza. In molti casi, queste iniziative sono affiancate da testimonianze orali e da incontri diretti con le persone che appartengono ancora a queste comunità, rendendo la storia più tangibile e personale.

Anche dopo la fine della guerra, la verità sui crimini contro i rom e i sinti, e più in generale sui crimini di guerra compiuti dai nazifascisti, è stata a lungo negata o minimizzata. L’inchiesta ufficiale sul genocidio dei rom è arrivata in ritardo, e non ha avuto lo stesso impatto della memoria degli ebrei vittime del nazismo. Tuttavia, negli ultimi anni, c'è stato un crescente interesse da parte delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali nel perseguire la verità e la giustizia per le vittime rom e sinti. L'adozione di risoluzioni e dichiarazioni da parte dell'Unione Europea, dei governi nazionali e di organizzazioni per i diritti umani è un passo importante, ma ancora non basta. È fondamentale che la giustizia post-bellica riguardi anche i crimini commessi contro le comunità rom e sinti, attraverso risarcimenti, scuse ufficiali e il riconoscimento della loro sofferenza storica.

La commemorazione del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza deve passare attraverso momenti significativi di riflessione collettiva. Le celebrazioni del 25 aprile, la Giornata della Memoria, e altre occasioni di riflessione sulla storia del fascismo e del nazismo devono essere anche un momento di riconoscimento per chi ha lottato non solo contro l’occupazione tedesca, ma contro ogni forma di oppressione. È importante che le generazioni future siano educate a riconoscere la storia di tutte le persone che hanno sacrificato la propria vita per la libertà, indipendentemente dalla loro origine etnica o sociale.

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale. È fondamentale che queste storie vengano raccontate, celebrate e condivise, per rendere giustizia a chi ha lottato per la libertà, ma anche per ispirare le nuove generazioni a continuare a combattere per una società più giusta e inclusiva.

E ci sono ancora altre prospettive che potrebbero arricchire ulteriormente il racconto e l'analisi del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Ecco alcuni ulteriori aspetti che potrebbero essere esplorati:

La Resistenza rom e sinti non può essere separata dal più ampio contesto della memoria del Porrajmos, ovvero il genocidio che ha colpito queste comunità durante l'occupazione nazista. Il termine “Porrajmos” significa “devastazione” in romani e descrive l'annientamento sistematico a cui i rom e i sinti furono sottoposti dai nazisti. Tuttavia, molte delle storie legate alla Resistenza non sono state incluse nei racconti ufficiali del genocidio, in parte perché la lotta dei rom e dei sinti è stata marginalizzata.

Affermare con forza che le comunità rom e sinti non furono solo vittime del nazismo ma anche attori principali della Resistenza implica una rilettura critica della memoria del Porrajmos, un recupero della visibilità di chi, pur affrontando la persecuzione, decise di non arrendersi e di combattere. La connessione tra la memoria del genocidio e quella della lotta partigiana può fornire una visione complessa ma necessaria di una resistenza che si sviluppa su più fronti: quello fisico e quello culturale, in cui le tradizioni e l'identità rom e sinti hanno continuato a resistere non solo attraverso la lotta armata, ma anche attraverso la preservazione della propria storia e lingua.

Non solo in Italia, ma in molte altre nazioni europee le comunità rom e sinti giocarono un ruolo significativo nella Resistenza. In Francia, ad esempio, alcuni gruppi rom e sinti si unironoin alle forze di liberazione, impegnandosi in attività di sabotaggio, assistenza ai rifugiati e ai combattenti della Resistenza. In paesi come la Germania, l'Ungheria e la Polonia, i rom furono anch'essi attivi nel resistere all'occupazione nazista e nel combattere contro il regime. Un'analisi comparata tra i diversi paesi europei potrebbe rendere ancora più evidente il ruolo fondamentale che queste comunità ebbero nella lotta per la libertà. La loro partecipazione si inserisce in un contesto europeo più ampio, dove le popolazioni emarginate furono spesso le prime a mobilitarsi contro la violenza fascista.

Oltre alla Resistenza armata, va sottolineata anche la dimensione della resistenza civile che le comunità rom e sinti continuarono a portare avanti nel dopoguerra, spesso in contesti di povertà estrema, isolamento e discriminazione. Mentre il paese si riorganizzava dopo la guerra, le persone rom e sinti dovettero affrontare non solo la persecuzione fascista, ma anche un'ulteriore marginalizzazione da parte della società italiana e delle istituzioni. In questo senso, la resistenza non si limitò al periodo bellico, ma si estese anche agli anni successivi, in cui le comunità si trovarono a lottare per la sopravvivenza, per i propri diritti e per il riconoscimento della propria dignità. La lotta per la giustizia sociale, per il lavoro, per la casa e per il riconoscimento dei diritti civili delle comunità rom e sinti può essere vista come una continuità della Resistenza, in cui le persone non hanno mai smesso di combattere per la propria libertà e per l'uguaglianza.

Un altro aspetto importante da esplorare riguarda le sfide odierne nella lotta contro la distorsione della memoria storica. Il negazionismo, che cerca di minimizzare o negare la portata della persecuzione e del genocidio dei rom e sinti, continua a essere una minaccia. La ricerca di giustizia storica non può fermarsi al recupero delle storie, ma deve continuare con un costante impegno contro chi cerca di riscrivere la storia in modo da cancellare il contributo delle comunità rom e sinti. Il negazionismo si manifesta in vari modi, dalle dichiarazioni pubbliche di politici e leader di movimenti di estrema destra, fino alla rappresentazione stereotipata delle comunità rom e sinti nei media. La resistenza al negazionismo è oggi una delle battaglie principali per le nuove generazioni, che devono confrontarsi con la sfida di preservare la verità storica e combattere contro ogni tentativo di revisionismo.

Le giovani generazioni rom e sinti giocano un ruolo cruciale nel recupero della memoria storica e nella sua diffusione. Le nuove generazioni, spesso più consapevoli e coinvolte nei movimenti per i diritti civili e per la giustizia sociale, hanno il compito di trasmettere e mantenere viva la memoria del passato, ma anche di affrontare le sfide moderne in modo attivo. Molti giovani rom e sinti si impegnano oggi in progetti educativi, artistici e culturali per preservare la loro identità e per fare in modo che la Resistenza e la storia della loro comunità siano conosciute e riconosciute. Questi giovani non solo si ispirano alla memoria storica, ma anche alla speranza di un futuro in cui la discriminazione e la marginalizzazione siano definitivamente superate.

Il ruolo della cultura e dell’arte è fondamentale per mantenere viva la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Molti artisti rom e sinti, così come non-rom, si sono impegnati per raccontare queste storie attraverso film, documentari, musica, letteratura e altre forme di espressione culturale. L’arte diventa uno strumento potente per sensibilizzare le persone e per combattere l’oblio. Attraverso il linguaggio universale dell’arte, si può raccontare una storia di coraggio, resistenza e speranza che non solo riguarda il passato, ma che continua a ispirare e a impegnare tutti coloro che credono nella libertà e nella giustizia.

L'approfondimento della memoria delle comunità rom e sinti nella Resistenza, sia attraverso il recupero delle storie individuali che l’analisi delle dinamiche sociali e politiche del periodo, arricchisce la comprensione di una parte fondamentale della storia europea. Oggi, più che mai, è necessario dare voce a queste storie, rendere visibile la loro resistenza e riaffermare l’importanza della memoria come strumento di lotta contro l’intolleranza, il razzismo e l’ingiustizia. Solamente attraverso una comprensione profonda di questa memoria collettiva si potrà costruire una società più giusta e inclusiva.

Oggi, quando parliamo della Resistenza italiana, è essenziale includere anche il coraggio di queste comunità, affinché il loro contributo non venga mai più dimenticato e affinché le future generazioni possano conoscere la vera portata di questa lotta di Liberazione.

mercoledì 15 ottobre 2025

Corpi indocili: Foucault tra psichiatria, queer e insorgenze transfemministe


Prefazione

Il pensiero è un corpo che inciampa. Una soglia per Michel Foucault e per chi lo attraversa senza chiederne il permesso.

Entrare in questo testo non significa semplicemente leggere Foucault. Non significa neppure interpretarlo, sistemarlo, o difenderlo — come se ci fosse qualcosa da proteggere. Significa, piuttosto, fare un passo dentro la zona di rischio che il suo pensiero ha aperto e continua ad aprire: quella zona in cui il sapere non è più uno sguardo dall’alto, ma un campo di battaglia, in cui la verità non è un diritto acquisito, ma un effetto precario di forze che si contendono la parola, i corpi, le vite.

Questo non è un testo su Foucault, né soltanto con Foucault, ma attraverso Foucault. Attraverso le sue domande, le sue omissioni, le sue fratture e le sue scommesse ancora incandescenti. È un testo che lo convoca non come icona filosofica ma come compagno d’indagine, come traccia da disturbare, come gesto che si prolunga in altri gesti: quelli di chi ha decostruito la psichiatria istituzionale, di chi ha vissuto la propria identità sessuale come una diserzione, di chi ha inventato nuove forme di militanza transfemminista dentro e contro le rovine del patriarcato globale.

Foucault stesso non ha mai voluto lasciare un sistema, né fondare una scuola. Si è sempre definito come uno che lavora “ai margini”. Non costruisce edifici, ma cammina lungo i muri, cercando le crepe. Questo testo nasce proprio da lì: dalla volontà di esplorare le crepe, di abitarle, di amplificarle. Le crepe nelle istituzioni — ospedali, prigioni, manicomi — ma anche nelle parole, nei corpi, nei modi in cui ci percepiamo come soggetti. Ogni categoria che ci definisce (omosessuale, donna, sano, deviante, madre, paziente, cittadino) è, per Foucault, un prodotto storico e contingente: non un dato, ma una forma di assoggettamento che può e deve essere smontata.

Leggere questo testo è dunque un’esperienza situata, posizionata. Non propone una panoramica neutra né una celebrazione. Non difende né demolisce. Lavora, piuttosto, con la lente della genealogia, che non cerca l’origine ma il campo di forze. Si sofferma sui punti in cui il potere attraversa la carne, sulla pelle, nei gesti, negli sguardi, nei documenti, nelle diagnosi. Si sofferma anche, con uguale intensità, sui punti in cui questi attraversamenti possono essere interrotti, scartati, invertiti.

Ed è per questo che Foucault, qui, si incontra — senza che fosse stato pianificato — con figure cruciali del pensiero e della pratica italiana: Franco Basaglia, con la sua rivoluzione psichiatrica, che non fu solo una riforma medica ma un’esplosione etica; ed Ernesto de Martino, con la sua antropologia delle crisi, del dolore, dei rituali che danno senso al disfacimento dell’io. Entrambi, a modo loro, hanno fatto con il pensiero ciò che Foucault chiedeva: lo hanno incarnato, lo hanno politicizzato, lo hanno spinto là dove il sapere si fa rischio, dove la cura non è addomesticamento, ma restituzione di voce e presenza.

Questo testo non ha un baricentro, ma più fuochi. Uno di questi è senza dubbio la riflessione sulla soggettività queer e transfemminista: su ciò che oggi significa esistere fuori dalla norma, senza nostalgia per un’identità perduta né ambizione di una legittimazione garantita. Le lotte dei movimenti transfemministi latinoamericani, le pratiche di mutualismo queer, i corpi che rifiutano la definizione unica, che performano invece l’eccedenza, l’instabilità, la relazione — tutto ciò dà nuova linfa alla riflessione foucaultiana, portandola ben oltre le sue formulazioni iniziali. Foucault diventa così una fonte non chiusa, una soglia attraversabile, uno strumento che può essere riscritto da chi lo pratica, lo sfida, lo reinventa in altri contesti.

Ecco allora che anche le parole, qui, non sono mai innocue. “Corpi indocili” non è un’espressione poetica. È una descrizione politica. Significa corpi che rifiutano di lasciarsi governare nel modo previsto, corpi che resistono non con la forza ma con la molteplicità delle posture, dei desideri, delle traiettorie. Significa anche, con la massima umiltà, corpi che non sanno più bene chi sono — e proprio per questo possono ancora diventare qualcosa. Foucault non ha mai promesso salvezza, ma possibilità. E le possibilità iniziano dove finisce il dominio delle etichette, dove la soggettività non si fissa ma si sperimenta.

Questo testo, allora, chiede di essere letto con il corpo, prima ancora che con la mente. Di essere abitato, disturbato, forse anche rifiutato. Non offre soluzioni ma complicità. Non formula teoremi, ma compone mappe. Mappe che attraversano la storia della psichiatria e quella della sessualità, le genealogie del potere e le politiche dell’intimità, la pandemia e i corpi trans, l’identità come trappola e la comunità come creazione. Mappe che servono per orientarsi dove non ci sono strade segnate. Dove non si può chiedere il permesso per vivere.

Michel Foucault ci ha lasciato una domanda: come possiamo essere governati, e come possiamo non esserlo? Questo testo prova a rispondere — non con una formula, ma con un viaggio. Un viaggio che passa per la chiusura dei manicomi, per i cortei queer, per le piazze sudamericane che gridano “Vivas nos queremos”, per le parole interrotte da Derrida, per le confessioni mai concluse della carne.

Se oggi il pensiero ha ancora senso, è forse perché ci permette di ritrovare quel punto in cui smette di descrivere e comincia a cambiare. Questo è ciò che fa Foucault. E questo è ciò che — nel suo piccolo — cerca di fare anche questo testo.



Michel Foucault: genealogia del potere, riscrittura del sé e invenzione dell’anormalità

All’interno della costellazione del pensiero novecentesco, Michel Foucault emerge come una figura decisamente anomala, obliqua, per certi versi ingovernabile. Non filosofo in senso sistematico, né storico nel senso accademico del termine, né sociologo secondo i paradigmi canonici, Foucault è stato qualcosa di più e qualcosa di meno: un pensatore che ha rifiutato qualunque etichetta, qualunque appartenenza disciplinare rigida, e che ha invece attraversato le pieghe delle istituzioni, dei testi e dei corpi con la determinazione di chi vuole smascherare l’evidenza e portare alla luce l’impensato. Pensare, per Foucault, non significava mai costruire un sistema, ma piuttosto far esplodere le categorie stabilite, mettere in crisi le ovvietà, disturbare la quiete del senso comune. In questo senso, il suo pensiero ha generato una frattura nell’edificio del sapere moderno, costringendo intere discipline a riconsiderare i propri fondamenti.

Nato in una famiglia borghese della provincia francese, Michel Paul Foucault si forma tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Cinquanta in un clima culturale in cui la psichiatria, la medicina e il sapere scientifico sono ancora percepiti come strumenti di progresso e liberazione. Ma è proprio questa fiducia che Foucault inizia a smontare, mostrando come i saperi cosiddetti “positivi” siano storicamente situati e profondamente compromessi con i meccanismi di esclusione e controllo sociale. La sua formazione filosofica si intreccia presto con una militanza intellettuale che lo porterà a frequentare i movimenti di sinistra radicale, a prendere posizione a fianco dei prigionieri politici, dei malati mentali, dei soggetti emarginati.

Sin dalle prime opere — Storia della follia nell’età classica (1961), Nascita della clinica (1963), Le parole e le cose (1966) — Foucault si mostra come un “archeologo del sapere”, interessato a decostruire non tanto le opinioni o le ideologie, quanto le forme discorsive attraverso cui un’epoca organizza e produce la propria idea di verità. Non c’è verità senza regimi di veridizione, dirà, non c’è scienza senza dispositivi di esclusione. Ogni sapere è un campo di forze, un campo di battaglia, un effetto di potere. Ed è proprio qui che si afferma uno dei nuclei concettuali centrali della sua opera: il potere non come entità sovrana, ma come rete diffusa, immanente, capillare, che attraversa ogni rapporto sociale e che si incarna nei dispositivi più disparati — ospedali, prigioni, scuole, confessionali, statistiche, pratiche mediche, esami, anamnesi, confessioni.

Nel 1970, la consacrazione istituzionale arriva con la nomina al Collège de France, dove tiene la cattedra di “Storia dei sistemi di pensiero”, un titolo volutamente vago e inclusivo, che gli consente di continuare il suo lavoro critico al di fuori di ogni recinto disciplinare. Negli anni successivi, Foucault concentra la sua attenzione sul tema della governamentalità, ovvero l’insieme di tecniche attraverso cui i governi — e non solo gli Stati — regolano, orientano, modellano le condotte. È in questa fase che prende forma l’ambizioso progetto della Histoire de la sexualité, concepita inizialmente come una serie in sei volumi, ma che si interrompe alla pubblicazione del terzo (il quarto volume vedrà la luce solo postumo, e controverse saranno le circostanze della sua diffusione).

Nel primo volume, La volontà di sapere (1976), Foucault prende di mira la cosiddetta “ipotesi repressiva”, ossia l’idea — diffusa nella cultura occidentale — che la sessualità sia stata storicamente oggetto di censura e rimozione. Al contrario, Foucault sostiene che a partire dal XVII secolo si sia prodotto un immenso apparato discorsivo intorno al sesso: una vera e propria scientia sexualis, nutrita di confessione, sorveglianza, disciplinamento. Questo sapere non reprime, ma produce soggetti, classifica identità, fissa ruoli, etichetta desideri. La sessualità diventa così il terreno privilegiato su cui si esercita il biopotere, quel nuovo modo di esercitare il controllo sulle popolazioni attraverso la gestione della vita, della salute, della riproduzione, dei corpi.

In tale cornice, le identità sessuali — “omosessuale”, “perverso”, “deviante”, “normale” — non sono realtà naturali, ma effetti di dispositivi, costruzioni storicamente determinate, funzionali a una più fine e penetrante operazione di normalizzazione. Il celebre esempio dell’invenzione della figura dell’“omosessuale” nell’Ottocento dimostra come il discorso medico-giuridico trasformi un insieme di atti in una “persona”, dando così corpo a un’identità destinata a essere osservata, registrata, trattata. Ma proprio in questa costruzione, scrive Foucault, risiede anche la possibilità della resistenza: ciò che il potere produce può essere riscritto, disarticolato, sovvertito.

I due volumi successivi della Storia della sessualità, L’uso dei piaceri e La cura di sé (entrambi 1984), compiono un sorprendente cambio di prospettiva. Foucault si allontana dalla modernità e si immerge nel mondo greco-romano per esplorare un altro modo di intendere la relazione tra soggetto e desiderio. Qui non si tratta più di disciplinare o reprimere, ma di esercitare una cura di sé, di coltivare un’etica dell’esistenza in cui il piacere è regolato da pratiche di autoformazione, di equilibrio, di dominio di sé. La soggettività non è imposta dall’esterno, ma si costruisce attraverso tecniche interiori: lettura, meditazione, esame di coscienza, confessione. Foucault inaugura così una nuova genealogia dell’etica, mostrando come il soggetto occidentale moderno, ossessionato dal sesso e dalla verità, sia il risultato di una lunga sedimentazione cristiana, filosofica e medica.

Nel corso delle sue ultime conferenze a Berkeley e al Collège de France, Foucault amplia ancora il proprio campo d’indagine, arrivando a coniugare le analisi del potere con la spiritualità e la soggettivazione. Il suo interesse si concentra sempre più sulle “tecnologie del sé”, ovvero su quei processi attraverso cui gli individui si costituiscono come soggetti morali, politici, erotici. In questa prospettiva, l’identità sessuale non è un destino, né un’essenza: è una pratica, un effetto, una stilizzazione dell’esistenza. Il soggetto non è qualcosa che si scopre, ma qualcosa che si inventa.

Questa visione ha avuto un impatto incalcolabile sugli studi queer, post-coloniali e critici. Pensatrici come Judith Butler, Eve Sedgwick, Paul B. Preciado, Didier Eribon hanno trovato in Foucault un compagno di strada e una miniera inesauribile di intuizioni. Non per riprodurne fedelmente il pensiero, ma per proseguirne il gesto: quello di disfare le identità, smascherare le norme, disinnescare i meccanismi del riconoscimento obbligato. Nella rilettura foucaultiana, l’omosessualità non è tanto un’essenza da difendere, quanto una posizione strategica da problematizzare, una scena da ripensare ogni volta. È l’effetto di un sapere/potere, ma anche il punto da cui questo sapere può essere disarmato.

Nel 1984, Michel Foucault muore a Parigi, vittima dell’AIDS, senza che la stampa francese osi pronunciare il nome della malattia. La sua scomparsa lascia un vuoto immenso, ma anche una traccia inestinguibile: quella di una scrittura analitica e vertiginosa, capace di esplorare le soglie della follia e della norma, del piacere e della punizione, dell’identità e dell’alterità. Eredità tanto più preziosa oggi, in un’epoca in cui i dispositivi di sorveglianza si sono fatti algoritmici e invisibili, e in cui il corpo queer continua a essere al centro di una contesa simbolica e politica globale.

Pensare con Foucault, oggi, significa accettare il rischio dell’instabilità, del non sapere, della disidentificazione. Significa anche, forse, riscoprire la possibilità che la filosofia non sia una disciplina accademica, ma un gesto vitale: un’arte dell’esistenza. Un modo di vivere criticamente, intensamente, liberamente. E di trasformare, nel cuore stesso del dispositivo, il margine in potenza.



Dissidenze in filigrana: l’eredità italiana di Foucault tra identità, resistenza e governo dei corpi

Se la Francia e gli Stati Uniti rappresentano i principali crocevia teorici in cui si è irraggiato il pensiero foucaultiano — con effetti dirompenti nella filosofia, nella storiografia e nella critica della sessualità — l’Italia ha conosciuto una ricezione più carsica, frammentata, ma non per questo meno profonda o radicale. Michel Foucault, in Italia, è entrato spesso “dalla porta laterale”, attraverso i margini delle discipline accademiche, le esperienze militanti, i laboratori underground della soggettività politica. I suoi testi — tradotti inizialmente con lentezza, talvolta in edizioni fuori catalogo, spesso osteggiati dai classicisti della filosofia continentale — hanno finito per divenire veri e propri strumenti di lettura del presente per coloro che cercavano nuove vie di autodeterminazione, linguaggio e pratiche rivoluzionarie non riducibili né al dogmatismo marxista né alla liberalizzazione identitaria mainstream.

È a partire dagli anni Novanta, e più ancora dopo l’arrivo del nuovo millennio, che si assiste a un crescente recupero delle analisi foucaultiane nel cuore dei movimenti LGBTQIA+ italiani. In un contesto ancora segnato dall’omofobia istituzionale, dalla marginalizzazione culturale e dall’assenza di un riconoscimento giuridico stabile, Foucault offre un vocabolario alternativo, capace di smascherare i meccanismi del potere normalizzante senza cedere alla tentazione di naturalizzare le identità. In particolare, la sua genealogia della sessualità e la sua analisi del dispositivo di confessione trovano una fertile risonanza nei collettivi queer e transfemministi, che ne fanno un uso strategico per smontare i presupposti eteropatriarcali della famiglia, del desiderio e del riconoscimento.

Non si tratta solo di adottare la sua terminologia — dispositivo, biopotere, governamentalità, soggettivazione — ma di prolungarne il gesto critico: quello di pensare la soggettività non come un’entità preesistente da tutelare, bensì come un campo di forze in cui si gioca, si negozia, si resiste. Le realtà italiane più sensibili a questa prospettiva — dai centri sociali queer autogestiti, come il Fuoriluogo di Bologna o il Smascheramenti di Roma, fino alle esperienze editoriali come I Quaderni Viola, A/traverso, Femminismi/Foucault, o più recentemente NERO e Not — si sono mosse nell’orizzonte di una critica decostruttiva dell’identità. Per molti giovani attivistǝ queer, Foucault diventa così non un “maestro” in senso tradizionale, ma una cassetta degli attrezzi per pensare l’indisciplinabile, il non ancora pensato.

Un capitolo a parte merita l’incontro tra Foucault e le eredità della filosofia italiana. Autori come Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Adriana Cavarero e soprattutto Judith Revel (italo-francese) hanno elaborato interpretazioni profonde del concetto di biopolitica, interrogandosi sulla possibilità di una soggettività post-identitaria, mobile, resistente alla codificazione. Nei testi di Preciado, ma anche in quelli di Lorenzo Bernini (Il sessuale politico), Massimo Prearo (Le identità non sono argomento) e Federico Zappino, si ritrova una riflessione incarnata, politica e desiderante, che prende spunto da Foucault ma lo rilavora alla luce delle trasformazioni contemporanee del capitalismo affettivo, del linguaggio algoritmico e del management delle emozioni.

Michel Foucault e Jacques Derrida: il confronto mai chiuso tra genealogia e decostruzione

Il rapporto tra Foucault e Derrida rappresenta uno dei più affascinanti e misconosciuti scenari di tensione del pensiero francese del secondo Novecento. Entrambi discepoli — in modo diseguale e critico — della tradizione fenomenologica, entrambi influenzati da Nietzsche e da Heidegger, entrambi lettori ossessivi dei testi canonici, si muovono lungo traiettorie parallele ma profondamente diverse. Foucault scava nella storia come campo materiale di pratiche e istituzioni, mentre Derrida opera nel linguaggio come luogo di dislocazione costante del significato. Il loro scontro — aperto, ma mai risolto — attesta una differenza epistemologica e politica irriducibile.

Il nodo polemico principale resta la questione cartesiana della follia. Foucault, nella Storia della follia, accusa il progetto cartesiano di aver escluso la follia dal dominio del pensiero, inaugurando così una nuova forma di razionalismo escludente. Derrida, nel suo celebre saggio di risposta, sostiene che Foucault legga Descartes in modo anacronistico, e che lo stesso Cogito contenga al suo interno la possibilità della follia come traccia indecidibile. Ma al di là della disputa filologica, ciò che emerge è una divergenza più profonda: Foucault si affida all’archivio, alle rotture storiche, ai regimi di sapere; Derrida, invece, scava nella scrittura, nella différance, nell’instabilità costitutiva di ogni concetto.

Per la teoria queer contemporanea, questo confronto è tutt’altro che accademico. I due approcci si sono rivelati complementari, anche se spesso in tensione. Se Foucault ci insegna che l’identità è un effetto del potere, una sedimentazione normativa, Derrida ci mostra che ogni identità è anche una finzione, una citazione, una struttura iterabile. La performatività del genere, così come viene elaborata da Judith Butler, è impensabile senza il supporto foucaultiano (il potere che produce il soggetto) e quello derridiano (la ripetizione che destabilizza la norma).

La critica transfemminista italiana ha saputo muoversi su questo crinale: Foucault per analizzare i dispositivi istituzionali (scuola, famiglia, legge), Derrida per sovvertirne il linguaggio, il vocabolario stesso della norma. Da questa duplice eredità nasce una politica del corpo che non si limita a denunciare la repressione, ma produce nuovi regimi di visibilità, nuove poetiche della carne, nuove strategie di disidentificazione. Essere queer non significa più “essere altro”, ma non essere mai del tutto — un gesto che riflette sia il foucaultiano “non essere mai del tutto soggetti” sia il derridiano “non essere mai interamente presenti a sé stessi”.

Foucault e il biopotere in epoca pandemica: corpi sorvegliati, soggettività vulnerabili

La pandemia da Covid-19 ha reso improvvisamente attuale — e forse inevitabile — il ritorno a Michel Foucault. Non tanto come “profeta del lockdown” (come alcuni titoli giornalistici frettolosi hanno insinuato), quanto come pensatore del corpo governato, del rischio epidemiologico come strumento di disciplinamento, della soggettività come terreno di gestione politica. La nozione di biopotere, elaborata da Foucault nel primo volume della Storia della sessualità e nelle lezioni al Collège de France tra il 1975 e il 1979, è tornata centrale nel discorso pubblico: chi gestisce la vita? Chi decide la morte? Come si articolano, nella pandemia, libertà individuale e tutela collettiva?

Durante i mesi più critici della crisi sanitaria, le categorie foucaultiane di sorveglianza, dispositivo, normalizzazione, emergenza, produzione della soggettività hanno funzionato come griglie interpretative immediate. Il Green Pass, le app di tracciamento, le quarantene, i decreti d’urgenza, ma anche la retorica del “comportamento responsabile” e dell’“igiene individuale” sono stati letti — in Italia come altrove — attraverso la lente della governamentalità. Ma la riflessione foucaultiana non si limita a denunciare il controllo: piuttosto, ci invita a capire come si produce il consenso, come si interiorizza la norma, come si costruisce la soggettività obbediente.

Per i movimenti transfemministi, la pandemia ha avuto un doppio effetto. Da un lato, ha esacerbato la vulnerabilità delle soggettività già marginalizzate: corpi trans, sex worker, migranti, disabili, precari. Dall’altro, ha fornito un’occasione per ripensare la comunità non più come spazio di riconoscimento identitario, ma come legame di cura, come tecnologia relazionale. L’insegnamento di Foucault sulla “cura di sé” e sulle “tecnologie del sé” è stato reinterpretato in senso collettivo, comunitario, in forme di mutualismo queer, reti di supporto dal basso, pratiche di solidarietà de-medicalizzata.

In questo senso, il pensiero foucaultiano non è una teoria chiusa, ma un archivio in tensione: offre strumenti per leggere il presente senza prescriverne il futuro. E proprio qui sta forse la sua potenza: nel rifiuto della consolazione, nella critica come gesto etico, nella filosofia come esperienza di disobbedienza permanente. Se il biopotere ci chiede corpi docili, il queer foucaultiano risponde con corpi che eccedono, che mutano, che godono al di fuori della norma. Non per celebrare l’anarchia, ma per inventare un’altra etica della vulnerabilità: un’etica della vita incalcolabile.



Psichiatria, etnografia e potere: Foucault e il dialogo mai esplicitato con l’Italia di Basaglia e De Martino

Michel Foucault non conobbe personalmente Franco Basaglia, ma i loro cammini si incrociarono sullo stesso terreno: quello della critica radicale alla psichiatria come istituzione del controllo, della devianza e della norma. Foucault pubblica Histoire de la folie nel 1961, mentre Basaglia, in quegli stessi anni, sta avviando a Gorizia la rivoluzione psichiatrica italiana. Entrambi — uno dalla filosofia, l’altro dalla clinica — convergono verso una denuncia senza appello del manicomio come spazio concentrazionario, macchina di esclusione, forma di neutralizzazione sociale del diverso.

Tuttavia, le loro prospettive divergono nei metodi e nelle finalità. Foucault compie un’“archeologia della follia”, analizzando le rotture epistemiche che definiscono cosa sia considerato “follia” nelle diverse epoche, mostrando come la ragione occidentale si sia costituita proprio escludendo e silenziando il folle. Basaglia, invece, parte da una prospettiva esistenzialista e fenomenologica (influenzata da Jaspers e Binswanger), e traduce la critica in prassi istituzionale: smantellare concretamente il manicomio, restituire parola e soggettività ai pazienti, trasformare la cura in relazione tra pari.

La Legge 180 del 1978, che sancisce la chiusura dei manicomi in Italia, rappresenta un unicum nel panorama mondiale. Nonostante Foucault la citasse con rispetto in alcune conferenze, non le dedicò studi approfonditi. Eppure, il suo concetto di dispositivo e la sua analisi delle forme di potere disciplinare si rispecchiano perfettamente nella lotta basagliana contro la psichiatria come sapere normalizzante. Entrambi rifiutano l’idea che la follia sia una malattia da guarire: è invece una costruzione sociale, una forma di alterità radicale con cui la società deve fare i conti — non reprimere, non “curare” nel senso normativo, ma ascoltare e con-vivere.

Anche la figura di Ernesto de Martino, antropologo e filosofo della cultura, offre un parallelo sorprendente con Foucault. Nei suoi studi sul Sud italiano — in particolare La terra del rimorso (1959) — De Martino analizza il tarantismo, i riti di possessione, le forme simboliche della sofferenza e del dolore psichico. Egli non patologizza, ma interpreta: si interroga su come la crisi della presenza venga ritualizzata, ricomposta, attraversata. È una sorta di contro-discorso rispetto all'antropologia colonialista, che può essere letto in chiave foucaultiana: anche qui la soggettività non è un dato, ma una costruzione culturale, e il potere — sebbene non ancora tematizzato come tale da De Martino — è presente nelle dinamiche tra sapere, cura e tradizione.

Nel crocevia tra Basaglia, De Martino e Foucault si può dunque intravedere una costellazione critica italiana, in cui la follia, il corpo, il rito, la devianza diventano zone di indagine privilegiata per comprendere il modo in cui una cultura definisce sé stessa. È una genealogia che meriterebbe ulteriori esplorazioni: un Foucal-Basaglismo da scrivere, dove la storia della follia non è solo critica teorica, ma pratica di liberazione quotidiana.


Foucault e le nuove insorgenze transfemministe: da NiUnaMenos ai collettivi transfem latinoamericani

Negli ultimi dieci anni, il pensiero di Michel Foucault ha vissuto una seconda vita nei movimenti transfemministi globali, in particolare nei paesi dell’America Latina. Qui, Foucault non è più il filosofo francese “accademico” o l’autore eurocentrico da rileggere con cautela, ma diventa strumento pratico, linguaggio condiviso, fonte di azione politica. Nelle piazze di Buenos Aires, Santiago, Bogotá o Città del Messico, la genealogia foucaultiana si trasforma in gesto di piazza, in corpo disobbediente, in pratica di resistenza incarnata.

Il movimento NiUnaMenos, nato in Argentina nel 2015 in risposta ai femminicidi e alla violenza strutturale di genere, ha rapidamente oltrepassato i confini del femminismo classico per abbracciare un’ottica intersezionale e queer. La loro parola d’ordine “Vivas, libres y desendeudadas nos queremos” unisce la lotta contro la violenza maschile con quella contro il neoliberismo, la medicalizzazione del corpo e il controllo poliziesco delle soggettività dissidenti. In questo orizzonte, Foucault non è tanto il teorico della repressione, ma il cartografo del potere: come si produce la soggettività di genere?, quali sono i dispositivi che rendono legittima la violenza sulla vita non conforme?, come si può decostruire il nesso tra normalità, legge e verità?

I collettivi transfem latinoamericani — come La Tribu, Vivas Nos Queremos, La Revuelta, M.A.F.I.A. o Casa Trans — hanno elaborato una militanza transfemminista fondata sulla disobbedienza, la performance, l’uso radicale del corpo come luogo di narrazione politica. Foucault è stato letto, riscritto, tradito e riforgiato: le sue “tecnologie del sé” diventano pratiche comunitarie di autogestione ormonale, transizione collettiva, mutuo soccorso; il biopotere diventa strumento per capire la criminalizzazione delle sex workers, l’abbandono sanitario delle donne nere, la necropolitica che uccide le soggettività non produttive.

La nozione di resistenza, mai totalmente tematizzata da Foucault, viene qui radicalizzata: non come opposizione binaria al potere, ma come creazione di nuovi spazi di vita al di fuori del dispositivo. I corpi queer, trans, migranti, intersessuali diventano non solo bersagli del potere, ma laboratori del possibile: incarnano vite che non si lasciano ridurre, che si sottraggono, che eccedono. In questa genealogia, il sé non è ciò che va difeso, ma ciò che va continuamente reinventato insieme agli altri.

Anche le estetiche politiche di questi collettivi risuonano foucaultianamente: la parata queer come contro-processione, la performance transfem come confessione al contrario, il linguaggio ibrido tra autobiografia e manifesto come dispositivo di veridizione ribelle. Non si chiede più di essere “riconosciutə” dallo Stato, ma si costruiscono pratiche radicali di auto-legittimazione, in cui la verità non è più quella del sapere medico o giuridico, ma quella di chi vive nel corpo il disallineamento come gioia.


Conclusione provvisoria: un pensiero ancora in rivolta

Michel Foucault non appartiene solo alla storia della filosofia. Appartiene — come pochi altri — ai margini, agli spazi in cui si inventa la soggettività. Non ha lasciato una dottrina, ma una serie di strumenti affilati: per leggere il potere, per smontare l’identità, per reinventare il sé. Nell’incontro con Basaglia e De Martino, con NiUnaMenos e i collettivi transfem, il suo pensiero si è liberato dall’università per entrare nelle comunità, nei cortei, nelle case occupate, nei consultori autogestiti.

Foucault vive ancora là dove si disobbedisce, là dove si costruisce un’etica senza morale, là dove il desiderio non è ricondotto alla norma ma rilanciato come futuro condiviso. Il suo pensiero non serve per capire il mondo, ma per cambiarlo — a partire dai corpi che, anche oggi, non vogliono più essere messi a tacere.


Postfazione

Qualcosa resta aperto. E deve restarlo.

Abbiamo seguito il filo di un pensiero che non si lascia mai prendere tutto intero. Michel Foucault ci ha accompagnati, sorvegliati, talvolta contraddetti, altre volte scomparsi sotto i piedi mentre camminavamo. Questo testo non ha voluto metterlo al centro come figura d’autorità, ma renderlo presenza operativa: come forza in tensione, come asse lungo cui si possono innestare storie, pratiche, rotture. Foucault, qui, è meno autore che nodo. Nodo da cui si dipartono strade divergenti, che non pretendono coerenza, ma provocano domande nuove.

Se qualcosa resta, al termine di questa lettura, non è una conclusione. È una condizione. La condizione instabile della soggettività quando smette di essere garantita — dal sapere, dalla legge, dalla verità. La condizione di un pensiero che non serve a rassicurare ma a spostare. E soprattutto la condizione di chi legge e si riconosce non più del tutto leggibile.

Il potere, ci ha insegnato Foucault, non è mai solo repressione. È produzione, disseminazione, codifica. Ma proprio per questo si può anche smontare, sabotare, riscrivere. Non con un gesto eroico, ma con una costanza minuta, con pratiche parziali, con alleanze precarie e intermittenti. È quello che hanno fatto — che continuano a fare — i movimenti transfemministi, le soggettività queer, le esperienze psichiche e corporee che rifiutano di essere definite una volta per tutte.

Questo testo non pretende di offrire un sapere alternativo. Piuttosto, tenta un’altra postura. Una postura laterale, disobbediente, inafferrabile. E in questo senso è stato scritto non solo su Foucault, ma contro una certa maniera di leggerlo, di incasellarlo, di trasformarlo in idolo intoccabile o in oggetto accademico. Il Foucault che ci interessa è quello inquieto, contraddittorio, a tratti scomodo, che parla più ai margini che ai salotti. Il Foucault che si scopre nelle pieghe del non detto, nei corpi che non si lasciano governare.

Se questo testo ha un fine — ammesso che lo abbia — non è quello di convincere, ma di lasciare irrisolto. Di disinnescare l’aspettativa che tutto debba portare a un senso. Di restituire al pensiero la sua fragilità, la sua carne. Perché, come i corpi indocili che lo attraversano, anche il pensiero ha bisogno di inciampare per diventare politico.

Non sappiamo dove porteranno queste traiettorie. Non sappiamo come verranno accolte, tradite, rifiutate, magari riscritte da chi verrà dopo. Ma sappiamo che non appartengono solo a chi le ha tracciate. Appartengono a chi vorrà spingersi oltre.
A chi non si accontenta della norma.
A chi non cerca identità, ma intensità.
A chi riconosce, nel proprio stesso turbamento, una forma di sapere.

Questo è quanto resta. Non una risposta.
Ma una prossimità critica.
Una dissonanza operativa.
Una domanda ancora viva.