mercoledì 11 dicembre 2024

"L'abisso immoto"

1.
Nel buio che divora ogni sguardo,
ove s’aduna il nulla, senza pace,
si spezza il filo tenue ed è ritardo.

2.
Carenze assediano l’anima vivace,
spogliando il giorno d’ogni sua fermezza,
ché a contrastar non resta forza audace.

3.
Il passo indugia, trema e poi s’ammorza,
e un lento franamento dentro cresce,
mentre la mente cede e si contorce.

4.
S’incurva il tempo in spirale e si flette,
il battito si spegne come un suono
che si dissolve e in vuoto si riflette.

5.
La luce manca, il giorno resta prono
a un’ombra fredda che sovrasta il cuore,
e tutto tace in quel respiro buono.

6.
Un abisso che inghiotte il suo fervore,
lì dove il passo fermo si dissolve,
lì dove il fiato tace nel timore.

7.
Non resta sole a scaldare le volve
del freddo dubbio che già tutto avvolge,
e il vento tace, fermo nelle gole.

8.
Un lampo spento mai più si raccoglie,
un barlume che giace senza vita,
sommerso dal silenzio che s’accoglie.

9.
Il moto langue, l’anima ferita
non osa più lottare, e si fa spenta,
cercando pace in una corsa ardita.

10.
Non c’è contrasto, ogni resistenza
si piega al peso d’un tempo distorto,
ove si perde ogni sguardo e presenza.

11.
Un peso grave s’addensa sul porto
di quella mente che, stanca, si arresta,
e il battito si smorza già contorto.

12.
L’ombra s’allunga, il confine protesta,
ma invano tenta d’arrestar quel buio
che l’anima consuma e mai s’arresta.

13.
E là, dove il silenzio ha il suo refugio,
si curva il giorno e il passo si disfa,
mentre l’oblio si fa d’ogni pensier giudice.

14.
Un grido muto frange quella cifra
che il tempo scrive su un destino infranto,
e il non-correre giace come una sfida.

15.
La spirale del tempo cade, e intanto
il mondo sembra fermo, senza brama,
e il passo s’arresta al suo canto.

16.
Così, il cuore più non trova fama,
ché il futuro si curva in una rete
che avvolge il domani nella sua trama.

17.
Né speranza rimane, né si vede
un bagliore che squarci quella notte,
né forza che riprenda il suo potere.

18.
Un mare immoto di vuoto galleggia,
dove ogni certezza si fa impalpabile,
e il dubbio regna su chi il passo regge.

19.
E là, nel gelo eterno e inscalfibile,
ogni pensiero si dissolve, spento,
e il non-correre avanza, inarrestabile.

20.
Così l’anima s’arrende, nel tormento
che il silenzio le sussurra, senza via,
e si lascia avvolgere dal lento tempo.

21.
Ogni respiro si spezza nell’agonia
di un moto che ormai più non sa vibrare,
di un giorno che non sogna più poesia.

22.
Il destino si chiude, si fa scabro,
e il mondo, come un filo troppo teso,
si spezza al peso di quel silenzio magro.


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Il tema portante delle terzine è l'immobilità dell’anima di fronte al vuoto esistenziale, una dimensione in cui la vita sembra fermarsi, privata di qualsiasi slancio vitale o direzione. Questo vuoto è descritto come un abisso oscuro, un luogo di stasi totale, dove il tempo stesso si piega e si arresta, rendendo impossibile il movimento o il progresso. L’anima, priva di speranza e forza, si ritrova schiacciata da un peso insostenibile, un “non-correre” che non rappresenta solo l’assenza fisica del movimento, ma anche l’incapacità di opporsi alla forza opprimente del silenzio e dell’oblio.

Il “non-correre” diventa quindi il simbolo di un'esistenza intrappolata, in cui ogni resistenza è vana e ogni lotta contro l’inevitabile si dissolve nel nulla. L’immobilità non è solo fisica ma anche mentale e spirituale, un arresto totale che lascia spazio solo al dubbio, al buio e alla perdita. La luce, simbolo della speranza e della vitalità, è completamente assente, e al suo posto domina un’ombra pervasiva che soffoca ogni possibilità di rinascita.

Questa condizione si riflette nella tensione tra il desiderio di movimento e la realtà di una stasi assoluta, che si traduce in un silenzio sovrano e spietato. Il tema affronta quindi la fragilità dell’esistenza umana di fronte all’ineluttabilità del tempo e dell’oblio, trasformando il vuoto in un protagonista silente ma onnipresente. Ogni possibilità di futuro, ogni sogno o slancio verso il domani, viene risucchiato in un vortice immoto, lasciando l’anima prigioniera di un eterno presente fatto di apatia e rassegnazione. Questo abisso immoto diventa infine il simbolo della resa totale, un luogo dove ogni barlume di vita viene consumato dal silenzio e dall’oscurità.


Le nostre paure (appunti)

Le nostre paure, che sembrano crescere e moltiplicarsi senza tregua, si manifestano come ombre minacciose che si allungano e si intrecciano, proiettate da una mente inquieta, incapace di trovare riposo e serenità. Diventano una presenza costante e opprimente, insinuandosi in ogni angolo della nostra coscienza, invadendo i nostri pensieri, deformando le nostre percezioni e rendendo la nostra esistenza una battaglia interminabile contro un nemico tanto insidioso quanto indefinito. È un processo sottile, lento ma inesorabile, che ci allontana progressivamente dalla realtà concreta per immergerci in un mondo fatto di incertezze e timori amplificati. Le nostre paure non si limitano a esistere; proliferano, si moltiplicano e si espandono in tutte le direzioni, avvolgendo ogni aspetto della nostra vita come una nebbia fitta che oscura il nostro sguardo e soffoca ogni tentativo di razionalità.

Nonostante i pericoli reali e concreti che siamo chiamati ad affrontare nella nostra quotidianità siano spesso limitati nella loro portata, le nostre paure riescono a dilatarsi fino a diventare onnipresenti. È come se la mente stessa, invece di proteggerci e guidarci attraverso le sfide della vita, diventasse un terreno fertile per la crescita di dubbi e ansie che si trasformano in giganteschi ostacoli. Viviamo intrappolati in una dimensione dove il timore non si limita a essere una reazione istintiva e funzionale, ma si evolve in una forza autonoma che contamina ogni pensiero, ogni emozione e ogni azione. Ogni minima preoccupazione, ogni incertezza che attraversa la nostra mente, si gonfia fino a diventare un ostacolo apparentemente insormontabile, una montagna scivolosa che sembra impossibile scalare, un muro invalicabile che ci blocca il cammino verso una visione chiara e obiettiva della realtà.

Anche i problemi più semplici e banali assumono un’aria di gravità e urgenza, come se fossero minacce imminenti pronte a sopraffarci. La nostra mente, che dovrebbe rappresentare uno strumento prezioso per analizzare e superare le difficoltà, si trasforma invece in un campo di battaglia caotico, dove si combatte una guerra incessante contro dubbi, timori e fantasmi immaginari. Ogni pensiero negativo sembra trovare terreno fertile per crescere e moltiplicarsi, alimentando un ciclo senza fine di inquietudine e stress. Le nostre emozioni, che potrebbero fungere da guida per affrontare il mondo con coraggio e determinazione, vengono invece distorte e amplificate fino a farci percepire ogni piccola difficoltà come un pericolo imminente, ogni piccola incertezza come una crisi irrisolvibile.

La percezione che abbiamo della realtà viene così profondamente alterata da farci vivere in un mondo fatto di ombre e specchi, un universo illusorio in cui le difficoltà quotidiane appaiono ingigantite oltre misura, trasformandosi in sfide impossibili e in pericoli imminenti da cui sembra non esserci scampo. Ogni piccolo ostacolo si gonfia fino a diventare un gigante spaventoso, ogni insicurezza si trasforma in una trappola emotiva, ogni dubbio si cristallizza in un pensiero fisso e martellante che ci consuma dall’interno. Ci ritroviamo così a combattere non contro le vere difficoltà della vita, ma contro le ombre che noi stessi abbiamo creato, in un perpetuo stato di allarme che ci impedisce di godere del presente e di affrontare il futuro con lucidità e determinazione.

La paura, anziché essere una reazione naturale e funzionale ai pericoli reali, diventa un ostacolo perenne, un nemico invisibile che ci accompagna ovunque andiamo, costringendoci a vivere in una continua lotta contro noi stessi e contro la nostra percezione distorta della realtà. Ogni tentativo di razionalità sembra naufragare sotto il peso di queste paure sovradimensionate, che ci trascinano sempre più in profondità in un vortice di ansia e inquietudine. La mente, lungi dall’essere uno strumento di equilibrio e serenità, diventa un labirinto di pensieri confusi e contraddittori, un luogo in cui ogni emozione sembra amplificarsi, ogni preoccupazione si trasforma in un incubo, ogni speranza si smarrisce in un mare di incertezze.

E così, giorno dopo giorno, ci ritroviamo a vivere in un mondo che non è più il nostro, un mondo fatto di paure ingiustificate, di insicurezze alimentate dalla nostra stessa immaginazione, un mondo in cui l’ombra del dubbio si allunga su ogni aspetto della nostra vita, oscurando le nostre prospettive e impedendoci di vedere la realtà per quella che è davvero. La paura diventa una lente distorta attraverso cui interpretiamo ogni evento, ogni relazione, ogni sfida, privandoci della possibilità di affrontare il presente con coraggio e di costruire un futuro basato sulla fiducia in noi stessi e nella nostra capacità di superare gli ostacoli.

Ogni giorno, ci troviamo immersi in una realtà complessa, già di per sé difficile da affrontare, ma che diventa ancora più gravosa quando la nostra mente decide di concentrarsi unicamente sui timori, quei timori che, spesso e purtroppo, non hanno alcun legame concreto con la realtà che ci circonda. Queste paure immaginarie, costruite nel nostro pensiero come fossero mura invalicabili, amplificano le piccole difficoltà che ogni essere umano incontra nel quotidiano, trasformandole in ostacoli insormontabili. Così, le normali sfide della vita si trasformano in montagne da scalare senza alcun equipaggiamento adeguato, e ogni piccolo dubbio, anche il più insignificante, si tramuta in una fonte di stress opprimente, capace di soffocarci.

Ogni passo in avanti che proviamo a compiere, anziché rappresentare un momento di crescita e di conquista, viene appesantito da un carico emotivo fatto di paure e incertezze, come se ogni nostro movimento fosse destinato inesorabilmente al fallimento. La nostra mente, mai tranquilla, si dedica incessantemente alla costruzione di scenari catastrofici, un mosaico di ipotesi negative che sembrano moltiplicarsi senza controllo. Persino quando la realtà tangibile ci offre prove evidenti che non ci sia nulla di cui preoccuparsi, continuiamo a vivere intrappolati nelle nostre proiezioni, incapaci di liberarci da queste catene invisibili. Ci ritroviamo così a vivere in uno stato di allerta perpetuo, una tensione continua che ci logora.

In questo circolo vizioso, ogni angolo della nostra esistenza sembra pervaso da un’ombra inquietante, un pericolo indefinito e costante che non trova alcuna conferma nel mondo reale, ma che nella nostra mente assume contorni sempre più netti e minacciosi. Reagiamo a minacce inesistenti, come guerrieri che combattono contro fantasmi, sempre pronti a difenderci da nemici immaginari che non vediamo ma sentiamo vicini, annidati in ogni decisione, in ogni percorso, in ogni istante. Questo pericolo invisibile, questo senso di precarietà, si insinua in ogni nostra giornata, rendendo impossibile distinguere il reale dall’immaginario, la vera difficoltà dall’illusione creata dal nostro stesso pensiero. Viviamo così, combattendo battaglie mentali incessanti che ci sottraggono le energie per affrontare il mondo vero.

Questo stato di ansia, che sembra avvolgerci come un mantello oscuro e opprimente, non si limita a consumarci in modo superficiale, ma penetra in ogni fibra del nostro essere, risucchiando lentamente tutta l’energia che possediamo. Non è solo una questione di stanchezza fisica o mentale: è un’erosione continua della nostra capacità di provare serenità, di sentirci a nostro agio nel mondo che ci circonda. La realtà stessa – quella fatta di fatti concreti, di eventi tangibili e oggettivi – si allontana sempre più dalla nostra percezione, lasciandoci in balia di una visione distorta, dove ogni ombra diventa un presagio e ogni rumore un segnale di pericolo imminente. Eppure, se solo ci fermassimo un istante a osservare con calma ciò che ci circonda, scopriremmo che molte delle nostre paure più profonde, quelle che ci paralizzano e ci tolgono il respiro, sono in realtà del tutto infondate, costruite su una base fragile, spesso inesistente.

Ma la mente umana, si sa, è una macchina complessa e a volte spietata. Non si accontenta di vivere nel presente, dove potrebbe trovare conforto nella concretezza delle cose. No, essa sembra quasi programmata per viaggiare verso l’ignoto, per esplorare territori che non esistono, inventando pericoli che non hanno alcuna probabilità di materializzarsi. È come se ci fosse dentro di noi un narratore oscuro, un cantastorie che non fa altro che intessere trame di disastri, scenari apocalittici che si sovrappongono alla realtà fino a renderla irriconoscibile. Questo narratore, instancabile e implacabile, ci costringe a vivere in una sorta di dimensione parallela, dove il futuro non è mai luminoso o promettente, ma sempre e solo una minaccia, un campo minato disseminato di trappole invisibili.

Camminiamo su questo terreno immaginario con il cuore in gola, ogni passo un atto di coraggio e disperazione, perché non sappiamo mai se il suolo sotto di noi reggerà o se crollerà improvvisamente, lasciandoci sprofondare nel vuoto. Ogni giornata diventa una lotta, non tanto contro problemi reali, ma contro un nemico invisibile, una paura indefinita che non riusciamo mai a identificare completamente. E così, invece di affrontare la realtà con la mente lucida e il cuore sereno, restiamo intrappolati in un circolo vizioso di apprensione e sfiducia. Guardiamo il mondo attraverso una lente deformante, cercando pericoli ovunque, perfino dove non ce ne sono, ignorando le bellezze e le opportunità che la vita ci offre.

Questa lente deformante non è altro che un prodotto della nostra stessa mente, che sembra divertirsi a giocare con noi, a creare mostri immaginari che si agitano nell’ombra, minacciosi e inquietanti. E più cerchiamo di scacciarli, più essi sembrano crescere, alimentati dalle nostre stesse paure e insicurezze. È un meccanismo perverso, quasi crudele, che ci tiene prigionieri, incapaci di liberarci dalle catene che noi stessi abbiamo forgiato. Ma se avessimo il coraggio di fermarci per un momento, di osservare quei mostri con attenzione, ci renderemmo conto che non sono altro che illusioni. Sono proiezioni della nostra immaginazione, deformate e amplificate dalla nostra incapacità di accettare l’incertezza della vita.

La mente, in realtà, non vuole farci del male. È solo un meccanismo di difesa che, nel tentativo di proteggerci, finisce per esagerare i pericoli, trasformando ciò che è improbabile in qualcosa di inevitabile. Ma questa protezione, invece di aiutarci, diventa un ostacolo. Ci impedisce di vivere pienamente, di abbracciare il presente con tutte le sue sfumature. E così, ci ritroviamo a vivere in un limbo, sospesi tra un passato che non possiamo cambiare e un futuro che temiamo senza motivo. Dimentichiamo che la vita è fatta di momenti, di attimi che si susseguono, e che l’unico modo per affrontarla davvero è accettare l’incertezza come parte integrante del nostro cammino.

Se solo riuscissimo a interrompere questo ciclo, a spezzare queste catene invisibili, scopriremmo che la maggior parte delle cose che ci spaventano non hanno alcun potere su di noi. I mostri che ci perseguitano svanirebbero come nebbia al sole, e ci accorgeremmo che il mondo è molto meno spaventoso di quanto la nostra mente ci abbia fatto credere. La paura, in fondo, è solo un’illusione, un gioco di specchi creato dalla nostra psiche. E noi, se lo vogliamo, possiamo scegliere di non giocare più. Possiamo scegliere di guardare la realtà per quella che è: imperfetta, sì, ma anche piena di possibilità, di bellezza e di speranza.

Ma cosa accadrebbe se riuscissimo finalmente a prendere consapevolezza di questo meccanismo, così sottile e al tempo stesso così pervasivo, che ci tiene imprigionati in una rete di timori e fantasmi, impedendoci di vivere appieno? Che cosa succederebbe se fossimo davvero capaci di spostare lo sguardo oltre le nostre paure immaginate, oltre quelle costruzioni mentali che ci assillano e ci fanno dubitare di noi stessi? Il punto centrale è questo: gran parte di ciò che temiamo non ha un’esistenza reale, ma è un prodotto della nostra mente, una creazione che si nutre delle nostre insicurezze. E allora, cosa dovremmo fare? La risposta sembra banale nella sua semplicità, ma è infinitamente complessa da tradurre in pratica. Dovremmo imparare a distinguere, con grande lucidità, tra ciò che è reale e ciò che non lo è, tra ciò che possiamo effettivamente cambiare e ciò che non rientra affatto nel nostro controllo. Questa consapevolezza, per quanto difficile da raggiungere, rappresenta il primo, fondamentale passo verso una libertà autentica: liberarci dalla tirannia delle nostre ansie, smettere di vivere in un universo fittizio, e tornare finalmente a respirare con pienezza, a vivere in modo pieno e significativo. Tuttavia, non è qualcosa che si può ottenere con un gesto improvviso o con una decisione presa di fretta. È un percorso che richiede tempo, impegno e una considerevole dose di forza interiore. È una strada lunga e tortuosa, costellata di ostacoli e di ricadute, ma è anche una strada che vale la pena percorrere. Serve pazienza, perché ogni piccolo passo richiede attenzione e cura. Serve autoconsapevolezza, per comprendere i meccanismi della mente e disinnescarli uno per uno. E, soprattutto, serve coraggio: il coraggio di guardare in faccia le proprie paure, di affrontarle senza fuggire. La paura, infatti, ha un potere enorme. È capace di intrappolarci in un circolo vizioso, facendoci credere che non ci sia via d’uscita, che le sue ombre siano l’unica realtà possibile. Ma se ci concediamo anche solo un attimo di tregua, un momento per riflettere, possiamo renderci conto che queste paure, per quanto opprimenti, non sono altro che illusioni. Sono immagini costruite dalla nostra mente, e come tutte le illusioni, possono essere dissolte, a patto di guardarle con gli occhi della consapevolezza. E questa consapevolezza, pur difficile da raggiungere, è il segreto per liberarci davvero.

La strada verso la liberazione interiore è un percorso complesso e graduale, ma tutto inizia con un gesto semplice e potente: prendere consapevolezza. La consapevolezza che la paura, spesso percepita come un nemico insidioso, non è un’entità esterna da cui dobbiamo difenderci a tutti i costi. È, al contrario, una parte integrante della nostra esperienza umana, una presenza inevitabile che ci accompagna in ogni fase della vita. Non si tratta di ignorarla, di combatterla con tutte le nostre forze o di cercare disperatamente di eliminarla. Tentare di sconfiggerla sarebbe come tentare di vivere senza respirare: un’impresa impossibile e inutile. Piuttosto, dobbiamo imparare a riconoscerla e ad accettarla, a trattarla come una compagna di viaggio che, sebbene a volte scomoda, può aiutarci a comprendere meglio noi stessi e il mondo che ci circonda. La paura è un segnale, una bussola che ci avvisa quando qualcosa non va o quando ci troviamo in situazioni che richiedono la nostra attenzione. È fondamentale capire che non è la paura in sé a danneggiarci, ma il modo in cui scegliamo di reagire ad essa. Se le permettiamo di prendere il controllo dei nostri pensieri, essa cresce, si amplifica, diventando un’ombra che oscura ogni cosa. Ma se impariamo a osservarla con distacco e a fermarla prima che diventi opprimente, possiamo trasformarla in un’occasione di crescita.

Questa trasformazione richiede un allenamento costante, un esercizio quotidiano che ci aiuti a vivere nel presente. Ma cosa significa veramente vivere nel presente? Significa smettere di preoccuparci ossessivamente di ciò che potrebbe accadere in futuro, di rincorrere scenari ipotetici che spesso non si realizzano mai. Quante volte ci siamo lasciati consumare dalla paura di eventi che non sono mai accaduti? Quante notti insonni, quante ore passate a rimuginare su situazioni che esistono solo nella nostra mente? Vivere nel presente significa anche liberarci di questo peso inutile, scegliere di focalizzarci su ciò che abbiamo qui e ora, sulle piccole gioie e sui momenti di bellezza che spesso trascuriamo, presi come siamo dalle nostre ansie. Ogni volta che ci soffermiamo a contemplare un tramonto, a gustare un pasto, a ridere con un amico, stiamo scegliendo il presente, e questa scelta ci libera da catene invisibili.

La vita, infatti, non è un campo di battaglia. Non siamo soldati costretti a combattere guerre continue contro nemici invisibili. La vita è un viaggio, un lungo cammino che possiamo percorrere con serenità se impariamo a lasciare andare le nostre paure. Questo non significa negare l’ignoto o ignorare i rischi; significa semplicemente accettarli come parte del cammino, sapendo che non tutto è sotto il nostro controllo. La paura dell’ignoto è una delle più antiche e universali dell’umanità, ma non deve diventare una prigione. Quando smettiamo di temerlo, l’ignoto si trasforma in possibilità, in scoperta, in avventura. Solo allora possiamo veramente aprirci alla bellezza della vita, senza il peso costante della preoccupazione per ciò che potrebbe essere.

Ma vivere nel presente significa anche fare pace con il passato. Il passato, come il futuro, è fuori dal nostro controllo. Non possiamo cambiarlo, per quanto vorremmo, ma possiamo cambiare il modo in cui lo guardiamo. Ogni esperienza passata, anche quelle più dolorose, ci ha portato dove siamo oggi. Ogni errore, ogni ferita, ogni caduta è stata una lezione, un’opportunità per crescere e diventare più forti. Lasciare andare il passato non significa dimenticare, ma smettere di rimuginare su ciò che è stato, smettere di rivivere continuamente dolori ormai lontani. Significa accettare che siamo il risultato delle nostre esperienze, ma non siamo definiti da esse. Possiamo scegliere, in ogni momento, di costruire un presente diverso, più sereno, più consapevole.

E il futuro? Il futuro è incerto, e questa incertezza può essere spaventosa, ma anche liberatoria. Non possiamo prevedere tutto, né controllare ogni aspetto della nostra vita, ma possiamo scegliere come reagire agli eventi che ci accadono. Possiamo affrontare le difficoltà con calma, con lucidità, senza lasciarci sopraffare dall’ansia. Questo richiede pratica, certamente, ma è una pratica che vale la pena coltivare. Ogni giorno possiamo allenarci a rispondere con gentilezza e pazienza, sia verso noi stessi che verso gli altri. Ogni giorno possiamo scegliere di affrontare le nostre paure con coraggio, sapendo che esse non definiscono chi siamo, ma sono solo una piccola parte del nostro viaggio.

In definitiva, la liberazione non consiste nell’eliminare la paura dalla nostra vita, ma nel trasformare il nostro rapporto con essa. Significa imparare a viverla senza che essa ci domini, accettarla senza che ci paralizzi. È un processo continuo, un cammino che non ha una fine definitiva, ma che ci porta ogni giorno un passo più vicino a una vita più serena, più libera, più autentica. E in questo cammino, il presente è il nostro punto di forza: un luogo sicuro, sempre accessibile, dove possiamo ritrovare noi stessi e la bellezza del nostro essere vivi.

Imparare a vivere nel presente è molto più di un semplice esercizio mentale o una moda del momento. È un'arte, una disciplina che richiede tempo, energia e dedizione. Non basta dirsi “voglio vivere nel qui e ora” per riuscirci: occorre un impegno costante, un’attenzione che si rinnova ogni giorno e che ci permette di rimanere centrati, nonostante le distrazioni del mondo esterno e le turbolenze del nostro mondo interiore. È come costruire una casa solida in mezzo a una tempesta: richiede sforzo, ma una volta costruita, quella casa diventa il nostro rifugio, il luogo sicuro dove possiamo vivere senza paura. Vivere nel presente significa liberarci dalle catene invisibili che la paura e l’ansia ci impongono, quelle catene che ci immobilizzano e ci impediscono di vedere la bellezza e le opportunità che ci circondano in ogni istante.

La paura, spesso, è un mostro che nasce nella nostra mente. Quello che ci spaventa non è quasi mai la realtà concreta, ma la nostra interpretazione di essa, la storia che raccontiamo a noi stessi. Pensiamo a quante volte ci siamo sentiti sopraffatti da un problema, convinti che fosse insormontabile, e poi, col passare del tempo, quello stesso problema si è rivelato meno grave, meno importante di quanto ci aspettassimo. Gli ostacoli che oggi sembrano montagne da scalare, domani possono apparire come piccoli sassi sulla strada, se siamo capaci di cambiare il nostro punto di vista. La prospettiva è tutto: ciò che vediamo come un muro invalicabile può trasformarsi in una porta, se siamo disposti a guardarlo con occhi nuovi.

Molto spesso, il nostro dolore, la nostra ansia, le nostre paure sono alimentate da noi stessi. Quando ci concentriamo su ciò che ci spaventa, quando continuiamo a pensarci, a rimuginare, diamo a quella paura un potere che in realtà non ha. Le paure si nutrono della nostra attenzione, crescono ogni volta che le guardiamo con timore. Ma se riusciamo a distaccarci, a guardarle da una certa distanza emotiva, iniziano a perdere la loro forza. È come quando accendiamo una luce in una stanza buia: ciò che prima sembrava spaventoso si rivela per quello che è, e spesso scopriamo che non c’era nulla di cui avere paura. La luce della consapevolezza dissolve l’ombra della paura.

La consapevolezza ci insegna che molte delle nostre paure sono infondate. Quante volte abbiamo temuto il peggio, solo per scoprire che le cose non erano così terribili come immaginavamo? Quante volte abbiamo creato mostri nella nostra mente, per poi renderci conto che quei mostri non erano reali? La verità è che la paura è una costruzione mentale, un’illusione che svanisce non appena smettiamo di alimentarla. Quando ci rendiamo conto che il mostro che credevamo pronto a divorarci non esiste davvero, proviamo una sensazione di sollievo indescrivibile. È come svegliarsi da un incubo e scoprire che era solo un sogno.

E allora, cosa significa davvero vivere nel presente? Significa smettere di lottare contro quei fantasmi che ci creiamo da soli. Significa accettare la realtà così com’è, senza giudicarla, senza volerla cambiare a tutti i costi. Significa trovare la pace nel qui e ora, riconoscendo che il momento presente è l’unico che abbiamo davvero. Quando viviamo nel presente, smettiamo di preoccuparci per il futuro o di rimuginare sul passato. Ci concentriamo su ciò che è reale, su ciò che possiamo toccare, vedere, sentire in questo preciso istante. Ed è in quel momento che iniziamo davvero a vivere.

Vivere nel presente non significa ignorare i problemi o le difficoltà. Significa affrontarli con serenità, sapendo che non sono più grandi di noi. Significa vedere le sfide come opportunità di crescita, non come minacce. Significa trovare la bellezza anche nelle cose più semplici, nei piccoli momenti che spesso diamo per scontati: un sorriso, un raggio di sole, il profumo del caffè al mattino. La vita è fatta di questi momenti, ed è quando impariamo a viverli pienamente che iniziamo davvero a sentirci vivi.

Alla fine, vivere nel presente è un atto di coraggio. È scegliere di abbracciare la vita così com’è, con tutte le sue imperfezioni, le sue incertezze, le sue sorprese. È un viaggio che non ha mai fine, ma è un viaggio che vale la pena intraprendere. Perché è solo vivendo nel presente che possiamo liberarci dalle catene del passato e smettere di preoccuparci per un futuro che ancora non esiste. E in questa libertà, troviamo finalmente la pace.

Il percorso verso la libertà dalla paura è un cammino che, sebbene non sia mai facile, è assolutamente fondamentale per poter vivere una vita piena, ricca di significato e soddisfacente. La paura, quella compagna silenziosa e talvolta insidiosa che ci limita, ci immobilizza e ci impedisce di abbracciare il nostro vero potenziale, non è qualcosa da evitare, ma qualcosa da affrontare con coraggio, consapevolezza e determinazione. È essenziale imparare a comprendere che la paura non è il nostro nemico, ma piuttosto una reazione naturale della nostra mente di fronte all'ignoto, al cambiamento, a ciò che non possiamo prevedere. Solo affrontando le nostre paure più profonde, senza esitare o cercare di nasconderle, possiamo imparare a guardare oltre di esse. Guardando oltre le nostre paure, scopriamo che la realtà che ci circonda, sebbene possa sembrare complessa, spaventosa e talvolta insormontabile, è in realtà molto più gestibile, accessibile e malleabile di quanto sembri a prima vista. La realtà non è mai così rigida e definitiva come a volte la nostra mente ci fa credere. Ogni passo che compiamo nel superare le nostre paure ci apre la porta a una nuova e più profonda comprensione, più chiara e lucida, di ciò che è veramente importante nella vita, di ciò che merita davvero la nostra attenzione e il nostro impegno.

Non dobbiamo più temere l’incognito, quella sensazione di incertezza che ci spaventa tanto, quella paura di ciò che non conosciamo, quella paura di perdere il controllo su ciò che accade. L'incognito, in realtà, non è altro che una parte inevitabile e fondamentale del nostro cammino, un elemento che ci accompagna costantemente nel nostro percorso di crescita e di trasformazione. L'incognito, infatti, è spesso il terreno fertile in cui germogliano le nostre possibilità più grandi, quelle che non avremmo mai pensato di esplorare se non avessimo avuto il coraggio di guardare oltre la nebbia dell’ignoto. Ogni volta che ci troviamo di fronte a ciò che non conosciamo, abbiamo la possibilità di fare un passo indietro, riflettere e trovare nuove soluzioni, nuove strade che, sebbene ci sembrano difficili e tortuose, si rivelano essere le più arricchenti e gratificanti. In questo senso, l’incognito non è più un nemico da temere, ma una risorsa da sfruttare. Piuttosto che cercare di evitare il cambiamento o di rimanere fermi in situazioni conosciute ma insoddisfacenti, possiamo scegliere di abbracciare il cambiamento stesso come un’opportunità per evolverci e per scoprire chi siamo veramente.

Non dobbiamo più vivere sotto il dominio delle nostre ansie, quelle voci interiori che continuamente ci dicono che non siamo abbastanza, che non ce la faremo, che il nostro sogno è troppo grande e irraggiungibile. Le ansie, infatti, non sono altro che pensieri distorti che spesso non hanno alcun fondamento nella realtà. Si nutrono delle nostre insicurezze, delle nostre esperienze passate di fallimento, e cercano di paralizzarci, di renderci indecisi e impotenti. Invece, dobbiamo imparare a lasciar andare queste sensazioni di impotenza e di paura, imparando a riconoscere quando stiamo cedendo al loro potere, per poi decidere consapevolmente di non permettere che ci dominino. Dobbiamo imparare a rallentare il nostro respiro, a fermarci un attimo per fare spazio alla serenità e alla consapevolezza, che sono il frutto di un lavoro interiore e di un cammino di crescita continuo, di un processo che richiede pazienza, ma che ci offre in cambio una vita più armoniosa e centrata. Quando ci permettiamo di lasciare andare le ansie, permettiamo alla serenità di guidare i nostri passi, e la serenità è la chiave che apre la porta alla libertà. La serenità non è l'assenza di problemi o difficoltà, ma la capacità di affrontarli con lucidità, calma e resilienza, senza essere travolti dalle emozioni negative che a volte sembrano prendere il sopravvento.

Solo così possiamo vivere ogni giorno con una sensazione di pace interiore, una pace che nasce dalla consapevolezza che, nonostante le difficoltà, siamo sempre sulla strada giusta. Ogni esperienza, ogni incontro, ogni sfida che ci si presenta davanti è una parte del nostro cammino, e ciascuna di queste esperienze, anche quelle che inizialmente sembrano negative o difficili, contribuisce alla nostra crescita. Non dobbiamo più aspettare che tutto sia perfetto, che le circostanze siano ideali, che il momento giusto arrivi prima di fare ciò che desideriamo. Dobbiamo semplicemente agire, con fiducia e coraggio, perché ogni passo che facciamo, anche il più piccolo, ci avvicina alla nostra meta. In questo modo, possiamo finalmente scoprire che la vita, con tutte le sue sfide, le sue difficoltà, i suoi momenti di incertezza e di paura, è un viaggio straordinario che vale la pena di essere vissuto, senza paura, senza ansia, ma con una rinnovata fiducia nel fatto che ogni passo che facciamo, ogni scelta che prendiamo, ci avvicina sempre di più a una comprensione sempre più profonda di noi stessi e della nostra esistenza, di quella verità universale che ci permette di essere finalmente liberi di essere ciò che siamo veramente, senza maschere né limitazioni, senza paura di mostrarci al mondo per quello che siamo. E in questo abbraccio alla nostra essenza più profonda, risiedono le chiavi per una vita autentica, ricca di amore, di crescita e di realizzazione personale.

Strano, vero? (dialogo)

— Strano, vero? Come due naufraghi alla deriva, cerchiamo di afferrare l’invisibile, di toccare con mani tremanti ciò che non si lascia afferrare. Ogni movimento che facciamo sembra vano, ogni passo un tentativo di avvicinarsi a qualcosa che ci sfugge sempre, come se la nostra esistenza fosse un gioco crudele che non abbiamo mai deciso di giocare, ma che siamo costretti a vivere. Le onde ci battono contro, ci fanno girare su noi stessi, eppure non siamo capaci di capire, di fermarci a riflettere su dove stiamo andando, su chi siamo davvero. Ci sfidano, le onde, ma non solo loro. Anche il cielo, che ci sovraintende con la sua vastità, sembra ridere di noi, mentre l'infinito ci circonda e ci annienta, lasciandoci impotenti di fronte a una verità che non possiamo comprendere. Ogni nostra speranza di raggiungere qualcosa di solido, di stabile, svanisce come la nebbia al mattino, e rimaniamo a galleggiare, alla deriva, aggrappandoci a ciò che ci pare un'ancora di salvezza, solo per scoprire che anche quella è fatta di sabbia.

— Naufraghi, sì, ma anche ciechi. Le onde ci portano lontano, e noi crediamo di scegliere una direzione. Eppure dell’eterno non sappiamo nulla. Né io né te. Non sappiamo nulla di questa strana realtà che ci circonda, del suo mistero che ci inghiotte. Ogni volta che pensiamo di trovare una strada, ci ritroviamo di fronte a un nuovo muro, a una nuova barriera che non ci permette di vedere oltre. La direzione che crediamo di scegliere è solo un'illusione, e noi siamo i primi a non riconoscerla. Siamo ciechi di fronte alla vastità dell’universo, incapaci di vedere che le stelle, quelle stesse stelle a cui ci aggrappiamo come fossero fiamme, non sono altro che luci lontane, inafferrabili, che ci raccontano storie di tempi che non esistono più. E non c’è nulla che possiamo fare per cambiarlo. Né io, né te, né chiunque altro. L’eterno, se mai esiste, è lontano da noi, troppo lontano. Siamo prigionieri di un tempo che non possiamo fermare, di un destino che non possiamo evitare.

— Né io né te. Né sappiamo quale sia il senso di questo abisso in cui siamo gettati. L’enigma ci avvolge come una nebbia che non si disperde mai, un velo che ci copre gli occhi, che ci impedisce di vedere la verità. Siamo come due pescatori in un mare che non si lascia pescare, cercando di agganciare qualcosa che non esiste, sperando che quella speranza, quella ricerca infinita, ci possa dare finalmente una risposta. Ma la verità è che non c’è risposta. Non c’è salvezza, non c’è verità che ci possa liberare. Ogni tentativo di penetrare questo abisso, di comprenderlo, di afferrarlo, ci spinge sempre più a fondo, ci fa perdere la bussola, ci fa dimenticare chi siamo. E, più cerchiamo di capire, più ci confondiamo. Siamo stanchi, ma non possiamo fermarci, perché fermarsi significerebbe soccombere, significerebbe perdere completamente il contatto con ciò che crediamo sia la nostra esistenza, con ciò che pensiamo di essere.

— È un gioco crudele. Il mondo è un enigma, e noi siamo le sue pedine. Giocatori e giocati, senza regole, senza scopo, in una danza senza ritmo, in un teatro senza attori. Eppure, continuiamo a ballare, senza mai fermarci, senza mai chiederci cosa stiamo cercando. Perché non possiamo smettere di giocare. Ci aggrappiamo al gioco come a un salvagente, come se fosse l’unica cosa che ci impedisce di affondare nel vuoto. Eppure, sappiamo che non ci salverà. Il gioco non ha vincitori. Non c’è un premio alla fine, solo il continuo ripetersi dello stesso ciclo, della stessa storia. Ogni mossa che facciamo ci porta più lontano dalla verità, ma non possiamo fare a meno di fare quelle mosse, come se ogni passo ci desse una ragione per andare avanti, per continuare a sperare in qualcosa che non arriverà mai. Il mondo, con le sue regole assurde, con le sue leggi incomprensibili, non fa altro che intrappolarci in un cerchio vizioso, e noi, come pedine, ci muoviamo in una danza senza fine, senza sapere neppure perché.

— Eppure siamo qui, a parlare, a cercare parole che abbiano un peso, un significato. Ma sono solo echi, rimbombi in una caverna vuota, in un abisso che non risponde. Le parole sono l’unico strumento che abbiamo, l’unica speranza di rendere tangibile qualcosa che ci sfugge. Cerchiamo di dar loro un significato, ma le parole sono vuote, sono solo ombre, frammenti di suono che non si legano mai insieme. Eppure, continuiamo a parlare, a cercare quelle parole che possano dare forma a ciò che ci sfugge, che possano finalmente mettere ordine nel caos. Ma sono solo echi, e non importa quanto forte gridiamo, quanto insistentemente cerchiamo di farle risuonare. Gli echi tornano sempre, ma non rispondono mai. Sono come riflessi in uno specchio rotto, che non ci mostrano mai la realtà. Eppure, non possiamo fare a meno di ripeterli, perché senza di essi, senza le parole, ci sentiremmo ancora più vuoti, ancora più persi.

— Forse è tutto ciò che abbiamo: echi. Ma mi chiedo, perché ci troviamo qui? Perché ci cerchiamo in questa notte che si allunga, che non ha fine, che ci avvolge in un silenzio che sembra inghiottire tutto? La notte sembra non finire mai, e ogni passo che facciamo ci porta più lontano, ma non verso la luce, non verso la fine di questa oscurità. Non sappiamo cosa stiamo cercando, né se abbiamo davvero trovato qualcosa. Ma continuiamo a cercare, come se quella ricerca fosse la nostra unica ragione di vita. Ma cosa stiamo cercando? Una risposta? Un senso? O forse stiamo solo cercando di sfuggire alla paura, al terrore di non sapere, di non comprendere mai? La notte si allunga, e noi siamo ancora qui, a cercare, a parlare, ma senza una risposta, senza un vero scopo. Eppure, non possiamo fermarci. Se smettessimo di cercare, cosa rimarrebbe?


— Perché siamo nascosti da un velo, e quel velo ci nasconde da noi stessi. Ma allo stesso tempo, ci tiene prigionieri in un mondo che non ci appartiene, che non possiamo comprendere. E forse temiamo il momento in cui quel velo cadrà, quando finalmente vedremo la verità, quella verità che ci ha sempre sfuggito. Ma quel velo è anche una protezione, è ciò che ci permette di vivere, di continuare a esistere. Senza di esso, ci perderemmo nell’oscurità, senza alcuna speranza di ritrovare una via d’uscita. Eppure, continuiamo a cercare, come se la protezione che ci offre fosse la nostra condanna. Non vogliamo che quel velo cada, perché senza di esso, senza la nostra illusione di sicurezza, non sappiamo chi siamo, non sappiamo più cosa stiamo cercando. Ma, allo stesso tempo, quel velo ci imprigiona, ci nasconde la realtà, ci fa vivere in un sogno che non finisce mai. Eppure, senza quel sogno, senza quel velo, cosa ci rimarrebbe?

— Quando cadrà, né io né te rimarremo. Ci sarà solo il vuoto, un vuoto che ci inghiottirà senza pietà. Non ci sarà più nulla di noi, niente di ciò che siamo stati, di ciò che abbiamo cercato. Sarà la fine, la fine di tutto. Eppure, in quel momento, qualcosa dentro di noi spera che non sia veramente la fine, che ci sia ancora qualcosa da scoprire, da comprendere. Ma non ci sarà niente. Solo silenzio, un silenzio che ci avvolgerà, che ci separerà da tutto ciò che abbiamo conosciuto. E, nel silenzio, non ci sarà più spazio per noi. Solo il vuoto.

— E allora cosa resta? Questa farsa? Questa commedia che ci inganna, che ci fa credere che stiamo facendo qualcosa di importante, che ci fa credere che stiamo vivendo? Ma in realtà, non stiamo facendo altro che recitare un ruolo che ci è stato imposto, senza nemmeno sapere da chi, senza sapere perché. Siamo spettatori e attori nello stesso tempo, ma non c’è pubblico ad applaudire. Non c’è nessuna fine, nessuna conclusione. Solo luci tremolanti e passi che risuonano nel vuoto. Eppure, continuiamo a recitare, perché non sappiamo fare altro. Non possiamo fermarci, perché senza la recita, senza il nostro ruolo, cosa ci rimarrebbe? Il silenzio, il vuoto. La fine.

— Resta il desiderio. Un desiderio che ci tormenta, che ci brucia dentro, che ci fa sentire vivi, ma che allo stesso tempo ci uccide. Un desiderio che non si placa mai, che ci spinge sempre più in là, verso qualcosa che non possiamo raggiungere. Ma continuiamo a sperare, a desiderare, perché senza di esso, saremmo nulla. Il desiderio è tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che ci tiene aggrappati alla vita, ma allo stesso tempo, è ciò che ci strazia, che ci fa perdere il contatto con la realtà. È un desiderio che non si può soddisfare, perché quello che desideriamo è inafferrabile, è lontano, eppure non possiamo fare a meno di seguirlo. Perché senza di esso, cosa saremmo? Nulla.

— Nulla, sì, ma è proprio quel nulla che ci attrae, che ci spinge verso l'ignoto. È quel vuoto che ci chiama, che ci sfida a riempirlo con le nostre illusioni, con le nostre speranze. E noi ci proviamo, disperatamente, sapendo che è tutto inutile. Perché il nulla non può essere riempito, eppure noi continuiamo a crederci. È un paradosso, una condanna. Eppure, senza quella condanna, senza quella lotta continua contro il vuoto, cosa ci rimarrebbe? La quiete? Ma la quiete è solo un altro nome per il nulla, e noi non vogliamo accettarlo. Preferiamo combattere, preferiamo illuderci, piuttosto che affrontare la realtà del vuoto.

— Forse è proprio questo il senso. Non c’è un traguardo, non c’è una verità da raggiungere. C’è solo il viaggio, la lotta, l’illusione. E noi siamo destinati a perderci in questo viaggio, a consumarci in questa lotta, a vivere e morire nelle nostre illusioni. Ma forse va bene così. Forse è questa la condizione dell’essere umano: cercare senza trovare, desiderare senza mai soddisfare il desiderio. E forse, in questo continuo fallimento, c’è una strana forma di bellezza. Una bellezza tragica, certo, ma pur sempre bellezza.

— Bellezza? O forse solo disperazione. Forse stiamo solo cercando di dare un senso a qualcosa che non ne ha. Forse ci stiamo aggrappando a queste parole, a queste idee, perché non vogliamo ammettere la verità. Che non c’è nulla. Che siamo soli, perduti, e che non c’è un motivo, né una direzione, né una meta. Ma, anche se fosse così, cosa cambierebbe? Continueremmo comunque a cercare, a parlare, a desiderare. Perché non possiamo fare altro. Perché è tutto ciò che siamo.

Nanni Balestrini e il Futurismo: la battaglia degli eredi per preservare la memoria dell’artista

La recente controversia scaturita dall'inclusione di un'opera di Nanni Balestrini all'interno di una mostra interamente dedicata al Futurismo ha sollevato un acceso dibattito che si estende ben oltre il singolo episodio specifico, arrivando a toccare temi centrali nel mondo dell'arte e della cultura contemporanea. Da una parte, vi è stata la scelta curatoriale di accostare un autore come Balestrini, noto per la sua vicinanza a correnti d'avanguardia di tutt'altra natura, a un movimento storicamente controverso e ben definito come quello futurista; dall’altra, è emerso il disappunto espresso dagli eredi dello scrittore e poeta, i quali non solo non sono stati interpellati prima dell’adozione di questa decisione, ma ritengono che tale accostamento tradisca i principi fondanti, i valori politici e la traiettoria intellettuale che hanno caratterizzato la produzione artistica di Balestrini. Questa vicenda non si limita a una disputa su un caso isolato, ma pone interrogativi di più ampia portata, che riguardano questioni complesse e spesso controverse: il rapporto tra il ricordo e la memoria collettiva di un artista, l’autonomia e la libertà interpretativa di chi organizza eventi espositivi, e il dovere morale e culturale di rispettare in modo accurato e fedele le eredità intellettuali che ogni figura artistica lascia in dono alla collettività.

Nanni Balestrini (1935-2019) è stato uno degli intellettuali più importanti, poliedrici e innovativi della cultura italiana del secondo Novecento, lasciando un’impronta indelebile nella letteratura, nell’arte e nel panorama sociale del suo tempo. La sua attività non si limitò mai a un singolo ambito espressivo: poeta, scrittore e artista visivo, Balestrini fu un pioniere nella sperimentazione di nuovi linguaggi e tecniche creative, sempre alla ricerca di modalità alternative per raccontare la complessità del mondo contemporaneo. La sua opera è il risultato di una costante ricerca estetica e intellettuale, che si collocava al crocevia tra avanguardia artistica e impegno politico.

Tra i suoi più grandi contributi si annovera il ruolo di fondatore del Gruppo 63, una delle esperienze collettive più significative del Novecento italiano. Questo movimento, nato in un periodo di profonde trasformazioni culturali e sociali, si poneva l’obiettivo di sovvertire le convenzioni letterarie e artistiche tradizionali, proponendo un modello espressivo completamente nuovo. Il Gruppo 63 si basava sull’idea che la cultura dovesse essere un terreno di lotta e di innovazione, non uno spazio di conservazione del passato. Balestrini, insieme a intellettuali e artisti come Umberto Eco, Edoardo Sanguineti e Luciano Berio, contribuì a elaborare un’estetica che sfidava apertamente il classicismo e il neorealismo, proponendo al loro posto linguaggi frammentati, stratificati e intrisi di riferimenti alla società di massa, alla politica e alla tecnologia emergente.

La produzione di Balestrini fu profondamente influenzata dal contesto storico in cui operò. Nel pieno degli anni Sessanta e Settanta, un periodo di grande fermento politico e culturale, egli utilizzò la sua arte per riflettere sulle dinamiche del potere, delle lotte operaie e dei movimenti di protesta. Le sue opere, caratterizzate da una radicale sperimentazione formale, combinavano poesia, collage e tecniche di montaggio che traevano ispirazione tanto dalla tradizione delle avanguardie storiche quanto dalle tecnologie moderne, come la macchina da scrivere e, in seguito, il computer.

Balestrini non fu solo un innovatore sul piano artistico, ma anche un intellettuale impegnato, sempre attento alle trasformazioni della società italiana e internazionale. La sua opera rappresenta un ponte tra l’esperienza personale e quella collettiva, mostrando come la letteratura e l’arte possano farsi veicolo di riflessione critica, strumento di denuncia e, al tempo stesso, espressione di una visione poetica e immaginativa del reale. La sua eredità continua a influenzare non solo scrittori e artisti contemporanei, ma anche studiosi e critici che riconoscono nel suo lavoro un esempio straordinario di come la cultura possa essere al servizio dell’innovazione, del cambiamento e della libertà creativa.

La sua opera poetica si distingue in maniera netta e sorprendente per l’utilizzo di tecniche innovative come il cut-up e il collage, strumenti attraverso i quali l’autore riesce a infrangere le convenzioni tradizionali della scrittura e del linguaggio. Queste tecniche, sviluppate e rese celebri da figure di spicco del panorama letterario e artistico del Novecento, trovano nella sua poetica un’applicazione particolarmente originale, che va ben oltre il mero esperimento formale. L’autore infatti non si limita a mescolare frammenti di parole o frasi, ma opera una vera e propria destrutturazione dei significati consolidati, per poi ricombinarli in configurazioni nuove, spesso destabilizzanti, che costringono il lettore a interrogarsi profondamente sul senso stesso della parola scritta e sulle possibilità inesauribili della comunicazione. Il risultato è una scrittura che si pone in una zona di frontiera, in bilico tra ordine e caos, tra comprensione e disorientamento, invitando chi legge a un coinvolgimento attivo, a un dialogo incessante con il testo.

Questa ricerca non è mai fine a sé stessa, ma si inserisce in una più ampia riflessione sull’atto creativo e sulla funzione della letteratura nella società contemporanea. L’autore sembra suggerire che il linguaggio, lungi dall’essere una struttura rigida e predeterminata, è invece una materia viva e pulsante, capace di trasformarsi e adattarsi alle infinite variabili dell’esperienza umana. La sua scrittura diventa così un laboratorio di sperimentazione continua, in cui ogni parola, ogni frase, ogni frammento assume una nuova vita, rompendo con le aspettative e sfidando le abitudini interpretative del lettore. Attraverso il cut-up e il collage, il testo si libera dalle catene della linearità e della prevedibilità, creando un universo frammentato ma profondamente coerente nella sua complessità, in cui ogni elemento, anche il più piccolo, contribuisce a una risonanza globale.

Un esempio particolarmente emblematico di questa visione della letteratura come processo aperto si trova nel libro Tristano (1966), una delle opere più iconiche e rivoluzionarie dell’autore. Questo romanzo rappresenta un caso unico nella storia della letteratura non solo per il suo contenuto, ma soprattutto per la sua struttura radicalmente innovativa: ogni copia stampata presenta una sequenza diversa dei capitoli, il che significa che nessun lettore si troverà mai di fronte allo stesso libro. In questa scelta editoriale, che può sembrare a prima vista una curiosità o un capriccio tecnico, si riflette invece una concezione profondamente filosofica dell’opera d’arte come entità fluida e in costante divenire. Il romanzo non è un testo fisso e definitivo, ma un’esperienza che si rinnova ogni volta, sottolineando l’idea che la letteratura non debba essere un percorso chiuso, bensì un dialogo continuo tra autore, testo e lettore.

Questa visione trova le sue radici nelle correnti artistiche e letterarie più sperimentali del XX secolo, che hanno spesso cercato di abbattere le barriere tra arte e vita, tra ordine e caos. In Tristano, questa tensione si manifesta in modo particolarmente potente, poiché il libro non solo destabilizza il lettore con la sua struttura variabile, ma lo invita a riflettere sul proprio ruolo all’interno del processo creativo. Leggere diventa un atto partecipativo, un’esperienza unica e irripetibile che cambia di volta in volta, come se il testo stesso fosse un organismo vivente, capace di adattarsi alle circostanze e ai contesti più diversi. La scelta di rendere ogni copia unica non è quindi un semplice artificio, ma un gesto simbolico e rivoluzionario, che ridefinisce i confini della letteratura e apre nuove prospettive sulle sue potenzialità.

In definitiva, l’opera dell’autore non è solo un’esplorazione del linguaggio e delle sue possibilità, ma anche una profonda meditazione sul significato della creazione artistica e sul rapporto tra autore, testo e lettore. Attraverso tecniche come il cut-up e il collage, e attraverso opere radicali come Tristano, egli ci invita a immaginare un nuovo modo di concepire la scrittura: non più come un atto unidirezionale, ma come un processo aperto, dinamico, in cui ogni elemento contribuisce a creare un’esperienza unica e irripetibile. In questo senso, la sua opera non è solo letteratura, ma anche filosofia, arte e, soprattutto, una sfida continua alle nostre certezze e alle nostre convenzioni.

Nanni Balestrini, figura centrale dell’avanguardia letteraria italiana del secondo Novecento, non è stato solo un poeta e uno scrittore innovativo, ma anche un intellettuale profondamente impegnato nella scena politica degli anni Sessanta e Settanta, un periodo turbolento della storia italiana caratterizzato da proteste sociali, lotte operaie e grandi tensioni ideologiche. La sua attività non si limitava alla scrittura, ma si espandeva verso un coinvolgimento diretto con i movimenti extraparlamentari più radicali, come Potere Operaio, un'organizzazione che ambiva a trasformare le strutture sociali ed economiche attraverso una critica feroce e un’azione concreta contro il sistema capitalista. Balestrini, con la sua mente acuta e il suo spirito ribelle, si allineava profondamente con le istanze di questa stagione di rivolta, sostenendo con forza i diritti dei lavoratori, degli sfruttati, e di tutte quelle classi subalterne che spesso venivano ignorate o marginalizzate dalle politiche ufficiali.

La sua militanza non era confinata agli slogan o alla teoria; essa si intrecciava in modo indissolubile con il suo lavoro creativo, dove il linguaggio diventava uno strumento potente per destabilizzare l'ordine costituito e stimolare una presa di coscienza collettiva. Balestrini non credeva nella neutralità della parola: ogni frase, ogni verso era un atto politico, una sfida lanciata contro le strutture di potere che cercavano di normalizzare l’ingiustizia e l’oppressione. Le sue opere letterarie, infatti, non erano solo prodotti artistici, ma veri e propri atti militanti, capaci di unire l’estetica alla politica in una sintesi che rispecchiava la sua visione di un mondo diverso, più equo e solidale.

Questo approccio innovativo si traduceva in una scrittura che rompeva con le convenzioni tradizionali della letteratura, utilizzando il montaggio, la frammentazione e il collage per riflettere il caos e la complessità del suo tempo. Nei suoi testi, le voci si mescolavano, i registri si confondevano, e il risultato era un linguaggio vivo, pulsante, che non solo rappresentava il conflitto, ma lo incarnava. Questo stile unico era profondamente radicato nella sua convinzione che la letteratura dovesse essere uno spazio di resistenza e trasformazione, capace di influenzare non solo il modo in cui le persone pensano, ma anche il modo in cui agiscono.

Il contributo di Balestrini non si fermava però alla scrittura individuale. Come membro fondatore del Gruppo 63, ha contribuito a ridefinire i confini della narrativa e della poesia italiana, creando un ponte tra l’avanguardia artistica e le istanze più urgenti della società. Inoltre, il suo lavoro editoriale e organizzativo – che includeva la creazione di riviste, l’organizzazione di eventi culturali e la promozione di giovani autori – dimostrava un impegno instancabile per l’arte e la politica come strumenti di cambiamento. In ogni aspetto della sua vita, Balestrini incarnava una visione radicale del ruolo dell’artista nella società, rifiutando l’isolamento della torre d’avorio per immergersi nelle lotte del suo tempo.

In un’epoca in cui le divisioni sociali si facevano sempre più acute e le speranze di un cambiamento sembravano vacillare tra l’utopia e la disillusione, Balestrini rappresentava una voce autentica, in grado di dare forma e significato alle aspirazioni di una generazione intera. Il suo lascito non è solo nella sua opera scritta, ma anche nell’esempio di un’intellettualità coraggiosa, che non ha mai avuto paura di sporcarsi le mani con la realtà, di sfidare il potere e di immaginare nuovi orizzonti di possibilità. Oggi, rileggendo i suoi scritti e riflettendo sulla sua eredità, possiamo ancora trovare ispirazione per affrontare le sfide del presente con lo stesso spirito di lotta, creatività e consapevolezza che hanno guidato tutta la sua vita.

Per queste ragioni, accostare Balestrini al Futurismo, un movimento che esaltava la velocità, la violenza e la guerra, con molti dei suoi esponenti che, in seguito, si schierarono apertamente con il fascismo, appare a molti come una scelta profondamente errata e ingiustificata. Il Futurismo, infatti, non solo celebrava il progresso tecnologico e la rottura con il passato, ma spesso si identificava anche con un concetto di modernità che comportava un rifiuto della tradizione e dei valori pacifici, in nome di una spinta all'azione distruttrice e alla lotta. Questo movimento, infatti, poneva l'accento su una visione del mondo che vedeva nella guerra non un male da evitare, ma un'opportunità di rinnovamento, come sottolineato nelle celebri dichiarazioni di Marinetti, il fondatore del Futurismo, che non esitava a fare della violenza e del conflitto i motori stessi della crescita e della modernizzazione. In questo contesto, il legame tra la poetica di Balestrini, che pur si è confrontato con le dinamiche di innovazione e avanguardia, e gli ideali futuristi risulta problematico, se non del tutto forzato. La sua posizione, infatti, pur essendo influenzata dal contesto storico e dalle tensioni politiche del suo tempo, non rispecchia i principi estremi e belligeranti che caratterizzavano il Futurismo. Anzi, Balestrini, pur cercando di rompere con le convenzioni stilistiche e letterarie del passato, si distingue nettamente dai futuristi proprio per il suo approccio alla critica sociale e alla riflessione sul potere, sulla guerra e sulla violenza. La sua opera, in particolare, si inserisce più in un filone di ricerca che cerca di svelare le contraddizioni della modernità, piuttosto che esaltarne gli aspetti più distruttivi e radicali.

Balestrini, pur avendo una visione radicale della realtà e un forte desiderio di rompere con le convenzioni, ha sempre cercato di mantenere un'attenzione critica rispetto alle implicazioni sociali, politiche ed etiche delle sue scelte artistiche. A differenza di molti futuristi, che vedevano nella guerra e nella violenza uno strumento di purificazione e di rinnovamento, Balestrini ha sempre cercato di esplorare le ombre e le distorsioni del potere, come dimostra il suo impegno politico e la sua adesione a posizioni progressiste, che lo ponevano in netta opposizione al fascismo e ai suoi valori. Sebbene il Futurismo fosse un movimento culturale che si alimentava anche di una visione estremamente maschilista e aggressiva, il lavoro di Balestrini, pur nella sua durezza e nella sua critica feroce alla società, non ha mai abbracciato questa visione del mondo. Al contrario, la sua opera ha sempre cercato di denunciare le ingiustizie, le disuguaglianze e le forme di oppressione che caratterizzano la società contemporanea, ponendosi in una posizione di resistenza rispetto ai modelli totalitari e autoritari che il Futurismo, al contrario, sembrava talvolta promuovere. Di conseguenza, il parallelo tra Balestrini e i futuristi risulta non solo erroneo, ma anche fuorviante, in quanto ignora le differenze fondamentali nelle motivazioni e nelle posizioni ideologiche che separano i due.

La mostra che ha suscitato una vivace e accesa polemica si propone di esplorare in maniera approfondita il Futurismo, uno dei movimenti artistici e culturali più rivoluzionari del XX secolo, che ha avuto origine in Italia nel lontano 1909 con la pubblicazione del celebre Manifesto Futurista, scritto da Filippo Tommaso Marinetti. Questo manifesto non solo segnò l'inizio di un nuovo capitolo nella storia dell'arte e della cultura, ma diede vita a una vera e propria rivoluzione che sconvolse il panorama artistico e intellettuale dell'epoca. Il Futurismo nasce come una risposta al passivismo e all'estetica borghese che, secondo i futuristi, aveva paralizzato la società, promuovendo invece l'energia, la velocità, la tecnologia, il dinamismo e il progresso. L'arte futurista si distinse per l'intento di rappresentare il movimento e l'innovazione, cercando di tradurre in immagini il rapido sviluppo della tecnologia, delle macchine e della vita urbana. Il Futurismo non era solo un movimento artistico, ma anche un manifesto politico e sociale, con un forte rifiuto della tradizione e una propensione a celebrare il conflitto, la guerra e la modernità come elementi essenziali per il progresso umano.

Il movimento si espanse rapidamente, influenzando una vasta gamma di discipline artistiche e culturali, dalla pittura alla scultura, dalla letteratura alla musica, dal teatro al design industriale. Artisti come Umberto Boccioni, Giacomo Balla, Carlo Carrà e Luigi Russolo furono tra i protagonisti principali di questo movimento, che cercò di andare oltre le convenzioni artistiche precedenti, proponendo un linguaggio nuovo e radicale. Nella pittura, il Futurismo si caratterizzò per l'uso di forme dinamiche e la scomposizione del movimento, come si può osservare nelle opere più celebri di Boccioni e Balla. Nella letteratura, Marinetti stesso, con la sua scrittura audace e frammentata, cercò di rompere con la sintassi tradizionale, cercando una forma di espressione che fosse al pari della velocità e del frastuono della vita moderna. Allo stesso modo, nella musica, il Futurismo promosse l'uso di rumori e suoni industriali, cercando di creare una sonorità che fosse il riflesso della macchina e del progresso.

Tuttavia, nonostante l'entusiasmo iniziale per le sue innovazioni e per il suo approccio anticonformista, la storia del Futurismo è indissolubilmente legata a una parte molto controversa e ambigua del suo sviluppo. Sebbene inizialmente il movimento abbia cercato di rompere con il passato, nella realtà molti dei suoi esponenti principali, tra cui lo stesso Marinetti, aderirono in maniera convinta al fascismo, integrandosi nelle strutture di potere che il regime fascista stava consolidando in Italia. Questo legame tra il Futurismo e il fascismo ha sollevato interrogativi storici e morali molto complessi. Infatti, il fascismo, con la sua ideologia autoritaria e nazionalista, non solo cercò di recuperare e rafforzare le tradizioni italiane, ma anche di utilizzare la cultura e l'arte come strumenti di propaganda per il rafforzamento del regime. Molti futuristi, tra cui Marinetti, vedendo nel fascismo una forza in grado di realizzare la rivoluzione che essi stessi auspicavano, scelsero di sostenere il regime, contribuendo alla diffusione di una visione totalitaria della cultura, che esaltava l'individualismo, la violenza, il militarismo e il culto della guerra.

Questa connessione tra Futurismo e fascismo ha suscitato un dibattito che perdura ancora oggi, poiché la sua ambiguità non solo riguarda l'arte, ma anche la politica e l'etica. Da un lato, il Futurismo è stato un movimento che ha cercato di rompere con le tradizioni e di proiettarsi verso il futuro, celebrando la modernità, l'innovazione e la potenza della tecnologia. Dall'altro, la sua adesione al fascismo ha messo in discussione l'autenticità di questa ricerca di modernità, poiché il fascismo, con la sua visione autoritaria e conservatrice, non solo ha cercato di annientare la libertà creativa, ma ha anche cercato di orientare l'arte e la cultura verso la costruzione di un mito nazionale e di un regime totalitario. In questo contesto, il Futurismo appare come un movimento che, pur avendo promosso l'innovazione e la rottura con il passato, si è trovato coinvolto in un processo di cooptazione politica che ha minato la sua stessa natura di rottura e di rifiuto delle convenzioni. La mostra, quindi, non si limita a celebrare l'innovazione del Futurismo, ma si propone anche di affrontare in modo critico questo legame con il fascismo, interrogandosi sulle contraddizioni di un movimento che, pur avendo cercato di rappresentare la modernità, è stato coinvolto in un regime che esaltava il passato e che vedeva nell'arte uno strumento di controllo e di propaganda.

La mostra, secondo quanto è stato riportato nelle anticipazioni, si propone di esplorare il Futurismo non solo all'interno del suo preciso contesto storico, ma anche cercando di mettere in evidenza le sue molteplici connessioni con le avanguardie artistiche e culturali successive, con l’intento di aprire una riflessione sul suo impatto duraturo nelle generazioni artistiche a venire. L’approccio curato sembra voler andare oltre una semplice ricostruzione storica del movimento, cercando di approfondire le sfumature teoriche ed estetiche che hanno attraversato il Futurismo e che sono state, in vari modi, riletti e reinterpretati nelle epoche successive. In particolare, uno degli aspetti più discussi e suggestivi di questa proposta curatoria risiede nell’inclusione dell’opera di un autore come Nanni Balestrini, il cui lavoro appare essere, secondo la lettura proposta, il tramite ideale attraverso cui stabilire un legame tra le prime avanguardie storiche e quella che, per convenzione, è stata chiamata neoavanguardia del Novecento, un movimento che si è sviluppato autonomamente, ma che non ha potuto fare a meno di dialogare, a vari livelli, con le esperienze artistiche del passato, rinnovandole e riscrivendole alla luce delle nuove esigenze culturali e politiche del dopoguerra. È proprio in questa cornice che si inserisce la scelta di includere Balestrini nella mostra, considerato che il suo lavoro, così come la sua poetica, sono visti da alcuni come una sorta di prosecuzione delle esperienze radicali e sperimentali delle avanguardie storiche, ma attraverso il filtro della contemporaneità e delle problematiche legate alla società e alla politica del Novecento.

Se da un lato questa proposta può apparire intrigante, dall’altro suscita alcuni interrogativi, in quanto il tentativo di unire sotto un’unica grande ombrello concettuale due esperienze avanguardistiche così diverse potrebbe sembrare un’operazione pericolosa, se non addirittura forzata. Se, infatti, è indiscutibile che entrambe le avanguardie, quella futurista del primo Novecento e quella più recente del secondo Novecento, condividano un atteggiamento di rottura nei confronti delle convenzioni artistiche, letterarie e culturali precedenti, è altrettanto vero che le motivazioni ideologiche e politiche che hanno alimentato i due movimenti sono praticamente agli antipodi, divergendo in modo profondo tanto nelle scelte estetiche quanto nelle inclinazioni politiche e sociali. Il Futurismo, movimento che ha visto i suoi inizi nei primi decenni del Novecento, si è caratterizzato per una carica assolutamente rivoluzionaria e iconoclasta, non solo nelle sue forme artistiche e letterarie, ma anche nelle sue posizioni politiche. I futuristi, infatti, non solo celebravano la modernità e la tecnologia come trionfo dell'ingegno umano, ma si associavano anche a posizioni politiche di estrema destra, abbracciando, in molti casi, un nazionalismo aggressivo che li portava a nutrire una profonda diffidenza verso il passato, il conservatorismo e le tradizioni borghesi. L’adorazione per la guerra, la velocità, la forza e la macchina erano i motori ideologici di un movimento che si muoveva in direzione di una completa distruzione del vecchio ordine, convinti che solo attraverso una violenta rottura con il passato fosse possibile dar vita a un nuovo mondo.

La neoavanguardia del Novecento, invece, si sviluppa in un contesto storico completamente diverso, dopo il drammatico secondo conflitto mondiale, ed è intrinsecamente legata a un clima di critica sociale, dissenso politico e riflessione sulla condizione dell’individuo nella società moderna. I protagonisti della neoavanguardia si caratterizzano per un forte spirito critico e una profonda disillusione nei confronti delle istituzioni politiche ed economiche. In questo contesto, la loro attitudine è più quella di una riflessione distaccata e disincantata nei confronti della modernità e delle sue contraddizioni, rispetto a una spinta euforica e distruttiva come quella dei futuristi. La critica al sistema capitalistico, la riflessione sulla condizione umana nell’epoca della tecnologia e il rifiuto della centralità dell’individuo sono alcuni degli elementi che definiscono la neoavanguardia del Novecento, che si muove per lo più su posizioni politiche di sinistra, se non addirittura di estrema sinistra, proponendo un’alternativa ai modelli di sviluppo capitalistici e mettendo in discussione le strutture di potere che caratterizzano la società.

In questo quadro, cercare di stabilire un parallelo diretto tra queste due esperienze così distanti risulta estremamente complicato e rischia di semplificare eccessivamente la comprensione delle diverse dinamiche culturali e politiche che hanno alimentato i due movimenti. La rottura con il passato, che è indubbiamente un aspetto che accomuna entrambi i fenomeni, non può essere ridotta alla stessa dimensione, e soprattutto non può essere intesa come il risultato di una medesima visione del mondo. L’operazione curatoria di mettere in dialogo il Futurismo con la neoavanguardia rischia di trascurare questi aspetti cruciali, rischiando di ridurre la complessità storica e ideologica dei due movimenti, favorendo una lettura superficiale che potrebbe finire per omogeneizzare realtà profondamente diverse. Pertanto, sebbene il progetto di esplorare le connessioni tra Futurismo e neoavanguardia possa essere un tentativo interessante, è fondamentale che vengano prese in considerazione le enormi differenze ideologiche, politiche e culturali che separano i due movimenti, per evitare di incorrere in un’operazione che rischia di svuotare di significato le singole esperienze artistiche e di ridurne la portata storica.

Gli eredi di Nanni Balestrini, in un comunicato ufficiale che è stato recentemente diffuso, hanno voluto esprimere in modo fermo, deciso e appassionato la loro netta contrarietà e il loro disappunto nei confronti dell'inclusione dell'opera dell'artista all'interno di un contesto che li ha visti associati al movimento futurista. Nel loro messaggio, che è stato redatto con l'intenzione di fare chiarezza e di proteggere l'eredità culturale e intellettuale del loro congiunto, definiscono questa accostamento una vera e propria distorsione, una forzatura che non rende giustizia alla sua visione complessa e innovativa. Gli eredi sottolineano che Nanni Balestrini non può essere ridotto e confinato a una semplice etichetta stilistica o formale, come quella che associa la sua figura al Futurismo, un movimento che, pur essendo stato significativo nel panorama artistico del Novecento, non riflette l'intera essenza della sua produzione. Per loro, accostare Balestrini al Futurismo è una semplificazione che ignora la profondità del suo lavoro, che si è sempre contraddistinto per un impegno politico e sociale radicale. Gli eredi, infatti, vedono nell'arte di Balestrini non solo una ricerca estetica, ma un tentativo di affrontare e di mettere in discussione la realtà sociale, economica e politica del suo tempo, attraverso una continua interrogazione sulle possibilità del linguaggio e delle forme artistiche come strumenti di critica e di cambiamento.

Secondo gli eredi, il rischio di questo accostamento al Futurismo è che possa ridurre la sua opera a una mera innovazione formale, come se il suo lavoro fosse solo un gioco di sperimentazione visiva e linguistica, privato di qualsiasi significato politico o sociale. Per loro, questo non solo non rappresenta la vera essenza di Balestrini, ma rischia anche di alterare e ridurre la comprensione del suo percorso artistico, che ha sempre avuto una forte connessione con la realtà politica e storica dell'epoca in cui è stato creato. La sua arte non può essere letta come una mera ricerca estetica o come un semplice atto di sperimentazione formale, ma deve essere compresa nel contesto di una riflessione politica e ideologica che ha sempre attraversato le sue opere. Balestrini ha infatti utilizzato il linguaggio e le forme artistiche per esprimere una critica radicale alle strutture di potere, alle disuguaglianze sociali e alle ingiustizie politiche, sfidando continuamente il sistema e proponendo alternative e visioni di un mondo diverso.

In questo senso, l'arte di Balestrini si differenzia notevolmente dall'arte futurista, che pur condividendo un impulso di innovazione, non ha mai avuto la stessa carica politica e critica. Il Futurismo, infatti, pur essendo stato un movimento che ha cercato di rinnovare l'arte e la cultura del suo tempo, è stato anche spesso complice delle logiche di potere e di conservazione dell'ordine sociale. Balestrini, al contrario, ha sempre rifiutato qualsiasi forma di compromesso con il potere, utilizzando l'arte come strumento di denuncia e di rivoluzione. Gli eredi di Balestrini, pertanto, ritengono che associare il suo nome al Futurismo non solo non sia corretto, ma sia anche un modo per svuotare di contenuto il suo impegno politico, riducendo la sua opera a un fatto di pura estetica e dimenticando la sua fondamentale dimensione di critica sociale e politica.

In conclusione, gli eredi di Nanni Balestrini chiedono che venga riconosciuto il giusto valore e il giusto significato all'opera del loro congiunto, senza ridurla a un accostamento forzato con un movimento che non ha nulla a che fare con la sua visione del mondo e della società. L'opera di Balestrini è stata sempre guidata da un desiderio di cambiare la realtà, di portare alla luce le contraddizioni del sistema e di proporre un'alternativa radicale. Pertanto, ogni tentativo di banalizzare la sua arte, riducendola a una semplice ricerca formale, è visto dagli eredi come un atto di disprezzo nei confronti del suo impegno e della sua visione.

Un ulteriore e significativo elemento di conflitto emerge dal fatto che gli eredi non siano stati consultati né adeguatamente informati riguardo l’inclusione dell’opera in questione, sollevando non solo problematiche di natura legale, ma anche implicazioni etiche che riguardano il rispetto verso il lavoro e la visione dell’artista. Questo episodio ha portato a una riflessione più ampia e profonda sul ruolo che gli eredi devono svolgere nella gestione dell’eredità culturale di un artista, un concetto che va ben oltre la mera questione legale del possesso o della tutela materiale delle opere. Gli eredi, infatti, sono in una posizione unica per fungere da custodi del pensiero e della produzione intellettuale dell’autore, e la loro responsabilità non dovrebbe limitarsi solo a una conservazione passiva, ma dovrebbe estendersi alla cura e all’evoluzione dell’eredità culturale lasciata, affinché continui a riflettere la visione e le intenzioni originali dell’artista.

In questo contesto, la questione del ruolo attivo o passivo degli eredi nella protezione dell’integrità del messaggio dell’autore diventa fondamentale. Non si tratta solo di un diritto legale, ma di un impegno morale che implica la protezione non solo della forma fisica delle opere, ma anche del loro significato profondo, della loro rilevanza e del loro impatto culturale. Gli eredi devono essere in grado di rispondere a domande cruciali riguardo alla conservazione e alla trasmissione dell’opera, come il modo in cui l’opera viene presentata al pubblico, come viene contestualizzata nel panorama artistico e culturale contemporaneo, e quale influenza essa può continuare ad avere. Il loro ruolo, quindi, è molto più che un semplice dovere di conservazione materiale; implica una visione critica e una capacità di riflettere sull’opera in maniera dinamica, cercando di preservare la sua autenticità e di mantenerne viva la capacità di dialogare con le nuove generazioni e con le evoluzioni della società.

Da parte dei curatori della mostra non sono ancora arrivate risposte ufficiali, e questa mancanza di chiarimenti lascia aperta la questione riguardante le motivazioni profonde e le linee guida adottate nella selezione degli artisti e delle opere esposte. Nonostante ciò, la scelta di includere un autore come Balestrini, il cui lavoro si inserisce in un contesto più ampio di sperimentazione letteraria e artistica, sembra rientrare in un tentativo più generale di riconciliare e unificare le avanguardie artistiche del Novecento. Questo approccio, che si prefigge di tracciare un filo rosso in grado di connettere tra loro movimenti e tendenze artistiche spesso molto distanti tra loro, potrebbe apparire come una sorta di riscoperta o rivalutazione di esperimenti che, seppur diversissimi tra loro, hanno segnato il corso della storia dell’arte e della cultura del secolo scorso. L'intento di armonizzare e far dialogare le esperimentazioni più radicali, che hanno cercato di rompere con le tradizioni consolidate, risulta senz'altro stimolante dal punto di vista teorico e potrebbe anche suggerire nuovi spunti di riflessione sul ruolo dell'arte e della cultura nel contesto contemporaneo. In questo scenario, le opere di Balestrini, con la sua proposta di un'arte che non si limita alla semplice estetica, ma che si fa portatrice di un messaggio di impegno politico e sociale, sembrano inserirsi perfettamente in una visione che vuole riscoprire e ripensare il Novecento come un secolo in cui le avanguardie hanno cercato di superare le contraddizioni della modernità attraverso un linguaggio nuovo.

Tuttavia, nonostante questo slancio teorico, c’è il rischio che un approccio che cerca di includere tutto e tutti possa, paradossalmente, ridurre la complessità di tali movimenti, ignorando o minimizzando le profonde differenze ideologiche, estetiche e filosofiche che separano le varie correnti artistiche. Mentre il Futurismo, il Dadaismo e il Surrealismo, per esempio, si sono caratterizzati per la loro volontà di distruggere le convenzioni sociali e artistiche, ognuno di questi movimenti ha avuto obiettivi e motivazioni molto diverse, legate a specifiche situazioni politiche e storiche. Il Futurismo, per esempio, ha promosso un’idea di modernità che si rifletteva nella celebrazione della guerra e della macchina, mentre il Dadaismo ha avuto un carattere di protesta contro la brutalità della guerra e della società capitalista, mirando alla dissoluzione di ogni forma di razionalismo. Il Surrealismo, invece, ha cercato di liberare la mente e la creatività dall’oppressione della logica e delle convenzioni borghesi, ma ha anche espresso una forte dimensione psicoanalitica e filosofica che non può essere ridotta a un mero tentativo di rompere con il passato. Il rischio, quindi, è che cercare di fare convergere queste diverse esperimentazioni in un’unica narrazione, senza considerare le specifiche implicazioni ideologiche e politiche che le contraddistinguono, finisca per appiattire e semplificare quelle che sono, in realtà, delle contraddizioni e delle tensioni fondamentali.

In questo contesto, la proposta di ricomporre l’arte del Novecento in un’unica cornice di riferimento, sebbene possa sembrare attraente per la sua capacità di promuovere un dialogo tra movimenti storici e contemporanei, rischia di ignorare le particolari traiettorie politiche, sociali e culturali che hanno segnato e plasmato ciascun movimento. Ogni avanguardia, infatti, ha risposto a un contesto storico diverso, a situazioni politiche e sociali che, a volte, erano in forte contrasto tra loro, e a istanze che non possono essere ridotte alla semplice volontà di innovare. Le avanguardie artistiche hanno incarnato tensioni politiche, rivoluzioni culturali, ma anche profonde fratture all’interno delle società in cui operavano. Pertanto, cercare di armonizzare le avanguardie senza tener conto di queste differenze rischia di produrre una lettura monolitica e semplificata di un periodo che, invece, è caratterizzato dalla coesistenza di molteplici voci, ciascuna con le proprie specificità e il proprio carico di complessità.

In assenza di un contesto critico adeguato e di un’analisi che tenga conto delle complessità storiche e teoriche di ciascun movimento, l'inclusione di Balestrini in un panorama che abbraccia sia il Futurismo che la neoavanguardia potrebbe essere facilmente interpretata come un’omologazione che, anziché arricchire il dibattito culturale, finisce per banalizzare sia le sfide estetiche che le rivendicazioni ideologiche che hanno caratterizzato questi due importanti movimenti. Il Futurismo, con la sua spinta verso l'innovazione tecnologica e l'esaltazione della modernità, e la neoavanguardia, con il suo rifiuto delle convenzioni artistiche e linguistiche, sono due correnti che, seppur appartenenti a periodi storici diversi, hanno entrambe dato un contributo significativo alla ridefinizione dell'arte e della letteratura. Tuttavia, l’inserimento di Balestrini in questo contesto senza una chiara giustificazione critica potrebbe ridurre la portata di entrambi questi movimenti, riducendoli a semplici etichette da applicare senza una vera comprensione della loro complessità e della loro storicità.

Se l'intento originario di questa mossa era quello di provocare un dialogo tra tradizioni culturali, artistico-letterarie e periodi storici apparentemente lontani, la mancanza di un’adeguata trasparenza nelle comunicazioni con gli eredi dell’autore e l’ambiguità che permea il messaggio trasmesso dalla scelta rischiano di trasformare questa operazione in un boomerang, il cui effetto finale potrebbe essere opposto a quello desiderato. Anziché stimolare un’interazione critica e costruttiva tra le opere, tale mossa potrebbe risultare in una confusione generale che ostacola la comprensione delle diverse epoche artistiche e letterarie coinvolte. La combinazione di un’operazione priva di contesto e la mancanza di chiarezza rischiano di compromettere le stesse letture future delle opere, che potrebbero essere interpretate più in relazione alle dinamiche promozionali e mediatiche che al contenuto reale e al valore artistico o letterario delle opere stesse.

Infatti, la scelta di includere Balestrini senza una solida base teorica e critica rischia di minare il rispetto e la considerazione che queste correnti artistiche hanno guadagnato nel corso degli anni, facendo sì che il pubblico si concentri più sul sensazionalismo della mossa piuttosto che su una riflessione ponderata sulle opere stesse. Questo approccio rischia di annacquare la forza delle idee che animano il Futurismo e la neoavanguardia, rendendole strumenti vuoti di significato, applicati a favore di una visibilità che non fa giustizia al loro valore intrinseco. In questo senso, la mancanza di un dialogo autentico con gli eredi di Balestrini e la comunicazione poco chiara potrebbero compromettere l'integrità di entrambe le tradizioni artistiche, minando la possibilità di una fruizione critica e consapevole da parte del pubblico.

La vicenda in questione mette in luce una tensione che sta diventando sempre più frequente e rilevante nel panorama contemporaneo dell’arte e della cultura, in un contesto in cui le pratiche artistiche, le dinamiche curatoriali e le modalità di fruizione delle opere si stanno trasformando rapidamente. Questa tensione si sviluppa tra due istanze apparentemente contrastanti, ma ugualmente fondamentali per la comprensione del processo artistico moderno: quella della libertà curatoriale e quella del rispetto per l’integrità dell’eredità artistica, in particolare rispetto al contesto storico, sociale e ideologico in cui l’opera è stata creata. La libertà curatoriale, intesa come il diritto da parte dei curatori e degli studiosi di reinterpretare, rielaborare e rinnovare le opere d’arte, è una delle caratteristiche più distintive dell’arte contemporanea. In un mondo globalizzato e sempre più interconnesso, dove la fruizione dell’arte è divenuta un fenomeno collettivo e multidisciplinare, i curatori rivendicano il diritto di leggere le opere attraverso il filtro del presente, adattandole alle esigenze di un pubblico che cambia continuamente, alle nuove sensibilità e alle sfide politiche, sociali e culturali del nostro tempo. In questo contesto, la reinterpretazione delle opere non è vista come un atto di svuotamento o di banalizzazione, ma come uno strumento per dare nuova vita a opere che potrebbero sembrare lontane, obsolete o fuori dal contesto, al fine di renderle più accessibili, più comprensibili e più rilevanti per il pubblico di oggi. Si tratta di un’operazione che può anche contribuire a un arricchimento del significato originale, facendo emergere nuove letture e interpretazioni che, seppur radicate nel presente, non ne negano la storia o il valore. D’altro canto, la posizione degli eredi degli artisti o dei difensori della tradizione artistica solleva preoccupazioni che, se da un lato sono legittime, dall’altro richiedono una riflessione più profonda sul ruolo che l'arte deve avere all'interno della società e della storia. Secondo questa visione, infatti, ogni opera d’arte è intrinsecamente legata al tempo, alla cultura, alla società e all’ideologia in cui è stata concepita. Separare l’opera dal suo contesto storico e sociale, rimuoverla dal suo ambiente di produzione, è considerato pericoloso, poiché può portare a una comprensione errata o superficiale di ciò che l’artista voleva veramente comunicare. L’opera d’arte, quindi, non è solo un oggetto estetico privo di radici, ma è un testo complesso che, per essere pienamente compreso, necessita di una contestualizzazione che tenga conto delle condizioni storiche, politiche e sociali che hanno influenzato l’artista e la sua produzione. In questo modo, l’arte viene vista come un potente strumento di riflessione critica sul proprio tempo, che non può essere ridotto a un mero oggetto di consumo o a una decorazione priva di significato. Il rischio di un’interpretazione eccessivamente disancorata dalla realtà storica e sociale è quello di ridurre l’opera a un semplice oggetto estetico, svuotandola della sua complessità e delle sue sfumature ideologiche. Ciò potrebbe portare a una distorsione del suo significato, a una comprensione parziale o addirittura errata del messaggio che l’artista intendeva trasmettere, con la conseguenza di ridurre il valore della sua opera e della sua eredità culturale. In effetti, l’opera d’arte è spesso il frutto di un lungo processo creativo in cui si mescolano e si scontrano esperienze personali, visioni politiche, conflitti sociali e riflessioni filosofiche. Separare queste componenti può significare perdere una parte fondamentale di ciò che l’opera rappresenta. Il rischio, dunque, è che l’opera venga ridotta a una mera estetica, disincarnata da tutto ciò che la rende viva, potente e significativa. Ecco perché molti ritengono che una buona curatela debba sempre cercare di rispettare e preservare l’integrità storica e culturale dell’opera, anche quando si cerca di rinnovarla o di reinterpretarla.

Se la richiesta degli eredi di rimuovere l’opera verrà accolta, il gesto avrà una valenza significativa e rappresenterà un passo importante verso una maggiore collaborazione tra le istituzioni culturali e le famiglie degli artisti. Questo atto potrebbe aprire la strada a una nuova forma di dialogo e di cooperazione tra le due parti, caratterizzata da una maggiore attenzione e rispetto per le volontà degli artisti e delle loro famiglie. Un simile approccio potrebbe, inoltre, favorire una gestione più consapevole e inclusiva del patrimonio culturale, tenendo conto non solo degli aspetti storici e estetici delle opere, ma anche delle esigenze e dei diritti degli eredi, i quali custodiscono e rappresentano l’eredità artistica. Questo cambiamento potrebbe segnare una nuova fase nelle politiche culturali, dove le istituzioni si impegnano a coinvolgere in maniera più profonda le famiglie degli artisti nelle decisioni che riguardano le opere e il loro destino. Una collaborazione di questo tipo, se ben realizzata, potrebbe favorire un rispetto maggiore per l'integrità dell'opera d'arte e per le intenzioni di chi l'ha creata, portando a un arricchimento delle pratiche museali e curatoriali, sempre più attente ai valori morali e legali legati all’eredità culturale. Al contrario, se la richiesta degli eredi non verrà accolta, si correrà il rischio di lasciare una ferita aperta, un conflitto irrisolto che continuerà a pesare sulle decisioni future. In questa eventualità, la mancata accoglienza della richiesta non solo comprometterà la relazione tra le istituzioni culturali e le famiglie degli artisti, ma getterà anche un’ombra sullo stesso progetto espositivo, minando la sua credibilità e sollevando dubbi sulla gestione complessiva della memoria culturale in Italia. La situazione potrebbe anche aprire un dibattito più ampio e articolato sulle modalità con cui le istituzioni trattano l’eredità degli artisti, in particolare riguardo alla delicata questione del diritto di famiglia, al rispetto delle volontà postume degli artisti e alla responsabilità delle istituzioni nel preservare non solo il valore storico e culturale delle opere, ma anche il valore etico e simbolico che esse rappresentano. Una tale discussione potrebbe portare a una riflessione più profonda sulle politiche culturali, stimolando un ripensamento dei processi decisionali e spingendo verso una maggiore trasparenza e responsabilità nella gestione delle opere d'arte.


La solitudine delle pagine

Stamattina, mentre osservavo dalla finestra il cielo grigio e uniforme, ho avuto l’impressione che quell’immensa distesa di nuvole, compatta e opprimente, volesse inghiottire ogni colore, cancellare ogni traccia di vivacità dal mondo. Mi sembrava quasi di poter sentire il peso di quel cielo, come una coperta pesante che soffoca la luce e appiattisce le emozioni. Così, senza quasi rendermene conto, mi sono ritrovato a scavare nella memoria, a cercare frammenti di un passato che mi appariva lontano, eppure così vicino, come una fotografia sbiadita che continua a trattenere un’eco di vita. Tutto è iniziato con un’immagine vaga, un’impressione sfuggente che non riuscivo a definire con precisione. Forse era il ricordo di un odore: l’odore della carta umida in una biblioteca mal riscaldata, quel profumo inconfondibile che mescola il freddo, la polvere e l’antico. Oppure era l’odore del freddo stesso, un freddo che sa di pietra e di abbandono, come quello che si avverte nei corridoi di certi edifici dimenticati, dove il tempo sembra essersi fermato.

Lentamente, quasi senza che me ne accorgessi, questo ricordo si è fatto strada nella mia mente, diventando qualcosa di più vivido, più definito, più reale. Era come se un’immagine sfocata stesse mettendo a fuoco i suoi contorni, trasformandosi in una scena completa, un frammento di vita che aveva deciso di riemergere proprio in quel momento. E così mi sono ritrovato a pensare all’inizio del mio soggiorno in quella città, una città che, a quel tempo, mi era sembrata un luogo misterioso, affascinante, quasi esotico. C’erano angoli che sembravano appartenere a un mondo diverso dal mio, piazze che parevano sussurrare storie che non capivo ma che mi attiravano irresistibilmente. Oggi, con il senno di poi, quella città mi appare come tante altre, una città normale, senza nulla di particolarmente speciale. Eppure allora, in quel momento preciso della mia vita, era tutto diverso. Allora era come se ogni strada, ogni edificio, ogni dettaglio racchiudesse un mistero da svelare, un significato nascosto che aspettava solo di essere scoperto.

Era una fase della mia vita in cui ogni cosa sembrava racchiudere una promessa. Ogni esperienza era nuova, ogni volto era sconosciuto, ogni suono sembrava vibrante di possibilità inesplorate. Era come trovarsi costantemente davanti a una porta socchiusa, una porta che conduceva a un mondo ignoto e ricco di promesse, un mondo che volevo esplorare fino all’ultimo angolo, senza riserve, senza paure. Era una sensazione di libertà e curiosità che oggi fatico a ritrovare, ma che allora era il motore di ogni mio gesto, di ogni mia scelta. In quella città, in quel tempo, tutto era vivo, tutto era nuovo, tutto sembrava possibile.

In quel periodo ero divorato da una bramosia che oggi definirei quasi patologica, un impulso incontrollabile e furioso che mi consumava dall'interno, ma che allora mi appariva come la cosa più naturale del mondo, qualcosa di necessario, essenziale, perfino vitale per la mia esistenza. Una fame insaziabile, un desiderio ardente che non conosceva confini, una cupidigia vorace che si accendeva con la stessa intensità di fronte a qualsiasi libro, senza alcuna distinzione. Poteva trattarsi di un classico impolverato, con le pagine ingiallite dal tempo, i margini logori e il profumo inconfondibile della carta vissuta, oppure di una novità editoriale scintillante, con la copertina ancora intonsa e lucida sotto i miei occhi bramosi: per me, ogni volume era uguale, ogni libro rappresentava un tesoro da conquistare e, soprattutto, da divorare con un’urgenza quasi febbrile.

Ricordo con una precisione vivida e talvolta persino struggente la sensazione fisica che mi invadeva quando mi trovavo di fronte a un libro nuovo, appena scoperto. Il cuore iniziava a battere più forte, in una sorta di ritmo accelerato che sembrava voler rompere il petto, e le mie dita, incapaci di trattenere l’entusiasmo, tremavano leggermente mentre si posavano sulla copertina o sfioravano le pagine ancora sconosciute. Quell'atto così semplice e quotidiano per molti – prendere un libro, sfogliarne le prime pagine – per me si trasformava in un rituale sacro, in un momento denso di elettricità e significato. Era come se ogni nuovo volume rappresentasse una chiave, un accesso privilegiato a un universo alternativo, uno strumento prezioso per esplorare territori ancora sconosciuti, per penetrare sempre più a fondo in un mistero vasto e insondabile.

Un mistero che, ne ero consapevole, non possedeva né un inizio chiaro né una fine definita, ma che proprio in questa sua sfuggente infinità trovava il suo fascino magnetico e irresistibile. Ogni libro era una promessa di scoperta, di trasformazione, di una conoscenza che, pur senza risposte definitive, continuava a stimolare la mia mente e a nutrire quell'ardore inesauribile che bruciava dentro di me. Ero, in fondo, un viaggiatore senza meta, un esploratore affamato che trovava in quelle pagine infinite una ragione d’essere, un rifugio, e al tempo stesso una vertigine.

Non avevo amici. Non perché non ci fossero occasioni per fare nuove conoscenze o entrare in contatto con persone affini, ma perché dentro di me non avvertivo il bisogno di legarmi a qualcuno. O forse, più in profondità, perché avevo paura: paura di essere giudicato, di non essere capito, di mostrare le mie fragilità. La compagnia degli altri mi sembrava sempre un peso, un’invasione nel mio spazio privato, un disturbo che non ero disposto a tollerare. La loro presenza, anziché arricchirmi, mi appariva come una costrizione, un’imposizione a cui non volevo piegarmi. La mia vita, invece, trovava un senso completo nei libri. Erano loro a riempire i miei vuoti, a darmi quella compagnia che gli esseri umani non sapevano offrirmi. Nei libri trovavo tutto: conforto nei momenti di angoscia, sfide intellettuali che stimolavano la mia mente, bellezza che parlava direttamente al mio cuore, consolazione per le insicurezze che non osavo confessare neanche a me stesso. Leggevo con una dedizione che oggi definirei quasi ossessiva, ma che allora mi sembrava pura e naturale, come se fosse l’unico modo per vivere. Era una sorta di rito quotidiano, una pratica ascetica che mi permetteva di estraniarmi da tutto il resto, di dimenticare il mondo reale con i suoi dolori e le sue complessità. Passavo quindici ore al giorno immerso in questa attività, un ritmo che oggi giudicherei disumano, ma che allora rappresentava la mia normalità. Ogni mattina, il primo pensiero che mi attraversava la mente era sempre lo stesso: dovevo riprendere la lettura esattamente da dove l’avevo interrotta la sera precedente. Era un desiderio impellente, un bisogno che bruciava dentro di me e che non potevo ignorare. Mi tuffavo nei mondi di carta con un fervore che, col senno di poi, somigliava quasi a una forma di fuga. Quelle pagine, con i loro personaggi e le loro storie, mi sembravano infinitamente più reali, più vive, più autentiche rispetto a tutto ciò che mi circondava nella vita quotidiana.

Nonostante questa immersione totale nel mondo delle parole, o forse proprio a causa della loro pervasività, vivevo in un silenzio che somigliava a un deserto. Mi ero trasformato in un’isola, separata e distaccata dal resto del mondo, un’entità chiusa e autonoma che non aveva bisogno di ponti verso l’esterno. Non cercavo dialoghi, non li desideravo e, in un certo senso, li rifuggivo. Ogni incontro con una voce umana reale mi sembrava superfluo, quasi invadente, perché quelle che incontravo tra le pagine dei libri mi bastavano. Mi parlavano con intensità e profondità, sapevano interrogarmi con domande che scavavano dentro di me e mi costringevano a riflettere, ma erano prive di pretese. Non chiedevano risposte, non esigevano nulla, ed erano per questo gli interlocutori ideali. Silenziosi, discreti, mai invasivi, abitavano il mio spazio senza alterarlo. Così, giorno dopo giorno, mi sono adattato a questa solitudine, fino a renderla una seconda natura. Il concetto stesso di "altro", inteso come presenza umana, era per me un’entità aliena, quasi un’astrazione priva di peso e significato. Il mio vocabolario, allora come ora, sembrava non contenere quella parola. Era come se fosse stata cancellata, assente senza lasciare traccia, e paradossalmente questa assenza mi donava una sorta di sollievo. Non dovermi confrontare con un "altro" significava potermi concentrare unicamente su di me, sul mio mondo interiore, sui miei pensieri e, soprattutto, sulle mie letture. Quel tempo e quello spazio che non venivano occupati da qualcun altro diventavano un bene prezioso, una libertà quasi assoluta di esistere nel modo più puro e autentico che conoscevo. Era una condizione che non sentivo come una privazione, ma come un’opportunità, una forma di liberazione che mi permetteva di esplorare territori intimi e inesplorati, lontano dal caos e dalle richieste di una realtà che non sembrava appartenermi.

Eppure, col senno di poi, mi chiedo se questa assenza non sia stata anche una mancanza, una privazione, qualcosa che ha scavato un vuoto che non ho mai saputo davvero colmare. Non ho mai imparato veramente cosa significhi entrare in relazione con un’altra persona, condividere senza riserve, ascoltare senza distrarsi, accogliere senza paura di essere respinto. Ho sempre vissuto nel mio mondo, convinto che fosse sufficiente per sopravvivere, per bastare a me stesso, e forse lo era davvero, o forse era solo una comoda illusione. Ma stamattina, ripensando a quei giorni lontani che sembrano ormai appartenere a un’altra vita, mi sono domandato se quella solitudine fosse davvero una scelta lucida o una condanna ineluttabile. Forse erano entrambe le cose, fuse insieme in un intreccio che ancora oggi non riesco a districare. Forse non erano né l’una né l’altra, ma semplicemente il frutto di un destino che non ho mai provato a cambiare. Certo è che senza quei giorni, senza quelle ore interminabili passate a leggere, a scoprire universi lontani, a vivere attraverso le parole e i pensieri degli altri, non sarei la persona che sono oggi. E non è solo questione di esperienze, di nozioni apprese o emozioni filtrate attraverso la carta: è l’essenza stessa del mio essere, quel miscuglio di sogni, rimpianti e fragilità che mi definisce.

E allora mi domando: è stata davvero una vita sprecata, quella che ho vissuto? Una vita trascorsa in una solitudine così profonda e avvolgente da farmi rinunciare, consapevolmente o meno, al dialogo con gli altri. Mi chiedo se, in quel silenzio, io abbia perso qualcosa di essenziale, qualcosa di fondamentale per la crescita e il nutrimento dell’anima. Qualcosa che poteva arricchirmi in modi che nemmeno riesco a immaginare o che ora riesco solo a intuire, come una sensazione che sfugge alla presa, lasciandomi con il dubbio. Oppure, al contrario, mi chiedo se in quella stessa solitudine, in quell’isolamento che per molti sarebbe stato insopportabile, io abbia trovato qualcosa di unico, un tesoro raro, inaccessibile ai più. Forse, qualcosa che non tutti possono comprendere, che non tutti possono nemmeno vedere.

Non so dare una risposta chiara. Non so se esista davvero una risposta definitiva, una verità che possa mettere a tacere questo tormento interiore. Mi sembra, a volte, che la domanda stessa sia destinata a rimanere aperta, come una ferita che non guarisce, come un enigma il cui senso si nasconde appena oltre il velo del comprensibile. Forse, però, non è nemmeno importante trovare una risposta. Forse ciò che conta davvero è il modo in cui conviviamo con queste domande, il modo in cui le portiamo con noi, giorno dopo giorno, come parte del nostro bagaglio. Perché una cosa, almeno, mi sembra certa: quei giorni trascorsi in solitudine, quelle letture che hanno acceso in me mondi lontani e sconosciuti, quel silenzio che si è fatto compagno e maestro, sono parte di me, indissolubilmente.

Non potrei, nemmeno volendo con tutta la mia volontà, separarmi da essi. Sono radicati in me come le radici più profonde di un albero antico, un albero che, se privato delle sue radici, non potrebbe più esistere. Quei giorni, quelle esperienze, quella solitudine hanno plasmato ciò che sono. Hanno intrecciato i loro fili al mio essere in una maniera talmente profonda, talmente essenziale, che immaginarmi senza di loro sarebbe come immaginare una pianta senza la sua terra, un fiume senza il suo letto, un cielo senza le sue stelle. Sono, nel bene e nel male, una parte imprescindibile di me, e ciò che sono oggi non avrebbe mai potuto esistere senza di loro. Ecco, questa è forse l’unica certezza che ho, l’unico punto fermo in un mare di dubbi e domande che continuano a tormentarmi.