lunedì 3 febbraio 2025

"Ernesto" (1979) di Salvatore Samperi: una storia di formazione tra desiderio, identità e ribellione


Nel panorama del cinema italiano degli anni ’70, "Ernesto", diretto da Salvatore Samperi nel 1979, occupa un posto particolare. Si tratta di un film che sfugge alle classificazioni tradizionali: non è un semplice racconto di formazione, non è un melodramma sentimentale, non è un’opera militante. È piuttosto il ritratto intimo e sfumato di un giovane che scopre se stesso attraverso le proprie pulsioni, il rifiuto delle convenzioni sociali e la ricerca della propria libertà.

Tratto dall’omonimo romanzo autobiografico di Umberto Saba, "Ernesto" è una delle rare opere del cinema italiano dell’epoca a trattare l’omosessualità in modo diretto e privo di sensazionalismi, restituendo con grande delicatezza il percorso di un adolescente in bilico tra la scoperta del desiderio e la necessità di trovare un posto nel mondo.

Quello di Ernesto è un viaggio interiore che si intreccia con la realtà storica della Trieste del 1911, una città di confine, sospesa tra l’Impero Austro-Ungarico e il futuro italiano, tra rigidità borghese e fermento proletario. Samperi riesce a raccontare questa duplicità attraverso la fotografia, la scenografia e la regia, costruendo un film di grande raffinatezza visiva e narrativa.

La trama: un adolescente tra il primo amore e la ricerca della propria identità

Il protagonista, Ernesto (interpretato dal giovane attore tedesco Martin Halm), è un sedicenne di famiglia borghese che viene avviato dalla madre a un apprendistato presso un commerciante ebreo. La madre, figura severa e autoritaria, vede in questa occupazione un primo passo verso il futuro del figlio, un avviamento alla carriera commerciale che lo renderà un uomo rispettabile e indipendente. Ma Ernesto è un ragazzo inquieto, curioso, insofferente alle regole imposte dalla famiglia e dalla società.

Nel magazzino dove lavora, Ernesto incontra un operaio (interpretato da Michele Placido), un uomo più grande di lui, schietto, rude, ma dotato di una certa dolcezza istintiva. Tra i due nasce un’intesa fatta di sguardi e piccoli gesti quotidiani, un’attrazione che si sviluppa in modo spontaneo, senza sensi di colpa né particolare consapevolezza da parte del ragazzo. Il loro rapporto si consuma senza drammi, senza conflitti interiori: è una scoperta, un’esperienza vissuta nel presente, senza pensare al futuro.

Ma Ernesto è in continua trasformazione. Il suo animo ribelle lo porta a rifiutare le convenzioni della sua classe sociale e, contemporaneamente, a cercare altre esperienze. Così, quando incontra una giovane violinista (Lara Wendel), figlia di una collega della madre, si sente attratto da lei in un modo diverso rispetto a quanto provato con l’operaio. Se il primo rapporto era basato sulla fisicità e sul desiderio, quello con la ragazza si sviluppa su un piano più romantico, più idealizzato.

Nel frattempo, Ernesto prende coscienza del peso delle aspettative che la famiglia e la società hanno su di lui. Il suo apprendistato presso il commerciante lo annoia e lo opprime, e quando gli viene chiesto di firmare un contratto che sancisca il suo futuro lavorativo, rifiuta categoricamente. La sua decisione di lasciare il lavoro e iscriversi al conservatorio per studiare musica segna il suo primo grande atto di ribellione: non accetta di essere incasellato in un destino già scritto, vuole essere libero di scegliere chi essere e cosa fare della propria vita.

La Trieste del 1911: una città sospesa tra due mondi

Uno degli aspetti più affascinanti del film è la sua ambientazione storica. Trieste, all’epoca ancora parte dell’Impero Austro-Ungarico, è una città che riflette le contraddizioni di un’epoca di transizione. È un crocevia di culture e lingue diverse, un luogo in cui il rigore della borghesia mercantile convive con il fermento del proletariato ebraico e slavo.

Nel film, questa doppia anima della città è rappresentata simbolicamente dai due mondi tra cui si muove Ernesto: da un lato la sua famiglia, con le sue rigidità, i suoi dogmi, le sue aspettative; dall’altro il proletariato operaio, con la sua schiettezza e la sua libertà dai condizionamenti sociali.

Il personaggio dell’operaio, in particolare, incarna questa seconda dimensione. È un uomo che vive il desiderio in modo spontaneo, senza tormenti interiori né il bisogno di definirsi. Non si chiede se sia “giusto” o “sbagliato” amare un ragazzo: semplicemente lo fa, con la naturalezza di chi segue i propri istinti senza preoccuparsi delle conseguenze. Per Ernesto, questa relazione rappresenta non solo la scoperta del proprio corpo e della propria sessualità, ma anche un’apertura verso un mondo nuovo, più libero, più immediato.

Dal romanzo di Umberto Saba al film di Salvatore Samperi: due visioni della stessa storia

Il film è basato su "Ernesto", romanzo autobiografico che Umberto Saba scrisse tra il 1953 e il 1955, ma che fu pubblicato solo nel 1975, dopo la sua morte. L’opera suscitò scalpore per la sua trattazione diretta e sincera della sessualità adolescenziale, ma fu anche elogiata per la sua scrittura limpida e priva di moralismi.

Rispetto al romanzo, il film introduce alcune differenze significative. Nel libro, la relazione tra Ernesto e l’operaio è descritta con maggiore esplicità, senza reticenze. Saba racconta il desiderio con una sincerità rara per l’epoca, mostrando un adolescente che vive la sua sessualità senza traumi, senza vergogna.

Nel film, invece, la regia di Samperi adotta un approccio più pudico. Le scene d’amore tra Ernesto e l’operaio sono girate con grande delicatezza, evitando ogni voyeurismo o compiacimento estetico. La macchina da presa si sofferma sui corpi con discrezione, lasciando che siano i gesti e gli sguardi a raccontare l’intimità tra i due.

Un’altra differenza importante è l’aggiunta del personaggio della violinista, che nel romanzo non esiste. La sua presenza serve a rendere più sfumato il percorso di Ernesto, suggerendo una sessualità più fluida, non rigidamente definita.

L’eredità di "Ernesto": un film dimenticato, ma ancora attuale

"Ernesto" è un film che, nonostante la sua qualità e la sua importanza storica, è rimasto relativamente poco conosciuto. Forse perché il cinema italiano, salvo rare eccezioni, ha sempre faticato ad affrontare il tema dell’omosessualità senza cadere in stereotipi o esagerazioni. Eppure, il film di Samperi ha il grande merito di raccontare la scoperta della sessualità con uno sguardo libero e sincero, senza indulgere né nel dramma né nella provocazione.

A più di quarant’anni dalla sua uscita, "Ernesto" rimane un’opera preziosa, un piccolo gioiello del cinema italiano capace di parlare ancora oggi a chiunque abbia vissuto l’incertezza dell’adolescenza, il desiderio di libertà e la voglia di essere semplicemente se stessi.