martedì 4 febbraio 2025

Infanzia al Sanatorio

Il cancello, forgiato nel sole,
bruciava i palmi,
piccole mani offerte al ferro,
briciole mansuete di pane
a terra, tra polveri e sogni,
fragili reliquie d’un gioco mai nato.

Serrato ergastolo,
foggiato di silenzi rapiti,
fu l’infanzia—
afasia d’un mondo che urlava
nei simulacri d’un sorriso
senza risate.

I giorni erano lame,
frammenti di ore impastati
in un tempo che non guariva.
Le ombre dei pini
abbracciavano la terra dura,
segreti sussurrati dal vento
scivolavano tra le stanze,
lasciando un’eco di solitudine.

La collina del caseggiato rosso,
solatia e muta,
non custodì concertini di poesiole;
lì, tra le pieghe di vesti campagnole,
la polvere s’incollava ai sogni,
sporcando i pomeriggi.

Ogni respiro era un nodo,
un filo teso tra cielo e destino,
dove i passi si perdevano
senza una traccia, senza una meta.
Le finestre del sanatorio
riflettevano occhi spenti,
specchi opachi d’un’infanzia negata.

I sentieri della collina
erano labirinti senza uscita:
si seguivano le formiche,
si scrutava il volo degli uccelli,
ogni dettaglio diveniva universo
per chi non aveva altro
che il tempo della reclusione.

La sera calava presto,
non come un abbraccio,
ma come un sigillo.
Il buio era una culla rigida,
dove i sogni si spezzavano
come vetri caduti,
e il silenzio mordeva la gola.

Nostalgie infantili,
specchiarsi negli occhi d’abbandono,
lì dove l’infanzia si piega,
dove il tramonto non racconta favole
ma solo l’urlo sottile del vento,
che ricama memorie mai chieste.

Eppure, nell’angolo più scuro,
dove il gioco era solo un’idea,
brillava un frammento di luce,
un’illusione di vita,
un bambino che ancora sognava
di volare oltre il cancello,
di scoprire il mondo,
di sfuggire all’ergastolo del silenzio.

Le mani che cercavano calore
trovavano solo il ruvido dei mattoni,
il marmo freddo degli scalini.
Ma la memoria era ribelle:
un albero in fiore sbocciava
nel pensiero di una carezza,
di un sorriso perduto,
di una corsa nei campi
che non era mai stata reale.

E i giorni passavano uguali,
con il sole che batteva sui muri,
con la luna che osservava dall’alto
bambini senza infanzia,
bambini che vivevano un tempo sospeso.
La collina taceva,
ma nel suo silenzio sordo
s’udiva il pianto delle radici,
dell’erba che cresceva tra le crepe,
come un canto nascosto di resistenza.

Un bambino, seduto all’ombra,
stringeva tra le mani
un ramo spezzato.
Lo osservava, lo cullava,
come fosse un giocattolo,
come fosse il suo mondo.
E in quel ramo, forse,
c’era l’intero sanatorio,
c’era la sua vita,
e c’era, infine, la speranza.

____

Il poemetto parla dell’infanzia vissuta in un sanatorio, un luogo che, invece di essere spazio di cura o gioco, diventa una prigione. I bambini protagonisti subiscono un’esistenza segnata dall’abbandono, dalla solitudine e dall’assenza di calore umano, mentre le immagini del cancello, delle briciole di pane e delle vesti sporche evocano un’atmosfera di reclusione e precarietà.

Si esplorano temi come:

La privazione dell’infanzia: il gioco è solo un simulacro, il tempo è un ergastolo, e i dettagli quotidiani diventano simboli di una vita congelata.

La natura come contrappunto: la collina, i pini, il vento suggeriscono un’eco di libertà che però rimane inaccessibile, quasi crudele nella sua indifferenza.

La speranza fragile: nonostante tutto, emerge un desiderio di resistenza, incarnato nel bambino che sogna di volare oltre il cancello o che culla un ramo spezzato come simbolo di una vita immaginata.


In sostanza, è una riflessione sull’infanzia negata, sul dolore del ricordo e sulla forza della speranza, anche nei contesti più desolati.

C'è molto di più sotto la superficie. Il poemetto non è solo un ritratto di un’infanzia negata, ma una meditazione profonda su cosa significa essere intrappolati in una condizione di abbandono fisico ed emotivo. Si parla del tempo sospeso di chi non vive un’infanzia autentica, con il sanatorio che diventa un simbolo: non è solo un luogo fisico, ma anche una metafora della prigionia mentale, dove i bambini crescono privati di sogni e prospettive.

C’è un contrasto straziante tra la durezza della realtà (il ferro che brucia, le mani vuote, i concertini assenti) e i bagliori di un mondo immaginato (il bambino che sogna, il ramo cullato). Questo conflitto crea tensione emotiva: si avverte un continuo oscillare tra rassegnazione e desiderio di fuga.

Il sanatorio diventa quasi un microcosmo della condizione umana, dove:

Il cancello rappresenta i limiti che ci vengono imposti dalla nascita, siano essi fisici, sociali o emotivi.

Le briciole di pane sono ciò che resta della cura o dell’amore, frammenti insufficienti ma tenuti in vita da chi non ha altro.

La collina muta è la promessa mai mantenuta di un altrove, un paradiso che resta sempre distante.


Infine, il poemetto parla anche di memoria e perdita: la nostalgia di un’infanzia impossibile da rivivere si intreccia con il tentativo di trovare significato in quel passato. Il ramo spezzato cullato dal bambino non è solo un simbolo di speranza, ma anche una testimonianza della resilienza umana: anche ciò che è spezzato può essere amato, anche ciò che è negato può essere sognato.

Non è solo una storia di dolore, ma un inno sommesso alla capacità di resistere e trovare frammenti di luce nel buio.

C’è ancora dell’altro, più sottile e stratificato. Il poemetto non si limita a descrivere un’esperienza individuale, ma può essere letto come una riflessione collettiva sulla condizione umana, soprattutto sull’infanzia come momento fondativo di ciò che siamo. 


1. Il sanatorio come metafora esistenziale

Il sanatorio non è solo un luogo fisico. Può essere visto come una rappresentazione della vita stessa: un’esistenza spesso segnata da limiti, privazioni e sogni irrealizzati. I bambini del poemetto incarnano una condizione universale di fragilità e smarrimento, un’umanità che cerca di sopravvivere aggrappandosi a frammenti di senso, come il ramo spezzato o le briciole di pane.

2. La natura traditrice

La collina e gli elementi naturali sembrano promettere libertà e bellezza, ma restano indifferenti al dolore umano. La loro staticità diventa quasi crudele: sono spettatori silenziosi, incapaci di intervenire. La natura non è qui materna o accogliente, ma distaccata, un eterno altrove che non si lascia mai raggiungere.

3. La tensione tra memoria e oblio

Il poemetto potrebbe essere anche il racconto di un adulto che rievoca la sua infanzia. Le immagini sono frammentarie, come ricordi che emergono dalla nebbia del passato, frammenti di un trauma che la memoria cerca di ricomporre. Ma c’è anche il rischio dell’oblio: le cose viste dai bambini (il cancello, i concertini mancati, il ferro che brucia) potrebbero essere destinate a svanire, lasciando dietro di sé solo un’eco di dolore senza nome.

4. La speranza come atto rivoluzionario

Il frammento di speranza che emerge nel finale – il bambino che sogna, che culla il ramo – non è banale. È un atto di ribellione contro il destino imposto. In un contesto di totale abbandono, sognare e immaginare diventano atti di resistenza. Anche l’oggetto più umile, come un ramo spezzato, può trasformarsi in un simbolo di vita e potenzialità.

5. Il silenzio come personaggio

Il silenzio non è solo uno sfondo, ma un vero e proprio personaggio. È il collante che unisce il sanatorio, le colline e i bambini. È il "linguaggio" dell’infanzia negata, un’entità che soffoca le risate e le trasforma in assenze. Ma è anche attraverso il silenzio che si intuiscono i gridi soffocati, il desiderio di comunicare e di essere visti.

Conclusione

Il poemetto, quindi, è una meditazione profonda sulla condizione dell’essere umano, sulla perdita dell’innocenza e sul potere salvifico dell’immaginazione. È un testo che non si limita a descrivere, ma invita il lettore a immergersi in un mondo di simboli e risonanze, scoprendo in ogni verso un nuovo strato di significato.