sabato 25 aprile 2026

Resistenza e memoria: Il contributo eroico di Rom e Sinti alla lotta contro il fascismo

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana è una pagina di storia troppo spesso dimenticata, ma che merita di essere raccontata e celebrata. Queste comunità, tradizionalmente marginalizzate e perseguitate, hanno contribuito in modo significativo alla lotta contro il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, dimostrando un eroismo e una generosità straordinari. Tuttavia, questo capitolo della storia è stato spesso messo in ombra, sia per la politica dello Stato italiano dell'epoca che per il pregiudizio sistemico che ancora oggi affligge le popolazioni rom e sinti.

La Resistenza italiana fu un movimento variegato che coinvolse persone provenienti da ogni parte della società, da militari disertori a intellettuali, da contadini a operai. Tra questi, vi furono anche i rom e i sinti, che non solo subirono le atrocità del fascismo, ma furono anche attivamente coinvolti nel sabotaggio, nelle azioni di guerriglia e nel soccorso degli altri partigiani e degli ebrei. Questi gruppi, purtroppo, sono stati raramente celebrati nelle narrazioni ufficiali della Resistenza, spesso a causa delle politiche discriminatorie dello Stato italiano, che continuò a trattare i rom e i sinti come "indesiderabili" anche durante e dopo la fine della guerra.

Un esempio emblematico di come i rom e i sinti abbiano contribuito alla lotta di Liberazione è la formazione dei "Leoni di Breda Solini", una brigata partigiana composta da sinti italiani, che operò nelle regioni centrali e settentrionali del paese, in particolare tra le province di Mantova, Modena, Reggio Emilia e Cremona. Questa brigata si formò grazie alla fuga di molti sinti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia (MO), dove erano detenuti dai fascisti, subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Nonostante l’assenza di una preparazione militare formale, i membri della brigata si distinsero per il coraggio e l'efficacia nelle azioni di sabotaggio, come la distruzione di ponti, la raccolta di armi e l’assalto ai convogli tedeschi. La loro lotta non si limitò alla semplice resistenza armata, ma fu anche un atto di sfida alle ingiustizie razziali e sociali che avevano affrontato tutta la loro vita.

I "Leoni di Breda Solini" utilizzavano un camion che, con una serie di modifiche ingegnose, diventò un veicolo per trasportare armi e munizioni, permettendo loro di compiere incursioni nei territori occupati dai nazisti. La loro abilità nel muoversi e nel restare anonimi nel territorio, ma anche nella costruzione di alleanze con i gruppi partigiani locali, li rese una forza rispettata. La figura di Giacomo "Gnugo" De Bar, uno dei leader dei Leoni, divenne simbolo della determinazione di questi uomini e della loro lotta contro l'oppressione.

Purtroppo, molti altri partigiani rom e sinti sono caduti nell’oblio. Tra loro, Giuseppe "Tarzan" Catter, ucciso dai fascisti nell’area dell'Imperiese, è uno dei nomi più significativi che ancora oggi merita di essere ricordato. Altri, come Walter "Vampa" Catter e Lino "Ercole" Festini, furono fucilati il 11 novembre 1944 a Vicenza per la loro partecipazione alle azioni di resistenza. Questi uomini, insieme a molti altri, furono decorati al valore per il loro coraggio e il loro impegno a favore della libertà e della giustizia, ma le loro storie sono state spesso ignorate dai racconti ufficiali della guerra di Liberazione.

La resistenza dei rom e dei sinti non si limitò al solo combattimento armato. Molti membri di queste comunità si trovarono coinvolti in azioni di supporto, come l’aiuto a prigionieri ebrei, la protezione delle famiglie più vulnerabili, e la creazione di reti di rifugiati per nascondere gli oppositori del regime fascista. La loro determinazione nel contribuire alla liberazione d’Italia fu un atto di eroismo che merita finalmente di essere riconosciuto nella memoria storica del nostro paese.

Nonostante il loro contributo alla Resistenza, le comunità rom e sinti furono anche vittime di una sistematica persecuzione durante la Seconda Guerra Mondiale. Molti furono deportati nei campi di concentramento, dove subirono torture, esperimenti medici e la morte. Il genocidio a loro destinato, conosciuto come "Porrajmos" (in lingua romani, "grande divoramento") o "Samudaripen" ("tutti uccisi"), è una parte della storia europea che ha ricevuto poca attenzione, ma che rappresenta uno degli aspetti più crudeli della persecuzione razziale messa in atto dal regime nazista.

Il razzismo fascista e nazista ha considerato i rom e i sinti non solo come minoranze razziali da eliminare, ma come una minaccia da estirpare per “purificare” la razza. La violenza e la brutalità del regime si riflettevano anche nei trattamenti che queste persone ricevevano nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa, in un contesto di sistematica esclusione sociale e discriminazione.

Nonostante il loro fondamentale contributo alla lotta contro il nazifascismo, la memoria dei rom e dei sinti nella Resistenza è stata a lungo marginalizzata. L’indifferenza e il pregiudizio verso queste comunità hanno impedito che la loro partecipazione venisse adeguatamente riconosciuta. Solo negli ultimi decenni si sono registrati dei tentativi di recuperare queste storie, sia attraverso la pubblicazione di libri e articoli, che mediante la creazione di mostre e documentari. A queste iniziative si sono aggiunti importanti momenti di riflessione come la Giornata della Memoria, che ha cominciato a ricordare il genocidio dei rom e sinti, accanto a quello degli ebrei.

Negli ultimi anni, anche grazie all'impegno di attivisti, storici e membri delle stesse comunità rom e sinti, sono emerse nuove testimonianze e ricerche che stanno lentamente restituendo loro il giusto riconoscimento. Progetti come il Museo Nazionale della Resistenza e iniziative locali stanno facendo luce su queste figure dimenticate, cercando di costruire una memoria collettiva più inclusiva e giusta. La storia dei rom e sinti nella Resistenza non è più relegata nell’ombra, ma sta prendendo piede come un capitolo fondamentale nella narrazione della liberazione italiana.

È ora che il contributo di queste persone venga riconosciuto pienamente. Non solo come vittime del razzismo e della persecuzione, ma anche come eroi che hanno lottato con coraggio e determinazione per la libertà. La storia delle comunità rom e sinti nella Resistenza è una storia di resistenza non solo contro i fascisti, ma contro le ingiustizie di ogni tipo, e di un impegno che ha contribuito alla costruzione di una società più giusta e libera.

E ci sono ancora molti aspetti che vale la pena esplorare riguardo al contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza, e alla loro memoria storica, che spesso rimane in ombra. Ecco alcuni punti che potrebbero essere aggiunti per ampliare ulteriormente la narrazione:

Alcune delle storie più toccanti e significative di partecipazione delle comunità rom e sinti alla Resistenza provengono dalle testimonianze dirette di chi visse quei momenti. Purtroppo, molte di queste voci si sono perse con il passare del tempo, ma alcune sono state raccolte e continuano a essere diffuse grazie agli sforzi di storici e attivisti. Alcune di queste testimonianze raccontano di azioni di sabotaggio, ma anche di gesti quotidiani di solidarietà, come l’offrire rifugio a partigiani in fuga o la protezione di chi, per motivi politici o religiosi, era a rischio di arresto. Queste testimonianze sono fondamentali non solo per onorare il coraggio di queste persone, ma anche per contrastare l’oblio a cui sono state condannate.

Un altro aspetto che potrebbe essere approfondito è l’impatto delle politiche post-belliche sulla memoria delle comunità rom e sinti. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo italiano, come molti altri in Europa, non ha fatto molto per riconoscere i crimini perpetrati contro le popolazioni rom e sinti. La loro lotta per il riconoscimento dei diritti civili e il recupero delle memorie storiche è stata ostacolata da un pregiudizio istituzionale che ha perpetuato l’idea di queste comunità come “straniere” e non integrate nella società. Questo ha avuto conseguenze dirette sulla loro inclusione nei racconti ufficiali della Resistenza e, più in generale, sulla loro visibilità all’interno della società italiana.

È importante sottolineare che il contributo dei rom e dei sinti alla Resistenza non si è limitato alle brigate partigiane o alle azioni di combattimento diretto. Molti di loro, infatti, hanno contribuito alla “Resistenza diffusa”, quella fatta di atti quotidiani di opposizione al regime fascista. Si trattava di atti di disobbedienza civile, di rifiuto di piegarsi alla violenza del regime, di difesa della propria identità culturale in un contesto che cercava di omologare e cancellare qualsiasi forma di diversità. Il rifiuto delle politiche di razza e l'affermazione di un’identità libera e autonoma, spesso associata all'intransigenza e alla ribellione, è una forma di resistenza che merita di essere esplorata in modo più profondo.

Un aspetto che potrebbe essere ulteriormente approfondito riguarda il ruolo delle donne rom e sinti durante la Resistenza. Come in molte altre situazioni, il contributo femminile è stato spesso trascurato, ma numerose donne delle comunità rom e sinti hanno avuto un ruolo fondamentale nelle reti di resistenza, sia in azioni dirette di sabotaggio che nel supporto logistico e nell’assistenza ai partigiani. Alcune di queste donne si sono distinte anche per il loro coraggio nel proteggere le famiglie dai rastrellamenti fascisti e nazisti, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri cari.

Un altro aspetto importante da aggiungere riguarda il riconoscimento ufficiale di questa parte di storia. La Legge 211 del 2000, che ha istituito la Giornata della Memoria in Italia, ha rappresentato un primo passo importante nel riconoscere anche le vittime rom e sinti del nazismo e del fascismo. Tuttavia, c'è ancora molto da fare per includere adeguatamente il loro contributo alla Resistenza nei curriculum scolastici, nei musei e nelle commemorazioni ufficiali. È fondamentale che le nuove generazioni siano consapevoli del ruolo che queste comunità hanno avuto nella lotta per la libertà e che imparino a riconoscere il valore della loro partecipazione.

Uno degli obiettivi più importanti nel raccontare questa storia è creare una memoria condivisa, che vada oltre le differenze culturali e sociali, per costruire una narrazione inclusiva che riconosca le sofferenze e i sacrifici di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà e contro le ingiustizie. In un mondo che spesso si trova diviso da conflitti razziali e culturali, il racconto delle storie di resistenza dei rom e dei sinti è una lezione di solidarietà, di coraggio e di speranza, che può contribuire a un futuro più giusto e rispettoso della diversità.

Il racconto della Resistenza rom e sinti non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di rivendicazione di una memoria collettiva più equa. Il loro contributo alla lotta contro il fascismo e il nazismo è parte integrante della storia della nostra libertà. Riconoscere e celebrare questo contributo non solo restituisce dignità a queste comunità, ma arricchisce anche la comprensione della nostra Resistenza, rendendola più completa, più giusta e più universale.

Un altro aspetto che potrebbe arricchire ulteriormente il racconto del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza riguarda il legame tra la memoria storica e le politiche contemporanee di inclusione e di lotta contro la discriminazione. Ecco alcuni punti da considerare:

Oggi, la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza ha acquisito una nuova centralità, in parte grazie agli sforzi di attivisti, storici e membri delle stesse comunità. Tuttavia, la strada per un riconoscimento ufficiale è ancora lunga. Le politiche attuali di inclusione, che mirano a garantire pari diritti e opportunità alle minoranze, devono essere accompagnate da un impegno concreto nella valorizzazione della memoria storica. La lotta contro il razzismo e le discriminazioni, che ancora oggi affliggono i rom e i sinti in molte società europee, non può prescindere dal riconoscimento delle loro radici storiche e dal rendere giustizia ai loro sacrifici passati.

In questo contesto, il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza può essere visto come un simbolo di resistenza non solo al nazifascismo, ma anche all’intolleranza e alla marginalizzazione. Questa riscoperta storica, infatti, diventa un punto di partenza per una riflessione critica sulle politiche di inclusione sociale in atto oggi, e per un impegno costante nella costruzione di una società che accolga la diversità come valore, piuttosto che come minaccia.

In molte occasioni, le politiche razziste italiane ed europee del passato e del presente continuano a emarginare le comunità rom e sinti. La loro visibilità, in particolare nella storia della Resistenza, è stata spesso omessa o distorta. Questo è stato il risultato di politiche sistemiche che trattavano le comunità rom e sinti come "non italiane" o "estranee", anche se molte di esse avevano radici secolari in Italia e in altre parti d’Europa. La discriminazione razziale e sociale continua a essere una realtà per molte di queste persone, che si trovano ad affrontare una doppia discriminazione: quella legata alla loro identità etnica e quella legata alla povertà.

Riconoscere e celebrare il loro contributo storico alla lotta per la libertà e contro il fascismo è un passo essenziale per combattere il razzismo istituzionale che ancora persiste. Solo attraverso un impegno collettivo per riparare le ingiustizie storiche e per restituire dignità e visibilità a queste comunità si potrà costruire una società veramente inclusiva, in cui nessuno venga emarginato o dimenticato.

Uno degli strumenti più potenti per combattere l’oblio e la discriminazione è l'educazione. Integrare il contributo delle comunità rom e sinti nella Resistenza nei programmi scolastici e nelle attività educative è essenziale per costruire una memoria condivisa che non solo recuperi le storie di chi ha combattuto per la libertà, ma che sia anche un monito per il futuro. La scuola, infatti, è il luogo in cui si formano le coscienze e dove si possono gettare le basi per una cultura del rispetto e della solidarietà. Insegnare ai giovani la storia del Porrajmos, la resistenza dei rom e dei sinti, e il loro impegno nella lotta contro il nazifascismo è un modo per sensibilizzare le future generazioni a non ripetere gli errori del passato.

A tale scopo, diversi musei, archivi e centri di ricerca in Italia e in Europa hanno avviato progetti didattici che si concentrano sulla storia dei rom e dei sinti, cercando di rendere giustizia al loro ruolo cruciale nella Resistenza. In molti casi, queste iniziative sono affiancate da testimonianze orali e da incontri diretti con le persone che appartengono ancora a queste comunità, rendendo la storia più tangibile e personale.

Anche dopo la fine della guerra, la verità sui crimini contro i rom e i sinti, e più in generale sui crimini di guerra compiuti dai nazifascisti, è stata a lungo negata o minimizzata. L’inchiesta ufficiale sul genocidio dei rom è arrivata in ritardo, e non ha avuto lo stesso impatto della memoria degli ebrei vittime del nazismo. Tuttavia, negli ultimi anni, c'è stato un crescente interesse da parte delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali nel perseguire la verità e la giustizia per le vittime rom e sinti. L'adozione di risoluzioni e dichiarazioni da parte dell'Unione Europea, dei governi nazionali e di organizzazioni per i diritti umani è un passo importante, ma ancora non basta. È fondamentale che la giustizia post-bellica riguardi anche i crimini commessi contro le comunità rom e sinti, attraverso risarcimenti, scuse ufficiali e il riconoscimento della loro sofferenza storica.

La commemorazione del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza deve passare attraverso momenti significativi di riflessione collettiva. Le celebrazioni del 25 aprile, la Giornata della Memoria, e altre occasioni di riflessione sulla storia del fascismo e del nazismo devono essere anche un momento di riconoscimento per chi ha lottato non solo contro l’occupazione tedesca, ma contro ogni forma di oppressione. È importante che le generazioni future siano educate a riconoscere la storia di tutte le persone che hanno sacrificato la propria vita per la libertà, indipendentemente dalla loro origine etnica o sociale.

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale. È fondamentale che queste storie vengano raccontate, celebrate e condivise, per rendere giustizia a chi ha lottato per la libertà, ma anche per ispirare le nuove generazioni a continuare a combattere per una società più giusta e inclusiva.

E ci sono ancora altre prospettive che potrebbero arricchire ulteriormente il racconto e l'analisi del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Ecco alcuni ulteriori aspetti che potrebbero essere esplorati:

La Resistenza rom e sinti non può essere separata dal più ampio contesto della memoria del Porrajmos, ovvero il genocidio che ha colpito queste comunità durante l'occupazione nazista. Il termine “Porrajmos” significa “devastazione” in romani e descrive l'annientamento sistematico a cui i rom e i sinti furono sottoposti dai nazisti. Tuttavia, molte delle storie legate alla Resistenza non sono state incluse nei racconti ufficiali del genocidio, in parte perché la lotta dei rom e dei sinti è stata marginalizzata.

Affermare con forza che le comunità rom e sinti non furono solo vittime del nazismo ma anche attori principali della Resistenza implica una rilettura critica della memoria del Porrajmos, un recupero della visibilità di chi, pur affrontando la persecuzione, decise di non arrendersi e di combattere. La connessione tra la memoria del genocidio e quella della lotta partigiana può fornire una visione complessa ma necessaria di una resistenza che si sviluppa su più fronti: quello fisico e quello culturale, in cui le tradizioni e l'identità rom e sinti hanno continuato a resistere non solo attraverso la lotta armata, ma anche attraverso la preservazione della propria storia e lingua.

Non solo in Italia, ma in molte altre nazioni europee le comunità rom e sinti giocarono un ruolo significativo nella Resistenza. In Francia, ad esempio, alcuni gruppi rom e sinti si unironoin alle forze di liberazione, impegnandosi in attività di sabotaggio, assistenza ai rifugiati e ai combattenti della Resistenza. In paesi come la Germania, l'Ungheria e la Polonia, i rom furono anch'essi attivi nel resistere all'occupazione nazista e nel combattere contro il regime. Un'analisi comparata tra i diversi paesi europei potrebbe rendere ancora più evidente il ruolo fondamentale che queste comunità ebbero nella lotta per la libertà. La loro partecipazione si inserisce in un contesto europeo più ampio, dove le popolazioni emarginate furono spesso le prime a mobilitarsi contro la violenza fascista.

Oltre alla Resistenza armata, va sottolineata anche la dimensione della resistenza civile che le comunità rom e sinti continuarono a portare avanti nel dopoguerra, spesso in contesti di povertà estrema, isolamento e discriminazione. Mentre il paese si riorganizzava dopo la guerra, le persone rom e sinti dovettero affrontare non solo la persecuzione fascista, ma anche un'ulteriore marginalizzazione da parte della società italiana e delle istituzioni. In questo senso, la resistenza non si limitò al periodo bellico, ma si estese anche agli anni successivi, in cui le comunità si trovarono a lottare per la sopravvivenza, per i propri diritti e per il riconoscimento della propria dignità. La lotta per la giustizia sociale, per il lavoro, per la casa e per il riconoscimento dei diritti civili delle comunità rom e sinti può essere vista come una continuità della Resistenza, in cui le persone non hanno mai smesso di combattere per la propria libertà e per l'uguaglianza.

Un altro aspetto importante da esplorare riguarda le sfide odierne nella lotta contro la distorsione della memoria storica. Il negazionismo, che cerca di minimizzare o negare la portata della persecuzione e del genocidio dei rom e sinti, continua a essere una minaccia. La ricerca di giustizia storica non può fermarsi al recupero delle storie, ma deve continuare con un costante impegno contro chi cerca di riscrivere la storia in modo da cancellare il contributo delle comunità rom e sinti. Il negazionismo si manifesta in vari modi, dalle dichiarazioni pubbliche di politici e leader di movimenti di estrema destra, fino alla rappresentazione stereotipata delle comunità rom e sinti nei media. La resistenza al negazionismo è oggi una delle battaglie principali per le nuove generazioni, che devono confrontarsi con la sfida di preservare la verità storica e combattere contro ogni tentativo di revisionismo.

Le giovani generazioni rom e sinti giocano un ruolo cruciale nel recupero della memoria storica e nella sua diffusione. Le nuove generazioni, spesso più consapevoli e coinvolte nei movimenti per i diritti civili e per la giustizia sociale, hanno il compito di trasmettere e mantenere viva la memoria del passato, ma anche di affrontare le sfide moderne in modo attivo. Molti giovani rom e sinti si impegnano oggi in progetti educativi, artistici e culturali per preservare la loro identità e per fare in modo che la Resistenza e la storia della loro comunità siano conosciute e riconosciute. Questi giovani non solo si ispirano alla memoria storica, ma anche alla speranza di un futuro in cui la discriminazione e la marginalizzazione siano definitivamente superate.

Il ruolo della cultura e dell’arte è fondamentale per mantenere viva la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Molti artisti rom e sinti, così come non-rom, si sono impegnati per raccontare queste storie attraverso film, documentari, musica, letteratura e altre forme di espressione culturale. L’arte diventa uno strumento potente per sensibilizzare le persone e per combattere l’oblio. Attraverso il linguaggio universale dell’arte, si può raccontare una storia di coraggio, resistenza e speranza che non solo riguarda il passato, ma che continua a ispirare e a impegnare tutti coloro che credono nella libertà e nella giustizia.

L'approfondimento della memoria delle comunità rom e sinti nella Resistenza, sia attraverso il recupero delle storie individuali che l’analisi delle dinamiche sociali e politiche del periodo, arricchisce la comprensione di una parte fondamentale della storia europea. Oggi, più che mai, è necessario dare voce a queste storie, rendere visibile la loro resistenza e riaffermare l’importanza della memoria come strumento di lotta contro l’intolleranza, il razzismo e l’ingiustizia. Solamente attraverso una comprensione profonda di questa memoria collettiva si potrà costruire una società più giusta e inclusiva.

Oggi, quando parliamo della Resistenza italiana, è essenziale includere anche il coraggio di queste comunità, affinché il loro contributo non venga mai più dimenticato e affinché le future generazioni possano conoscere la vera portata di questa lotta di Liberazione.

venerdì 5 dicembre 2025

Parigi in Scena: la Belle Époque secondo Boldini, De Nittis e Zandomeneghi


La Parigi della Belle Époque, quella Parigi che spandeva nel mondo un profumo di luci nuove, di velluti fruscianti e di audacie pittoriche mai tentate prima, rivive nelle sale di Palazzo Blu con una vitalità sorprendente, persino insolente. È una mostra che non si limita a presentare una sequenza ordinata di capolavori: cerca piuttosto di restituire un clima, un ritmo urbano, una vibrazione collettiva fatta di boulevard scintillanti, di atelier febbrili, di teatri dove l’eleganza non era un dettaglio ma una forma di vita, e di salotti in cui l’apparire era già un linguaggio.

In questo contesto, Boldini, De Nittis e Zandomeneghi — italiani trapiantati a Parigi, interpreti e protagonisti del suo mito — non appaiono più come ospiti illustri della capitale francese, ma come modellatori stessi della sua immagine. L’operazione curatoriale delinea chiaramente come i loro stili, pur diversissimi, contribuiscano a definire tre declinazioni della modernità: la mondanità vorticosa, la sensibilità luminosa e la rivoluzione dello sguardo.

Fin dall’inizio, la mostra avvolge il visitatore in una scenografia che ricostruisce l’aria della città tra fine Ottocento e primi Novecento, con un’attenzione non calligrafica ma atmosferica. Non siamo mai davanti a un souvenir urbano, bensì dentro un movimento, un sentimento collettivo. Ed è in questo respiro che si collocano le tele dei maestri: non semplici opere isolate, ma frammenti di una civiltà che si specchiava con avidità nella propria nascente modernità.

Boldini emerge subito come padrone delle sale, come se avesse ancora oggi il passo leggero e irresistibile del dandy che attraversa i salotti parigini con l’inconfondibile scia di charme. Le sue donne, “le Boldiniane”, non sono ritratti ma apparizioni. Il colpo di pennello, rapido e sferzante, incide nello spazio figure che possiedono una vibrazione cinetica, una sensualità quasi elettrica. Il loro vestito non è un abito ma un gesto. La loro posa non è posa, ma un modo per dichiarare al mondo: io esisto, e la modernità sono io.

In alcune tele il bianco delle stoffe sembra tremolare come un bagliore di lampadario, e il movimento delle pennellate dà l’idea di un’epifania improvvisa. Boldini non dipinge mai la donna: dipinge la sua irruzione nella storia. Ed è qui che la mostra compie la sua mossa migliore: accostare questi ritratti a opere di Corcos o di Sargent, creando un dialogo tra mondanità e introspezione, tra virtuosismo e psicologia. Le signore di Corcos, più trattenute, e le figure di Sargent, più scultoree e luminose, rivelano quanto Boldini stesse già correndo verso una nuova idea di identità: non la rappresentazione della persona, ma la rappresentazione dell’effetto che quella persona produce.

De Nittis, al contrario, racconta la città dall’esterno, dalle sue strade, dai suoi cieli, dalla polvere dei boulevard. È il pittore del passo quotidiano, della luce che cambia, delle carrozze che si sfiorano, del cappello che trattiene un raggio azzurro. Le sue vedute parigine, pur immerse nella stessa atmosfera di eleganza, non indulgono nella mondanità ma nella percezione. Se Boldini è il brivido della superficie, De Nittis è il respiro profondo dello spazio.

Nelle sue tele, la luce diventa il vero soggetto: un pulviscolo dorato che scolpisce volti e ombre; una nebbia che sfuma l’orizzonte; un raggio obliquo che trasforma un incrocio di strade in una scena teatrale. La mostra costruisce un percorso che accompagna il visitatore attraverso questa metamorfosi dello sguardo: la Parigi di De Nittis non è più solo città, ma sensazione atmosferica.

Accanto ai francesi — Degas, Renoir, Sisley, Pissarro — De Nittis non appare mai in posizione subordinata. Anzi: in qualche punto, è come se fosse lui a guidare, e gli impressionisti a rispondergli. La sua modernità è più elegante, più disciplinata, più “civile”, ma altrettanto rivoluzionaria nel modo in cui coglie la vita in movimento.

Zandomeneghi, il terzo vertice italiano, porta nella mostra un’intensità diversa. La sua Parigi è fatta di interni, di donne che leggono, cuciono, riposano, oppure di figure colte nella quotidianità più intima. Se Boldini mette in scena l’apparizione mondana e De Nittis la vibrazione della città, Zandomeneghi concentra la modernità nell’istante sospeso, nel gesto minimo che diventa rivelatore.

Il suo colorismo caldo, la tenerezza dei contorni, la grazia delle posture lo inseriscono in un dialogo privilegiato con Cassatt e Degas. Là dove Cassatt indaga la dimensione familiare, Zandomeneghi la trasforma in una poesia della calma moderna; là dove Degas osserva con ferocia, Zandomeneghi osserva con una sorta di malinconica carezza. Le sue figure non rivendicano nulla: sono. Ed è proprio questo essere semplice, non esibito, che restituisce un’idea diversa di modernità: non la corsa fulminea, ma la conquista di un nuovo spazio abitabile, quotidiano, femminile, interiore.

La presenza in mostra di opere di Cassatt, Corcos, Degas, Pissarro, Renoir, Sargent e Sisley non è ornamentale ma strutturale. Funziona come una mappa complessa in cui il visitatore può misurare affinità, divergenze e tensioni. Degas e la sua spietata geometria del corpo rivelano quanto Boldini, pure così diverso, condividesse con lui la ricerca di una figura inquieta e viva. Renoir illumina Zandomeneghi, e allo stesso tempo ne fa emergere la differenza. Sisley e Pissarro dialogano con De Nittis come due fratelli di temperamento differente.

Il percorso curatoriale, articolato e fluido, mira chiaramente a un obiettivo: mostrare come la Belle Époque non sia un’etichetta nostalgica, ma un crocevia in cui la pittura europea rinnova radicalmente i suoi strumenti. Non solo nella rappresentazione della figura o del paesaggio, ma nella percezione del tempo. Tutto diventa più rapido, più leggero, più mobile. La pittura è chiamata a rispondere a una nuova velocità del mondo, ma senza perdere profondità. Il risultato è un equilibrio affascinante tra spettacolo e introspezione, tra eleganza e analisi.

La mostra restituisce anche — e questo è forse il suo pregio più sottile — la sensazione che l’epoca stessa stesse diventando spettacolo di sé. Gli artisti colgono non solo la bellezza della modernità, ma anche il suo desiderio costante di essere vista, raccontata, immortalata. La Parigi che vediamo non è soltanto scenario; è un palcoscenico emotivo. Le sue dive, i suoi flâneurs, i suoi caffè, i suoi boulevard, sono elementi di un teatro diffuso che la pittura deve afferrare in tempo reale.

Nell’ultima parte del percorso, il visitatore comprende che l’eredità della Belle Époque non è tanto una questione estetica, quanto una questione di sguardo. Boldini, De Nittis e Zandomeneghi hanno saputo vedere la modernità mentre stava nascendo, coglierne i tremori e i bagliori, interpretarla senza paura di celebrarne anche gli eccessi. Questo li rende ancora oggi straordinariamente attuali: sono artisti che parlano alla nostra epoca, così affamata di immagini, così desiderosa di apparire, così sensibile alla luce, così inquieta nella sua corsa.

Uscendo da Palazzo Blu, si avverte un’impressione precisa: quella di aver attraversato non solo una mostra, ma un confine. La Belle Époque appare meno lontana di quanto pensassimo, come se toccasse ancora le nostre città, i nostri rituali sociali, il nostro modo di percepire la bellezza. La modernità che racconta non è finita: si è semplicemente trasformata.

E forse questo è il dono più grande dell’esposizione: ricordarci che la modernità non è un concetto astratto ma una forma di vita, e che la sua radice — quella che vibra ancora oggi — nasce proprio lì, in quella Parigi febbrile, luminosa, seducente, fragile, consapevole di sé come nessuna città prima di allora. Una Parigi che Boldini accende, De Nittis respira e Zandomeneghi umanizza. Una Parigi che Palazzo Blu riesce, con equilibrio e splendore, a far rivivere per il nostro sguardo contemporaneo.


SOGNARE LA VITA: LA FRAGILITÀ DEL REALE TRA DOSTOEVSKIJ, LA MODERNITÀ E LA PERCEZIONE


C’è un momento, in Dostoevskij, in cui il mondo si scolla dal suo stesso peso. Il protagonista dell’Adolescente osserva la città intorno e pone quella domanda che non dovrebbe essere mai detta ad alta voce: «E non potrebbe essere un sogno tutta questa gente che corre, si mescola, si affanna?». È una domanda semplice, eppure devastante, perché toglie alla realtà la sua ovvietà. In un istante, la folla che riempie la scena moderna – la città brulicante, la vita sociale, la convulsione dei gesti – può perdere la consistenza che le attribuiamo. Può rivelarsi come un’apparizione, una fantasmagoria, un teatro mal illuminato.

Il punto non è tanto l’ipotesi che tutto sia un sogno, quanto la facilità con cui questa ipotesi si inserisce nella percezione. La percezione, infatti, non è un veicolo neutro: è un atto che continuamente ricostruisce la realtà e che, a volte, si inceppa. In quei momenti il mondo appare come qualcosa che non ci riguarda del tutto, come un flusso di forme che si agitano senza convincerci della loro sostanza.

È una sensazione che tutti, almeno una volta, abbiamo provato. Qualcosa nel nostro sguardo si incrina, e la vita – quella degli altri, ma anche la nostra – appare come se fosse in attesa di una conferma. Una scena che esiste perché qualcuno la sogna, la pensa, la osserva. In quell’attimo, Dostoevskij trova una breccia per dire ciò che altrove diventa filosofia, altrove psicologia: la realtà non è una certezza, ma un’ipotesi ben costruita.

Da qui nasce la vera questione: che cosa rende reale la realtà?

I fenomenologi – molto dopo Dostoevskij – avrebbero spiegato che l’esperienza del mondo è sempre mediata, mai immediata. Non vediamo “le cose”, ma la relazione tra noi e le cose. Husserl avrebbe detto che ogni percezione ha un “orizzonte” che la contiene e la sorregge; Merleau-Ponty che il corpo, nel percepire, crea il mondo che percepisce.

Dostoevskij, senza nessuna pretesa di sistematizzare, ci mostra questo orizzonte mentre si incrina. Nel momento in cui il protagonista osserva la folla e pensa che potrebbe essere un sogno, non compie un gesto metafisico: compie un gesto percettivo. Sperimenta l’instabilità dell’esperienza.

Il mondo non è ciò che è, ma ciò che appare. E se ciò che appare per un istante perde la sua continuità, allora il mondo vacilla con lui.

Questa vacillazione è così radicata nell’esperienza moderna che attraversa l’arte e la letteratura come un basso continuo. L’io non è più saldo, la realtà non è più data, la comunità non è più un rifugio. Ci si muove tra scene, rappresentazioni, flussi di immagini.

Dostoevskij sembra percepire questo già nella metà dell’Ottocento: la realtà, nelle città moderne, è un apparato che può dissolversi. Una “fosca scena” che potrebbe scomparire “in un attimo”.

Questo dubbio non appartiene solo a Dostoevskij: è un tratto distintivo della letteratura russa quando affronta il mondo urbano e la febbre della vita moderna. In Gogol’ – che Dostoevskij idolatrava – la realtà è sempre sull’orlo di trasformarsi in una caricatura, in un sogno grottesco. Pensiamo all’Ispettore generale, al Cappotto, alle Anime morte: città che si deformano, impiegati che perdono identità, nomi scuciti, gesti meccanici. Ogni scena è reale e al tempo stesso sospesa, come se dovesse improvvisamente svanire lasciando solo polvere.

Qui la percezione non è mai stabile: Gogol’ è il primo grande architetto del dubbio ontologico moderno. Dostoevskij lo porta più in profondità: sotto la caricatura, mette l’abisso.

E c’è un dettaglio importante: la Russia di metà Ottocento è uno dei laboratori più precoci della crisi dell’esperienza moderna. Le città crescono, la burocrazia si estende, la folla diventa un fenomeno massiccio ma ancora irrisolto. Le persone non sono ancora “abituate” alla vita moderna; la città è un organismo troppo grande per essere naturalizzato. Da qui quel senso di irrealtà che Dostoevskij coglie con precisione chirurgica.

Il tema della vita come sogno attraversa tutta la modernità europea, ma in forme molto diverse. Lì dove Dostoevskij percepisce la dissolvenza della realtà collettiva, altri autori guardano l’oscillazione del tempo, della memoria, dell’identità.

In Proust, per esempio, il reale è continuamente rifatto dalla memoria. La sua domanda non è: “E se tutto fosse un sogno?”, ma: “Che cosa resta reale quando la memoria riplasma tutto?”. In À la recherche, la vita è un impasto di percezioni che mutano a seconda di chi le ricorda, e il ricordo ha lo stesso peso ontologico della presenza. Ciò che sembra passato torna ad avere corpo: un’altra forma di sogno.

In Musil, la dissolvenza è ancora più tecnica. L’“uomo senza qualità” percepisce il mondo come un insieme di possibilità. Il reale non è più un dato ma un’opzione. Ogni gesto che si osserva – la gente che corre, che parla, che afferma – è visto come una costruzione arbitraria, quasi assurda. In Musil, la crisi del reale è una crisi della logica stessa della vita sociale.

E in Pessoa, infine, la vita come sogno diventa la condizione permanente dell’esistenza. Il Livro do Desassossego è una liturgia dell’estraneità: le persone che passano per strada non sono reali, ma “marionette di passaggio”. L’io che osserva è un io molteplice, frammentato, spesso stanco del mondo. Pessoa porta al parossismo ciò che Dostoevskij lascia solo insinuare: la possibilità che la vita sia un teatro in cui nessuno conosce la propria parte.

Eppure c’è una differenza fondamentale.
Dostoevskij non accetta mai del tutto il sospetto che la vita sia un sogno: lo lascia vibrare, come una nota, ma non lo cantifica. Per lui, il dubbio è un passaggio, non una conclusione. È una fenditura che permette di guardare la realtà da nuova distanza. Non un rifiuto del reale, ma la sua interrogazione.

Il punto centrale della questione non è stabilire se la realtà sia un sogno, ma interrogare il modo in cui la coscienza costruisce il reale. La scena della folla, negli occhi dell’Adolescente, mostra che il mondo è costituito dal nostro modo di stare nel mondo. Non esiste un osservatore neutro. Non esiste un “fuori” della percezione. La realtà è una relazione.

E la relazione è instabile.

Ogni tanto – nei momenti di stanchezza, di eccesso, di chiaroveggenza improvvisa – il sipario si apre un po’ troppo e ci accorgiamo della fragilità dell’intero edificio. Il mondo continua a muoversi come se nulla fosse, ma noi non siamo più certi di esserne parte. È come se ci fossimo svegliati, per un istante, dentro la vita.

Questo paradosso – svegliarsi dentro la vita, non dalla vita – è il lascito più sottile di Dostoevskij.

La modernità ha trasformato la folla in un contesto permanente. Viviamo immersi in una rete di gesti, ruoli, corse, obblighi, movimenti che ripetiamo senza pensarci. In questo senso la folla è già di per sé un sogno: una coreografia collettiva inconsapevole.

Dostoevskij, come Gogol’ ma più profondamente, vede nel movimento collettivo una forma di automatismo. Gli uomini corrono perché devono correre, si affannano perché devono affannarsi. La vita appare come una sceneggiatura che nessuno ha scritto ma tutti recitano. Ed è qui che si innesta quel dubbio quasi infantile: sono veri?

Può sembrare ingenuo, ma è uno dei dubbi più radicali della modernità. Se gli altri sono sogni – figure che esistono solo perché le percepiamo – allora anche noi lo siamo.

La folla come sogno altrui.
La vita come scena condivisa.
La realtà come un immenso teatro privo di autore.

Eppure questo non è un pensiero cupo. Anzi. Se la realtà può dissolversi, significa che non è una condanna. Se la vita è un sogno, significa che può cambiare. Il risveglio, per Dostoevskij, non è la distruzione del mondo, ma il suo possibile reinventarsi.

Nella dissoluzione della scena fosca c’è un tratto di libertà.
La realtà non è necessaria; è solo una delle sue possibili forme.

Ed è precisamente qui che Dostoevskij dista anni luce dal nichilismo.
Il sogno non è il nulla: è un modo alternativo di esistere. 

Si potrebbe dire che il pensiero di Dostoevskij, in questo punto, anticipa tutta la modernità. La vita non è un sistema chiuso, ma un campo aperto: un luogo dove sogno e veglia, realtà e apparenza, percezione e dubbio convivono. E la coscienza oscilla continuamente tra questi poli, senza fissarsi in nessuno.

La gente che corre, si mescola e si affanna è reale e al tempo stesso immaginaria.
È vera perché la percepiamo, ma anche fragile perché potrebbe smettere di sembrarlo.

Alla fine, il dubbio dell’Adolescente non va sciolto.
È un invito a guardare la realtà con la consapevolezza della sua porosità.

Noi viviamo in un mondo che prende la forma del nostro sguardo.
E ogni tanto, mentre osserviamo gli altri muoversi nella loro piccola convulsione quotidiana, torna quella domanda che vibra come un segreto condiviso tra chi ha visto oltre:

E se tutto questo fosse solo un sogno che si crede reale?

Forse non c’è risposta.
Forse la risposta è proprio la domanda.
E noi – splendide creature smarrite – continuiamo a camminare su quel confine, sospesi tra la veglia e il sogno, come Dostoevskij ci ha insegnato: senza smettere mai di percepire l’instabilità, la bellezza e la vertigine del mondo.

giovedì 4 dicembre 2025

Rimbalzi del Fato: Khayyam, il polo persiano e l’uomo come palla



Capitolo 1 – L’immagine dell’uomo come oggetto di gioco

Non c’è civiltà, per quanto remota, che non abbia proiettato sull’uomo l’immagine di un giocattolo nelle mani del destino. È come se il pensiero, davanti all’enigma della vita e alla brutalità della morte, avesse avuto bisogno di una figura semplice, immediata, quasi infantile, per tradurre l’insondabile in esperienza quotidiana. Da qui nasce la metafora della palla: oggetto rotondo, senza appigli, destinato a rotolare, a rimbalzare, a essere colpito. La sua natura stessa – perfetta e instabile, liscia e vulnerabile – sembra fatta apposta per evocare la condizione umana.

Quando una palla rimbalza non decide la direzione; essa risponde alla forza che la colpisce, alla durezza del terreno, all’inclinazione del suolo. Così l’uomo: ogni volta che crede di scegliere, scopre che la sua libertà è compressa, incastrata dentro meccanismi più grandi. C’è la biologia, che determina il corpo e i suoi limiti; c’è la società, che stabilisce regole e confini; ci sono le passioni, che incendiano e trascinano; e infine il tempo, che come mazzuolo invisibile batte senza tregua. In questa concatenazione di vincoli, l’uomo non può che rimbalzare, come palla, dentro un campo di forze che non ha creato.

È una visione tanto antica quanto universale. La si ritrova nei canti religiosi e nelle satire popolari, nei poemi mistici e nei drammi teatrali. Talvolta assume un tono di scherno – come nelle commedie latine – talvolta di meditazione – come nei versi sufi – e altre volte ancora di disperazione cosmica, come nel teatro elisabettiano. Ma sempre si tratta della stessa intuizione: l’uomo è cosa in balìa d’altri.

Questa immagine non si limita a constatare la debolezza umana: essa plasma un’intera concezione del mondo. Dire che l’uomo è come una palla significa negargli un centro di gravità stabile, strappargli l’illusione di essere dominatore del proprio destino. In un tempo come il nostro, che esalta l’individuo e la sua presunta sovranità, questa metafora risuona come una voce controcorrente, un richiamo alla fragilità che nessuna tecnologia, nessuna potenza politica, nessuna fede cieca riesce a cancellare.

Ma proprio in questa fragilità si annida un paradosso. La palla non è solo passività: è anche energia accumulata, è movimento continuo. Essa non muore nell’essere percossa; al contrario, vive del colpo, si anima nel rimbalzo. Allo stesso modo l’uomo, pur ridotto a oggetto di forze esterne, trova in questo stesso destino la propria forma. La sua esistenza non è il crollo di un progetto, ma il divenire incessante di una traiettoria. E in quella traiettoria, anche se decisa da altri, egli imprime comunque un’impronta: non è mai la stessa palla che rimbalza due volte nello stesso punto.

Il pensiero letterario che ci accompagnerà in questo saggio nasce dunque da qui: dal riconoscere come la metafora del gioco e del rimbalzo non sia un ornamento, ma una chiave per comprendere l’uomo. Se il destino ci colpisce, non ci annienta; ci trasforma. Ed è proprio questo che poeti, filosofi e drammaturghi hanno intuito e raccontato, consegnandoci, di secolo in secolo, la medesima immagine: noi siamo palle di un gioco che non abbiamo scelto, ma che ci definisce.




Capitolo 2: Il polo persiano e il “chaugan”

Se il mondo indiano aveva offerto il grembo originario in cui il gioco a cavallo prese forma, fu la Persia a conferirgli la sua aura regale e a trasfigurarne la funzione da semplice passatempo a disciplina aristocratica, permeata di simboli e di rituali. Qui il gioco prese il nome di “chaugan”, parola che nelle fonti medievali rimanda tanto al bastone ricurvo quanto al gesto stesso di colpire la palla. Ed è significativo che, a differenza di altri sport o giochi, il termine non indichi solo lo strumento o il luogo, ma evochi un universo di azioni, di relazioni e di significati che travalicano la mera sfera ludica.

La Persia sassanide, soprattutto tra il III e il VII secolo d.C., fece del chaugan un esercizio essenziale per i giovani nobili. Non era soltanto un modo per addestrarsi alle difficoltà della guerra a cavallo – che richiedeva agilità, precisione, coordinamento con il destriero – ma anche un rito collettivo che avvicinava i principi alle dinamiche della leadership. Giocare significava imparare a misurarsi con l’imprevisto, a prevedere i movimenti dell’avversario, a mantenere il controllo anche nelle situazioni più caotiche. Il campo del chaugan era un campo di battaglia in miniatura, ma addolcito e sublimato nella forma estetica del gioco.

La letteratura persiana, sempre così attenta a nobilitare i gesti cavallereschi, non mancò di fissare l’immagine dei re e dei principi impegnati nel gioco. Nei poemi epici di Ferdowsi, lo “Shahnameh”, il Libro dei Re, il chaugan appare come il passatempo prediletto dei sovrani, che vi si cimentano non solo per mostrare la loro forza, ma per dare prova di quella grazia che distingue il vero monarca dal semplice guerriero. Non bastava vincere: bisognava farlo con eleganza, con misura, quasi a suggerire che il gesto atletico fosse già un gesto politico.

Non meno eloquenti sono le miniature persiane che ci sono giunte. In esse vediamo cavalieri che si affrontano in campi verdi disseminati di fiori stilizzati, sotto cieli tersi, con la palla che sembra sospesa tra il gioco e l’eterno. Il cavallo, compagno imprescindibile, è raffigurato con dettagli che tradiscono una profonda venerazione: criniere sottili, movimenti dinamici, occhi attenti. Il destriero, nell’immaginario persiano, non era un semplice mezzo di trasporto, ma una creatura quasi sacra, ponte tra l’uomo e il cielo. Giocare a chaugan era dunque celebrare anche questa comunione tra uomo e animale, tra carne e vento.

Un aspetto decisivo, che distingue il polo persiano dalle sue radici indiane, fu l’integrazione del gioco nella sfera amorosa e poetica. Nei versi dei lirici, il chaugan diventa spesso metafora della relazione tra l’amante e l’amato: la palla è l’anima, il bastone il desiderio, il cavallo la passione che trascina. Le stesse regole del gioco si prestavano a infinite allegorie: l’inseguimento, il contatto, il colpo improvviso. Così, ciò che era nato come addestramento militare si trasfigurava in simbolo erotico, spirituale, cosmico.

La corte di Isfahan, molto più tardi, nel Seicento, fece del grande piazzale di Naqsh-e Jahan uno dei più spettacolari campi da chaugan della storia. Ancora oggi, nella vastità di quello spazio, possiamo immaginare le partite disputate davanti al popolo e ai dignitari, con i cavalli che sfrecciavano veloci e i bastoni che colpivano la palla sotto lo sguardo attento dello Shah Abbas. Là il gioco non era solo esercizio: era un atto di rappresentazione, una liturgia regale, un modo per rendere visibile l’armonia tra potere, grazia e bellezza.

Il chaugan persiano non si limitò ai confini dell’Iran: attraverso le vie carovaniere, i contatti diplomatici e le guerre, si diffuse in Asia centrale, in Anatolia, e più tardi nel mondo arabo. Ovunque arrivasse, conservava quell’aura regale che lo distingueva da altri sport. Era sempre il gioco dei potenti, un privilegio che separava le élite dal popolo. Ed è proprio questa sua esclusività, questa sua impronta aristocratica, a preparare il terreno per le trasformazioni successive, quando il gioco, attraverso l’espansione islamica, avrebbe raggiunto Bisanzio, l’Egitto, fino a lambire l’Occidente medievale.

Ma prima di varcare quelle soglie, conviene soffermarsi ancora un istante sull’anima del chaugan. Nel suo cuore vi era un equilibrio difficile: tra la violenza e la grazia, tra la guerra e l’amore, tra la prova fisica e la metafora spirituale. Non era solo un gioco di abilità, ma un linguaggio che parlava di potere, di eros e di destino. Ed è forse per questo che, anche a distanza di secoli, il suo ricordo continua a vibrare nelle miniature, nei versi e nei campi silenziosi che un tempo risuonavano del galoppo dei cavalli.




Capitolo 3: L’espansione islamica e la diffusione del polo

Con l’avvento dell’Islam nel VII secolo, il panorama politico, culturale e sportivo dell’Asia conobbe una trasformazione radicale. Le armate arabe, in pochi decenni, si espansero dal deserto della Penisola arabica fino ai confini della Persia, inglobando l’Impero sasanide e gran parte dei territori bizantini. Con esse non si diffusero soltanto una nuova religione e un nuovo sistema di potere, ma anche abitudini culturali, pratiche di corte e modalità di socializzazione che avrebbero influenzato profondamente il destino del polo.

Il “chaugan” persiano, già radicato come disciplina nobiliare, entrò in contatto con l’élite araba conquistatrice, trovando un terreno fertile per la sua trasmissione. Gli arabi, popolo di cavalieri e guerrieri, seppero cogliere immediatamente la potenzialità del gioco: esso combinava addestramento militare, spettacolo e cerimonia, diventando in breve tempo uno degli sport favoriti delle nuove corti islamiche. Non a caso, nelle cronache dell’epoca, compaiono numerosi riferimenti a campi da polo allestiti nelle città conquistate, specialmente a Damasco e Baghdad, dove il gioco fu elevato a simbolo di prestigio dinastico.

Baghdad, capitale del califfato abbaside a partire dal 762, divenne uno dei principali centri di elaborazione e diffusione del polo. Nei vasti giardini e negli spazi cerimoniali attorno alla città, i califfi organizzarono partite che coinvolgevano non soltanto i nobili, ma anche ambasciatori e dignitari stranieri. Queste occasioni diplomatiche trasformavano il polo in uno strumento politico: attraverso il gioco si mostrava la disciplina militare, la raffinatezza della corte, l’abilità nell’arte equestre. Giocare bene a polo non era solo questione di intrattenimento, ma significava esibire un controllo sul cavallo che, agli occhi di un’epoca dominata dalle guerre di cavalleria, equivaleva a mostrare potenza militare.

La letteratura araba dell’epoca testimonia questa passione. Alcuni poeti di corte celebravano i sovrani descrivendoli mentre, lanciati al galoppo, colpivano la palla con eleganza e precisione. La terminologia del polo, tradotta o adattata in arabo, entrò a far parte del lessico culturale delle élite. Lo sport cominciò così a sviluppare un’aura simbolica: la palla poteva rappresentare il destino, il mallet lo strumento della volontà, il cavallo l’energia vitale da dominare. Non si trattava soltanto di un passatempo aristocratico, ma di un linguaggio rituale che condensava visioni politiche e metafore esistenziali.

Dalla Persia e dall’Iraq, il polo si diffuse rapidamente verso l’Asia centrale, approfittando delle rotte commerciali e dei movimenti militari. In particolare, regioni come il Khorasan, l’attuale Afghanistan e le steppe circostanti, divennero luoghi privilegiati di espansione. Le popolazioni turco-mongole, che già possedevano una radicata tradizione di giochi equestri, adottarono con entusiasmo il polo, reinterpretandolo secondo le proprie usanze. Il contatto fra civiltà islamica e tradizioni nomadi rese il polo un fenomeno trans-culturale, capace di unire mondi apparentemente lontani attraverso il linguaggio universale del cavallo e della competizione.

Anche il Nord Africa fu toccato dalla diffusione del polo. Gli Omayyadi prima, e successivamente i Fatimidi, organizzarono partite nelle città principali come Il Cairo e Kairouan. Tuttavia, fu in Andalusia che il polo conobbe una particolare fioritura: i califfi di Cordova, aperti agli influssi culturali orientali, importarono il gioco, adattandolo agli spazi e alle usanze locali. Questo costituì uno dei primi grandi ponti attraverso i quali il polo, nato in Persia, si avvicinava progressivamente all’Europa mediterranea.

L’espansione islamica, dunque, non fu soltanto militare o religiosa: essa trasportò con sé abitudini, riti e giochi. Il polo, in questo processo, rappresentò un caso esemplare di come uno sport potesse farsi veicolo di civilizzazione e strumento di scambio culturale. Se in Persia era stato gioco di corte e simbolo regale, sotto l’Islam divenne linguaggio politico globale, uno spettacolo in grado di celebrare il potere dei califfi e di costruire ponti tra popoli differenti.




Capitolo 4: Il polo alla corte mongola

Con l’avvento dell’impero mongolo, il polo acquisì una nuova e straordinaria centralità. I sovrani delle steppe, abituati a vivere in simbiosi con il cavallo e a considerare l’arte equestre come fondamento del loro dominio, videro in questo gioco non solo un passatempo aristocratico, ma un’estensione simbolica della loro stessa potenza. Il cavallo era già per i Mongoli una creatura quasi sacra, compagno indispensabile nelle guerre di conquista, nelle lunghe migrazioni e nelle cerimonie rituali. Introdotto e diffuso grazie alle campagne che portarono i khan a dominare vastissimi territori dall’Asia Centrale fino al Medio Oriente, il polo trovò terreno fertile in una cultura che sapeva trasformare ogni gesto equestre in emblema politico e cosmico.

Alla corte di Gengis Khan e dei suoi successori, il polo non fu soltanto un intrattenimento riservato ai nobili: divenne una vera e propria scuola di disciplina e coordinazione. Giocare significava imparare a manovrare cavalli in spazi stretti, a colpire con precisione un bersaglio in movimento, ad affinare i riflessi. La dimensione ludica si mescolava a quella marziale, e non è difficile immaginare i campi sterminati delle steppe trasformati in arene dove le partite si caricavano di un pathos bellico, quasi fossero battaglie in miniatura.

Ma il polo mongolo aveva anche un volto cerimoniale. Le cronache raccontano di grandi partite organizzate in occasione delle nozze dei khan, delle nascite degli eredi o delle celebrazioni stagionali, quando l’intero clan si radunava per sancire con il gioco l’armonia tra natura, potere e destino. Nelle rappresentazioni artistiche di epoca Yuan – la dinastia fondata da Kublai Khan in Cina – il polo appare come un passatempo femminile e maschile, praticato con eguale intensità da dame di corte e da nobili guerrieri. Questa partecipazione inclusiva rifletteva la fluidità e la ricchezza della vita alla corte mongola, dove lo sport diveniva un linguaggio comune, capace di superare i confini di genere e di unire diverse etnie e tradizioni sotto l’egida imperiale.

La Cina, conquistata e governata dai Mongoli, offrì nuove possibilità di diffusione. Qui il gioco assunse sfumature ancora più raffinate: il polo venne integrato nelle pratiche artistiche, evocato nei dipinti e nei rotoli calligrafici come metafora della velocità, dell’abilità e dell’eleganza. Il gesto del cavaliere che tende il busto per colpire la palla non era più soltanto un atto atletico, ma anche un simbolo della tensione spirituale verso il controllo e l’armonia.

Alla corte mongola, dunque, il polo non si limitò a sopravvivere: si trasformò in un crocevia di significati. Era un addestramento militare mascherato da gioco, un rito sociale, una celebrazione estetica e un simbolo politico. Nella sua capacità di adattarsi e arricchirsi di nuovi valori, il polo rifletteva perfettamente la vocazione universale dell’impero mongolo: un dominio che, pur radicato nella forza delle steppe, seppe abbracciare e rielaborare le culture più diverse.




Capitolo 5: Il polo in Cina e Giappone

Se il mondo persiano e quello islamico avevano già contribuito a codificare il polo come sport aristocratico e metafora politica, la sua diffusione in Estremo Oriente portò a una trasformazione ancora più sorprendente, fatta di adattamenti culturali, rielaborazioni simboliche e, in alcuni casi, reinterpretazioni che ne mutarono profondamente il senso originario. Tra la Cina e il Giappone, infatti, il polo conobbe non solo un’espansione geografica, ma soprattutto una metamorfosi concettuale: da gioco di abilità militare a spettacolo rituale, da addestramento cavalleresco a forma estetica raffinata, da esercizio di corte a vero e proprio mito letterario.

Nella Cina dei Tang (618–907), il polo venne introdotto dalla Persia attraverso le vie carovaniere che costituivano la grande rete della Via della Seta. Non fu un semplice prestito ludico, ma un fenomeno culturale di vasta portata. La corte Tang, cosmopolita e assetata di novità esotiche, accolse il “ju jū” (così veniva chiamato) come uno dei passatempi prediletti da imperatori, funzionari e nobili. I cronisti raccontano che l’imperatore Xuanzong fosse un appassionato giocatore e che organizzasse partite spettacolari per i dignitari stranieri. Addirittura, alcune cronache parlano di donne di corte che praticavano il gioco con grande abilità, anticipando così quell’inclusione femminile che in altre regioni del mondo islamico rimase più marginale. La pittura Tang ci ha lasciato testimonianze preziose: rotoli dipinti raffigurano cavalieri in abiti sontuosi che inseguono la palla con dinamismo teatrale, rivelando come il polo fosse diventato non solo sport, ma spettacolo visivo, parte integrante della rappresentazione del potere imperiale.

Nella Cina dei Song (960–1279) il polo continuò a essere praticato, ma cominciò a subire trasformazioni. La società, meno guerriera e più burocratica rispetto ai Tang, ridusse la funzione militare del gioco, privilegiando invece quella estetica e cerimoniale. Si racconta che nei giardini imperiali venissero allestiti campi appositi, con spettatori disposti in tribune e un cerimoniale rigidissimo che regolava ogni fase della partita. In questa trasformazione si legge il passaggio da un polo “guerriero” a un polo “spettacolare”, utile a rafforzare la magnificenza della corte e a intrattenere ambasciatori e mercanti stranieri.

Il caso giapponese è ancor più singolare. Qui il polo non giunse come semplice gioco, ma venne reinterpretato secondo i codici estetici e rituali del Paese. Introdotto probabilmente nel periodo Nara (VIII secolo), e certamente praticato durante l’epoca Heian (794–1185), il polo prese il nome di dakyū. A differenza della versione persiana o cinese, il dakyū non si sviluppò tanto come sport competitivo, ma come cerimoniale aristocratico, legato ai rituali shintoisti e alla coreografia della corte imperiale. Le partite venivano giocate in campi perfettamente simmetrici, delimitati da architetture rituali, e spesso accompagnate da musiche e danze. Non era più la velocità del cavallo o la forza del colpo a costituire il centro dell’evento, bensì l’armonia dei movimenti, la grazia del gesto, la perfetta fusione di cavaliere e animale in una sorta di danza marziale.

Il dakyū giapponese non perse mai questo carattere rituale. Anche nei secoli successivi, quando l’arte militare dei samurai si affermò come nuova egemonia culturale, il polo rimase un’attività rara, confinata a cerimonie di corte o a esibizioni destinate a stupire. Non si radicò mai come sport popolare o come addestramento militare diffuso. La tradizione giapponese, più incline a ritualizzare che a agonizzare, trasformò dunque il polo in una liturgia estetica, quasi un’emanazione dello stesso spirito che animava la cerimonia del tè, la poesia waka o il bugaku (danza di corte).

In questa traiettoria si può leggere la grande capacità dell’Estremo Oriente di assorbire, trasformare e reinventare modelli stranieri senza mai subirli passivamente. La Cina e il Giappone accolsero il polo, ma ne fecero qualcos’altro: i Tang lo elevarono a spettacolo cosmopolita, i Song lo codificarono come cerimoniale imperiale, mentre i giapponesi lo trasfigurarono in rito estetico e simbolico. Ciò che era nato come addestramento guerriero, utile a forgiare soldati pronti al combattimento, divenne nelle loro mani un linguaggio estetico, una coreografia del potere, una meditazione sulla grazia del gesto.

È affascinante osservare come, in questo passaggio, si rifletta il diverso rapporto che queste culture ebbero con il cavallo stesso: nella steppa persiana o mongola esso era arma, compagno e strumento di sopravvivenza; in Cina diventava veicolo di splendore imperiale e segno di prestigio cosmopolita; in Giappone si trasformava in elemento coreografico, complice silenzioso di una rappresentazione rituale.

Così, il polo in Estremo Oriente non fu mai semplice “gioco importato”, ma un vero e proprio prisma attraverso il quale leggere le differenti sensibilità culturali: potenza e cosmopolitismo in Cina, ritualità e estetica in Giappone. Una lezione che mostra quanto lo sport, lungi dall’essere universale e neutro, sia invece sempre radicato nella visione del mondo che lo accoglie e lo reinventa.




Capitolo 6: Il polo e l’India moghul

Quando, nel XVI secolo, l’India vide la nascita dell’Impero moghul sotto Babur e i suoi discendenti, il polo entrò in una nuova fase di straordinaria celebrazione. La Persia, che aveva contribuito alla sua codificazione, e la Cina, che ne aveva raffinato la ritualità e l’estetica, furono punti di riferimento indiretti, ma la vera innovazione si consumò in subcontinente indiano, dove il polo si intrecciò con il lusso della corte, la magnificenza architettonica e l’ardore bellico dei guerrieri.

I sovrani moghul erano grandi amanti del cavallo e del gioco equestre, e il polo occupava un posto privilegiato nelle corti di Agra, Delhi e Lahore. Babur stesso, nelle sue memorie, testimonia della propria abilità nel gioco e della sua importanza come mezzo di addestramento militare. Il polo non era considerato un semplice divertimento, ma un vero e proprio banco di prova per la nobiltà: esso permetteva di allenare la mira, la resistenza fisica e la strategia, ma era anche un modo per dimostrare prestigio e audacia di fronte ai dignitari stranieri e ai propri sudditi.

Sotto Akbar, l’apice della potenza moghul, il polo assunse caratteristiche spettacolari e coreografiche. Si allestivano campi enormi, con tribune per i principi e gli ospiti della corte, e le partite diventavano eventi pubblici che combinavano abilità e teatro. Non era raro che intere cronache pittoriche fossero dedicate a queste partite, raffigurando cavalli e cavalieri in pose dinamiche, i bastoni sollevati, la palla sospesa nell’aria, il pubblico assorto. Le miniature moghul mostrano colori vividi, gesti studiati, sguardi tesi: tutto concorreva a esaltare l’armonia tra uomo, cavallo e spazio del gioco.

Ma la grande originalità della tradizione moghul fu l’integrazione di elementi estetici e culturali. Le partite non erano più solo sfide tra guerrieri, ma occasione di spettacolo, di competizione artistica e sociale. La cortesia, la grazia nei movimenti e la precisione nei colpi venivano giudicate tanto quanto la velocità e la forza. Anche la musica e la poesia accompagnavano le partite: cantori e poeti narravano le gesta dei cavalieri, trasformando ogni rimbalzo della palla in un racconto epico. Così, il polo divenne espressione di un ideale completo di cavalleria, che univa forza, strategia, estetica e cultura.

Le regine e le dame della corte non erano assenti da questo panorama. Diverse cronache indicano come esse seguissero le partite da tribune elevate, commentando le azioni dei cavalieri e, in alcuni casi, partecipando direttamente in versioni adattate del gioco. Questa presenza femminile conferiva al polo una dimensione sociale più ampia, trasformandolo da semplice addestramento militare a strumento di legittimazione politica e di spettacolo collettivo.

La fortuna del polo sotto i Moghul riflette anche l’incontro tra culture. La Persia aveva fornito la tecnica, l’arte e la simbologia; l’Asia centrale aveva trasmesso il rigore e la velocità; l’India moghul integrava tutto questo in un sistema che combinava bellezza, potere e ritualità. La palla, il bastone e il cavallo divenivano così strumenti di una narrativa visiva e simbolica: ogni colpo, ogni passaggio era carico di significati politici e poetici, un gesto che esprimeva dominio, abilità e grazia.

In questo contesto, il polo smette di essere semplicemente un gioco e diventa metafora vivente della condizione umana: la palla che rimbalza, colpita da bastoni invisibili, diventa immagine del destino che plasma e mette alla prova l’uomo, dell’equilibrio tra forza e precisione, tra volontà e circostanza. La straordinaria diffusione e trasformazione del gioco in India moghul ci mostra come un passatempo possa diventare linguaggio universale, capace di parlare di potere, arte e vita in tutte le sue sfaccettature.




Capitolo 7: Il polo nell’Europa medievale e rinascimentale

Il polo giunse in Europa occidentale tra il Medioevo e il Rinascimento, attraversando mari e montagne non come semplice passatempo esotico, ma come testimonianza del prestigio e del potere delle corti aristocratiche. Attraverso le rotte commerciali mediterranee e i contatti con le élite islamiche in Spagna e in Sicilia, il gioco si diffuse dapprima tra i cavalieri della nobiltà, assumendo una dimensione marcatamente simbolica: esso non era più soltanto esercizio fisico, ma strumento di rappresentazione sociale e politica.

In Inghilterra, Francia e Italia il polo fu introdotto intorno al XIII e XIV secolo, acquisendo nomi differenti, tra cui polo, pulu o semplicemente gioco della palla a cavallo. Gli storici inglesi raccontano di partite organizzate da re e principi come occasione di spettacolo pubblico, in cui i cavalieri sfidavano la sorte e le abilità altrui in campi predisposti appositamente. La posta in gioco non era solo la vittoria del match, ma la dimostrazione di virtù cavalleresche: equilibrio, coraggio, velocità e precisione. Ogni colpo di bastone era giudicato come un atto di stile e abilità, e la palla stessa, sospesa nell’aria o in volo, diventava simbolo del destino che può essere guidato, ma mai completamente controllato.

In Italia, città come Firenze, Venezia e Roma accolsero con entusiasmo il polo, integrandolo nelle feste pubbliche e nelle celebrazioni della corte. Nelle cronache fiorentine del XV secolo si raccontano partite spettacolari cui partecipavano i Medici e i loro cortigiani, con il pubblico disposto lungo le mura dei campi di gioco. I contemporanei sottolineavano non solo la bravura dei cavalieri, ma anche la bellezza dei cavalli, la grazia dei movimenti e l’armonia complessiva dello spettacolo. In questo senso, il polo si inseriva perfettamente nel Rinascimento, che celebrava l’equilibrio tra forza e bellezza, disciplina e creatività.

In Francia, sotto il regno di Carlo V e dei suoi successori, il polo diventò disciplina di corte. La nobiltà francese, attratta dall’eleganza e dalla raffinatezza del gioco, ne fece parte integrante dell’educazione cavalleresca. I manuali di equitazione e i trattati militari dell’epoca spesso menzionano il polo come esercizio utile a migliorare le capacità di controllo del cavallo, la prontezza di riflessi e la concentrazione del cavaliere. Non sorprende quindi che il polo, pur importato da culture orientali, trovasse in Europa un terreno fertile, reinterpretato secondo le logiche aristocratiche locali.

Il Rinascimento, inoltre, aggiunse al polo una dimensione estetica e culturale nuova. L’arte figurativa e le cronache documentano partite accompagnate da musiche e poesie, in cui il gesto atletico era elevato a spettacolo teatrale. Pittori e miniaturisti italiani e francesi raffigurarono cavalieri e cavalli in movimento, con attenzione ai dettagli dei vestiti, delle armature, dei bastoni e delle palle. In queste immagini, la partita non è soltanto momento sportivo, ma narrazione visiva: l’azione della palla, colpita e guidata dai cavalieri, diventa metafora della sorte e del destino umano, costantemente in bilico tra volontà e circostanza.

Interessante è anche la diffusione del polo attraverso la Spagna, che aveva avuto contatti diretti con il mondo islamico. Lo sport, qui noto come juego del palo o juego de la pelota a caballo, mantenne forte l’influenza persiana e moghul. Non solo i nobili, ma anche le corti locali ne fecero occasione di spettacolo e di rafforzamento del prestigio sociale. In alcune cronache spagnole, le partite di polo erano occasione di celebrazione delle nozze reali o di festività religiose, inserendo così il gioco nel tessuto simbolico e rituale della società.

Il polo europeo, dunque, si configurò come un fenomeno complesso, capace di assorbire le eredità orientali e di rielaborarle secondo i codici locali: la nobiltà trovava nello sport uno strumento di addestramento militare e un teatro di prestigio; gli artisti e i cronisti vi riconoscevano un’occasione estetica; i poeti ne colsero la metafora del destino umano. La palla che rimbalza, come in Oriente, continuava a incarnare il principio della casualità e del caso, suggerendo che, per quanto abili e disciplinati, gli uomini restano sempre soggetti a forze superiori, che ne guidano traiettoria e destino.

Così, dal Medioevo al Rinascimento, il polo divenne un ponte tra mondi e culture: esportato dall’Asia centrale e dall’India moghul, adattato alle corti europee, esso mantenne la sua valenza simbolica, capace di parlare di potere, abilità, estetica e condizione umana. Non più solo gioco aristocratico, non più solo addestramento bellico: il polo era divenuto, in Europa, metafora viva di equilibrio tra ordine e caos, abilità e sorte, volontà e destino.




Capitolo 8: Omar Khayyam e la metafora della palla

Tra tutte le culture che hanno contribuito a modellare il gioco del polo e la sua diffusione, quella persiana emerge per la sua capacità di intrecciare sport, politica e filosofia. È in questo contesto che la figura di Omar Khayyam (1048–1131) assume un ruolo centrale, non tanto come giocatore, quanto come poeta e pensatore capace di trasformare il gesto atletico in potente allegoria esistenziale.

La celebre quartina di Khayyam – «Rimbalzante, come palla, sotto la mazza del Fato, / A dritta, a manca, ruzzoli, voli, e, zitto, saltelli...» – tradotta da Pierre Pascal, ci restituisce un’immagine immediata e vivida: l’uomo non è più il cavaliere che doma il cavallo, ma la palla stessa, percossa da mani invisibili, oscillante tra traiettorie imprevedibili, subordinato a un destino che lo attraversa senza pietà. Questa metafora, che trae origine dal gioco del polo – il chaugan persiano – trasfigura il gioco in lezione morale: ogni colpo, ogni rimbalzo, diventa simbolo del caos della vita e della fragilità dell’uomo di fronte al Fato.

Pierre Pascal ricorda come questa metafora sia ricorrente nella poesia iraniana, da Abu Saʿīd a Hafez: non è solo Khayyam a pensare l’uomo come oggetto rimbalzante, ma tutta una tradizione che interpreta la condizione umana come oscillazione tra forze superiori, capricci del destino e tensione verso il controllo. La palla, colpita dal bastone invisibile, diventa immagine potente della precarietà, del gioco continuo tra azione e conseguenza, tra volontà e necessità.

Non sorprende che questa visione abbia trovato paralleli anche in Occidente. Plauto, nel prologo dei Captivi, scrive «Di nos quasi pilas homines habent», mentre John Webster nella Duchessa di Amalfi afferma: «We are meerely the Starres tennys-balls (strooke, and banded / Which way please them)». Nella traduzione di Giorgio Manganelli: «Noi siamo palle da tennis che le stelle lanciano, fanno rimbalzare da qualunque parte vogliano». La coincidenza tra Oriente e Occidente è sorprendente: in entrambi i casi, la metafora della palla – dal polo persiano al tennis rinascimentale – suggerisce la medesima inquietante verità esistenziale: l’uomo è oggetto di forze che lo trascendono, sospeso tra casualità e necessità, tra azione e impotenza.

La forza di Khayyam sta nel rendere questa condizione concreta e sensoriale. La palla che rimbalza, percossa dal mazzuolo del Fato, non è concetto astratto: si percepisce il movimento, il suono del colpo, la tensione nel vuoto prima che ricada a terra. È la stessa esperienza del polo, vissuta tra cavallo e bastone, che diventa immagine universale della fragilità umana. Il poeta ci insegna a vedere nel gioco, nel gesto tecnico, nel movimento della palla, la saggezza nascosta dell’esistenza: ogni rimbalzo è prova, ogni deviazione è lezione, ogni caduta è opportunità di rialzarsi.

La metafora della palla, in Khayyam, non è fatalismo passivo. Al contrario, contiene la tensione tra rassegnazione e libertà: il rimbalzo suggerisce movimento, energia, possibilità. Anche se l’uomo è colpito da forze superiori, la traiettoria può essere modulata, l’atterraggio anticipato, il salto preparato. È un invito a leggere il destino non come catena immobile, ma come gioco in cui l’abilità e la prontezza possono trovare spazio, seppur limitato, per orientarsi.

In questa prospettiva, il polo persiano non è più semplice sport, ma metafora cosmica e morale. Il bastone che colpisce, il cavallo che corre, la palla che rimbalza: tutto diventa riflessione sulla vita, sul potere, sull’imprevedibilità degli eventi. Khayyam ci trasmette così una visione complessa: l’uomo è al contempo fragile e resiliente, vittima e protagonista, sospeso tra le forze invisibili del destino e la propria volontà di agire.

Il ponte tra Oriente e Occidente, tra Chaugan e Webster, è evidente: la palla rimbalzante diventa simbolo universale dell’umanità, mentre il gioco stesso – dall’Iran all’Europa rinascimentale – diventa linguaggio condiviso, metafora potente, specchio delle inquietudini e delle aspirazioni di tutti gli uomini. Non sorprende, dunque, che la metafora della palla abbia resistito al tempo e ai continenti, attraversando culture diverse senza perdere la sua densità simbolica.





Capitolo 9: La Duchessa di Amalfi e il destino dell’uomo-palla

Il polo persiano, il gioco delle corti moghul e le metafore di Khayyam trovano un curioso e intenso riflesso nella letteratura europea, e in particolare nel dramma di John Webster, La Duchessa di Amalfi. Qui, il concetto dell’uomo come palla percossa dal destino, così nitidamente espresso dai versi del poeta persiano, si trasforma in esperienza teatrale, psicologica e morale. Bosola, lo spietato ma finalmente redento agente del dramma, diventa la voce che riassume e restituisce al pubblico il senso tragico della condizione umana: siamo oggetti sospesi tra le forze superiori, rimbalzanti tra azioni altrui e scelte personali, tra destino e responsabilità.

Webster affida a Bosola la riflessione più intensa sul rapporto tra azione e sorte. Nel corso del dramma, le trame oscure della nobiltà e l’avidità dei potenti si abbattono come bastoni invisibili sulla vita dei personaggi, proprio come nel gioco del polo o nella quartina di Khayyam. La Duchessa e Antonio, pur mossi da volontà propria, subiscono eventi incontrollabili, intrecciati a segreti familiari, vendette e intrighi. Il loro amore segreto, perseguito con coraggio e intelligenza, è un tentativo di orientare la traiettoria della palla – della loro stessa esistenza – in uno spazio limitato tra leggi sociali oppressive e arbitrii del fato.

Nella resa di Giorgio Manganelli, Webster amplifica il senso di precarietà e tensione: «Noi siamo palle da tennis che le stelle lanciano, fanno rimbalzare da qualunque parte vogliano». La metafora della palla non è qui solo poetica: diventa simbolo concreto della fragilità dei personaggi, della loro vulnerabilità e, al tempo stesso, della forza morale necessaria per affrontarla. Ogni gesto, ogni decisione dei protagonisti, rimbalza con conseguenze che spesso superano la loro comprensione e volontà, costringendoli a confrontarsi con la dissonanza tra desiderio di autonomia e inevitabilità del destino.

La vicenda storica di Giovanna d’Aragona – la vera Duchessa di Amalfi – e del suo segreto matrimonio con Antonio Bologna conferisce al dramma una densità ulteriore. La realtà cronachistica, trasposta da Bandello e poi da Webster, offre l’elemento concreto su cui la metafora del destino trova corpo. Gli assassinii ordinati dai fratelli di Giovanna incarnano la violenza implacabile del Fato che colpisce la palla senza riguardo, mentre la resistenza e la dignità dei personaggi incarnano la tensione verso la libertà, l’abilità e la scelta consapevole.

Come nella quartina di Khayyam, l’azione umana è messa a confronto con la potenza di forze superiori: non solo eventi casuali, ma norme sociali, gerarchie di potere e leggi morali che regolano l’ordine del mondo. La Duchessa e Antonio diventano simboli universali di un’esistenza che cerca senso e controllo in un contesto dominato dalla contingenza, dall’inganno e dall’arbitrio. La palla rimbalzante non è più metafora solo di fragilità: diventa anche simbolo di resilienza e di dignità, perché, pur sotto la mazza del Fato, continua a muoversi, a resistere, a incarnare un’energia vitale.

Bosola, nella sua riflessione finale, pone un interrogativo che risuona come eco della gnostica consapevolezza di Khayyam: «Il mondo è tenebre: in quale ombra, quale pozzo infinito e oscuro vive l’umanità, femmina spaurita?» L’interrogativo non è solo retorico: è invito a riconoscere la condizione di sospensione, di rimbalzo continuo, di tensione tra volontà e destino. Ogni personaggio del dramma, come la palla del polo, percorre traiettorie imprevedibili, toccato da forze interne ed esterne, impegnato a trovare senso e dignità nell’attraversamento di un mondo ostile.

La connessione tra Oriente e Occidente è qui evidente: da Khayyam a Webster, dal Chaugan al tennis metaforico delle stelle, la figura dell’uomo-palla attraversa secoli e culture, incarnando una percezione universale della fragilità e della tensione umana. La tragedia della Duchessa di Amalfi non è quindi solo vicenda storica o letteraria, ma specchio del destino universale: l’uomo come palla che rimbalza tra circostanze, scelte e forze superiori, tra caduta e rialzarsi, tra paura e coraggio.

In questo intreccio tra storia, letteratura e metafora, il polo persiano si rivela molto più che un gioco aristocratico: diventa simbolo della condizione umana stessa, capacità di muoversi, di colpire, di orientare la traiettoria della propria esistenza pur sotto l’influenza di forze invisibili, e insieme metafora della bellezza e della tragedia del vivere.





Capitolo 10: Riflessione sul destino, tra gioco e metafora universale

Attraverso i secoli e i continenti, il polo ha svolto un ruolo ben più complesso di quello di semplice sport. Dalla Persia al mondo islamico, dalle corti mongole all’India moghul, dalla Cina e Giappone fino all’Europa medievale e rinascimentale, esso si è intrecciato con la cultura, la politica, la ritualità e la filosofia, diventando simbolo di potere, estetica, disciplina e riflessione esistenziale. Il filo rosso che lega tutte queste esperienze è la metafora della palla: oggetto rimbalzante, percossa da mani invisibili, soggetto e insieme oggetto di un destino che lo trascende.

In Khayyam, il rimbalzo della palla sotto la mazza del Fato diventa esperienza poetica e morale: l’uomo è fragile, imprevedibile, esposto agli eventi, eppure vivo, dinamico, protagonista della propria traiettoria. In Oriente, l’abilità del cavaliere, la grazia dei gesti, la precisione dei colpi non cancellano la forza del destino, ma vi dialogano, ne modulano gli effetti, ne misurano le possibilità. Il polo diventa così immagine concreta del rapporto tra libertà e necessità, tra volontà e contingenza, tra azione e caso.

L’Europa rinascimentale, prendendo in prestito questa metafora, la trasforma in esperienza teatrale e morale. Nei campi di Firenze, Venezia o Londra, la palla rimbalzante diventa simbolo di prestigio, di eleganza, di abilità cavalleresca, ma anche di precarietà esistenziale. In Webster, la metafora raggiunge la sua forma più intensa: Bosola vede l’uomo come palla lanciata dalle stelle, costretto a rimbalzare tra eventi incontrollabili e decisioni proprie, tra desideri e forze superiori, tra amore e morte. La tragedia della Duchessa di Amalfi esprime, in termini concreti, il medesimo principio che Khayyam aveva formulato in versi: il destino può colpire, deviare, far oscillare, ma l’essere umano conserva sempre una dimensione di resistenza, di scelta e di dignità.

Il polo diventa dunque linguaggio universale. Non è più solo passatempo aristocratico, esercizio militare o spettacolo estetico: è simbolo della condizione umana. Ogni rimbalzo della palla ricorda la caducità della vita, ma anche la possibilità di rialzarsi, di dirigere la traiettoria, di esprimere abilità e volontà. È immagine di resilienza e vulnerabilità insieme, metafora di equilibrio tra ordine e caos, tra destino e azione.

Questa riflessione si estende oltre la letteratura e la storia: ci invita a leggere ogni gesto, ogni scelta, ogni deviazione come parte di un gioco più ampio, in cui la consapevolezza della propria posizione, la misura dei movimenti e l’attenzione alla traiettoria diventano strumenti di sopravvivenza e di dignità. La metafora della palla attraversa continenti, secoli e culture, rivelando una saggezza universale: l’esistenza è gioco, equilibrio, movimento, tensione tra forze invisibili e volontà visibile.

In chiusura, il polo, da gioco dei cavalieri persiani a spettacolo rinascimentale, da addestramento militare a metafora filosofica, mostra la capacità dell’uomo di dialogare con il destino. L’uomo-palla, in tutte le sue declinazioni culturali, diventa immagine potente e universale: fragile e resiliente, sottoposto al caso eppure agente della propria traiettoria, sempre sospeso tra caduta e rialzarsi, tra paura e coraggio, tra impotenza e libertà.

Così, il polo persiano e la palla rimbalzante ci restituiscono la lezione più antica e profonda: vivere è partecipare a un gioco più grande, dove il controllo è parziale, ma la consapevolezza e l’abilità possono rendere significativa ogni traiettoria. La storia del gioco e della metafora ci invita a riflettere sul senso della nostra esistenza, a riconoscere il destino senza rinunciare alla libertà, a vedere nella fragilità la possibilità di grazia e nella casualità l’occasione per l’azione e la bellezza.




Scrivere senza fondamento


Prima non c’era un’idea. C’era un vuoto, e dentro il vuoto una vibrazione, una specie di rumore di fondo, come quando una stanza sembra silenziosa ma in realtà è piena di microsuoni: il frigorifero, l’acqua nei tubi, un motore lontano. La scrittura è cominciata così, come un disturbo impercettibile. Non come un progetto, non come una direzione. Piuttosto come un inciampo. Una parola chiamava l’altra senza saperlo, e ciò che ne usciva non era un discorso ma una frattura. Non una costruzione, ma una serie di scarti.

Solo dopo, molto dopo, mi sono accorto che ciò che chiamavo “mio stile” non era uno stile, ma un sintomo. E che quei vuoti, quelle ripetizioni, quelle fughe improvvise dal discorso, non erano soltanto scelte formali, ma reazioni. Reazioni a una pressione invisibile, a una fatica più grande di me, a una specie di cedimento dell’ossatura culturale dentro cui avevo imparato a pensare. Scrivevo come si respira quando l’aria è compromessa: a strappi, a colpi brevi, con paura.

Non so quando ho cominciato a capire che le angosce che mi attraversavano durante la stesura, le esitazioni, i ripensamenti, l’ossessione per le varianti, non appartenevano solo alla mia biografia, ma erano il riflesso di qualcosa di più vasto. Non erano solo mie. Venivano da lontano. Venivano da una cultura che aveva perso il proprio centro di gravità e continuava a muoversi come un corpo che non sa ancora di essere morto. Una cultura che accumula segni ma non riesce più ad abitarli. Che produce interpretazioni su interpretazioni, ma non riesce più a fidarsi di nessuna.

La mia scrittura è diventata allora una superficie di attrito. Un luogo in cui le contraddizioni non si risolvono, ma si urtano. È una scrittura fatta di aggiunte successive che non pacificano mai ciò che le ha precedute. Ogni frase sembra voler correggere la precedente e insieme tradirla. Ogni passaggio tenta una ricucitura che subito si riapre. Il testo avanza come una ferita che si cicatrizza male. Ci sono interruzioni che non servono a respirare, ma a spezzare. Ci sono ripetizioni che non chiariscono, ma assediano. Ci sono lacune che non sono dimenticanze, ma veri e propri buchi di senso.

Solo che questo non è più un fatto privato. Non riguarda più soltanto me come individuo che scrive. È diventato un indice. Un rivelatore. La prova che una certa forma di cultura non riesce più a nascondersi dietro i suoi veli, le sue buone maniere interpretative, la sua retorica della continuità. Non c’è più nessuna pietà, nessuna liturgia simbolica capace di ricomporre le crepe. È tutto esposto. Il corpo è scoperto. La ferita è visibile.

E qui avviene la rottura più grave, quella che non ha più nulla di estetico: ciò che emerge non è in continuità con la tradizione che lo ha prodotto. La interrompe. La spezza nel punto stesso in cui essa chiedeva ancora fiducia. La tradizione, per esistere, aveva bisogno che qualcuno le credesse. Che qualcuno potesse ancora stare dentro la sua radice senza provare vergogna o sospetto. Che qualcuno potesse intrattenere con essa un rapporto che non fosse solo critico, ma quasi religioso. Ma quel tempo è finito. E la mia scrittura, senza volerlo, lo denuncia.

Scrivo senza pazienza. Scrivo come se il tempo non fosse più disponibile. Come se ogni frase dovesse essere gettata prima che crolli il pavimento. Questa impazienza non è solo emotiva: è una vera e propria hybris interpretativa. Una tracotanza che pretende di intuire il tutto partendo da frammenti minimi, di costruire mappe con pochi resti, di spiegare un’origine senza poterne garantire il terreno. Mi basta un indizio, uno scarto, una dissonanza, e subito si mette in moto uno schema generale, una macchina interpretativa che vorrebbe spiegare tutto. La mia scrittura funziona così: prende un dettaglio e lo carica di un peso che nessun dettaglio potrebbe sostenere.

Eppure, più questa pretesa si allarga, più mostra il suo fallimento. Perché la smisuratezza dell’interpretazione mette a nudo l’impossibilità del fondamento. Non c’è più un suolo sicuro da cui partire. Non c’è più un’origine garantita. Ogni tentativo di risalire a un principio si perde in una catena di rinvii. Ogni costruzione poggia su un’altra costruzione che non regge. Ogni spiegazione chiede un’altra spiegazione. E così all’infinito, fino allo sfinimento.

È qui che la mia scrittura diventa una radiografia involontaria di una condizione più vasta. Non è soltanto la mia impossibilità a trovare un centro. È quella di una cultura intera che ha consumato i propri fondamenti e continua a parlare come se non fosse accaduto nulla. Che continua a produrre sistemi, ma non crede più in nessun sistema. Che continua a invocare la verità sapendo che la parola “verità” è diventata un residuo, un fantasma linguistico.

Il risultato è una sorta di oscillazione permanente. Tra il bisogno di credere e l’impossibilità di farlo. Tra il desiderio di radice e la consapevolezza che quella radice è marcia. Tra la nostalgia di una forma stabile e l’evidenza che ogni forma si sfalda appena la si tocca. La mia scrittura vive in questo battito. Non è mai del tutto nichilista, ma non riesce più a essere fiduciosa. Non è mai del tutto distruttiva, ma non riesce più a edificare davvero.

C’è un punto, però, in cui tutto questo smette di essere soltanto una diagnosi e diventa una specie di confessione. Perché io non subisco semplicemente questo stato di cose: lo desidero, in parte. C’è qualcosa di seducente nella rovina dei fondamenti. C’è un’ebbrezza nel sapere che nulla regge più. La vertigine di poter dire tutto senza essere obbligato a garantirlo. La libertà di non dover più rispondere a nessun centro. Ma questa libertà è ambigua. È una libertà che libera e insieme condanna. Perché se tutto è possibile, niente è necessario. E se niente è necessario, ogni gesto diventa, in fondo, superfluo.

Scrivere, allora, diventa un atto doppiamente contraddittorio. Scrivo per cercare un senso e insieme per smascherare l’illusione del senso. Scrivo per costruire e insieme per testimoniare l’impossibilità di costruire. Scrivo per legarmi a qualcosa e insieme per dimostrare che ogni legame è ormai precario. La pagina non è più un luogo di fondazione, ma un campo di forze instabili. Un territorio sismico.

Ci sono momenti in cui questa condizione si fa quasi insopportabile. La scrittura si inceppa. Si arrotola su sé stessa. Ripete le stesse ossessioni. Torna sugli stessi nodi. Non per chiarirli, ma per verificare che sono ancora lì. Come se avessi paura che, distogliendo lo sguardo, possano sparire. Ma non spariscono. Resistono. E io continuo a urtarli, a toccarli, a riaprirli.

È allora che mi rendo conto che ciò che davvero mi paralizza non è l’assenza di risposte, ma l’eccesso di domande. Non è il silenzio, ma il rumore. Non è il vuoto, ma il sovraccarico. Vivo dentro una cultura che produce interpretazioni come una fabbrica produce scarti. E io stesso sono parte di questa produzione. Il mio stesso gesto critico contribuisce all’ingorgo che denuncia. Non c’è fuori. Non c’è posizione privilegiata da cui osservare. Ogni tentativo di sottrarsi è già catturato.

Forse per questo la mia scrittura non cerca più una soluzione. Non cerca una sintesi. Non promette una via d’uscita. Si limita, se così si può dire, a tenere aperta la ferita. A non richiuderla troppo in fretta. A non fingere che la continuità non sia già spezzata. È un gesto minimale, forse disperato. Ma è l’unico che mi sembra ancora onesto: non ricomporre ciò che non può essere ricomposto.

E tuttavia, da qualche parte, in profondità, continua a resistere una specie di impulso originario. Qualcosa che non è del tutto distrutto. Un resto minimo di fiducia, di desiderio di senso, di attesa. Non so da dove venga. So soltanto che senza quel residuo non scriverei più. È da lì che nasce anche la contraddizione più dolorosa: so che non posso più credere davvero, eppure continuo a scrivere come se, forse, fosse ancora possibile.

La mia scrittura nasce da questa oscillazione incessante. Non è la celebrazione della fine, né la promessa di una rinascita. È il gesto di chi cammina su una soglia che non si lascia oltrepassare. Il gesto di chi sa che i fondamenti sono crollati, ma continua a misurare i detriti come se, da qualche parte, potesse ancora nascondersi una figura, un frammento intatto, una sopravvivenza.

E forse è proprio qui, in questo gesto che non risolve nulla ma non si arrende, che si origina ciò che chiamo ancora, ostinatamente, scrittura.