sabato 25 aprile 2026

Resistenza e memoria: Il contributo eroico di Rom e Sinti alla lotta contro il fascismo

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana è una pagina di storia troppo spesso dimenticata, ma che merita di essere raccontata e celebrata. Queste comunità, tradizionalmente marginalizzate e perseguitate, hanno contribuito in modo significativo alla lotta contro il nazifascismo durante la Seconda Guerra Mondiale, dimostrando un eroismo e una generosità straordinari. Tuttavia, questo capitolo della storia è stato spesso messo in ombra, sia per la politica dello Stato italiano dell'epoca che per il pregiudizio sistemico che ancora oggi affligge le popolazioni rom e sinti.

La Resistenza italiana fu un movimento variegato che coinvolse persone provenienti da ogni parte della società, da militari disertori a intellettuali, da contadini a operai. Tra questi, vi furono anche i rom e i sinti, che non solo subirono le atrocità del fascismo, ma furono anche attivamente coinvolti nel sabotaggio, nelle azioni di guerriglia e nel soccorso degli altri partigiani e degli ebrei. Questi gruppi, purtroppo, sono stati raramente celebrati nelle narrazioni ufficiali della Resistenza, spesso a causa delle politiche discriminatorie dello Stato italiano, che continuò a trattare i rom e i sinti come "indesiderabili" anche durante e dopo la fine della guerra.

Un esempio emblematico di come i rom e i sinti abbiano contribuito alla lotta di Liberazione è la formazione dei "Leoni di Breda Solini", una brigata partigiana composta da sinti italiani, che operò nelle regioni centrali e settentrionali del paese, in particolare tra le province di Mantova, Modena, Reggio Emilia e Cremona. Questa brigata si formò grazie alla fuga di molti sinti dal campo di concentramento di Prignano sulla Secchia (MO), dove erano detenuti dai fascisti, subito dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943. Nonostante l’assenza di una preparazione militare formale, i membri della brigata si distinsero per il coraggio e l'efficacia nelle azioni di sabotaggio, come la distruzione di ponti, la raccolta di armi e l’assalto ai convogli tedeschi. La loro lotta non si limitò alla semplice resistenza armata, ma fu anche un atto di sfida alle ingiustizie razziali e sociali che avevano affrontato tutta la loro vita.

I "Leoni di Breda Solini" utilizzavano un camion che, con una serie di modifiche ingegnose, diventò un veicolo per trasportare armi e munizioni, permettendo loro di compiere incursioni nei territori occupati dai nazisti. La loro abilità nel muoversi e nel restare anonimi nel territorio, ma anche nella costruzione di alleanze con i gruppi partigiani locali, li rese una forza rispettata. La figura di Giacomo "Gnugo" De Bar, uno dei leader dei Leoni, divenne simbolo della determinazione di questi uomini e della loro lotta contro l'oppressione.

Purtroppo, molti altri partigiani rom e sinti sono caduti nell’oblio. Tra loro, Giuseppe "Tarzan" Catter, ucciso dai fascisti nell’area dell'Imperiese, è uno dei nomi più significativi che ancora oggi merita di essere ricordato. Altri, come Walter "Vampa" Catter e Lino "Ercole" Festini, furono fucilati il 11 novembre 1944 a Vicenza per la loro partecipazione alle azioni di resistenza. Questi uomini, insieme a molti altri, furono decorati al valore per il loro coraggio e il loro impegno a favore della libertà e della giustizia, ma le loro storie sono state spesso ignorate dai racconti ufficiali della guerra di Liberazione.

La resistenza dei rom e dei sinti non si limitò al solo combattimento armato. Molti membri di queste comunità si trovarono coinvolti in azioni di supporto, come l’aiuto a prigionieri ebrei, la protezione delle famiglie più vulnerabili, e la creazione di reti di rifugiati per nascondere gli oppositori del regime fascista. La loro determinazione nel contribuire alla liberazione d’Italia fu un atto di eroismo che merita finalmente di essere riconosciuto nella memoria storica del nostro paese.

Nonostante il loro contributo alla Resistenza, le comunità rom e sinti furono anche vittime di una sistematica persecuzione durante la Seconda Guerra Mondiale. Molti furono deportati nei campi di concentramento, dove subirono torture, esperimenti medici e la morte. Il genocidio a loro destinato, conosciuto come "Porrajmos" (in lingua romani, "grande divoramento") o "Samudaripen" ("tutti uccisi"), è una parte della storia europea che ha ricevuto poca attenzione, ma che rappresenta uno degli aspetti più crudeli della persecuzione razziale messa in atto dal regime nazista.

Il razzismo fascista e nazista ha considerato i rom e i sinti non solo come minoranze razziali da eliminare, ma come una minaccia da estirpare per “purificare” la razza. La violenza e la brutalità del regime si riflettevano anche nei trattamenti che queste persone ricevevano nelle deportazioni e nelle uccisioni di massa, in un contesto di sistematica esclusione sociale e discriminazione.

Nonostante il loro fondamentale contributo alla lotta contro il nazifascismo, la memoria dei rom e dei sinti nella Resistenza è stata a lungo marginalizzata. L’indifferenza e il pregiudizio verso queste comunità hanno impedito che la loro partecipazione venisse adeguatamente riconosciuta. Solo negli ultimi decenni si sono registrati dei tentativi di recuperare queste storie, sia attraverso la pubblicazione di libri e articoli, che mediante la creazione di mostre e documentari. A queste iniziative si sono aggiunti importanti momenti di riflessione come la Giornata della Memoria, che ha cominciato a ricordare il genocidio dei rom e sinti, accanto a quello degli ebrei.

Negli ultimi anni, anche grazie all'impegno di attivisti, storici e membri delle stesse comunità rom e sinti, sono emerse nuove testimonianze e ricerche che stanno lentamente restituendo loro il giusto riconoscimento. Progetti come il Museo Nazionale della Resistenza e iniziative locali stanno facendo luce su queste figure dimenticate, cercando di costruire una memoria collettiva più inclusiva e giusta. La storia dei rom e sinti nella Resistenza non è più relegata nell’ombra, ma sta prendendo piede come un capitolo fondamentale nella narrazione della liberazione italiana.

È ora che il contributo di queste persone venga riconosciuto pienamente. Non solo come vittime del razzismo e della persecuzione, ma anche come eroi che hanno lottato con coraggio e determinazione per la libertà. La storia delle comunità rom e sinti nella Resistenza è una storia di resistenza non solo contro i fascisti, ma contro le ingiustizie di ogni tipo, e di un impegno che ha contribuito alla costruzione di una società più giusta e libera.

E ci sono ancora molti aspetti che vale la pena esplorare riguardo al contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza, e alla loro memoria storica, che spesso rimane in ombra. Ecco alcuni punti che potrebbero essere aggiunti per ampliare ulteriormente la narrazione:

Alcune delle storie più toccanti e significative di partecipazione delle comunità rom e sinti alla Resistenza provengono dalle testimonianze dirette di chi visse quei momenti. Purtroppo, molte di queste voci si sono perse con il passare del tempo, ma alcune sono state raccolte e continuano a essere diffuse grazie agli sforzi di storici e attivisti. Alcune di queste testimonianze raccontano di azioni di sabotaggio, ma anche di gesti quotidiani di solidarietà, come l’offrire rifugio a partigiani in fuga o la protezione di chi, per motivi politici o religiosi, era a rischio di arresto. Queste testimonianze sono fondamentali non solo per onorare il coraggio di queste persone, ma anche per contrastare l’oblio a cui sono state condannate.

Un altro aspetto che potrebbe essere approfondito è l’impatto delle politiche post-belliche sulla memoria delle comunità rom e sinti. Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il governo italiano, come molti altri in Europa, non ha fatto molto per riconoscere i crimini perpetrati contro le popolazioni rom e sinti. La loro lotta per il riconoscimento dei diritti civili e il recupero delle memorie storiche è stata ostacolata da un pregiudizio istituzionale che ha perpetuato l’idea di queste comunità come “straniere” e non integrate nella società. Questo ha avuto conseguenze dirette sulla loro inclusione nei racconti ufficiali della Resistenza e, più in generale, sulla loro visibilità all’interno della società italiana.

È importante sottolineare che il contributo dei rom e dei sinti alla Resistenza non si è limitato alle brigate partigiane o alle azioni di combattimento diretto. Molti di loro, infatti, hanno contribuito alla “Resistenza diffusa”, quella fatta di atti quotidiani di opposizione al regime fascista. Si trattava di atti di disobbedienza civile, di rifiuto di piegarsi alla violenza del regime, di difesa della propria identità culturale in un contesto che cercava di omologare e cancellare qualsiasi forma di diversità. Il rifiuto delle politiche di razza e l'affermazione di un’identità libera e autonoma, spesso associata all'intransigenza e alla ribellione, è una forma di resistenza che merita di essere esplorata in modo più profondo.

Un aspetto che potrebbe essere ulteriormente approfondito riguarda il ruolo delle donne rom e sinti durante la Resistenza. Come in molte altre situazioni, il contributo femminile è stato spesso trascurato, ma numerose donne delle comunità rom e sinti hanno avuto un ruolo fondamentale nelle reti di resistenza, sia in azioni dirette di sabotaggio che nel supporto logistico e nell’assistenza ai partigiani. Alcune di queste donne si sono distinte anche per il loro coraggio nel proteggere le famiglie dai rastrellamenti fascisti e nazisti, mettendo a rischio la propria vita e quella dei propri cari.

Un altro aspetto importante da aggiungere riguarda il riconoscimento ufficiale di questa parte di storia. La Legge 211 del 2000, che ha istituito la Giornata della Memoria in Italia, ha rappresentato un primo passo importante nel riconoscere anche le vittime rom e sinti del nazismo e del fascismo. Tuttavia, c'è ancora molto da fare per includere adeguatamente il loro contributo alla Resistenza nei curriculum scolastici, nei musei e nelle commemorazioni ufficiali. È fondamentale che le nuove generazioni siano consapevoli del ruolo che queste comunità hanno avuto nella lotta per la libertà e che imparino a riconoscere il valore della loro partecipazione.

Uno degli obiettivi più importanti nel raccontare questa storia è creare una memoria condivisa, che vada oltre le differenze culturali e sociali, per costruire una narrazione inclusiva che riconosca le sofferenze e i sacrifici di tutti coloro che hanno combattuto per la libertà e contro le ingiustizie. In un mondo che spesso si trova diviso da conflitti razziali e culturali, il racconto delle storie di resistenza dei rom e dei sinti è una lezione di solidarietà, di coraggio e di speranza, che può contribuire a un futuro più giusto e rispettoso della diversità.

Il racconto della Resistenza rom e sinti non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di rivendicazione di una memoria collettiva più equa. Il loro contributo alla lotta contro il fascismo e il nazismo è parte integrante della storia della nostra libertà. Riconoscere e celebrare questo contributo non solo restituisce dignità a queste comunità, ma arricchisce anche la comprensione della nostra Resistenza, rendendola più completa, più giusta e più universale.

Un altro aspetto che potrebbe arricchire ulteriormente il racconto del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza riguarda il legame tra la memoria storica e le politiche contemporanee di inclusione e di lotta contro la discriminazione. Ecco alcuni punti da considerare:

Oggi, la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza ha acquisito una nuova centralità, in parte grazie agli sforzi di attivisti, storici e membri delle stesse comunità. Tuttavia, la strada per un riconoscimento ufficiale è ancora lunga. Le politiche attuali di inclusione, che mirano a garantire pari diritti e opportunità alle minoranze, devono essere accompagnate da un impegno concreto nella valorizzazione della memoria storica. La lotta contro il razzismo e le discriminazioni, che ancora oggi affliggono i rom e i sinti in molte società europee, non può prescindere dal riconoscimento delle loro radici storiche e dal rendere giustizia ai loro sacrifici passati.

In questo contesto, il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza può essere visto come un simbolo di resistenza non solo al nazifascismo, ma anche all’intolleranza e alla marginalizzazione. Questa riscoperta storica, infatti, diventa un punto di partenza per una riflessione critica sulle politiche di inclusione sociale in atto oggi, e per un impegno costante nella costruzione di una società che accolga la diversità come valore, piuttosto che come minaccia.

In molte occasioni, le politiche razziste italiane ed europee del passato e del presente continuano a emarginare le comunità rom e sinti. La loro visibilità, in particolare nella storia della Resistenza, è stata spesso omessa o distorta. Questo è stato il risultato di politiche sistemiche che trattavano le comunità rom e sinti come "non italiane" o "estranee", anche se molte di esse avevano radici secolari in Italia e in altre parti d’Europa. La discriminazione razziale e sociale continua a essere una realtà per molte di queste persone, che si trovano ad affrontare una doppia discriminazione: quella legata alla loro identità etnica e quella legata alla povertà.

Riconoscere e celebrare il loro contributo storico alla lotta per la libertà e contro il fascismo è un passo essenziale per combattere il razzismo istituzionale che ancora persiste. Solo attraverso un impegno collettivo per riparare le ingiustizie storiche e per restituire dignità e visibilità a queste comunità si potrà costruire una società veramente inclusiva, in cui nessuno venga emarginato o dimenticato.

Uno degli strumenti più potenti per combattere l’oblio e la discriminazione è l'educazione. Integrare il contributo delle comunità rom e sinti nella Resistenza nei programmi scolastici e nelle attività educative è essenziale per costruire una memoria condivisa che non solo recuperi le storie di chi ha combattuto per la libertà, ma che sia anche un monito per il futuro. La scuola, infatti, è il luogo in cui si formano le coscienze e dove si possono gettare le basi per una cultura del rispetto e della solidarietà. Insegnare ai giovani la storia del Porrajmos, la resistenza dei rom e dei sinti, e il loro impegno nella lotta contro il nazifascismo è un modo per sensibilizzare le future generazioni a non ripetere gli errori del passato.

A tale scopo, diversi musei, archivi e centri di ricerca in Italia e in Europa hanno avviato progetti didattici che si concentrano sulla storia dei rom e dei sinti, cercando di rendere giustizia al loro ruolo cruciale nella Resistenza. In molti casi, queste iniziative sono affiancate da testimonianze orali e da incontri diretti con le persone che appartengono ancora a queste comunità, rendendo la storia più tangibile e personale.

Anche dopo la fine della guerra, la verità sui crimini contro i rom e i sinti, e più in generale sui crimini di guerra compiuti dai nazifascisti, è stata a lungo negata o minimizzata. L’inchiesta ufficiale sul genocidio dei rom è arrivata in ritardo, e non ha avuto lo stesso impatto della memoria degli ebrei vittime del nazismo. Tuttavia, negli ultimi anni, c'è stato un crescente interesse da parte delle istituzioni e delle organizzazioni internazionali nel perseguire la verità e la giustizia per le vittime rom e sinti. L'adozione di risoluzioni e dichiarazioni da parte dell'Unione Europea, dei governi nazionali e di organizzazioni per i diritti umani è un passo importante, ma ancora non basta. È fondamentale che la giustizia post-bellica riguardi anche i crimini commessi contro le comunità rom e sinti, attraverso risarcimenti, scuse ufficiali e il riconoscimento della loro sofferenza storica.

La commemorazione del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza deve passare attraverso momenti significativi di riflessione collettiva. Le celebrazioni del 25 aprile, la Giornata della Memoria, e altre occasioni di riflessione sulla storia del fascismo e del nazismo devono essere anche un momento di riconoscimento per chi ha lottato non solo contro l’occupazione tedesca, ma contro ogni forma di oppressione. È importante che le generazioni future siano educate a riconoscere la storia di tutte le persone che hanno sacrificato la propria vita per la libertà, indipendentemente dalla loro origine etnica o sociale.

Il contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza italiana non è solo una questione di giustizia storica, ma anche di lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale. È fondamentale che queste storie vengano raccontate, celebrate e condivise, per rendere giustizia a chi ha lottato per la libertà, ma anche per ispirare le nuove generazioni a continuare a combattere per una società più giusta e inclusiva.

E ci sono ancora altre prospettive che potrebbero arricchire ulteriormente il racconto e l'analisi del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Ecco alcuni ulteriori aspetti che potrebbero essere esplorati:

La Resistenza rom e sinti non può essere separata dal più ampio contesto della memoria del Porrajmos, ovvero il genocidio che ha colpito queste comunità durante l'occupazione nazista. Il termine “Porrajmos” significa “devastazione” in romani e descrive l'annientamento sistematico a cui i rom e i sinti furono sottoposti dai nazisti. Tuttavia, molte delle storie legate alla Resistenza non sono state incluse nei racconti ufficiali del genocidio, in parte perché la lotta dei rom e dei sinti è stata marginalizzata.

Affermare con forza che le comunità rom e sinti non furono solo vittime del nazismo ma anche attori principali della Resistenza implica una rilettura critica della memoria del Porrajmos, un recupero della visibilità di chi, pur affrontando la persecuzione, decise di non arrendersi e di combattere. La connessione tra la memoria del genocidio e quella della lotta partigiana può fornire una visione complessa ma necessaria di una resistenza che si sviluppa su più fronti: quello fisico e quello culturale, in cui le tradizioni e l'identità rom e sinti hanno continuato a resistere non solo attraverso la lotta armata, ma anche attraverso la preservazione della propria storia e lingua.

Non solo in Italia, ma in molte altre nazioni europee le comunità rom e sinti giocarono un ruolo significativo nella Resistenza. In Francia, ad esempio, alcuni gruppi rom e sinti si unironoin alle forze di liberazione, impegnandosi in attività di sabotaggio, assistenza ai rifugiati e ai combattenti della Resistenza. In paesi come la Germania, l'Ungheria e la Polonia, i rom furono anch'essi attivi nel resistere all'occupazione nazista e nel combattere contro il regime. Un'analisi comparata tra i diversi paesi europei potrebbe rendere ancora più evidente il ruolo fondamentale che queste comunità ebbero nella lotta per la libertà. La loro partecipazione si inserisce in un contesto europeo più ampio, dove le popolazioni emarginate furono spesso le prime a mobilitarsi contro la violenza fascista.

Oltre alla Resistenza armata, va sottolineata anche la dimensione della resistenza civile che le comunità rom e sinti continuarono a portare avanti nel dopoguerra, spesso in contesti di povertà estrema, isolamento e discriminazione. Mentre il paese si riorganizzava dopo la guerra, le persone rom e sinti dovettero affrontare non solo la persecuzione fascista, ma anche un'ulteriore marginalizzazione da parte della società italiana e delle istituzioni. In questo senso, la resistenza non si limitò al periodo bellico, ma si estese anche agli anni successivi, in cui le comunità si trovarono a lottare per la sopravvivenza, per i propri diritti e per il riconoscimento della propria dignità. La lotta per la giustizia sociale, per il lavoro, per la casa e per il riconoscimento dei diritti civili delle comunità rom e sinti può essere vista come una continuità della Resistenza, in cui le persone non hanno mai smesso di combattere per la propria libertà e per l'uguaglianza.

Un altro aspetto importante da esplorare riguarda le sfide odierne nella lotta contro la distorsione della memoria storica. Il negazionismo, che cerca di minimizzare o negare la portata della persecuzione e del genocidio dei rom e sinti, continua a essere una minaccia. La ricerca di giustizia storica non può fermarsi al recupero delle storie, ma deve continuare con un costante impegno contro chi cerca di riscrivere la storia in modo da cancellare il contributo delle comunità rom e sinti. Il negazionismo si manifesta in vari modi, dalle dichiarazioni pubbliche di politici e leader di movimenti di estrema destra, fino alla rappresentazione stereotipata delle comunità rom e sinti nei media. La resistenza al negazionismo è oggi una delle battaglie principali per le nuove generazioni, che devono confrontarsi con la sfida di preservare la verità storica e combattere contro ogni tentativo di revisionismo.

Le giovani generazioni rom e sinti giocano un ruolo cruciale nel recupero della memoria storica e nella sua diffusione. Le nuove generazioni, spesso più consapevoli e coinvolte nei movimenti per i diritti civili e per la giustizia sociale, hanno il compito di trasmettere e mantenere viva la memoria del passato, ma anche di affrontare le sfide moderne in modo attivo. Molti giovani rom e sinti si impegnano oggi in progetti educativi, artistici e culturali per preservare la loro identità e per fare in modo che la Resistenza e la storia della loro comunità siano conosciute e riconosciute. Questi giovani non solo si ispirano alla memoria storica, ma anche alla speranza di un futuro in cui la discriminazione e la marginalizzazione siano definitivamente superate.

Il ruolo della cultura e dell’arte è fondamentale per mantenere viva la memoria del contributo delle comunità rom e sinti alla Resistenza. Molti artisti rom e sinti, così come non-rom, si sono impegnati per raccontare queste storie attraverso film, documentari, musica, letteratura e altre forme di espressione culturale. L’arte diventa uno strumento potente per sensibilizzare le persone e per combattere l’oblio. Attraverso il linguaggio universale dell’arte, si può raccontare una storia di coraggio, resistenza e speranza che non solo riguarda il passato, ma che continua a ispirare e a impegnare tutti coloro che credono nella libertà e nella giustizia.

L'approfondimento della memoria delle comunità rom e sinti nella Resistenza, sia attraverso il recupero delle storie individuali che l’analisi delle dinamiche sociali e politiche del periodo, arricchisce la comprensione di una parte fondamentale della storia europea. Oggi, più che mai, è necessario dare voce a queste storie, rendere visibile la loro resistenza e riaffermare l’importanza della memoria come strumento di lotta contro l’intolleranza, il razzismo e l’ingiustizia. Solamente attraverso una comprensione profonda di questa memoria collettiva si potrà costruire una società più giusta e inclusiva.

Oggi, quando parliamo della Resistenza italiana, è essenziale includere anche il coraggio di queste comunità, affinché il loro contributo non venga mai più dimenticato e affinché le future generazioni possano conoscere la vera portata di questa lotta di Liberazione.

domenica 24 agosto 2025

Il problema dell’empatia di Edith Stein


C’è un’aura di intensità nella copertina di Il problema dell’empatia di Edith Stein: lo sfondo azzurro, tranquillo e sobrio, contrasta con il bianco e nero della fotografia centrale, quasi a suggerire la tensione tra ciò che appare e ciò che si nasconde. L’immagine della filosofa è di una semplicità disarmante, eppure lo sguardo interrogativo, il volto appoggiato al pugno in un gesto pensoso, parla di una mente in moto perpetuo, di una donna che non si accontenta di guardare il mondo, ma vuole penetrarlo fino alle sue fondamenta.

Il libro, edito da Studium e curato da Elio Costantini ed Erika Schulze Costantini, con una preziosa prefazione di Angela Ales Bello, è un’opera che si colloca al crocevia tra filosofia, fenomenologia e spiritualità. Non è un testo che si lascia addomesticare facilmente: le sue pagine chiedono al lettore non solo attenzione, ma anche partecipazione. È, in fondo, una riflessione sulla natura del vivere con gli altri, ma questa riflessione si innesta in un panorama concettuale tanto rigoroso quanto profondo.

Stein, che fu allieva del grande Edmund Husserl, porta avanti il pensiero fenomenologico spingendolo in territori inaspettati. L’empatia, per lei, non è semplicemente un sentimento o una capacità psicologica, ma un fenomeno complesso che sfugge a ogni semplificazione. È il ponte invisibile che ci permette di entrare in contatto con l’esperienza dell’altro senza annullare la sua alterità. È, in altre parole, un atto di apertura radicale, che ci chiama a uscire da noi stessi per accogliere l’altrui vissuto.

Nelle sue pagine, Stein scompone il concetto di empatia con precisione analitica, svelandone i diversi livelli: dalla percezione immediata delle emozioni altrui, fino alla comprensione più profonda del loro mondo interiore. Ma ciò che rende la sua analisi unica è la capacità di coniugare il rigore accademico con una sensibilità umana che emerge quasi di nascosto, tra le righe. Non si ha mai l’impressione di leggere un manuale freddo e distaccato: ogni concetto è impregnato di un senso del vissuto, di un’esperienza che Stein stessa ha attraversato e meditato.

La prefazione di Angela Ales Bello è un vero gioiello. Non solo introduce il lettore al contesto storico e filosofico dell’opera, ma mette in luce la rilevanza attuale del pensiero di Stein. In un mondo spesso frammentato, in cui l’individualismo sembra prevalere su ogni altra forma di relazione, l’empatia steiniana si presenta come un antidoto. Non una risposta semplice, ma una strada faticosa, che richiede coraggio e vulnerabilità.

Le pagine di Il problema dell’empatia si leggono come un invito a ripensare la nostra relazione con gli altri. Cosa significa davvero comprendere qualcuno? Possiamo mai dire di aver davvero condiviso il dolore, la gioia, l’esistenza di un altro essere umano? Stein non offre risposte definitive, ma illumina le domande con una luce nuova, che sfida e al tempo stesso consola.

È impossibile non riflettere anche sulla vita dell’autrice mentre si legge questo libro. Edith Stein non era solo una filosofa, ma anche una donna che ha attraversato le turbolenze del Novecento con una straordinaria coerenza interiore. Ebrea convertita al cattolicesimo, monaca carmelitana, martire ad Auschwitz: la sua biografia stessa è un esempio di empatia vissuta fino alle estreme conseguenze. E questa tensione verso l’altro, questa apertura al dolore e alla gioia altrui, pervade ogni pagina del suo scritto.

Chi prende in mano questo libro si troverà davanti a una sfida. Non è un testo per chi cerca risposte facili o consolazioni immediate. Ma per chi è disposto a immergersi in una riflessione profonda e trasformativa, Il problema dell’empatia può diventare una guida, un compagno di viaggio. È un libro che lascia il segno, non solo sulla mente, ma anche sul cuore.

sabato 23 agosto 2025

Esordire in letteratura: dai guardiani del canone all'anarchia digitale

Il paradosso dell'esistenza letteraria

"Ciò che nessuno sa quasi non esiste" (Nam quod nemo novit paene non fit), scrive Apuleio nelle Metamorfosi (X,3), condensando in una formula lapidaria uno dei paradossi più inquietanti della condizione culturale. È in quel quasi (paene) che si nasconde l'intero problema dell'esistenza letteraria: tra l'essere materiale di un libro e il suo essere culturale si apre un abisso che può essere colmato soltanto dall'incontro con la coscienza dei lettori. Un'opera può esistere fisicamente – stampata, rilegata, distribuita – ma rimanere culturalmente inesistente, sospesa in un limbo di potenzialità non realizzate.

Questa riflessione di Apuleio, nata in tutt'altro contesto, acquisisce una pregnanza particolare quando viene applicata al mondo contemporaneo dei libri. La letteratura vive di questo paradosso fondamentale: ha bisogno di essere conosciuta per esistere, ma per essere conosciuta ha bisogno di mediatori che la rendano visibile. Sono questi mediatori – critici, giornalisti, presentatori, influencer – a determinare il destino di un'opera, trasformandola da oggetto inerte a presenza viva nel panorama culturale.

Per comprendere la portata della trasformazione contemporanea, è necessario risalire ai meccanismi che regolavano la conoscenza letteraria nella prima metà del Novecento. Quando nel 1929 Alberto Moravia pubblicò "Gli indifferenti" – un romanzo destinato a diventare un classico della letteratura italiana –, l'ecosistema culturale funzionava secondo regole molto diverse da quelle attuali.

Il giovane Moravia, appena ventunenne, dovette ricorrere al finanziamento paterno per pubblicare il suo romanzo presso la piccola casa editrice milanese Alpes. L'opera esisteva materialmente, ma la sua esistenza culturale dipendeva quasi esclusivamente da un unico canale: l'elzeviro dei quotidiani. Questo spazio sacro – due colonne in terza pagina, rigorosamente a sinistra – rappresentava il principale, se non l'unico, meccanismo di legittimazione letteraria dell'epoca.

L'elzeviro incarnava un sistema aristocratico di mediazione culturale. Pochi critici autorevoli, depositari di un sapere specialistico e di un gusto raffinato, fungevano da guardiani del tempio letterario. Le loro recensioni avevano il potere di trasformare un libro da oggetto invenduto a fenomeno culturale. Era un sistema elitario ma coerente, fondato su criteri estetici presumibilmente elevati e su una concezione della letteratura come arte autonoma, indipendente dalle logiche di mercato.

Questo meccanismo di selezione e promozione culturale mantenne la sua egemonia per decenni, accompagnato soltanto dall'istituzione dei premi letterari, che tuttavia rappresentavano momenti eccezionali più che prassi quotidiana. La critica militante dei giornali costituiva l'ossatura portante del sistema culturale italiano, determinando non solo il successo o l'insuccesso delle singole opere, ma influenzando profondamente anche la produzione letteraria stessa.

La svolta arrivò negli anni Settanta del secolo scorso, in una domenica qualunque che avrebbe cambiato per sempre il rapporto tra letteratura e pubblico. Pippo Baudo, durante la sua trasmissione di intrattenimento domenicale, ebbe l'intuizione di presentare alcuni libri al suo vasto pubblico televisivo. Quella che poteva sembrare una scelta casuale si rivelò invece l'inizio di una trasformazione epocale.

La televisione portava con sé una logica completamente diversa da quella dell'elzeviro. Se il critico letterario si rivolgeva a un pubblico colto e specializzato, il presentatore televisivo doveva conquistare l'attenzione di una massa eterogenea, con livelli di istruzione e interessi molto diversificati. Il libro doveva adattarsi ai tempi televisivi, alle dinamiche dell'intervista, alla necessità di essere comunicato in pochi minuti attraverso un linguaggio accessibile.

Maurizio Costanzo consolidò questa tendenza, creando un format che sarebbe diventato il modello per le generazioni successive. La televisione non si limitava a recensire i libri: li trasformava in eventi mediatici, li inseriva nel flusso dell'intrattenimento, li rendeva parte del discorso pubblico quotidiano. Nasceva così una figura destinata a diventare sempre più centrale nel panorama culturale italiano: l'intellettuale televisivo, di cui Vittorio Sgarbi rappresenta forse l'esempio più estremo e paradigmatico.

Questa trasformazione comportò conseguenze profonde e contraddittorie. Da un lato, la democratizzazione dell'accesso alla cultura: milioni di telespettatori entravano in contatto con libri che altrimenti non avrebbero mai conosciuto. Dall'altro, l'asservimento della letteratura alle logiche dello spettacolo: l'opera doveva essere "televisiva", il suo autore doveva saper intrattenere, la complessità doveva essere ridotta a formule accattivanti.

Con il consolidarsi della televisione come medium culturale dominante, si assistette a una trasformazione qualitativa dell'offerta letteraria. Il masscult, per usare la terminologia di Dwight Macdonald, non si limitava più a consumare passivamente i prodotti dell'alta cultura, ma iniziava a determinarne attivamente le caratteristiche. Gli scrittori, consapevoli delle nuove dinamiche di promozione, cominciarono ad adattare il loro stile e i loro contenuti alle esigenze del nuovo medium.

Questo fenomeno si manifestò in diversi modi: la preferenza per narrazioni lineari e immediate, l'abbandono della sperimentazione formale più radicale, la ricerca di temi e situazioni capaci di generare dibattito televisivo. Non si trattava necessariamente di un abbassamento qualitativo tout court, ma certamente di una standardizzazione che privilegiava la comunicabilità immediata rispetto alla complessità espressiva.

L'editoria stessa si adeguò a queste nuove logiche. Le case editrici iniziarono a valutare i manoscritti non solo in base ai loro meriti letterari, ma anche alla loro "televisabilità". Nasceva la figura dell'ufficio stampa specializzato, si moltiplicavano le presentazioni pubbliche, si sviluppavano strategie di marketing sempre più sofisticate.

Parallelamente, si assistette alla moltiplicazione dei programmi dedicati ai libri. Dopo i pionieri degli anni Settanta, la televisione italiana si popolò di trasmissioni specializzate, da "Che tempo che fa" ai numerosi contenitori culturali che affollano il palinsesto. Tuttavia, molti di questi programmi finirono per trasformarsi in vetrine promozionali, perdendo la funzione critica che aveva caratterizzato l'elzeviro tradizionale.

L'avvento di Internet ha introdotto nel panorama culturale un elemento di apparente anarchia che sembrava promettere una liberazione dai vincoli dei media tradizionali. La rete offriva agli scrittori esordienti possibilità inedite: blog letterari, piattaforme di self-publishing, social network dedicati ai lettori, forum di discussione. Per la prima volta nella storia, un autore poteva teoricamente raggiungere il suo pubblico senza passare attraverso i filtri tradizionali dell'editoria e della critica.

Questa democratizzazione apparente nascondeva però nuove forme di mediazione, spesso più sottili e pervasive di quelle precedenti. Gli algoritmi dei motori di ricerca e dei social network iniziarono a determinare la visibilità dei contenuti secondo logiche opache e mutevoli. Nasceva la figura dell'influencer letterario, del bookblogger, del booktuber: nuovi mediatori culturali che operavano secondo parametri diversi da quelli della critica tradizionale.

Il fenomeno è particolarmente evidente su piattaforme come Instagram o TikTok, dove la letteratura deve adattarsi ai linguaggi visuali e alla brevità dei contenuti. I libri vengono promossi attraverso immagini accattivanti, citazioni ad effetto, recensioni di pochi secondi. Si sviluppa un nuovo ecosistema culturale che privilegia l'immediatezza e l'impatto emotivo rispetto alla riflessione critica approfondita.

Tuttavia, Internet mantiene anche spazi di resistenza e di approfondimento. Esistono blog e riviste online che continuano la tradizione dell'analisi critica rigorosa, comunità di lettori che discutono con competenza e passione, piattaforme che permettono la scoperta di autori e opere altrimenti destinate all'invisibilità.

L'attuale panorama culturale si caratterizza per la convivenza di sistemi di mediazione diversi e spesso contraddittori. L'elzeviro tradizionale sopravvive, seppur indebolito, accanto alla televisione commerciale e alla galassia digitale. Questa moltiplicazione dei canali di promozione culturale crea opportunità inedite per gli scrittori esordienti, ma genera anche una confusione che rende più difficile orientarsi nel mare magnum dell'offerta letteraria.

Il paradosso di Apuleio rimane attuale: un libro continua a "quasi non esistere" finché non viene intercettato dai meccanismi di visibilità contemporanei. Ma questi meccanismi sono diventati così numerosi e frammentati che il successo letterario sembra sempre più aleatorio, dipendente da fattori che spesso poco hanno a che fare con la qualità intrinseca dell'opera.

In questo contesto, il ruolo della critica specializzata acquisisce una nuova importanza. Non più unico guardiano del canone, il critico letterario può oggi fungere da orientamento in un panorama sempre più caotico, aiutando i lettori a distinguere tra la produzione di qualità e quella puramente commerciale.

La sfida per il futuro consiste nel riuscire a coniugare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie con la necessità di mantenere criteri qualitativi elevati. L'esordio letterario nell'era digitale richiede agli scrittori una consapevolezza nuova: devono imparare a navigare in un ecosistema mediale complesso senza perdere di vista l'autonomia e l'originalità della propria voce.

L'anarchia digitale, pur con tutti i suoi limiti, offre almeno una possibilità che i sistemi precedenti non garantivano: quella di sottrarsi ai meccanismi di controllo centralizzati e di cercare strade alternative per far esistere la propria opera nel mondo. In questo senso, Internet rappresenta davvero una speranza per tutti quei libri che altrimenti rischierebbero di rimanere intrappolati nel limbo dell'inesistenza culturale, vittime del paradosso apuleiano che continua a governare il destino della letteratura contemporanea.

Appropriazione, plagio e sperimentazione: Joyce, Burroughs e la provocazione di Lemaire


L’affermazione di Gérard-Georges Lemaire secondo cui William S. Burroughs e James Joyce sarebbero tra gli autori moderni più inclini al plagio è di per sé provocatoria, e come tale deve essere letta nel contesto della teoria letteraria e della critica radicale. Lemaire non intende avanzare un’accusa legale: il plagio qui non è sinonimo di illecito, ma di pratica di riuso radicale del testo altrui, tecnica che diventa forma di creazione autonoma. Questa affermazione, in apparenza scandalosa, pone una domanda centrale sulla modernità: che valore ha l’originalità se l’opera d’arte si nutre costantemente di ciò che già esiste? E cosa significa essere autore in un contesto dove la scrittura stessa è frammentaria, stratificata o casualmente combinata?

In entrambe le poetiche, appropriarsi di materiali preesistenti significa interrogare il concetto stesso di autorialità e la struttura della scrittura. Nel caso di Joyce, il riuso è cosciente, metodico, stratificato; nel caso di Burroughs, esso è radicale, anarchico, spesso casuale. Entrambi però, attraverso approcci diversi, spingono i confini della letteratura moderna, ridefinendo il rapporto tra autore, testo e lettore. L’obiettivo di questo saggio è esplorare come Joyce e Burroughs abbiano operato questa rivoluzione, analizzando il concetto di plagio e appropriazione, l’uso creativo di testi preesistenti e il quadro interpretativo proposto da Lemaire.

Il termine “plagio” evoca oggi una violazione del diritto d’autore, una sottrazione intenzionale di opere altrui spacciandole per proprie. Nella letteratura moderna, tuttavia, l’appropriazione di materiale esistente si configura spesso come un atto creativo, un gesto di trasmutazione del testo altrui in nuovo significante. La distinzione tra plagio, citazione, intertestualità e appropriazione è fondamentale: citare significa fare esplicito riferimento a un testo, spesso per stabilire una continuità culturale o accademica; l’intertestualità implica dialogo e stratificazione, la presenza consapevole di riferimenti che si moltiplicano e si intrecciano; l’appropriazione radicale consiste nel trasformare il materiale preesistente in un’esperienza estetica nuova, in un testo che vive autonomamente pur nascendo da altri testi.

Per la letteratura moderna, questa distinzione è cruciale: la rottura con la tradizione lineare e la concezione romantica dell’originalità come creazione ex nihilo impone una ridefinizione dell’autore. L’autore moderno non è più creatore assoluto di forme, ma mediatore, alchimista, tessitore di materiali preesistenti. Joyce e Burroughs incarnano questo paradigma, seppur con modalità diverse. In entrambi, il testo non è mai chiuso, statico o definitivo: è un campo di possibilità, un organismo in continuo mutamento.

La teoria letteraria contemporanea ha spesso discusso queste pratiche con termini differenti: Harold Bloom, con la sua teoria dell’ansia dell’influenza, vede l’autore moderno come un soggetto costantemente in tensione con i predecessori; Michel Foucault, in Che cos’è un autore?, introduce la funzione-autore come elemento di organizzazione del discorso più che come creatore assoluto. Entrambi i riferimenti aiutano a comprendere come il concetto di plagio possa essere riletto in chiave estetica, non legale.

James Joyce rappresenta il massimo esempio di intertestualità radicale. In Ulysses, l’autore intreccia fonti classiche, mitologiche, letterarie e storiche, creando un tessuto inestricabile di riferimenti. Ogni episodio dialoga con testi antichi, canzoni popolari, testi religiosi, racconti mitici e opere contemporanee. Per esempio, l’episodio "Telemachus" richiama apertamente l’Odissea di Omero, non come copia, ma come struttura narrativa che Joyce trasforma in una geografia urbana di Dublino, popolata da personaggi realistici e contemporanei. La costruzione narrativa di Joyce implica una trasformazione radicale dei modelli preesistenti, in modo che la loro funzione originaria venga rielaborata in chiave moderna, psicologica e linguistica.

In Finnegans Wake, Joyce porta la pratica dell’appropriazione a un livello ancora più estremo. Il linguaggio stesso è un tessuto di citazioni e fonemi tratti da lingue diverse, rielaborati per generare significati stratificati, spesso ambigui e polisemici. L’intera opera diventa una gigantesca rete di risonanze culturali, in cui ogni parola evoca e trasforma riferimenti precedenti. Ogni neologismo, ogni gioco fonetico è al tempo stesso originale e derivativo: Joyce “ricicla” il mondo, la lingua e la storia, e lo fa diventare un organismo vivente e mutante, dove la voce narrativa è multipla, stratificata e in dialogo continuo con la tradizione.

La tecnica joyciana è dunque un esempio perfetto di appropriazione consapevole: non esiste plagio in senso legale, poiché la trasformazione operata è completa, creativa, e produce un testo che vive autonomamente rispetto alle fonti. Joyce non copia per mera ripetizione: trasforma, stratifica, crea nuovi livelli di significato. In questo senso, l’appropriazione è strumento di invenzione linguistica e di indagine psicologica: la città, la storia, la mitologia e la lingua diventano materia narrativa da plasmare.

William S. Burroughs opera in un contesto radicalmente diverso, ma con principi analoghi: il riuso del materiale esistente diventa strumento creativo e politico. Il metodo del cut-up consiste nel tagliare testi (giornali, romanzi, pubblicità, corrispondenze) e ricombinarli secondo schemi spesso casuali, creando nuove strutture narrative e percorsi linguistici inaspettati. In Naked Lunch, i testi preesistenti non sono citati: sono trasformati, frammentati, ricombinati in modo che diventino indistinguibili dalla voce dell’autore.

Burroughs non cerca coerenza narrativa tradizionale: la frammentazione diventa linguaggio, significato e percezione. Il cut-up destabilizza la linearità, mette in discussione l’autorità dell’autore e la stabilità del testo, trasformando la scrittura in esperienza fisica e mentale per il lettore. Testi pubblicitari, articoli di giornale e romanzi vengono smembrati e ricomposti in sequenze che producono un effetto di straniamento radicale: ogni frase è potenzialmente nuova, pur nascendo da materiali preesistenti.

Questa pratica si colloca in una tradizione critica e filosofica che mette in discussione il concetto di proprietà del testo e l’autorialità. Burroughs esplicita spesso nelle sue interviste e nei saggi teorici come la scrittura debba liberarsi dalle regole convenzionali: il cut-up non è solo tecnica letteraria, ma gesto politico, atto di ribellione contro la logica del controllo sociale e del potere linguistico. In questo senso, il plagio diventa provocazione estetica: appropriarsi significa trasformare, creare caos fertile, destabilizzare e reinventare il linguaggio.

Gérard-Georges Lemaire, con la sua affermazione sul plagio, non intende condannare Joyce e Burroughs, ma evidenziare la radicalità della loro pratica di riappropriazione. Nei suoi scritti, come in Le Colloque de Tanger, Lemaire analizza la scrittura di Burroughs e Joyce come fenomeni di appropriazione, dove il testo preesistente diventa materia prima da modellare e trasformare.

Lemaire insiste sul fatto che, in entrambe le poetiche, l’autore si pone non come creatore ex nihilo, ma come operatore di trasformazioni, che manipola e reinventa il materiale altrui fino a renderlo irriducibile alla fonte originaria. In questa prospettiva, il plagio diventa concetto critico: è simbolo della modernità estrema, in cui il valore del testo non risiede più nell’originalità assoluta, ma nella capacità di trasformazione, reinterpretazione e rielaborazione.

Il critico francese mette in evidenza anche la dimensione etica e politica della scrittura: appropriarsi non è copiare, ma sottolineare l’idea che il testo appartiene alla comunità culturale e che l’autore moderno è co-creatore di una memoria collettiva, attraverso il filtro della propria sensibilità estetica.

Joyce e Burroughs condividono l’ossessione per la trasformazione del materiale preesistente, ma le differenze sono marcate. Joyce accumula, stratifica e costruisce un linguaggio complesso, polifonico e ricco di rimandi; Burroughs scompone, frantuma e riorganizza con casualità, generando un effetto di straniamento e destabilizzazione radicale. Joyce cita e rielabora con controllo, Burroughs taglia e rimonta con anarchia. Joyce ordina il mondo per renderlo comprensibile attraverso la complessità; Burroughs rompe il mondo per far emergere nuove possibilità linguistiche e percettive.

Eppure entrambi interrogano il concetto di autore e il valore della singola opera: il testo non è più un oggetto chiuso, ma campo di possibilità infinita, organismo vivo e mutevole. La provocazione di Lemaire ha senso perché pone questi due autori sullo stesso piano teorico: in entrambi, la questione non è il plagio legale, ma l’appropriazione come gesto creativo e radicale, capace di riscrivere il mondo attraverso il linguaggio.

L’uso di materiali preesistenti da parte di Joyce e Burroughs porta a riflettere su questioni fondamentali della modernità: l’originalità non consiste più in creazione ex nihilo, ma in trasformazione e reinterpretazione. L’autore non è più detentore di un messaggio stabile, ma intermediario tra la memoria culturale, la lingua e l’esperienza del lettore.

L’appropriazione radicale diventa principio estetico e filosofico: destabilizza, provoca e apre nuove possibilità di lettura. Joyce lo fa attraverso la stratificazione polifonica, Burroughs attraverso la frantumazione anarchica; entrambi mettono in crisi il concetto di testo chiuso e definitivo. Dal punto di vista culturale, questa pratica ridefinisce la nozione di comunità letteraria e di memoria collettiva: il testo diventa terreno di confronto, dialogo e metamorfosi.

La provocazione di Lemaire funziona anche come stimolo per riflettere sul ruolo del critico: il lavoro di analisi non consiste solo nel giudicare la forma o la moralità dell’autore, ma nel comprendere come il testo interagisca con la storia culturale, con le fonti e con i lettori, aprendo nuove prospettive interpretative.

L’affermazione di Gérard-Georges Lemaire, per quanto provocatoria, rivela un aspetto fondamentale della letteratura moderna: l’uso radicale di materiali preesistenti come strumento di innovazione. Joyce e Burroughs non plagiano in senso legale; trasformano ciò che esiste, interrogano la funzione dell’autore e il concetto di originalità, e creano testi in continua tensione tra memoria e invenzione.

Parlare di plagio, nel loro caso, significa riconoscere la forza rivoluzionaria della scrittura: una scrittura che sfida le convenzioni, ricompone il mondo e trasforma l’esperienza del lettore. Joyce e Burroughs insegnano che ogni testo è al tempo stesso riferimento e creazione, memoria e innovazione, appropriazione e invenzione. Lemaire coglie in questa pratica la radicalità della modernità: la scrittura non è mai neutra, ma gesto creativo che riscrive il mondo attraverso la lingua, l’intertestualità e il caos.

Il plagio diventa un atto estetico, politico e filosofico: non una colpa, ma una strategia di esplorazione del linguaggio e della percezione. Joyce e Burroughs, pur con modalità diverse, incarnano la tensione estrema della modernità: il testo non appartiene più solo all’autore, ma diventa spazio di trasformazione infinita, laboratorio di linguaggio e memoria, sfida continua alla tradizione e alla linearità narrativa.


mercoledì 20 agosto 2025

Protocollo di risposte. Manuale di sopravvivenza social


Quando l'Autore di turno ti fa sudare il mouse 

Succede anche ai migliori: hai appena pubblicato una recensione, ringrazi un autore per averla presa in considerazione e… puff! Arriva un secondo messaggio, puntuale come un caffè alle 11, con una domanda a cui non vuoi (o non puoi) rispondere. Cosa fai?

Ti agiti, inventi dettagli, rischi di sparare inesattezze… oppure applichi il Protocollo di risposte, il mio piccolo manuale di sopravvivenza social.


1️⃣ Ringrazia sempre per primo

Prima regola d’oro: un “Grazie, mi fa piacere” oppure "Grazie per avermi letto" chiudono la conversazione con eleganza, senza compromettere nulla. Non serve spiegare tutto, basta riconoscere l’attenzione.

2️⃣ Non sentirti obbligato a replicare

Se il secondo messaggio è scomodo, irrilevante o ti richiede dettagli che non ricordi, non rispondere. Il silenzio diventa un’arma: la conversazione è già chiusa.

3️⃣ Distrazione elegante

Postare qualcosa di nuovo, anche leggero, sposta l’attenzione in modo naturale. Un meme, una citazione, un pensiero improvviso: voilà, la tua rete sociale continua a scorrere senza imbarazzi.

4️⃣ Risposte evasive e neutre

Se proprio devi dire qualcosa, tienila generica:

  • “Ne conservo un bel ricordo, anche se non ricordo i dettagli.”
  • “Mi colpì molto all’epoca, resta tra i miei ricordi positivi.”
    In questo modo resti elegante e credibile.

5️⃣ Ironia misurata

Una battuta o un’emoji strategica valgono più di mille parole:

  • “Ah, ormai è tutto un ricordo sfocato 😎”
    Ironia leggera, senza mai scadere nella scortesia.

6️⃣ Salvaguarda la memoria e la reputazione

Non inventare dettagli o attribuzioni che non ricordi. Meglio restare vaghi e sinceri: i tuoi lettori (e l’autore) apprezzeranno la trasparenza.


In sintesi: sopravvivere con stile 

Il Protocollo di risposte non è solo un trucco da social: è filosofia di vita digitale. Alcune conversazioni vanno salutate con un sorriso, altre lasciate scivolare nel flusso. Così ti resta solo il piacere di aver gestito tutto senza impicci, senza falsità e senza dover ricordare frasi che il tempo ha già sfocato.

E se funziona… beh, l'Autore di turno può anche aspettare. 😏


La luce e l’ombra del tempo: visioni di "Otranto” di Roberto Cotroneo



Il romanzo Otranto di Roberto Cotroneo si presenta come un’esperienza narrativa che ambisce a superare i limiti della mera rappresentazione, per trasformarsi in un laboratorio di percezione, un esercizio sul rapporto fra immaginazione, tempo e luce. La sua natura non è quella di un semplice racconto di vicende, ma quella di un testo che cerca di dislocare la sensibilità del lettore, collocandolo in una zona di confine fra il reale e il visionario, fra la cronaca storica e l’eco del mito. Sin dalle prime pagine, infatti, emerge con chiarezza che il romanzo si fonda su due assi concettuali che ne determinano il tono e la struttura: la fascinazione per l’ora meridiana e per la luce intesa in senso metafisico.

L’ora meridiana è presentata come momento di sospensione: quando il sole è allo zenit, la vita sembra arrestarsi, il mondo è colpito da una luce implacabile che non produce solo chiarezza ma anche vertigine, una luce che, nella cultura mediterranea, è tradizionalmente associata ai démons du midi, figure ambigue, capaci di generare inquietudine e disorientamento. Accanto a questa percezione popolare e quasi antropologica, si colloca la seconda dimensione: la luce come categoria mistica, simbolo dell’incontro tra la speculazione filosofica araba e quella cristiana. Non è un caso che la Cattedrale di Otranto, con il suo rosone a sedici raggi, diventi un punto focale dell’intero romanzo: quell’architettura, che è già in sé un emblema di incontro di culture, viene interpretata come dispositivo simbolico, un’apertura verso un altrove in cui lo spirituale e il materiale si sovrappongono.

Su queste premesse concettuali si innesta l’elaborazione narrativa, che si articola attorno alla città di Otranto, trasfigurata da semplice località reale a vero e proprio organismo mitico. Le sue mura, le piazze bizantine e romaniche, il castello reso immortale dalla letteratura gotica di Walpole, diventano nel testo luoghi di un’esperienza estetica e psichica. Cotroneo sceglie deliberatamente di guardare questa città con occhi estranei: quelli della protagonista, una restauratrice proveniente dall’Olanda. Tale scelta ha un significato preciso: l’estraneità è ciò che permette di vedere, di cogliere la magia e la sospensione del tempo, là dove gli abitanti locali hanno ormai perso lo stupore, ciechi per consuetudine, incapaci di percepire la dimensione simbolica del proprio spazio quotidiano.

Il lavoro della protagonista sul mosaico della Cattedrale è molto più di un intervento tecnico: si configura come un atto di immersione nell’immaginario storico e spirituale della città. Il mosaico non è un semplice reperto del XII secolo, ma un oggetto enigmatico e stratificato, capace di contenere un intero sistema di segni. Basti pensare alla presenza, fra le sue figure, di un re Artù raffigurato con un gatto di Losanna a cavallo di un caprone: un’immagine sorprendente, quasi provocatoria, che destabilizza ogni tentativo di interpretazione univoca. È a partire da questa ambiguità iconografica che la protagonista inizia a percepire presenze che gli altri non vedono: fantasmi meridiani, eredità del massacro otrantino, presenze che non agiscono come minacce concrete, ma come epifanie perturbanti, figure liminali che testimoniano un passato non pacificato.

Questo incontro con l’invisibile non si esaurisce nella dimensione storica. Al contrario, esso si intreccia con la vicenda personale della protagonista, segnata dalla scomparsa della madre in mare presso un faro olandese. L’assenza della madre è una ferita mai cicatrizzata, un trauma che sembra riattivarsi proprio nell’ambiente otrantino, come se la città fosse in grado di amplificare le mancanze e di trasformarle in visioni. Non sorprende che il romanzo conduca progressivamente la protagonista verso un incontro impossibile: nel finale, la madre riappare in un ipogeo, vestita come il giorno della scomparsa, scalza, con una cicatrice al collo che ha la forma di una collana. Questa apparizione, che potrebbe sembrare un artificio di genere, assume invece un valore simbolico: rappresenta il punto in cui la memoria personale si congiunge con la memoria collettiva, e in cui la dimensione privata si apre a un destino più ampio, quello della città stessa, intesa come deposito di traumi e rivelazioni.

La struttura narrativa di Otranto riflette questa complessità. Da un lato, la voce in prima persona della restauratrice, che offre al lettore un accesso diretto ai suoi pensieri, alle sue percezioni, ai suoi turbamenti; dall’altro, un narratore onnisciente che interviene in chiusura di capitolo, ricomponendo frammenti, collegando eventi distanti, fornendo interpretazioni che la protagonista non può avere. Questa duplicità crea una costante tensione tra soggettività e oggettività, tra l’esperienza individuale e il disegno complessivo della storia, e produce un effetto di continua oscillazione, come se il romanzo stesso fosse un mosaico da ricostruire.

A livello stilistico, Cotroneo opera una scelta precisa: privilegia un linguaggio lirico, più vicino alla poesia in prosa che alla narrativa tradizionale. Le anafore, le ripetizioni, i ritmi rallentati, generano una sensazione di sospensione temporale, coerente con la tematica del tempo immobile. Due passaggi risultano emblematici: «Qui il tempo sembra non esserci e il mio orologio è l’unico appiglio mentre cammino lenta per una strada che passa in mezzo a un bosco di olivi. Il tempo qui è immobile, e ha una sua solidità. Il tempo qui è un monolite che rende gli orologi dei giocattoli inutili, buoni solo per farti sentire del ticchettio preciso» e «In queste righe cerco di cancellare il tempo: c’è soltanto luce, la luce di cui sono fatte le riflessioni che sto appuntando con rapidità; la luce che domina Otranto come un alchimista domina i propri elementi». In queste frasi si manifesta la cifra distintiva del romanzo: un discorso in cui il tempo viene sospeso e sostituito dalla luce come principio ordinatore dell’esperienza.

La città diventa quindi un personaggio, la luce un agente narrativo, il mosaico un simbolo dell’enigma del tempo. Tutto il romanzo si configura come una costruzione arabescata, dove l’elemento storico e quello visionario si intrecciano, producendo una narrazione che non mira alla linearità, ma alla stratificazione. Non sorprende, allora, che molte pagine possano essere lette autonomamente come esercizi di prosa poetica, quasi che la trama sia solo un pretesto per la creazione di un mondo di immagini.

Otranto si inserisce così in una linea di narrativa contemporanea che rifiuta la semplificazione realistica per cercare l’esperienza estetica e simbolica. È un testo che richiede un lettore disposto a rallentare, ad accettare la sospensione, ad abbandonare la necessità di una spiegazione univoca. In cambio, offre un viaggio nella percezione, una meditazione sul rapporto tra memoria e luogo, tra privato e collettivo, tra ciò che è visibile e ciò che resta invisibile. Ed è proprio in questa tensione, fra critica e lirismo, che risiede la sua specifica originalità.

martedì 19 agosto 2025

La giuria della fronte

La giuria della fronte, che osserva l'universo con occhi di pietra e cuore di marmo, ha emesso la sua sentenza, inesorabile e implacabile: la fine di ulteriori spoglie, la dissoluzione di ogni traccia di vita che, seppur assopita, ancora cercava un barlume di luce, un'ombra di speranza. Ma questa luce è ormai lontana, troppo lontana per poterla raggiungere. La sentenza è stata pronunciata senza alcuna pietà, come il colpo finale di una lama che squarcia la carne ormai troppo stanca per reagire, troppo consumata per lottare. Non c'è più respiro, non c'è più battito di cuore che possa scuotere le catene del nostro destino, perché la fine si è già insediata tra le pieghe del nostro essere.


Le spoglie, quei resti di carne e spirito, non sono altro che il ricordo di un'esistenza che ha perso il suo scopo, il suo senso, e che ora giace, inutilizzata, come un abito stropicciato che nessuno ha più voglia di indossare. Sono i relitti di sogni che un tempo danzavano nella mente come farfalle in primavera, ora ridotti a polvere che si disperde al primo alito di vento. Ogni fibra di queste spoglie racconta una storia interrotta, un capitolo strappato dal libro della vita prima che potesse essere completato. La giuria della fronte, nel suo silenzio eterno, osserva, giudica e condanna con la freddezza di chi non ha mai conosciuto il calore di un'emozione, l'ebbrezza di una speranza. Non c'è speranza, non c'è redenzione, solo l'immenso vuoto che si espande come un oceano senza sponde, divorando ogni cosa nel suo passaggio inarrestabile.


Eppure, in questa distesa di nulla che si estende oltre ogni orizzonte immaginabile, il demone, spurio e pieno di malizia, volge le spalle, con un gesto di disprezzo che tradisce la sua stessa fragilità, agli specchi che sanno di morte, quegli specchi che, come occhi ciechi eppure onniveggenti, riflettono la verità che nessuno vuole vedere. Essi non raccontano altro che la desolazione, non sono che superfici che conservano le ombre di ciò che è stato e di ciò che non sarà mai. Gli specchi non perdonano, non dimenticano, e ciò che riflettono non è mai bello. Sono le fessure attraverso cui si intravede l'abisso, l'oceano scuro di una verità che nessuno ha il coraggio di affrontare. 


Il demone, sfuggente e ambiguo come una promessa mai mantenuta, non osa più guardarsi in quegli occhi che, con la loro freddezza implacabile, gli svelano i suoi difetti, le sue ferite, la sua miseria più profonda. Ogni riflesso è una confessione forzata, ogni immagine rimandata è un processo senza appello. Egli si volta, scivolando via da quella realtà che non può più essere ignorata, come una bestia che si nasconde nella propria tana per sfuggire al giudizio implacabile di chi vede troppo. Ma il volto che si distoglie non fa altro che manifestare il suo bisogno di fuga, la sua paura ancestrale di essere rivelato nella sua nudità spirituale. Non è altro che un corpo senza anima, una forma che non ha più direzione, che non sa dove andare, perché ha già percorso tutto il suo cammino e ha scoperto che ogni strada conduce al medesimo precipizio.


La sua fuga è quella di chi ha compreso che la propria esistenza è diventata un peso insostenibile, non solo per se stesso ma per l'intero universo che lo circonda. Ogni suo passo lascia impronte di cenere su un terreno già arido, ogni suo respiro consuma l'ossigeno che potrebbe dare vita ad altre creature più meritevoli di esistere. Il demone porta con sé il marchio della propria condanna, un sigillo invisibile che lo rende riconoscibile a tutti gli specchi del mondo, che lo perseguita dovunque vada, che lo costringe a una perpetua migrazione senza meta né speranza di redenzione.


Ma mentre il demone si allontana con passi sempre più incerti, lasciando dietro di sé una scia di rimpianti che si dissolve nell'aria come incenso profano, gli specchi non cessano di riflettere la loro verità implacabile. La superficie lucida, fredda e distorta, conserva l'impronta di ogni viso che vi si è specchiato, l'impronta di ogni anima che ha cercato di sfuggire alla realtà ma che, invece, si è persa dentro di essa come un viaggiatore che si smarrisce in un labirinto di cristallo. Gli specchi non sono che trappole, fessure nell'universo che ci costringono a vedere ciò che non vogliamo vedere, a conoscere ciò che non possiamo conoscere, a toccare ciò che non possiamo più afferrare con le nostre mani ormai logore dall'usura del tempo.


Sono i giudici di una condanna che non conosce pietà, tribunali silenziosi che pronunciano verdetti senza parole, sentenze scritte nella lingua muta della riflessione. E, come il demone, ci abbandonano nella nostra solitudine, nel nostro dolore più acuto, mentre ci costringono a guardare la nostra stessa fine, quella che abbiamo rincorso senza mai accorgerci, quella che si avvicinava a noi con passi felpati mentre noi eravamo impegnati a guardare altrove, a inseguire chimere e miraggi che si dissolvevano non appena tentavamo di afferrarli.


Ogni specchio è un archivio di lacrime non versate, di urla soffocate, di gesti d'amore mai compiuti. Essi raccolgono e conservano tutto ciò che siamo stati incapaci di essere, tutto ciò che avremmo potuto diventare se avessimo avuto il coraggio di guardare in faccia la verità sin dall'inizio. Ma la verità è un lusso che pochi possono permettersi, e ancora meno sono coloro che riescono a sopravvivere alla sua rivelazione senza perdere completamente se stessi nel processo.


Nel frattempo, dai bordi di questa oscurità che tutto inghiotte come un buco nero dell'anima, si sollevano i passeri, quegli innocenti che, pur vivendo nel mondo, non conoscono la durezza di esso. Con ali fragili come foglie d'autunno e sguardi incerti che tradiscono la loro eterna perplessità di fronte ai misteri dell'esistenza, volano, come se fossero in fuga da una verità che non riescono a comprendere né tantomeno ad accettare. Litigiosi, come creature che si contendono un piccolo angolo di vita in un mondo che non ha più spazio per loro, i passeri si sfiorano, si scontrano, si osservano con quella curiosità ingenua che è la loro unica protezione contro la crudeltà del mondo.


Non sanno che, in realtà, la loro lotta è inutile, che il cielo sopra di loro è troppo grande per ospitarli tutti, che ogni battito d'ali li avvicina a un destino che non possono mai sfuggire, non importa quanto velocemente volino o quanto in alto si spingano. Il loro volo è una danza macabra travestita da balletto di vita, una rappresentazione inconsapevole della futilità di ogni sforzo umano di sfuggire al proprio destino.


Eppure, nella loro lotta quotidiana per un tozzo di pane, un ramo su cui posarsi, un angolo di cielo da chiamare casa, nella loro frenesia incessante di volare senza sapere perché né verso dove, si nasconde una bellezza che è al contempo struggente e dolorosa, come una melodia suonata su uno strumento scordato. Essi sono destinati a non capire mai perché volano, ma lo fanno comunque, senza sosta, come se il loro volo fosse una preghiera silenziosa rivolta a un dio sordo, una ricerca di qualcosa che non troveranno mai ma che continuano a inseguire con la testardaggine degli innamorati respinti.


La loro innocenza è la loro condanna, la loro purezza è il loro calvario, la loro forza è la loro debolezza più profonda. In ogni battito delle loro ali minuscole, in ogni volo che li porta da un punto all'altro dello stesso vuoto, vi è la testimonianza di una bellezza che non ha scopo, che non ha senso, che è destinata a svanire senza lasciare traccia, come parole scritte sulla sabbia di una spiaggia battuta dalle onde dell'oblio.


Sono gli angeli dimenticati di un paradiso che non è mai esistito, coloro che non hanno mai avuto il coraggio di guardare in faccia la morte perché la loro natura stessa li protegge da tale consapevolezza, coloro che non hanno mai conosciuto la verità del mondo ma che, purtroppo, non sono mai riusciti a sfuggire al suo abbraccio mortale. La loro ignoranza è benedetta quanto maledetta, perché li preserva dall'orrore della consapevolezza ma li condanna a una vita di illusioni che si frantumeranno inevitabilmente contro la roccia della realtà.


Il loro cinguettio riempie l'aria di una musica che suona falsa alle orecchie di chi ha già sentito il silenzio definitivo, di chi ha già assaggiato il sapore amaro della fine. Eppure, questo cinguettio continua, ostinato nella sua allegria forzata, nella sua determinazione a celebrare una vita che non merita di essere celebrata, un'esistenza che è già stata giudicata e trovata mancante dalla giuria implacabile della fronte.


Così, nel loro incessante volo che non porta da nessuna parte se non verso la stessa fine che attende tutti, i passeri diventano simbolo di una vita che si consuma senza mai trovare pace, una vita che lotta senza mai comprendere il perché della sua lotta, senza mai interrogarsi sul senso di una battaglia che è perduta in partenza. Sono i soldati inconsapevoli di una guerra già finita, i danzatori di un ballo che continua anche dopo che la musica si è fermata.


Ma la loro lotta, purtroppo, è la nostra lotta, quella di chi vive nel mondo senza mai poterne uscire veramente, quella di chi, come il demone che fugge dagli specchi, si volta dagli specchi che riflettono la verità ma non riesce a sfuggire a quella verità che è ormai diventata parte integrante del suo essere, che scorre nelle sue vene come un veleno che lo mantiene vivo proprio mentre lo uccide lentamente.


La giuria della fronte ha già deciso con la solennità di un tribunale cosmico, ha decretato la fine con la fermezza di chi detiene il potere assoluto sulla vita e sulla morte, ma non c'è più modo di tornare indietro, non c'è appello possibile, non c'è grazia che possa essere concessa. Come i passeri che volano verso un cielo che li respinge, come il demone che fugge da specchi che lo inseguono ovunque vada, siamo condannati a cercare una verità che non troveremo mai, a vivere un'esistenza che non ci appartiene veramente, a volare in un cielo che non ci accoglierà mai tra le sue nubi.


Eppure, nel nostro volo disperato e senza meta, come nel loro volo inconsapevole, si cela una bellezza dolorosa, una bellezza che fa male a guardarla troppo a lungo, che brucia gli occhi come il sole di mezzogiorno. Questa bellezza è tutto ciò che ci resta quando tutto il resto è stato portato via, quando ogni illusione è stata strappata via come bandage da una ferita che non guarirà mai. È la bellezza del condannato che canta prima dell'esecuzione, dell'amante abbandonato che continua ad amare, del poeta che scrive versi sapendo che nessuno li leggerà.


Perché in fondo, ciò che ci resta è solo il nostro volo, e la sua infinita, struggente ricerca di qualcosa che non possiamo più raggiungere, qualcosa che forse non è mai esistito se non nella nostra immaginazione febbrile. È la ricerca di un senso in un mondo che ha perso ogni significato, di una speranza in un universo che ha decretato la disperazione come unica verità possibile.


E mentre continuiamo a volare, mentre continuiamo la nostra fuga inutile dagli specchi che ci seguono ovunque, mentre i passeri continuano il loro cinguettio che suona sempre più simile a un lamento, la giuria della fronte ci osserva con i suoi occhi di pietra, immobile e impassibile come una statua eretta a commemorare la fine di tutto ciò che un tempo chiamavamo vita.


Il nostro volo è diventato una danza funebre, una celebrazione della nostra stessa fine, un inno alla bellezza del fallimento e della perdizione. E in questa danza, in questo volo verso il nulla, troviamo l'unica forma di resistenza che ci è ancora concessa: la resistenza di chi continua a muoversi anche quando ogni movimento è inutile, di chi continua a sperare anche quando la speranza è stata dichiarata fuori legge dal tribunale dell'esistenza.