I
si può guardare, largamente
I visitatori stanno alle parole e non all’occhio. Quale pensiero è quadro della tela? E quale servigio punisce a meraviglia?
Attenuata la sorgente, in minor forma: Alto al visibile s’attende il partire vermiglio: la marcia di cattura ove “batteva il sole di mezzogiorno. La morte” cruda e oro, l’intendimento al solco: così appare scoperto “ogni rimorso, una bestia affamata”. Il vetro è specchio d’ogni offerta al lume, “a quel succo di terreno” inanime e prono.
Ora niente può più: “colpire la buona ventura”.
Tranquillità del “sonno ci raggiunge”, e sesso estremo: è un’argentea lucidità, “una tregua”. Causa del freddo. Ma assolutamente cheto sei ora. Qui si respira, alfine.
Ma di te? Una inabitata coscienza riserba le apparenze: all’angolo le strette di mano, nessun ricordo e riguardo: questo è già causa di soccorrimento, Dario.
Ma ecco che adesso il sottile terrore minaccia, la dimenticanza, poco alla volta. Non è davvero finita la nostra diabolica presenza: “è la parola finale”. Corte fiamme alzano, a questo Mondo immondo, lo stato di miseria e il nostro cattivo sorriso.
“Se misurassimo ogni nostra necessità quale afflitta immagine, ma “qualcuno non ha più occhi”. Profondamente incassati.
“Gesta e pensamenti in accordo” con lo sguardo” come se volessero affascinarci, ben disposti a “questi attuali eventi”, questo disconoscerti.
II
Si può guardare largamente
Non condizioni a intrattenere il Tempo: ignote le nuove generazioni, non ti conoscono o riconoscono, è vero! Anche levando su i begli occhi che hanno a guardarti.. non esisti: tu una testimonianza divina ma del tutto svuotata.
Ma le teste più capaci, poche, di osservare “non hanno crisi della bocca”.
A ben guardare nulla è immorale della tua vita e della tua morte di poeta e tutto equivale al quotidiano angelico, all’aurorale viaggio, al buon camminamento: AL TUO SONNO ETERNO PER QUESTA NOTTE ETERNA ALMENO.
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Scrissi i versi in prosa, che leggete più sopra, anni dopo la sua scomparsa, nel ricordo di alcune lettere che, ai tempi, gli spedii e in memoria delle sue risposte. Ora mi accingo a parlarne. Davvero. A memoria futura. Per quel poco che posso.
Con gli anni, alla retorica simbolica e decadente, Dario Bellezza parve sostituire tutto se stesso, la propria spettacolare fisicità, lo sfaldamento contraddittorio della maturità del proprio corpo, tra colpa e riscatto. E malattia che lo accompagna mentre lui affronta la sua realtà tragica attraverso lo stravolgimento buffone e rumoroso, quasi da burletta malriuscita, dell’arte drammatica. Un canovaccio che denuncia i propri fatti personali con la loro stolta rappresentazione d’amanti, fino a subirne le estreme conseguenze, la più appienata immedesimazione.
E così, come a beffarlo giocosamente, anche la morte ha usato il suo stesso sotterfugio. Si è andata a specchiare dietro il ritratto stesso dell’uomo e non del poeta. Come lui, spesso, rispettandola e deridendola, si specchiò dietro di essa.
Pure se fosse possibile salvarsi in qualche modo, pare dire nella sua scrittura Bellezza, imporre il proprio ruolo di vivente, sul piano individuale, la situazione sarebbe compromessa dalla crudeltà dei cupissimi sentimenti, dall’incapacità di adeguarsi al loro immorale, gioiosissimo, fluire. Ancora una volta. Finzione. Di più. Verrebbe da aggiungere. Il perfetto traslato di una finzione, una finzione enumerata al quadrato. Esponenzialmente esposta. Cattiva.
Così davvero appena lo specchio cessa di riflettere l’immagine della vecchia morte, ecco che appare la figura stessa del poeta, nascosto esattamente nel proprio labirinto di umano arrovellato ed è in quel preciso istante che viene sancita una condanna inappellabile. La morte s’approprierà del poeta. Bellezza sarà amabilmente come irretito dalle sue stesse proiezioni. I suoi affastellati sogni e incubi goduriosi. E dunque è come non potesse più scrivere e non toccare più i corpi adorati, odoranti: sarebbe troppo ovvia dichiarazione nostalgica per un animo ribelle come il suo. Così sente il bisogno di non posticipare l’icona, il correlativo realissimo dell’abbandono, il veicolo immaginifico rispetto al tema. Come a definire un colloquio in assenza, [la mancanza dell’atto d’amore, dell’amato indistinguibile tanto quanto le ripetizioni di uno stesso atto amoroso con chiunque] un parlato, ormai solitario, destinato a infittirsi nei suoi libri e soprattutto porre al centro del verso il primo e unico segno malato della corrente affettiva che percorre l’intera poesia. Come se temesse quella verità tanto agognata, si predispone a una fuga continua perché solo il tempo della recita sembra offrire lo spazio bellamente illusorio di una speranza di salvezza. E, così, si legge una dolcezza insolita, già malinconica, nei suoi versi, una straziante sincerità, e con essa l’anelito a una realtà impossibile, perché avvertita come un’utopia, una dislocazione temporale, dal passato al presente, che è una spia essenziale di come Bellezza corroda l’esperienza nel momento in cui la fa divenire assoluta. Allontanandola. Per sempre.
E così essa viene chiamata sulla scena del proprio dramma esattamente come attrice, come rappresentazione e finzione. Ma la morte giunge, invece, in tutta la ferocia della sua realtà. Così ciò che il poeta vorrebbe rappresentare nel vissuto e nella poesia, in una coazione al presente, ad agire nell’attualità del presente, è già avvenuto. Prima che egli stesso se ne accorga. Viene sottratto al poeta, insieme all’oggetto, il sentimento stesso del dolore.
Come osservazione di eventi che però non vengono semplicemente registrati da un testimone attendibile, i suoi versi mimano il proustiano fluire del sentimento nel tempo, ne attestano [o ne provocano] l’attrito, il rovesciamento, l’imprevisto, di fatto costringendo lo stesso tempo alla recita di un destino. Con la consapevolezza di dover soccombere, il poeta incontra è destinato a perdersi nell’infinito rispecchiamento dei propri versi. Nell’autocelebrazione caparbia del proprio vivere all’estremo. Come un tentativo di fuga, a veder bene, con una certa pesantezza nella struttura che impedisce movimenti troppo verticali, sollevamenti repentini del senso, scarti ritmici, almeno fino agli ultimi due libri. Sconvolgenti.
È con il suo atteggiamento che Bellezza sfugge a qualsivoglia cristallizzazione del processo amoroso, della propria omosessualità, assestandosi come nel limbo friabile e imperfetto di un suo personalissimo senso di amore, che per affermarsi come tale, deve rimanere sempre potenziale, possibile e mai realizzato, perché il personaggio torni a dominare la persona e la sua lamentosa carica eversiva possa raggiungere nuovi obiettivi e nuovi lettori su cui rovesciarsi. Contemplando se stesso, e pensando così di aver sconfitto il mostro, gli ha invece consegnato la propria vita, quella vera e quella recitata. Come devoto alla gran malattia [AIDS] che mai si sarebbe aspettata.
In un gioco di specchi riflettenti, continua a cantare il corpo, che diviene sempre più oggetto assente, motivo di ricordo. Esattamente convinto di potersi rivolgere sempre allo stesso uditorio. Bellezza non si è mai accorto che il pubblico in sala era ormai tutt’altro da quello dei suoi esordi e che l’eros, minacciato e piagato da nuove paure, piegato a irreggimentare vuoti immaginari collettivi, non poteva più costituire la ragione sufficiente di uno scandalo, ovvero di una richiesta di attenzione. L’eros, davvero non è più scandalo. Ad un certo punto. Lo è viverlo scandalosamente, questo sì, in maniera putrefatta. Ma di questo non s’accorse, il Nostro, pur vivendolo esattamente in maniera rischiosissima.
Veloce rifugge da quei corpi, più rapido del tempo della vita, non ama più niente nei corpi, con l’effetto di perdersi ancor più nei suoi astrusi angiporti. Così la sostanza del pensamento è quella di potersi tramutare in un’ossessione. Ricchissima e stupefacente [ma anche stupefatta] la declinazione di questo tema, e pervasiva, fino a indurre il sospetto che la corrosione fra esperienza del reale e scrittura si sia talmente affievolita in un estremo dannunzianesimo rovesciato di segno.
Esattamente così. Sia nello spaziotempo della gioventù che in quello della maturità, ciò che può giungere a noi frettolosi lettori, finale declinazione dell’ipocrisia che già ci aveva attribuito Baudelaire, è solo – e disperatamente, ma fino a che punto? – un messaggio invivibile, pervenuto da qualche oscura regione del mondo fenomenico o della psiche, estremo proprio come un dubbio ultraterreno. Come esattamente una sessualità vissuta estremamente. Come uno sport fatto di dettagli, di posture, di accrocchi, di sputi sui visi e tremebondi amplessi.
Da qualsiasi punto la si osservi, la sua poesia appare come in eterna fuga, o meglio si costruisce e si atteggia come una fuga. È rimasto prigioniero dello stesso cortocircuito che ha provocato: l’Uomo che cerca di corrodere l’Ineterno, con la sua sola ma rumorosa presenza di Poeta, la sonnolenta borghesia romana, l’effigie della stessa dissoluzione in atto di quest’ultima.
Nelle poesie degli ultimi anni, non è unicamente un vecchio solitario e malatissimo, è anche un uomo indigente, o si può anche dire più semplicemente povero. Già tanto prostrato, ha avuto, due dolori: la morte del padre ottantenne, e più da vicino il suicidio di Amelia Rosselli.
Nell’ultima fase della sua vita, avrebbe voluto silenzio, discrezione, forse dimenticanza. Non è stato così, i giornali – come ha avuto modo di dire – sono stati di una violenza allucinante.
L’unico Poeta della sua generazione a essere stato incluso nel Novecento di Gianfranco Contini, così anti–eroe e vittima del suo stesso estetismo esasperato ed esasperante, è un antenato plausibile e concreto di se stesso, ma resta uno iato tra personaggio e autore; se il primo fallisce, il secondo si ostina ad andare avanti in un’infausta sovrapposizione di due realtà, arte e vita, tra la fluidità del vissuto e la fissità del bello eterno. Avanti. Di maschera in maschera, di ordalia in ordalia, e per via morantiana. Poiché penniano non fu mai, questo mi pare di capire. La sola enclave possibile resta quella dell’innocenza animale, del rapporto esclusivo e privilegiato con i gatti. E, forse della stessa sua gattità.
Mi scrisse che non avrebbe più voluto scriver versi – a me che appena iniziavo a pubblicarne – e che sentiva tutta l’assurdità di fare poesia. Più in là mi fece avere, da un amico comune, autografato, un suo libretto sui gatti che era stato tradotto in Spagna. E io già lavoravo nella redazione di “Poesia”.
Narciso immondo e dello specchio restò prigioniero fin da subito, apprestandosi a giocare una partita col destino e con la morte: una partita che è l’anamorfosi dell’invettiva [e dalla licenza, poetica ovviamente], del tentativo di riscatto sociale, dell’affermazione della libertà dell’eros, del superamento della grettezza piccolo–borghese; perché, di fatto, il poeta che si lancia contro la società provinciale resta, anzitutto, il prodotto stesso di quella società, di cui non riesce a coglierne le mutazioni essendone già oltre. Molto oltre.
Di questo incessante teatro dell’eros restano sulla scena piccoli oggetti, fragili icone, tristi sineddochi di un avvenimento che appare già superato nel momento stesso in cui accade, per lasciare il posto a un altro incontro, e prima di questo, all’inesausto vagare, il sentimento del battere, la ricerca del sesso infinito e sconosciuto, sola dimensione di confronto serrato con se stessi e con un desiderio di cui si teme ogni volta il compiersi, sebbene lo si brami: l’amore.
C’era l’ammissione implicita di una sovrapposizione tra io, ruolo e personaggio, quale possiamo infinitamente registrare nel crudele antagonismo dei suoi corpi descritti e frequentati.
La traduzione della rappresentazione in scrittura poetica prende spesso l’avvio, inevitabile, inesorabile, a custodire quel messaggio invivibile che, a volte, condiziona l’intero tracciato di un’esistenza: la fine dell’amore dopo l’amore, la fine dell’innamoramento dopo il sesso, ovvero quando definitivamente cala il sipario, in attesa non della prossima replica, ma di uno spettacolo che si vorrebbe nuovo e che invece si compie nel dolore di una infinitudine di ripetizione coatta e che fa soggiacere tutti noi, che si sia attori o spettatori. E anche il nostro spazio vitale si restringe invece di ampliarsi, la città si riduce alla stanza, la stanza al letto, quel luogo sfatto dove non è più concesso sottrarsi alla proprie contraddizioni, ai propri antagonismi. La meravigliosa pietrificazione di ogni sentimento che dona, a liberazione, ogni atto di sesso fine a se stesso.
Ah, non amare! Non essere riamati! La scrittura, davvero, si offre come moto di distrazione da tutto questo. Tentativo di nascondimento. E nonostante l’amante abbia consegnato all’amato la chiave della nuova casa [un classico in Bellezza] estremo simbolo di una disponibilità concreta solo nello spazio della rappresentazione, il corpo amato se ne va, lasciandolo solo in una tensione religiosa, una specie di evidente tremore per un aldilà senza nulla.
È dunque il corpo lo strumento attraverso cui il Poeta esibisce e declina le proprie ossessioni. La sua presenza, così tenacemente pervasiva di libro in libro, non costituisce un ovvio tratto dominante, ma diviene la sostanza più intima di una ricerca destinata al fallimento. La condizione pasolinianamente “impoetica” del poeta a scardinare il nesso barocco di vita e sogno [di ortesiana memoria, intendo, che Bellezza ripresentò nella sfolgorante riedizione de l’iguanuccia cara] e a fare della dimensione drammaturgica il luogo di una verità possibile, dispersa nella quotidianità del sentimento.
È uno scontro impari col vuoto del silenzio che lo circonda, lo so, ma l’energia della dissipazione mi costringe a un residuo di titanismo, appena sufficiente a motivare il tentativo di un riscatto, per lui, almeno sul piano collettivo. Così spiegato, allora, lo spostamento retorico di un mio sentimento che parrebbe impossibile per chi poco mi conosce, che «senza rancore» continuo a richiamarne l’attenzione verso questo Poeta quasi dimenticato, tramutandola nell’ennesimo correlativo dell’abbandono: di un abbandono in atto, che si ripete ad ogni rilettura di ogni suo testo, evento avvenuto e potenziale al tempo stesso.
Ma, nonostante il mio movimento più autentico sembri essere quello del nascondimento orizzontale piuttosto che quello dello scandaglio, in un’incessante altalena di simulazione e dissimulazione, nessuna prospettiva è in grado di incorniciarlo e comprenderlo e inevitabilmente qualcosa si sottrarrà, come alla visuale in procinto di una curva, di una svolta inattesa e in ogni caso sorprendente. Come una voluta barocca Bellezza mi sfuggirà. Giacché, come si sa, a voi stessi sta sfuggendo.
Ebbene a rileggerlo ci si accorge che il campo che si disegna è delimitato non solo dalla realtà, da un lato, e dall’altro dalla finzione – ciò che semplificherebbe sia il ruolo del lettore e il compito dell’interprete, sia la dinamica stessa dell’officina di Bellezza – ma anche dal modo in cui la realtà quotidiana è filtrata dall’esperienza ancor prima che dalla scrittura, il vissuto. Infine, a chiudere il suo spazio letterario così fascinosamente ombroso e asfittico, è la proiezione dell’io lirico come protagonista di un teatro della passione erotica, la trasgressione e rottura degli schemi sociali precostituiti.
Ma si sa che il linguaggio della poesia può supportare – e lo fa, a volte – tutte le soluzioni. Il poeta è ormai travolto da questa malattia terribile che è l’Aids, da questa infelice condizione che avrebbe voluto tenere nell’ombra e in questo senso l’atteggiamento fondamentale di tutta la scrittura di Bellezza s’impone sul piano del visivo piuttosto che in un’ottica concettuale: incapace di sciogliere i propri nodi, rimane al di là della scena da lui stesso allestita con una regia sapiente quanto penalizzante per se stesso.
L’amante e l’amato, distratti nel loro eros effimero, o, con un plurale istrionico, il poeta che ricordando scrive quando già l’amato è entrato nel limbo delle icone, dei simboli della passeggera eternità dell’amplesso, della goduta.
Autenticità del dolore. Una raffigurazione di un modello culturale ancor prima che psicologico e la rielaborazione della perdita è tutta affidata al dire poetico, ma non in chiave consolatoria e neppure esorcistica. È l’incontro dei corpi, il fisico toccarsi e intrecciarsi, complesso e sempre differito in un eterno ritorno impossibilitato, poiché, nel frattempo, un altro antagonista, più volte evocato, interviene a rompere il meccanismo di un corpo ripudiato, socialmente esecrabile, vittima e carnefice di se stesso che si confessa, una sostituzione continua di amati e di amanti, come unico farsi primario di quella scissione che sverna nel tempo del sentimento, rinviandolo, spingendolo fino ai confini estremi e raggiungibili della morte sul letto.
La creaturalità offesa dalla storia.
Bellezza usa strumentalmente la poesia, è palese proprio nell’effetto melodrammatico di molte sue soluzioni. Una scrittura che sì oscilla tra perizia e programma e che, clessidra dei sentimenti e dei giochi erotici, gli ha giocato un pessimo tiro, l’ultimo, il letale, richiamandolo a una concretezza dell’essere fuori da ogni rappresentazione. Proprio la coazione all’eros, come motivo, sembrerebbe stabilire una diretta linea di discendenza da Penna e dal poeta delle borgate, ma l’immagine innocente del fanciullo, icona di un desiderio assoluto prima che di una pulsione, è assente dal suo orizzonte, frequentato piuttosto da emarginati e da una sessualità spesso in vendita, corrotta e corrosiva [se questa espressione è ancora lecita, se non fa sorridere i cinici ad oltranza]. Davvero la fisicità assume le denotazioni più disparate, fino a recitare il ruolo antagonistico più volte evocato e infine temuto, quello di richiamo della malattia e della morte.
La maschera sostituisce la persona, il personaggio condiziona il poeta. Il quotidiano incombe imponendo uno iato tra la scena della rappresentazione, che prima o poi dovrà concludersi, e la sosta necessaria al compiersi di una vera esperienza. Forse la definitiva. Ma prima di qualunque ultimo, fatale intreccio, in una sorta di carpe diem che riporta la temporalità di questo poeta negli angusti confini di un eterno presente – fino ad oggi, fino a noi – che non vuole e non sa guardare al futuro, nemmeno costruirlo intende, il corpo è la scena primaria di felicità fugaci ed effimere e di ben più reali ripudi. La tensione è palpabile: la si avverte già nella cantilena del ritmo, nei componimenti più ampi, e in un nervosismo finanche arcaico della sintassi che informa di sé tutta la poesia di quest’autore. Nell’istante stesso in cui descrive e si descrive, il soggetto ha già indossato i panni dell’attore, così compiendo una rimozione radicale del concreto.
Non è un motivo nuovo, quello del furto d’amore, non per questo banale, almeno per come l’autore lo declina. Ma si sa. Ogni ossessione genera contrasti, più o meno feroci o invasivi: si viene sempre a creare una pericolosa terra di nessuno tra il dominio del principio di realtà e le spinte centrifughe di un principio opposto. E le ossessioni non esistono per questo Poeta ma incarnano direttamente l’istintiva naturalezza di un mondo creaturale, libero dagli spettri della cultura, e dunque dal peccato. Oltre il mondo animale. Il sesso come emblema di se stesso e della propria ripetitività. Ecco che il corpo torna ad avere un referente, ma distante, ormai invisibile, mentre se ne ammette a piena voce, ma sempre dal proscenio, l’adorazione e non più soltanto.
Un poeta che vive la corporalità come scissione: esiste il corpo dell’amante, quindi il corpo dell’amato, infine il corpo del nuovo amate che diventa amato per essere sostituito da un nuovo amante che diviene l’amato all’infinito ed è quest’ultimo, ancora, a condizionare fisiologia e ritmi degli altri, a farne costanti proiezioni di sé sulla scena di una teatralità sempre esibita con ripetitività. E questa consapevolezza genera una struttura elegiaca, più evidente man mano che ci si accosti agli ultimi libri; il racconto della fisicità propria e altrui oscilla tra pietà e rimpianto, tra occasione e rimorso senza che sia risparmiato particolare alcuno del degrado.
Questa tortuosità non è un limite, ma è semmai la forza, la materia più autentica di questo poeta. Racconta il proprio spazio drammatico, partendo da un dato astratto ma fortemente evocativo, ribadendo nel colloquio l’assenza di una fisicità e asserendo, con estrema compattezza visiva, che quel corpo è ormai svanito, lasciando tristi tracce ovunque. Se di barocco si può parlare, per quest’autore, è soprattutto in virtù di questa anamorfosi, proprio laddove il dettato sembrerebbe sedarsi in una serie di immagini pacatamente affettive, in una lingua classicamente meno atteggiata.
La sua poesia si rispecchia in una lente deformante e lascia trasparire il fondo della sua più autentica libertà, almeno come aspirazione. Una narrazione allo stato puro, finzione che sposta quasi incessantemente l’asse dell’esperienza verso quello della rappresentazione. Bellezza ci restituisce con ogni probabilità l’immagine di sé più densa e credibile; ed è proprio quella negazione a rendere l’autoritratto una rappresentazione tutt’altro che mimetica.
Tutto è assai eloquente, ribadisce la coazione a un eros insoddisfatto, fa della ripetizione il segnale dell’ossessione e soprattutto ci mette a parte di come Bellezza tenti di risolvere il proprio sentimento del tempo con una banale operazione aritmetica, moltiplicando all’infinito i suoi incontri in una rincorsa affannosa quanto inutile, come a voler essere più veloce della vita stessa e del proprio tripudio d’amore e sesso, ma con l’effetto soltanto di anticipare quello che è già contenuto nella sua confessione: il corpo sfiorato è infine il corpo sfiorito, consumato negli eccessi, dai mille e mille corpi che restano, per sempre, ragazzi.
Un eros quasi astratto, proprio quando ne esponeva i dettagli. Flusso sentimentale altrimenti inconfessabile in tutta la sua fugace concretezza. Registro da opera o da romanza. Storie vissute all’insegna di una balda e passeggera eternità, che si tramuta in qualcosa di assoluto, perfino in qualcosa di malato. Una sessualità coatta che si traduce, in quanto espressione del poeta, in evento sociale, in atto performativo.
E qui chiudo, pazienti lettori.
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