giovedì 31 ottobre 2024

per Mario Merz e Jole de Sanna


INFORMARE

“Ma si può fare informazione sull’arte, però né l'arte, né l’informazione sull’arte esistono senza aggettivi.” – Mario Merz

L'informazione sull'arte non è mai un'operazione neutra o lineare. Negli ultimi anni, questo concetto è stato messo in discussione in molti modi, e si è cercato di far convergere arte e scienza, due mondi che sembrano distanti ma che hanno tentato, spesso invano, di dialogare. Come sottolineava Gillo Dorfles: “Non basterebbero decine di pagine per riassumere i tentativi di far coincidere, o almeno assimilare, certe strutture artistiche e scientifiche. Le elucubrazioni sul Numero Aureo, sulla serie di Fibonacci e sulle regole armoniche si sono spesso rivelate deludenti e inattendibili” (L’Arte, la Scienza).

In un contesto dove gli sperimentalismi sembrano avere esaurito il loro potenziale, alcuni artisti, come Merz, non si limitano a seguire questa scia di delusioni. Piuttosto, ridefiniscono lo spazio lasciato vacante da tali esperimenti. Per Merz, lo spazio artistico non è un semplice luogo fisico, ma un “produttore” di spazio. Questa concezione tautologica dello spazio – dove lo spazio genera altro spazio – riflette una sapienza che va oltre la forma materiale. È un atto di creazione costante, un processo che trasforma il vuoto in significato.

Un esempio emblematico è il suo "Sentiero per qui" (Triennale di Milano, 1986). In quest’opera, Merz ci propone una riflessione concettuale sulla creazione e sulla percezione dell’arte: ogni sua opera è una summa del suo pensiero artistico globale. Attraverso tautologie concettuali, come spiega Luciano Fabro, Merz trasforma ogni installazione in un centro di energia creativa, quasi a suggerire che l’opera stessa è il “centro del mondo”. E il suo celebre igloo ne è la massima espressione: una struttura semplice ma simbolicamente complessa, delimitata da materiali come il legno (che evoca isolamento) e il vetro (che invita alla trasparenza e alla comunicazione visiva con l’esterno). Questo duplice gioco di apertura e chiusura, di isolamento e dialogo, esprime il potenziale dell’arte di essere sia un rifugio che un ponte verso l'altro.

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ENERGIA

“I numeri vivi danno delle visioni” – Mario Merz

Per Merz, il numero non è solo una sequenza matematica o una formula astratta, ma una forza viva, un’eccitazione. I numeri diventano un medium attraverso cui l’energia prende forma e genera realtà. Questa visione trasforma il concetto statico del numero in un elemento dinamico e vitale. Merz definiva i numeri come “un determinato e quindi conoscibile grado di organizzazione di energia”. Questo significa che ogni numero non è un valore isolato, ma un passo in un processo di evoluzione e creazione. È proprio attraverso questo meccanismo che l’artista costruisce il suo universo visivo e concettuale.

Le sue opere, spesso composte da sequenze numeriche esplose o in crescita esponenziale, riflettono questa pulsione verso il potenziale energetico della realtà. Il numero non è solo un simbolo, ma un generatore di visioni, un atto evolutivo che dà consistenza a qualcosa che altrimenti rimarrebbe immateriale. Ogni numero è un atto creativo, un agente di trasformazione. Questa energia si manifesta nelle opere di Merz in una continua tensione tra materiali fragili, come vetro e legno, e l’idea di un potenziale esplosivo, una vitalità interna.

Merz non si lascia sedurre dal fascino pericoloso di questi materiali, ma li maneggia con disinvoltura, consapevole della loro natura, senza cedere a facili incanti. La sua è un’arte che vive nella piena coscienza della sua materialità e del suo potenziale energetico, un’arte che non si abbandona al sogno, ma si mantiene saldamente ancorata alla realtà e alle sue dinamiche profonde.

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LA GERMINAZIONE DELLA COSA

“Il cartello di foglie è un’architettura ideale” – Mario Merz

La “casa tra gli alberi” è una delle idee più intriganti di Merz. Non si tratta solo di una metafora, ma di un vero e proprio luogo fisico, sebbene sconosciuto e decentrato, ma perfettamente rintracciabile. Non è solo un atto simbolico, ma un gesto artistico coraggioso, che si concretizza già nella fase di progettazione e composizione.

L’igloo, spesso vuoto, diventa un contenitore mobile che si collega alla numerazione naturale di Fibonacci. Questo vuoto non è un’assenza, ma un invito al dialogo, un silenzio che chiama a raccolta le voci di chi osserva. In questo senso, l'arte di Merz non è solo contemplativa, ma fortemente partecipativa, poiché invita chi la guarda a inserirsi attivamente nello spazio e nel silenzio dell’opera.

Tommaso Trini si chiedeva se quella di Merz fosse “un’arte dell’abitare e dell’insediamento antropometrico”. La sua casa, o meglio il suo igloo, non è solo un luogo fisico, ma anche un gesto etico. Un’idea di abitare il mondo che porta con sé una riflessione sullo spazio personale e collettivo. La casa di foglie di Merz germina, cresce, si disperde e si concentra, rappresentando la tensione tra natura e cultura, tra artificio e spontaneità. È una metafora dell’arte stessa, che si muove continuamente tra il creare e il dissolversi, tra il dare vita e il perdersi nella molteplicità delle cose.

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Nota: A metà degli anni ‘80 progettai un testo intitolato La poesia numerica di Mario Merz, ispirato dal volume di Merz Voglio fare subito un libro. Il mio testo tentava di decifrare il fare poetico nella scrittura di Merz, e grazie a questo lavoro entrai in contatto con Jole De Sanna, con cui nacque una lunga amicizia. A lei dedico questo pensiero.

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In questa versione, ho ampliato ulteriormente le riflessioni sui concetti di spazio, energia e "abitare" nell'arte di Merz, aggiungendo anche delle considerazioni sul significato più profondo delle sue opere.

"controcorrente", Joros-Karl Huysmans, 1884

Immagina di essere un esteta con la fissa per il bello e il bizzarro, rinchiuso in una villa fuori Parigi con una tartaruga decorata e un giardino di fiori velenosi. Questo è "À rebours" (meglio conosciuto in italiano come "Controcorrente"), il romanzo che ha reso Joris-Karl Huysmans la rockstar della letteratura decadente.

Al centro di tutto c’è Jean des Esseintes, l'ultimo rampollo di una famiglia aristocratica decadente. Jean odia la società borghese del XIX secolo – come dargli torto? – e decide di dire addio al mondo per crearsi un universo artistico personale, una specie di Pinterest estremo ante litteram. La trama? Praticamente non c'è. È tutto un monologo interiore, una serie di riflessioni, deliri estetici e ricordi di un passato dissoluto. Ma ciò che rende Des Esseintes davvero speciale è la sua passione per l'artificio, come se la natura fosse troppo banale per lui. Insomma, chi non vorrebbe una tartaruga decorata con gioielli?

Questo libro è la Bibbia per i decadenti e gli esteti, e si dice abbia ispirato nientemeno che Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde. E infatti, durante il processo di Wilde, venne etichettato come "sodomitico". Lo scandalo! Ma dai, chi non avrebbe voluto partecipare a una conversazione tra Huysmans, Wilde e Baudelaire, magari sorseggiando un assenzio?

Huysmans originariamente scrisse il romanzo come una sorta di “vaffa” al naturalismo, rifiutando il realismo stantio di Zola e abbracciando l'estetica decadente. A quanto pare, anche Zola si arrabbiò parecchio, accusandolo di aver "bruciato le sue barche". Ma Huysmans non se ne curò molto. Aveva detto quello che voleva dire, e con stile!

Il protagonista di "Controcorrente" vive per l'arte, la letteratura e la bellezza estrema. Non gli importa della società convenzionale, né delle regole morali. Nella sua casa, ogni stanza è un'opera d'arte a sé: dal pulpito da cattedrale al letto coperto di pelli esotiche, il tutto condito con una collezione d'arte più eccentrica di una serata al Met Gala.

Alla fine, però, l’eccesso lo porta sull'orlo della rovina fisica e mentale. La sua soluzione? Tornare a Parigi (ah, la città del peccato!) o abbandonarsi completamente alla religione, forse in cerca di una redenzione che nemmeno lui riesce a concepire. Le ultime righe del libro sono un grido di disperazione: un non-credente costretto a riabbracciare la fede, un'anima persa tra il peccato e il misticismo.

Nonostante le sue previsioni pessimistiche, Huysmans non fallì: il libro fece scalpore. La giovane generazione di artisti e letterati, Wilde in primis, lo amò alla follia. E così "À rebours" divenne il manifesto della decadenza, ispirando chiunque desiderasse vivere una vita più bella e artificiale di quella noiosa realtà che ci circonda.

io, io sono il derelitto, abbandonato

Io, io sono il derelitto, abbandonato al caos, il corpo sfinito che si trascina tra rovine e ombre, l'ultimo baluardo del nulla. Mi sono consegnato alla disgregazione, alla putrefazione dell’anima, e non c’è via di fuga. Perché? La domanda stessa mi perseguita, mi consuma. Non c’è risposta, non c’è spiegazione, solo il freddo abbraccio dell’assenza. Io sono il poeta, ma questo non è un dono, è una condanna. Una nascita che non doveva accadere, un errore cosmico.

C’è chi cerca significato nel pensiero. Miserabili! Il pensiero è una trappola, una caverna buia dove risuonano solo echi di morte. Io non penso, io non esisto. Mi si pensa, mi si divora dall’interno. Il mio Io è un altro, un riflesso distorto che mi fissa con occhi vuoti, senza volto, senza pietà. Non sono io a guidare questa carne marcia: sono una marionetta strappata dalle sue corde, abbandonata a una danza macabra, destinata a cadere, a sgretolarsi. Il trombone suona perché deve, non perché vuole. È il suo destino, come il mio è scomparire.

E intanto, guardate. Guardate i vecchi, quegli aborti ambulanti che si fanno chiamare pensatori, autori, creatori! Li vedete? Sono statue di cenere, ammassi di ossa che proclamano di aver dato un senso al mondo, mentre non sono che carcasse vuote. Hanno ammassato le loro illusioni, le loro false idee, costruendo castelli di polvere in cui si nascondono dal freddo della verità. Ma la verità li raggiungerà. Li raggiunge sempre. E la verità è che non esiste alcun poeta, alcun autore. Solo vuoto. Solo il nulla che avanza inesorabile.

L'uomo che cerca di coltivare la sua anima non fa che nutrire il proprio fallimento. Non c’è crescita, non c’è salvezza. Il terreno è sterile, e ogni tentativo di piantarvi qualcosa non porta che a deformazioni mostruose. Verruche, piaghe, carne marcia. È così che si diventa: un mostro, un aborto vivente. Non si cresce, si marcisce, lentamente, ogni giorno, fino a che il cuore stesso non diventa una pietra, e l’anima si trasforma in un’ombra senza volto.

Non c'è più niente. Non resta altro che la discesa. Il poeta è condannato. Non c'è sapienza, non c'è illuminazione. C’è solo il buio. E quando finalmente il buio lo inghiottirà, quando il poeta sarà distrutto, schiacciato dal peso della sua stessa esistenza, non ci sarà nemmeno una traccia di lui. Verranno altri, altre ombre, altri morti in vita, pronti a calpestare i resti di chi li ha preceduti, ignari del loro stesso destino.

quando mi trascino

Quando mi trascino nell'incognita delle ombre indistinte, un tutt'uno con l'irreparabile densità della massa – che mai si spezza ma sempre si inclina come un trapezista cieco su un filo di seta bagnata – è lì che sento il rantolo della civiltà farfalla, il ragazzino-polvere mai nato, incatenato nella bocca della terra. Senza occhi né orecchie, depondo qui parole come ali scucite su un deserto d’aria.

E là, Lei, la maestosa Vestita d’Azzurro, fatta di pietre liquide che scivolano via dalle mani del Tempo, s’incarna nella sua propria inesplicabile vertigine.

Sento il nervo del mondo sussultare, come un’onda che si ferma appena prima di rompersi, il penultimo respiro dell’acqua marina che si frantuma e ritorna. In quella voragine amata, mi sembra di percepire un eco divino – un riflesso vibrante di ciò che è e ciò che mai sarà.

"Rifategli eco!" gridano gli abissi, come se la nascita stessa fosse un rifiuto, come se ogni immersione fosse un ritorno al Nulla, un riversarsi nell’indistinto. Tornate, dite! Rifate eco!"

Tutto questo è dolcezza per me, una dolcezza così densa da infrangere il vetro del reale. E lì, intrappolato nella dolcezza di ciò che non è, il padrone del sogno si condanna, vittima e carnefice della sua stessa impossibilità.

nella storia e nella memoria 2.0

Nella Storia e nella Memoria, siamo condotti, non per mano, ma con quella feroce determinazione di chi sa che ogni passo verso il passato è un colpo, una sfida a quella scoria che tenta di soffocare le voci e i volti. E questi bambini, seminudi, quasi spogliati d’innocenza, brillano come figure eterne: le loro anche, ormai consumate, resistono come pilastri di un’antica giustizia data al capriccio, all’umore del tempo che passa.

C’è una monumentalità crudele, un’ostinazione senza scampo che si radica nei desideri – affamati e colmi di sconfitte – dove ogni passo è un prezzo che viene scontato senza sconto, come se il passato si ergese ancora, per riaffiorare in un’età lontana. E in quell’età, che ci guarda con occhi spenti, c’è una rapidità crudele nei tormenti, un correre in avanti verso un mondo remoto e stanco, dove persino il cielo stellato sembra sfuggire, rifugiandosi in un angolo della luna, in un paese silente, lontano da ogni “perché”.

In quel luogo, lo spasimo non trova né pace né furia, ma persiste come un eco stanco, portando con sé un “NO” che non conosce mezze misure, che si agita come un fiume in piena tra le pareti bianche, intinte del colore della sazietà, della stanchezza. È il bianco della resa, della fine, il bianco che spazza via ogni sfumatura fino a spegnere ogni luce, ogni vita, in una quiete che sa di conclusione.


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Ho cercato di evocare un’atmosfera ancora più intensa, mantenendo il tono epico e le immagini potenti del testo originale.

Mario Mieli


Mario Mieli. Filosofo, scrittore, teorico gender e, soprattutto, pioniere della rivoluzione omosessuale, uno dei fondatori di quel movimento che voleva aprire nuove prospettive su cosa significhi davvero essere liberi, dentro e fuori dal letto.

Ma la parabola di Mieli non è solo quella di un’utopia gay multicolore e gioiosa. Quando i collettivi hanno smesso di brillare e le bandiere arcobaleno cominciavano a scolorirsi, lui ha preso le distanze da quel movimento omosessuale che non gli somigliava più. Un’attenzione sempre più fervente per ecologismo, antiatomica e… alchimia, sì, con le sue sfumature coprofaghe che gettavano ombre oscure sul già tormentato paesaggio politico. Il suicidio, il 12 marzo 1983, è stato l’ultimo, grandioso atto: un narcisismo estremo o un sublime masochismo? Scelta vostra. Ma per Mieli, era soprattutto un atto politico, una sfida all’eteronorma, quella bestia sociale che ci tiene tutti in gabbia.

A quella Norma, Mario rispondeva con forza e perversione, con la trasgressione come strumento di liberazione. Altro che caselle di genere o preferenze sessuali preconfezionate. Per Mieli, il sesso è un universo vasto e sfaccettato, una tavolozza di colori impossibili da ridurre ai toni bianco e nero dell’eterosessualità obbligatoria. Le perversioni? Fasi necessarie sul sentiero dell’Eros liberatore. Ecco perché la sua provocazione più famosa – l’apologia della coprofagia – è stata una vera performance alchemica. Dal piacere del "buco del culo" al culto della merda, c’è stata una logica: una provocazione radicale che si snodava tra Freud, Sade e Paracelso, culminando in quella sublime equazione tra merda e oro. Eh già, caro lettore, la cacca è oro – e come Mieli ben sapeva, questa formula era letale per una società che finge di non vedere il legame inestricabile tra Eros e quotidianità. Non mi credi? Guarda il caso di Piero Manzoni, che nel ’61 sigillava le proprie feci in barattoli, con lo stesso silenzio incomprensivo che Mieli ha ricevuto.

E poi, c’è la sua tesi shock: l’erotismo puro e trasversale del bambino. Spesso liquidata con un’orribile accusa di "pedofilia", la visione di Mieli va ben oltre: è il riconoscimento di un Eros primordiale, una sessualità infantile, non ancora incatenata dai tabù dell’adulto. In questa medievale società che sembra adorare la repressione, la paura della pedofilia è diventata una caccia alle streghe queer da bruciare sul rogo. Ma Mieli ci avverte: reprimere la sessualità infantile non fa che generare mostri – omofobia, violenza, femminicidi.

Parliamoci chiaro: la coprofagia per Mieli non era solo uno shock. Era gioco erotico, rito iniziatico, provocazione artistica e rivoluzione personale. Ma ovviamente, i suoi detrattori hanno preferito ridurla a uno squallido hobby sessuale. E mentre l’amico poeta Dario Bellezza faceva battute acide ("A Mario è rimasto solo mangiar merda per far parlare di sé"), Mieli non si lasciava turbare da queste frecciatine. Il vero problema era la nostra società cattolica, incapace di accettare l’uomo che deve fare i conti con il frocio e la donna repressi dentro di lui.

E qui Mieli ci dà la chiave dorata: l’elogio della merda come simbolo di liberazione, come comunione suprema. Una "nozze alchemiche" con il suo fidanzato, celebrate con un pane fatto in casa di... beh, ingredienti piuttosto personali, a sancire un rituale magico-erotico. Se vi sembra folle, aspettate di conoscere il mondo che Mieli sognava: un’era di armonia sessuale in cui l’Eros, se liberato dalle catene, poteva davvero trasformare la società.

Ma torniamo alla sua militanza. Londra, anni ’70, F.U.O.R.I., il primo vero tentativo di unire i gay italiani sotto una bandiera politica comune. Mieli ne è uno degli eroi fondatori, ma non si ferma lì: dalla politica ai collettivi, dalle droghe all’en travesti, la sua vita è un teatro di provocazioni, una critica feroce alla società eterosessuale e anche a quella omosessuale. Perché, per Mieli, ridurre il desiderio a una sola casella sessuale è repressione pura.

Il pensiero di Mieli è ancora oggi esplosivo. Ogni uomo, etero o gay, deve affrontare il frocio e la donna repressi dentro di sé. Questo è il passaggio fondamentale per una vera liberazione sessuale e, in definitiva, sociale. La sua visione, in cui transessualità e femminilità sono celebrate come poteri trasformativi, è ancora lontana dall’essere compresa – persino da molti gay che preferiscono conformarsi alla Norma.

Mieli era, ed è ancora, una mina vagante per il pensiero dominante. E mentre la società eteronormativa resta padrona delle nostre vite, Mieli ci invita, provocatoriamente e dolcemente, a fare i conti con quel frocio e quella donna repressi dentro di noi. Perché lì, in quella repressione, risiede la vera rivoluzione.

Dario Bellezza

Dario Bellezza (1944–1996) è stato uno degli scrittori più controversi e intensi della letteratura italiana del secondo Novecento. Sebbene sia principalmente noto come poeta, la sua narrativa ha un posto di rilievo per il suo stile inquieto e ossessivamente introspettivo. Cresciuto artisticamente nella Roma degli anni '60 e '70, a contatto con figure come Pier Paolo Pasolini e Alberto Moravia, Bellezza ha saputo tradurre nella prosa quel senso di alienazione esistenziale e conflitto interiore che caratterizza tutta la sua opera.

Il suo romanzo d’esordio, L’innocenza (1971), è una confessione autobiografica mascherata, dove l’autore esplora il disagio della propria omosessualità in una società ostile e repressiva. Con uno stile crudo e visionario, Bellezza scrive di corpi emarginati e di amori che sembrano sempre in procinto di consumarsi nel dolore e nella perdita. La narrativa di Bellezza non concede nulla a letture facili o pacificatorie: è tragica e claustrofobica, ma anche pervasa da una febbre lirica che, più che descrivere, trasfigura la realtà.

Lettere da Sodoma (1972), il suo secondo romanzo, esplora ulteriormente i temi dell’emarginazione, del rifiuto e della condanna sociale, spesso attraverso personaggi che sembrano condannati al martirio esistenziale. In questo senso, la narrativa di Bellezza può essere vista come una lunga riflessione sull'auto-distruzione e la lotta contro un destino ineluttabile.

Il mondo narrativo di Bellezza è cupo e perverso, ma intriso di una disperata ricerca di autenticità e amore. I suoi personaggi vivono sempre al margine, sia socialmente che emotivamente, rendendo ogni loro gesto una sfida alla norma e, contemporaneamente, un atto di disperata solitudine.

Oltre a L'innocenza (1971) e Lettere da Sodoma (1972), Bellezza ha continuato a esplorare il mondo della prosa, lasciando una traccia significativa anche con altri testi.

Nel 1983 pubblica Il carnefice, un romanzo che amplia il suo universo letterario fatto di figure alienate e in cerca di senso in una società ostile. Il protagonista, come in gran parte delle sue opere, è un emarginato che si muove tra il desiderio di redenzione e un'inesorabile condanna autodistruttiva. Qui, l’esplorazione dell’inquietudine esistenziale si tinge di toni quasi mistici, pur mantenendo quella crudezza stilistica che caratterizza Bellezza.

Un'altra opera rilevante è Il rosaio e la margherita (1987), in cui l’autore continua a indagare la complessità dell’identità sessuale e del desiderio. Bellezza è sempre più interessato a sviscerare il rapporto tra corpo, amore e morte, temi che si intrecciano in una narrativa a tratti frammentaria, ma sempre intensamente lirica.

Negli anni '90, con La morte innamorata (1995), Bellezza ritorna su temi a lui cari come la sofferenza, l'eros e la decadenza, ma con una maggiore consapevolezza del tempo che passa e del destino imminente. Questo romanzo può essere letto come una sorta di testamento letterario, in cui l’autore si confronta direttamente con la propria mortalità.

Sebbene la poesia resti il cuore pulsante della sua produzione, Bellezza ha saputo trasferire nella narrativa la stessa urgenza espressiva, creando opere che, pur non avendo ricevuto la stessa attenzione delle sue liriche, meritano di essere riconsiderate per la loro profondità emotiva e stilistica.

In sintesi, la narrativa di Dario Bellezza si articola in una serie di opere che affrontano con disperata lucidità i grandi temi della vita, dell’amore e della morte, sempre con un'attenzione acuta per l’identità sessuale e la marginalità. Una produzione che, seppur meno prolifica rispetto alla poesia, è altrettanto cruciale per comprendere il suo universo letterario.

Dario Bellezza rimane un autore che ha saputo usare la narrativa come una forma di esorcismo personale, un modo per affrontare i demoni della sua condizione e della sua epoca, consegnando alla letteratura italiana opere scomode, potenti e profondamente intime.

mercoledì 30 ottobre 2024

Giovanni Segantini, maestro della pittura divisionista, ci regala un vero e proprio gioiello con il suo dipinto "Ave Maria a trasbordo", realizzato in due versioni, di cui questa è la seconda, datata 1886. L’opera ritrae una famiglia di pastori – padre, madre e il loro bambino – mentre attraversano in barca il lago di Pusiano, nella Brianza lombarda, insieme al loro piccolo gregge di pecore. È uno spaccato di vita semplice, ancorato alla terra, ma reso spirituale dalla maestria con cui Segantini cattura il rapporto tra l’uomo e la natura.

Segantini visse in Brianza nel 1882, e in quel periodo realizzò la prima versione di questo dipinto. Ciò che rende unica la seconda versione è la maturazione della sua tecnica e della sua visione artistica, che si distacca dal mero realismo per abbracciare una dimensione più simbolica e panteistica. Questo concetto centrale nel lavoro di Segantini – la fusione tra l’uomo e l’universo naturale, quasi in una comunione spirituale – emerge con forza nell’opera.

La luce, elemento chiave del suo linguaggio pittorico, non è soltanto un mezzo per rappresentare la realtà, ma diventa una metafora della vita e dell’anima stessa. In "Ave Maria a trasbordo", la luce del tramonto si riverbera dolcemente sull’acqua, illuminando la scena con una delicatezza quasi sacra. Questa luce avvolge i personaggi e gli animali, elevandoli a una dimensione più alta, dove l’umanità si fonde con la natura in un abbraccio armonioso. Il senso di pace che pervade il quadro deriva proprio da questa luce, che sembra sospendere il tempo e lo spazio, immergendo lo spettatore in una sorta di contemplazione mistica.

In questo dipinto si leggono chiaramente i tratti distintivi dell’arte di Segantini: il realismo nelle forme, l’attenzione ai dettagli della vita quotidiana, ma anche la sua capacità di trascendere il visibile per esplorare l'invisibile. Il lago, la barca, le pecore – tutto appare come parte di un grande organismo vivente, in cui ogni elemento è in perfetta sintonia con gli altri. La natura non è più solo lo sfondo, ma diventa il vero protagonista, portatrice di un significato universale.

L’opera, dunque, non è solo un tributo alla vita rurale, ma un invito a riflettere sulla sacralità della natura e sul legame profondo che unisce l'uomo al cosmo. Segantini, con la sua visione panteistica, ci invita a guardare oltre la superficie delle cose, a cercare la luce che anima tutto ciò che vive e respira. Una luce che, in "Ave Maria a trasbordo", brilla intensamente, come un canto silenzioso alla vita stessa.

cadi nella carta, amore

Cadi nella carta, amore, cadi con tutta la grazia delle farfalle ubriache di luna. Traccia due righe, no, due sussurri, con mani che tremano come fili d’erba al vento cosmico. Anche se il cuore danza sul filo del rasoio e i nervi sono orchestre stonate. Ogni giorno, Fabio, ogni giorno. Schiaccia le parole tra i denti come caramelle amare, sputale pure, anche se non hanno senso, se sono scarabocchi d’un sogno fuggito.

Scrivere... oh, la più meravigliosa delle fandonie, la più gloriosa delle beffe! Ci illudiamo di scolpire l’eterno, di domare l’infinito, mentre disegniamo serpenti neri su fogli d’assenza. Ma questo è il gioco della sorte, l’unico spettacolo in cui ti sei trovato attore senza copione. E allora scrivi, amore mio, scrivi come se dovessi estrarre dall’inchiostro una chiave d’argento, l’unica che forse aprirà quella porta segreta tra le stelle e la polvere.

Tra cumuli di carta morta, una linea, una, potrebbe risplendere come un miraggio in questo deserto di parole.

l'idea che l'amore...

L’idea che l’amore debba essere raccontato in modo binario, oscillando tra la pura fisicità e l’assenza totale di sessualità, è una concezione limitata e superficiale. In realtà, l’amore non può essere costretto in questa opposizione schematica. La sua natura è così multiforme e cangiante che qualsiasi tentativo di racchiuderlo in categorie rigide tradisce la sua vera essenza. L’amore si muove con fluidità tra il corporeo e lo spirituale, il desiderio e la distanza, ed è capace di attraversare innumerevoli sfumature, spesso inesplicabili a parole ma vivissime nella nostra esperienza interiore.

Tra questi estremi, troviamo una ricchezza infinita di narrazioni che esplorano l’amore in tutte le sue forme più sottili, evitando le trappole della banalità o della volgarità. È qui che la letteratura sa essere grande: quando riesce a evocare l’amore con una grazia sospesa tra sensualità e mistero, tra silenzi e gesti appena accennati. Non si tratta di reprimere o censurare il desiderio, ma di dargli una voce più complessa, un respiro che vada oltre l'ovvietà della rappresentazione esplicita. Il corpo può essere raccontato senza diventare spettacolo; l'erotismo può essere suggerito con finezza, senza per questo perdere intensità. L'amore non ha bisogno di esibizionismo per essere potente.

Gli scrittori che riescono a trattare l'amore in questo modo dimostrano una capacità rara di rispettare la delicatezza e la profondità del sentimento. Penso a Gadda, Bufalino, Queneau, Calvino, Manganelli, Yourcenar, Tabucchi, e molti altri: autori che hanno saputo parlare dell’amore con eleganza, senza scadere nella volgarità o nell’eccesso gratuito. La loro abilità consiste nel suggerire, nell’insinuare emozioni e desideri che non si consumano sulla pagina, ma che si amplificano nell’immaginazione del lettore. La letteratura russa, per esempio, da Dostoevskij a Turgenev, passando per Tolstoj, è piena di questi ritratti d’amore così raffinati e complessi da lasciare un segno indelebile nell'anima di chi legge.

In un contesto simile, chi si rifugia nella facile volgarità o nell’iperbole pornografica dimostra una scarsa sensibilità verso la materia amorosa. Ciò che spesso viene venduto come "autenticità" nel descrivere l’amore in realtà si riduce a una banalizzazione che impoverisce il sentimento. È più facile scrivere di sesso esplicito che riuscire a trasmettere le complessità di un sentimento che, per sua natura, sfugge alle definizioni e si trasforma costantemente.

Dante e Petrarca, con la loro capacità di trasfigurare il desiderio in poesia, sono esempi perfetti di come si possa parlare d'amore in modo profondo senza cadere nella volgarità. La loro arte non ha mai avuto bisogno di scene esplicite per essere potente. La grandezza dell'amore che cantavano risiedeva proprio nel modo in cui riuscivano a sublimarlo, a renderlo universale e immortale senza perdere di vista la sua verità intima. All’opposto, molti autori contemporanei come Fabio Volo, o persino icone della letteratura erotica come Philip Roth e Anais Nin, pur con un loro valore, tendono spesso a semplificare il sentimento amoroso riducendolo a uno spettacolo che punta più all’impatto immediato che alla profondità.

Eppure, anche oggi esistono strade alternative. Viviamo in un’epoca in cui la libertà di espressione permette di raccontare l’amore senza limitazioni, ma questa stessa libertà non dovrebbe essere un alibi per la superficialità. Non è obbligatorio indulgere nell’esibizione del sesso per essere moderni o per risultare rilevanti: si può scrivere di amore con intelligenza, con rispetto, con creatività, e soprattutto con un occhio di riguardo verso la sensibilità del lettore. La grande letteratura d’amore riesce a far vibrare le corde più profonde dell'anima senza bisogno di urlare.

Immagina che qualcuno...

Immagina che qualcuno avesse davvero la possibilità di guardarti nel cuore, non solo con un’occhiata superficiale, ma come se avesse acceso una luce in ogni angolo nascosto. Lì, tra i battiti e i sospiri, avrebbe scoperto non solo una struggente tenerezza, ma una nostalgia infinita per quei momenti vissuti e forse per quelli mai vissuti. I silenzi avrebbero parlato più forte di mille parole, come se fossero la colonna sonora di una vita vissuta tra sussurri e attese, mentre gli sguardi – ah, quegli sguardi – avrebbero raccontato interi romanzi non scritti, pieni di significati taciuti e speranze mai dette.

Le risate, poi, non sarebbero state semplici esplosioni di gioia, ma piuttosto un velo sottile sopra una profondità nascosta, una sorta di scudo luminoso contro il mondo. Gli incontri, con la loro magia e la loro brevità, avrebbero rappresentato l'essenza dell'entusiasmo e della speranza, un baluardo contro la monotonia. Ogni parola, ogni gesto, ogni minuto avrebbe avuto il peso di qualcosa di eterno e fragile.

Eppure, al centro di tutto questo, un vuoto. Non il semplice nulla, ma un'assenza che si fa sentire come una mancanza di gravità, come se in mezzo a tutta quella dolcezza ci fosse uno sgomento costante, un’inquietudine che ti strappa da ogni attimo di pace. L’angoscia sarebbe lì, silente, come un ospite indesiderato, sempre pronta a ricordarti che, anche nei momenti di più intenso entusiasmo, c’è un abisso che aspetta di essere guardato negli occhi.

Così, chi avesse guardato nel tuo cuore avrebbe visto non solo la bellezza delle emozioni, ma anche la loro vulnerabilità, il peso delle aspettative, e quel senso inafferrabile che la vita è un pendolo che oscilla tra la speranza e il vuoto, tra la gioia e l'angoscia, tenendoti sempre sospeso tra le due.

martedì 29 ottobre 2024

mi muovevo nella notte


Mi muovevo nella notte come una preda, col cuore in fiamme e il respiro strozzato,
inseguito da ombre fameliche e silenti.
Qualcosa di spaventoso mi aspettava,
accucciato nell’oscurità, pronto a divorarmi.

Ora sono i cani d’amore a darmi la caccia,
mi cercano, mi inseguono, mi azzannano,
con occhi feroci, con bocche affamate.
Sono sempre stato un codardo, un figlio della paura,
una vita destinata a bruciare piano, a svanire senza mai sapere cosa possa salvarmi.

Eccomi qui, tra gli alberi incatenati dalla nebbia,
le gambe pesanti, gli occhi persi nel nulla.
Qualcuno, chiunque, mi liberi da quest’orrore!
Salvatemi, vi prego, salvatemi!

Strappami le scarpe,
gettale nell’acqua, lasciami dissolvere,
un’orma sull’acqua, un’ombra che scompare.

Ho trovato una volpe,
massacrata dai cani,
l’ho raccolta tra le mani tremanti,
e il suo cuore, fragile, battente,
era mio specchio – vile, frenetico, disperato.

Mi lascio fuggire da questo inferno reale,
un incubo che palpita e sanguina,
ma io non so scappare, non so affrontare.
Sono nei tuoi cani d’amore,
avvolto da catene dolci e mortali,
mentre le tue braccia sono corde tese, un cappio.

Oh, eccomi, affondato fino al cuore,
strangolato, in un abbraccio più spietato della fine stessa.
Non lasciarmi andare – no – fammi sprofondare,
abbandonami al terrore che mi stritola.

Togli le scarpe,
gettale nel lago, nell’acqua nera,
perché io sia soltanto un’eco che si spegne.

Non so cosa mi farebbe bene, non l’ho mai saputo.
Tutto quello che resta è una brama disperata,
un amore, amore, amore,
un’oscurità che si dilata senza fine.

la dama con l'ermellino


Questo dipinto è La Dama con l'ermellino di Leonardo da Vinci, un'opera realizzata intorno al 1489-1490. Ritrae Cecilia Gallerani, una giovane donna della corte milanese e amante di Ludovico il Moro, il potente Duca di Milano che fu anche il mecenate di Leonardo. La scelta dell'ermellino, un simbolo di purezza e nobiltà, potrebbe essere anche un gioco di parole: in greco, "ermellino" è galè, un riferimento al cognome Gallerani.

Leonardo dimostra qui il suo talento per l'uso del chiaroscuro, che dà profondità e vita alla figura. L'intensità dello sguardo di Cecilia, che si distoglie da quello dell'osservatore, suggerisce una dimensione psicologica sofisticata, tipica del modo in cui Leonardo cercava di cogliere l'essenza interiore dei suoi soggetti.

Partiamo da Cecilia Gallerani, che non era una dama qualunque: era una delle donne più colte e brillanti del suo tempo. Era una poetessa e intellettuale, famosa per la sua bellezza e il suo spirito, e con Leonardo condivideva un legame speciale, probabilmente fatto di ammirazione reciproca e conversazioni intense.

Poi c'è l'ermellino, che non è un semplice accessorio decorativo. Innanzitutto, rappresentava una connessione con Ludovico il Moro, il suo amante, che era membro dell'Ordine dell'Ermellino. Questo animale, simbolo di purezza, ma anche di potere e fedeltà, viene reso con una precisione scientifica straordinaria: Leonardo studiava gli animali con la stessa cura che riservava agli esseri umani, e qui l'ermellino ha una posa quasi sovrana, come a voler dire "sì, so di essere importante".

Ma il tocco di genio è nell'atteggiamento di Cecilia: guarda oltre l’osservatore, quasi persa nei suoi pensieri. È come se Leonardo ci volesse suggerire che lei non è solo una bella faccia da guardare, ma una persona con una vita interiore profonda, che sfugge anche al nostro sguardo. E il modo in cui le sue dita accarezzano l'ermellino? C'è un’eleganza morbida e intima in quel gesto, che ci fa immaginare una dolcezza che forse solo Leonardo riusciva a catturare così bene.

Questa non è solo un’opera d’arte, ma un ritratto psicologico, un pezzo di storia, e un piccolo mistero tutto da contemplare.

La Dama con l’ermellino non è solo un ritratto, ma una dichiarazione di stile e una rivoluzione nella ritrattistica del tempo. Leonardo ha usato tecniche innovative che oggi diamo per scontate, ma all’epoca erano pura avanguardia.

Prima di tutto, l’uso del chiaroscuro non è soltanto un gioco di luci e ombre: crea un senso di profondità e volume che dà vita al ritratto. Cecilia sembra emergere dall’oscurità, in contrasto con il fondo nero, come una visione quasi divina. Questo sfondo scuro è una scelta audace: anziché inserire il soggetto in un contesto naturalistico o architettonico, Leonardo lascia che tutta l’attenzione sia su di lei. E quel contrasto è un espediente che sembra dirci “concentratevi solo su di lei, perché c’è qualcosa di speciale”.

E vogliamo parlare della posizione del corpo? Prima di questo dipinto, la maggior parte dei ritratti era piuttosto rigida, frontale o di tre quarti. Leonardo invece opta per una posa dinamica, con il corpo di Cecilia girato di lato e il viso che guarda altrove. È un piccolo tocco che cambia tutto, conferendo movimento e vitalità. Sembra quasi che stia per voltarsi completamente, come se l’avesse appena chiamata qualcuno, o come se fosse colta in un momento intimo e sfuggente. È un’istantanea di un attimo fuggente, qualcosa che la rende viva.

C’è anche una teoria interessante secondo cui l’ermellino rappresenterebbe la trasformazione stessa. Come Leonardo, che era un uomo multiforme, anche l’ermellino può cambiare colore in base alle stagioni. Forse Leonardo ci sta dicendo qualcosa sulla mutevolezza della natura umana, o su come i nostri ruoli cambino a seconda delle circostanze.

Infine, La Dama con l’ermellino è anche un ritratto dell’umanesimo: Leonardo vuole farci vedere Cecilia come individuo unico, con una personalità complessa e sfaccettata. Questo è l’emblema dell’approccio rinascimentale, dove l’essere umano, con tutte le sue contraddizioni e profondità, diventa il centro dell’universo artistico e filosofico.

Leonardo da Vinci è famoso per la sua innovazione tecnica, e La Dama con l’ermellino è un perfetto esempio di come abbia portato l’arte della pittura a un livello completamente nuovo. Vediamo alcuni degli aspetti più interessanti della sua tecnica in questo dipinto:

1. Sfumato

Leonardo perfeziona qui il suo caratteristico sfumato, una tecnica che consiste nel creare transizioni delicate e quasi impercettibili tra i colori e le tonalità. In La Dama con l’ermellino, il volto di Cecilia è levigato e privo di contorni netti, un risultato ottenuto stratificando sottili velature di colore che sfumano una nell’altra. Questo effetto morbido dà al viso e al collo una qualità quasi tridimensionale e rende l'incarnato realistico e luminoso. Lo sfumato diventerà una delle tecniche più famose del maestro, usata anche nella Gioconda.

2. Chiaroscuro

Il gioco di luci e ombre è magistrale. Leonardo sfrutta il chiaroscuro per dare profondità e per guidare lo sguardo dell’osservatore verso i punti focali, come il viso di Cecilia e l’ermellino. Notiamo come la luce illumini il volto della dama e il corpo dell’ermellino, mentre il fondo resta completamente nero, creando un contrasto che fa risaltare i dettagli e suggerisce una sensazione di mistero.

3. Attenzione ai dettagli

Leonardo era noto per la sua ossessione per il realismo e i dettagli. L’ermellino, ad esempio, è dipinto con un’attenzione maniacale alle sfumature del pelo, che appare soffice e setoso. Anche il vestito e i gioielli sono resi con una precisione che testimonia la sua profonda osservazione della realtà. Leonardo applicava spesso la tecnica del “dipingere senza fretta”, ossia procedeva lentamente e con cura, il che gli permetteva di lavorare ogni piccolo particolare fino alla perfezione.

4. Stratificazione dei colori

Leonardo utilizzava una tecnica di stratificazione, applicando diversi strati di colore per ottenere profondità e realismo. Dopo una base chiara, sovrapponeva velature di colore trasparente, un metodo che dona al dipinto una qualità luminosa unica. Ad esempio, per il volto di Cecilia, Leonardo potrebbe aver usato diverse velature di tonalità calde e fredde, rendendo la pelle incredibilmente naturale e realistica.

5. Pigmenti e materiali di alta qualità

Leonardo sceglieva con cura i suoi pigmenti e preparava i colori in modo da ottenere una resa ottimale. Usava pigmenti costosi e di alta qualità, mescolandoli a oli e leganti che garantivano una superficie uniforme e duratura. Il fondo scuro, ad esempio, era ottenuto con un uso di nero che era composto da miscele di carbone, mentre per la pelle e i tessuti utilizzava colori che potevano essere arricchiti da terre naturali.

6. Proporzioni e anatomia

Leonardo era un maestro dell’anatomia e applicava le sue conoscenze anche nei ritratti. Il volto di Cecilia è perfettamente proporzionato e disegnato secondo i principi anatomici dell’epoca, ma con un realismo che si allontana dalle idealizzazioni rigide. Le mani, spesso difficili da ritrarre, sono rappresentate con grande maestria: notiamo come le dita si curvano intorno all’ermellino in modo naturale e delicato, esprimendo un gesto intimo e preciso.

In sintesi, La Dama con l’ermellino è un capolavoro tecnico che mostra quanto Leonardo fosse avanti rispetto ai suoi contemporanei. Questo quadro è molto più di una rappresentazione realistica: è un viaggio nel mondo delle emozioni e della psicologia, ottenuto con una tecnica tanto sofisticata quanto visionaria.

Questo dipinto è come un enigma artistico, pieno di dettagli nascosti, interpretazioni simboliche e curiosità storiche. Ecco alcune chicche in più:

1. La personalità di Cecilia Gallerani

Cecilia non era solo una bellezza da corteggiare; era anche una donna molto colta e intelligente. Partecipa attivamente alla vita intellettuale della corte milanese e corrisponde con poeti e filosofi. Era una delle poche donne a essere ammesse nei circoli culturali, in un’epoca in cui il ruolo femminile era ancora piuttosto limitato. Questo ritratto, quindi, non rappresenta solo una bellezza idealizzata ma una persona dotata di profondità intellettuale, che probabilmente affascinava Leonardo non solo per l’aspetto ma anche per la mente.

2. Un ritratto del potere

Non dimentichiamo che Cecilia era l’amante di Ludovico il Moro, Duca di Milano, un uomo potente e influente del Rinascimento italiano. In un certo senso, il ritratto con l’ermellino è una dichiarazione di status. Ludovico era infatti membro dell’Ordine dell’Ermellino, un’onorificenza concessa ai nobili e ai potenti. Questo legame sottolinea la relazione tra Cecilia e il duca, quasi a voler dire che il potere di Ludovico “avvolge” anche lei. L’ermellino, quindi, non è solo un animale domestico, ma un simbolo di connessione al potere e all’elite dell’epoca.

3. Una composizione in movimento

Leonardo rompe con la tradizione del ritratto statico. Qui Cecilia sembra in procinto di girarsi, con uno sguardo sfuggente e un accenno di sorriso enigmatico. C’è un dinamismo nella posa che non si vede spesso nei ritratti del Quattrocento, e questa vivacità riflette probabilmente anche la personalità di Cecilia. Leonardo, che era affascinato dall’anatomia e dal movimento, riesce a catturare un momento transitorio, un attimo fuggente che rende il ritratto ancora più affascinante.

4. Un restauratore distratto

Curiosamente, La Dama con l’ermellino ha subito diversi restauri, alcuni dei quali non proprio brillanti. Per esempio, a un certo punto qualcuno ha deciso di coprire lo sfondo originale, che non era completamente nero ma conteneva sfumature più morbide e dettagli. Questo intervento ha tolto un po’ della tridimensionalità e della profondità del dipinto, ma grazie alle moderne tecniche di restauro siamo riusciti a scoprire alcuni aspetti originari. Ancora oggi si studiano le stratificazioni per capire meglio come Leonardo costruì questo capolavoro.

5. Un’ispirazione per artisti e scrittori

La Dama con l’ermellino è diventata un’icona della bellezza e del mistero femminile. L’opera ha ispirato scrittori, artisti e persino cineasti: la figura di Cecilia è stata interpretata come simbolo di una femminilità complessa, capace di attirare e respingere al tempo stesso. Questo ritratto ha affascinato anche psicologi e storici dell’arte, che hanno interpretato il simbolismo e l’intensità dello sguardo di Cecilia come manifestazioni della sua personalità unica.

6. L’incidenza della moda

Il vestito di Cecilia è una finestra sulla moda rinascimentale: l’abito e i dettagli dell’acconciatura riflettono le tendenze della Milano di fine Quattrocento. La treccia stretta, quasi nascosta, e la striscia di stoffa che copre la fronte erano segni distintivi di stile, forse influenzati dalla moda spagnola. Non è solo un look alla moda, però: Leonardo ha scelto ogni dettaglio con cura per bilanciare semplicità e eleganza, conferendo al ritratto una raffinatezza senza tempo.

In definitiva, La Dama con l’ermellino non è solo un ritratto, ma una finestra sul mondo del Rinascimento, sulle vite intrecciate di Cecilia, Ludovico e Leonardo, e un capolavoro che sfida il tempo e la comprensione. Ogni dettaglio ci sussurra una storia, invitandoci a scoprire sempre di più.

Per concludere, La Dama con l’ermellino non è solo un ritratto: è una sinfonia visiva, un manifesto di tecnica e innovazione, un enigma che ha resistito ai secoli. Leonardo ha preso il concetto di ritratto, un genere che spesso era solo un’esaltazione estetica, e l’ha trasformato in un ritratto dell’anima e della mente.

Cecilia non è semplicemente una "dama"; è una donna con una storia, una personalità che ci guarda con un’espressione di sfida, quasi consapevole della sua immortalità su quella tela. È una celebrazione della bellezza intellettuale, della complessità psicologica, e della femminilità in tutta la sua forza e delicatezza.

In un certo senso, questo quadro rappresenta lo spirito stesso del Rinascimento: un'epoca in cui l’uomo e la donna, con tutte le loro contraddizioni e grandezze, tornavano al centro della scena. Ed è anche la testimonianza di come Leonardo non fosse solo un genio artistico, ma un profondo conoscitore della natura umana, capace di rendere eterno l’istante in cui una giovane donna guarda oltre noi, forse verso un futuro in cui avrebbe lasciato una traccia indelebile.

Ogni volta che guardiamo questo dipinto, ci ricordiamo che l’arte ha il potere di catturare il cuore di un’epoca e di farci innamorare, seppur per un istante, di una donna che non incontreremo mai, ma che ci sembra di conoscere intimamente. E forse, questa è la vera magia di La Dama con l’ermellino.

lunedì 28 ottobre 2024

Klimt!


Questa foto ritrae Gustav Klimt e la sua compagna e musa Emilie Flöge, entrambi personaggi affascinanti della Vienna del primo Novecento. Klimt, famoso pittore simbolista e fondatore della Secessione Viennese, appare rilassato e con uno stile elegante ma informale, con la sua classica fascia in vita che spesso caratterizzava il suo abbigliamento. Emilie, nota designer di moda e imprenditrice, indossa un cappello ricco di decorazioni e un abito lungo e fluente, tipico dello stile innovativo che amava creare e promuovere nel suo atelier.

L'immagine riflette il legame unico tra i due, fatto di creatività, ispirazione reciproca e uno stile di vita all'avanguardia per l'epoca. Emilie non fu solo la musa di Klimt ma anche una pioniera della moda, influenzata dalle idee di libertà e di espressione che condivideva con il suo partner.

La pittura di Gustav Klimt è un inno alla sensualità e al decorativismo, spesso considerata un mix esplosivo di erotismo, simbolismo e sperimentazione. La sua opera si distacca decisamente dalla tradizione accademica, optando per uno stile che esalta l’ornamento e il sogno. Gli elementi decorativi, dorati e stilizzati, derivano dall’influenza dell’arte bizantina, che lui rielabora in modo personalissimo, come si vede nel celebre Il Bacio (1907-1908), dove i corpi degli amanti si fondono in una cascata di oro e forme geometriche.

Klimt è stato uno dei fondatori della Secessione Viennese, un movimento nato nel 1897 in opposizione all’arte convenzionale e istituzionale dell’epoca. La sua estetica esplorava temi come la femminilità, l’erotismo, la morte e la rinascita. I suoi ritratti femminili, come quelli di Adele Bloch-Bauer e di altre donne della società viennese, celebrano un’idea di donna quasi divina, decorata come un'icona preziosa, un oggetto di contemplazione.

Le sue opere sono piene di simbolismi psicologici e metaforici. Nel Fregio di Beethoven, per esempio, rappresenta una sorta di viaggio spirituale che culmina in un inno alla gioia e all’amore, attraverso un linguaggio visivo fatto di figure mitiche e allegorie. Inoltre, Klimt ha esplorato l’arte erotica come pochi altri, con disegni e dipinti che mostrano una profonda curiosità per il corpo e la sessualità, spesso spingendosi oltre i limiti morali dell’epoca. Le sue opere, in questo senso, erano spesso considerate scandalose e provocatorie, ma rappresentano anche un invito alla liberazione personale e sessuale.

Klimt è una miniera d'oro di dettagli da esplorare (sia in senso figurato che letterale!). Oltre alla sua celebre fase dorata, caratterizzata da opere scintillanti come Il Bacio e Giuditta I, Klimt ha avuto diverse fasi stilistiche. Dopo un periodo iniziale più accademico, il nostro amato artista ha abbracciato una visione simbolista e rivoluzionaria, dedicandosi a una rappresentazione del corpo femminile carica di sensualità, di mistero e – diciamolo – di un pizzico di ribellione.

Uno degli elementi che distinguono Klimt è l’uso intensivo di motivi geometrici e astratti, che decorano quasi come fossero mosaici i corpi e gli sfondi dei suoi personaggi. Nei suoi dipinti le figure femminili spesso si stagliano contro fondi dorati o decorati con motivi floreali e geometrici, creando un effetto quasi ipnotico. La struttura geometrica si fonde con le figure, quasi a rappresentare l’idea che corpo e decorazione siano un tutt’uno. Questa visione rispecchia anche la sua fascinazione per l'arte orientale, specialmente giapponese, da cui trae ispirazione per gli elementi di piattezza e per la fusione tra figura e sfondo.

Non possiamo dimenticare il suo amore per l'erotismo esplicito, che si manifesta in numerosi disegni e studi preparatori. Questi lavori, molti dei quali furono censurati o considerati osceni ai suoi tempi, mostrano scene intime e a volte apertamente omosessuali, come un'esplorazione della sessualità libera dai vincoli morali della società viennese. Le sue figure femminili, spesso rappresentate in pose sensuali, sembrano quasi celebrare una sorta di autocompiacimento, un lusso di libertà che in quegli anni era davvero scandaloso.

La parte finale della sua carriera mostra una certa evoluzione verso colori più brillanti e composizioni ancora più audaci. Klimt sperimentò anche l'uso di colori intensi e vibranti, abbandonando il rigore dorato per esplorare un’estetica più libera e gioiosa. Opere come Le tre età della donna o La vergine incarnano questa nuova esplorazione cromatica e tematica, con immagini che celebrano la vita e la crescita, ma sempre con quel velo di mistero e malinconia tipici di Klimt.

Infine, l'eredità di Klimt non risiede solo nella bellezza dei suoi dipinti, ma anche nell'influenza che ha avuto sulla storia dell’arte e della moda. La sua musa Emilie Flöge, con il suo atelier di moda a Vienna, portò avanti le sue idee estetiche anche nell’abbigliamento, rendendo Klimt non solo un pittore ma quasi un'icona di stile per l’élite artistica della Vienna fin de siècle.

Uno dei suoi progetti più ambiziosi fu il Fregio di Beethoven, realizzato nel 1902 per un'esibizione della Secessione Viennese dedicata al compositore. Questo enorme affresco, lungo oltre 34 metri, rappresenta un viaggio mistico e spirituale che accompagna l’ascoltatore – o meglio, lo spettatore – attraverso le varie emozioni suscitate dalla musica di Beethoven. In esso troviamo figure allegoriche, creature mitologiche e immagini simboliche che esplorano il desiderio umano di raggiungere la felicità, superando i tormenti della vita. È un’opera monumentale, che riflette la sua aspirazione a creare un’arte totale, dove pittura, musica e architettura si fondono in un'esperienza unica.

Klimt era anche affascinato dalle scienze naturali e dalle teorie di Darwin. Questo si riflette nelle sue decorazioni murali per l'Università di Vienna, commissioni per cui realizzò una serie di dipinti rappresentanti La Filosofia, La Medicina e La Giurisprudenza. Questi lavori scandalizzarono la società accademica per la loro rappresentazione non convenzionale e persino cupa del sapere umano. La Medicina, ad esempio, includeva figure fluttuanti che sembrano persino smarrite, immerse in una visione quasi angosciante dell’esistenza. Alla fine, i dipinti furono rifiutati dall’Università, e purtroppo andarono distrutti durante la Seconda Guerra Mondiale.

Un’altra curiosità riguarda la sua vita privata, che era avvolta nel mistero. Pur essendo molto legato a Emilie Flöge, Klimt ebbe molte relazioni e numerosi figli illegittimi, anche se non si sposò mai. Era un uomo riservato e rispondeva a malapena alle critiche, preferendo che la sua vita privata restasse nascosta. La sua arte, però, sembra rivelare tutto ciò che non esprimeva a parole: passione, mistero, un desiderio di trascendere i limiti del quotidiano e di trovare la bellezza anche nei lati più oscuri dell'esperienza umana.

La sua influenza continua a riverberarsi oggi, non solo nella pittura ma anche nella moda, nel design e persino nella cultura pop. Klimt è spesso considerato un precursore del modernismo e dell’arte déco, e il suo stile ornamentale è diventato iconico, tanto che le sue opere sono tra le più riprodotte al mondo. Ma la sua vera eredità è forse l’aver liberato l’arte dai vincoli accademici, creando uno spazio dove il desiderio e l’immaginazione potevano scorrere senza limiti.

Possiamo dire che Gustav Klimt è stato molto più di un pittore: è stato un visionario, un ribelle dell’arte, un alchimista che ha saputo trasformare l’oro in emozioni. Klimt ha creato un universo dove sensualità, bellezza e mistero coesistono in un abbraccio lussureggiante, un mondo in cui la decorazione diventa narrazione e il corpo umano, soprattutto quello femminile, è celebrato come un tempio sacro.

Il suo stile, spesso criticato come "esagerato" e "troppo ornamentale" dai benpensanti dell’epoca, oggi è amato per la sua audacia e la sua modernità. Klimt non si è limitato a sfidare i confini dell’arte, li ha superati, creando opere che sono esperienze visive e spirituali. Come pochi altri, ha capito che l’arte poteva essere un mezzo per esplorare l’inconscio e i desideri più profondi, molto prima che Freud e Jung rendessero popolari questi concetti a Vienna.

Alla fine, Klimt ci lascia con un’eredità preziosa: un invito a cercare la bellezza in ogni angolo, a non temere la sensualità, e a vedere l’arte come uno specchio dei nostri desideri e delle nostre paure più intime. La sua opera è un abbraccio dorato che, ancora oggi, ci cattura e ci fa sognare, ricordandoci che, a volte, l’arte è la risposta quando le parole non bastano.



fuori e dentro


Fuori e dentro. Non c’è più differenza. L’aria è una morsa che serra e strangola, un sudario che mi soffoca dall’interno. Non c’è pelle che mi separi da quest’incubo pulsante: ogni respiro mi avvolge, mi ingloba, mi schiaccia. Il mondo si sbriciola attorno a me, pezzo per pezzo, mentre inspiro. Dentro, sempre più dentro.

La scorsa notte il cielo si è aperto in due, una ferita accecante che ha vomitato luce e cenere. E ora, quella luce è dappertutto – negli occhi, nelle narici, nelle vene. Respiriamo i detriti di un’esplosione troppo vasta per comprenderla. Il mondo si è disfatto in polvere, e quella polvere ora si riversa nei nostri corpi, senza tregua, senza pietà. Non c’è scampo. Ogni respiro è una condanna.

Sono pezzi di mia madre, brandelli del suo passato che si depositano nei miei polmoni, la sua nicotina, il suo dolore, la sua vita che ancora infetta la mia carne. E io respiro, respiro la sua fine, la mia fine, un veleno che mi avvelena lentamente, che non posso smettere di inspirare. Non posso. La vita è questa catena d’aria malata, questo spasmo senza redenzione.

Abbiamo perso. Noi, i primi e i soli a vedere la luce che ci ha distrutti. Respiriamo i frammenti di chi amiamo, scintille di plutonio conficcate nei polmoni, ogni respiro è un grido silenzioso che brucia dall’interno. E io amo. Amo questo dolore che non conosce sollievo, amo i resti di ciò che ero, amo ogni atomo di questa distruzione che è tutto ciò che mi è rimasto.

Lasciami respirare. Lascia che anneghi in quest’aria di morte. Lasciami inspirare fino all’ultimo battito, fino all’ultimo rantolo, finché non sarò più niente. Dio, se ci sei, lasciami questo veleno. Lasciami soffocare nella vita, lasciami bruciare un respiro alla volta.

Perché la vita è questo, capisci? Un respiro carico di disperazione, un abisso che inghiotte ogni speranza, un urlo che si spegne senza mai trovare la pace.

domenica 27 ottobre 2024

brindiamo


Brindiamo, dunque, a questa eterna discesa, a quelle battaglie che non hanno mai avuto bisogno di clangore, perché il loro teatro è l'abisso stesso della nostra anima. Brindiamo al vuoto che ci accoglie, alle voragini che si spalancano sotto ogni passo, dove ogni nostra caduta è una lenta, agognata liberazione. Non c’è salvezza, né redenzione, solo il languore di un’esistenza in cui la luce è sempre un ricordo distante, sfumato come il volto di un amante che non tornerà mai.

Beviamo, o compagni di tenebra, a questo tormento silente che ci divora senza mai concederci la misericordia della fine. Ogni battaglia è stata combattuta in segreto, tra le pieghe delle nostre menti stanche, tra il sussurro di pensieri cupi che ci seducono, promettendoci un riposo che non arriva mai. Le nostre anime, come fantasmi inquieti, vagano in un limbo senza forma, sospese tra il desiderio di sparire e l’impossibilità di sfuggire a se stesse.

Brindiamo a questa condanna, alla dolce agonia che ci avvolge come un sudario. Brindiamo al silenzio, che è più feroce di qualsiasi urlo, e alla solitudine che ci accompagna come un'ombra, inseparabile. Ogni battaglia che abbiamo combattuto, ogni vittoria segreta, non è stata altro che un passo verso il vuoto, una lenta erosione dell'essere. Eppure, resistiamo, come statue crepate, scolpite nella pietra della sofferenza. Brindiamo a questo nulla che ci seduce, a questo abisso che ci chiama per nome, perché è solo nell'oscurità che troviamo la vera essenza di ciò che siamo: frammenti di un sogno spezzato, destinati a dissolversi nell’eterno oblio.

Beviamo, allora, al nostro lento annullamento, alla gloria di esistere per il solo scopo di sprofondare, ancora e ancora, finché il mondo dimenticherà persino il suono dei nostri nomi.

Jolanda Insana



Jolanda Insana è stata una delle voci più originali e potenti della poesia italiana del Novecento. La sua scrittura è caratterizzata da una forte fisicità e un linguaggio crudo, quasi brutale, che si muove fra temi come la corporeità, la morte e la violenza, trattati senza riserve e con un'intensità che spesso sfiora l'invettiva. Lontana dalle convenzioni della poesia lirica tradizionale, Insana ha sviluppato un linguaggio poetico che rifiuta il formalismo e il sentimentalismo, preferendo un’espressione spoglia, diretta, e ricca di termini del dialetto siciliano.

La sua poesia è visceralmente ironica, a volte sarcastica, e carica di una sensibilità dissacrante. Non a caso, spesso Insana rifiuta l’idea di una poesia “bella” o “decorativa,” abbracciando, al contrario, una verità disturbante e oscura. Influenzata da autori come Antonin Artaud e Emil Cioran, la sua opera può risultare complessa ma profondamente onesta, una sorta di viaggio brutale attraverso le zone più oscure e scomode dell'animo umano.

Insomma, Jolanda Insana riesce a ribaltare ogni aspettativa convenzionale e a tirare fuori da ogni verso una visione “sanguigna” della vita, trasformando ogni immagine in un vero e proprio pugno nello stomaco.

La poesia di Jolanda Insana non è solo cruda e viscerale, è una sorta di contro-canto al modo in cui la letteratura italiana spesso esprime il dolore, la sofferenza e la corporeità. Prendiamo in considerazione la sua raccolta Sciarra amara del 1977, dove già emerge il suo linguaggio volutamente “sanguinante” e senza abbellimenti, che mira a destabilizzare il lettore e a farlo confrontare con la brutalità dell'esistenza.

Insana non tratta il corpo in modo idealizzato: è un luogo di putrefazione, di trasformazioni, e di una sofferenza che lei descrive senza misericordia. Nei suoi versi troviamo espressioni come “carne marcia” e immagini di decomposizione, quasi come se volesse spogliarci, costringendoci a guardare ciò che di solito evitiamo. È una poesia di contrasti forti, dove le immagini di morte e decomposizione si mescolano con l'ironia e un senso di umorismo nero, che in qualche modo sottolineano la sua visione disincantata dell’esistenza.

Il suo stile, poi, è stratificato, e a tratti richiama la tradizione orale siciliana, ma lo fa in modo dissacrante. Usa dialettismi, inserti prosastici, suoni forti e sgradevoli, che, se presi insieme, creano una musicalità aspra e disturbante. In questo modo, Insana riesce a fondere il lirismo con la satira, il tragico con il grottesco, e a far emergere una voce che resta sempre tra il sacro e il profano.

Inoltre, uno degli elementi centrali della sua poetica è la materialità del linguaggio. Non cerca parole raffinate o metafore eteree, ma sceglie un linguaggio “sporco”, concreto, quasi tangibile. Insana, infatti, sembra volerci dire che l’unico modo autentico di fare poesia è quello di smantellare ogni filtro estetico, rendendo la parola “carne”, qualcosa che si sente addosso.

Alla fine, leggendo Insana, si percepisce un’esperienza brutale e catartica: è un incontro con la parte più oscura e ribelle della nostra umanità.

C'è molto di più nella scrittura di Jolanda Insana, perché la sua poetica affonda anche nelle radici della mitologia, della filosofia e persino della teologia. Nei suoi testi, Insana si lascia ispirare dal mito greco, dalla Bibbia e da testi apocrifi, reinterpretandoli in chiave moderna e completamente irriverente. È come se si ponesse in dialogo – o piuttosto in scontro – con questi temi “sacri”, per rivelare il lato umano più abissale e primordiale, quasi un'eresia che rivendica un’autenticità fisica e crudele.

Prendiamo il suo rapporto con la lingua, che per lei è sia strumento che bersaglio. Non è raro trovare nei suoi versi una struttura lessicale che richiama lo smembramento: seziona la parola, ne esplora le radici, la frammenta fino a renderla scheggia, quasi pericolosa, come se volesse spaccare ogni convenzione linguistica per arrivare a un nocciolo di verità. Le sue scelte linguistiche non sono mai casuali; usa parole crude e dialettali per avvicinare il lettore a una realtà che la lingua letteraria tende a edulcorare. Insana intende il linguaggio come materia viva, qualcosa che si può manipolare come carne.

Un altro tema complesso in Insana è la morte, che appare come una presenza quasi fisica, costante, sempre lì a ricordarci la natura deperibile del corpo. Ma per Insana, la morte non è solo una fine: è un processo di metamorfosi, e qui il richiamo a poeti come i surrealisti, o a figure come Artaud, è chiaro. L’idea di trasformazione, di passaggio attraverso il degrado, è per lei anche un atto di ribellione contro la staticità. Insana esplora questa soglia senza timore, vedendo la putrefazione non come orrore ma come qualcosa di intrinsecamente umano e naturale.

Infine, il suo approccio dissacrante è anche un atto politico, un modo di resistere al conformismo culturale. In un contesto letterario che tendeva a celebrare la bellezza, Insana ha avuto il coraggio di portare in primo piano l’orrore e la decadenza, usando la poesia non per sublimare, ma per esplorare le parti più oscure della nostra identità. La sua è una poesia di resistenza, una sfida aperta al buon gusto, e rappresenta un’urgenza di verità che, pur nella sua crudezza, diventa profondamente liberatoria.

In sintesi, Iolanda Insana non solo provoca, ma costringe a guardare, in un’epifania brutale che è insieme condanna e catarsi.