Ecco una versione rielaborata delle mie vecchie traduzioni di Verlaine, mantenendo la musicalità e il tono poetico che richiedono, ma con una cura speciale nella resa fluida in italiano.
Prefazione
[sulla mia traduzione di "Melancholia" di Paul Verlaine]
Una breve introduzione: le traduzioni “invecchiano” quanto i traduttori; parrebbe che, con il continuo mutare degli orizzonti culturali, la ritraduzione dei classici sia non solo auspicabile ma necessaria: per rimettere in circolo ciò che sembrava un possesso acclarato, consegnato all’illusoria e spesso ingessata permanenza di versioni canoniche.
E così tanto più problematico fu, per me, ritradurre un autore già classico da sempre come Paul Verlaine, al contempo supremo azzardo, prototipo ed esito altissimo della poesia francese ottocentesca.
La traduzione, attività incessante di decodifica mentale da parte del lettore, è, secondo me, la molla stessa di quel procedere a strappi, a balzi, a scoppi e sbandamenti che incarna esattamente il movimento del pensiero, della rielaborazione adattata di un pensamento già avvenuto. Una infedeltà bene acquisita. E in cui ogni eco, o barlume di similitudine, si fa immediatamente testo, suono, disegnando in progressione sulle pagine una mappa della coscienza, idolo e demonico primattore di ogni secolo passato che diviene futuro.
La coscienza in cammino divenuta linguaggio.
Una versione – così allora la chiamai, non mi sentivo traduttore – che mi sono, dunque “autorizzata” e che uscì nel 1992 presso i tipi delle edizioni L’Obliquo di Brescia, per le premurose cure di Giorgio Bertelli, editore raffinatissimo che la pubblicò in forma di plaquette. Un testo giovanile del poeta amato da Rimbaud che ritenevo superlativo per qualità di resa e creatività ma forse troppo inascoltato e poco conosciuto per il nostro orecchio. Veniva ad affiancarsi a quelle, poche invero, di altri che mi avevano preceduto, con l’unico merito di recuperarla e renderla nuovamente disponibile per la mia vocazione al popolare e al collettivo che già allora mi pareva fosse necessità assoluta, nell’ottica di una cognizione dello scrivere che, proprio riflettendosi nei flussi più impalpabili di pensiero, potesse farmi apprendere, anche da quel testo giovanile di Verlaine, le sue regole di scrittura – metrica, rima – ma, pure, un sentire di un poter vivere democratico e tollerante. E un po’ comunardo. La condivisione di un sapere.
Temo lo si trovi a fatica, quel testo, mi va di renderlo nuovamente visibile, per una sorta di rivendicazione. Di diritto alla visibilità. Mio e suo.
Dato per certo che tradurre la parola di Verlaine era, per me, un gioco impossibile, decisi che, proprio per questo esatto motivo, l’impresa andava tentata.
Capivo che ogni versione non poteva che essere un gesto calato nella propria storia personale, e che era, inoltre, nel mio caso, un atto implicito di commento nato da una visione dell’autore con cui ingaggiavo un corpo a corpo così come se, innanzitutto, provenisse da un’idea di lettore. Non volevo, nemmeno lontanamente, pensare che le varie traduzioni di uno stesso libro fossero un febbrile, e inutile, agonismo tra loro per soppiantarsi a vicenda. Per me fu solo una prova di stile.
A parità di competenza e impegno, quell’impresa, piuttosto, si completò e venne in qualche modo considerata un piccolo evento. Piccolo.
Era un dato momento storico, quello, e contesto vivissimo di ricettività, qualcuno si accorse che il tentativo fu di rieseguire le armoniche forti del testo rivivendole nella nuova, nell’altra lingua. Cioè la mia.
E in ogni caso, se a porvi mano era stato un poeta giovane, fu fatale che balzò sulla scena come una presenza di quel primum e unicum che mi piaceva definire quasi fisico.
Ora, quel lavoro, dopo anni di sottaciuto oblio, mi piace di riproporlo, con qualche lieve aggiustamento, e si mostra subito per ciò che non è né vuole essere, a partire dalla nettezza di certe scelte lessicali, esibite quasi come petizione di principio.
Nelle prime battute, la macchina verbale è un fiume parlato cui mi sono abbandonato sull’onda di un’immaginazione sonora, tra mosse impreviste di voce, pause non lontane ed estatiche, ritorni e trapassi, incagliamenti, apparizioni e sdrucciolii, senza la pretesa di «capire e far capire tutto» come se tutto potesse avere la stessa dignità, come se tutto ciò che è umano e mobile potesse essere carico della grazia casuale di ciò che vive.
Tutto questo rieseguendo la partitura e dotandola di un ventaglio lessicale a volte inventato e non paragonabile ad alcun’altra traduzione di questo stesso testo, cercando di orientarmi verso una personale extralingua, una foga ispirata a una gioia deformante e volendo tentare, anche sul piano del ritmo, il riordino personale delle parole, creando una ricontinua mutazione del testo e consegnandone, così, una peculiare estraneità all’originale stesso.
Perché è davvero suscitando nel lettore, anch’egli a suo modo traduttore e farneticante immaginatore, l’esperienza di quello sfrontato potere liberatorio impresso prima di tutto dal suono, cantilenato nella testa, che si agisce.
Durato un intero Inverno, il lungo ascolto di Melancholia intese, perciò, sfociare in una forza di reinvenzione che potesse attecchire, anche solo sporadicamente, in un mondo unico e si potesse esprimere in un passo mentale solo mio, facendosi voce volutamente eccentrica, fuori ordinanza, rispetto alla prassi della traduzione di mercato.
A sollecitarmene la traduzione fu il mio pensiero sul corpo fisico della parola, niente altro, la ricerca di un suo teatrale sapore di furto, nei versi dove si affondano le mani nelle cadenze dei gerghi o di un italiano latente.
Una polveriera inusuale, un armamentario allo stesso tempo ricercato e popolare, sferzante e reticente, con un gusto di irrisione che emerge nei momenti in cui insiste nella parodia del sublime e dell’amorevole.
Un nodo in cui addensavo le allusioni più subdole, annunciando e intrecciando le mie prime prove acustiche, il senso del suono.
Di questo testo inseguii insomma anche la qualità incantatoria della parola, la possibile musicalità, essenziale per il suo stesso suono, prima e molto al di là del senso stesso, che sfrondava tutto il diaframma tra materia e simbolo per impadronirsi del lettore precipitandolo in uno spaesamento, in una deriva fantasticante a fronte della stessa lingua nella sua interezza storica.
Così una forma tipica, per me, di quest’esperienza di rilettura, fu la tentazione del caos e quella dell’ordine, l’abbandono alla corrente e la sveglia delle impensate connessioni tra realtà, generando un nuovo abito percettivo.
La celebrazione della meraviglia di un Inverno come tanti, dell’eroismo normale dell’essere umani, di astuzie e crolli di un’umanità bonariamente sbilenca, non restò che confinato nella mia idea di letteratura.
Reti di ricorsi e rimandi che quasi danno l’impressione di autogenerazione, nel continuo fluire fra mondo individuale e condiviso, dentro e fuori, mente e realtà.
Allusione indirettamente nel solo testo: un’elaborazione non sofferta, ma soggetta anch’essa a sbandamenti e ritorni, emergenze e giunture, dove suggestioni individuali possono prender piede sul dato acquisito.
Una virtù trasformativa e, forse, felicemente operante e un modo per riscrivere i libri, fedeltà di pensamento ma non di parola, energia, colori, tonalità, contentezza di condivisione, senza dover rendere conto alla dittatura della maggioranza. Divenne una posizione, la mia, insensatamente parziale e personale, come accade per ogni vera posizione, che porto avanti ancora oggi.
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I saggi d’altritempi, che valgono quanto questi,
credevano, ed è questione tutt’oggi assai contesa,
di leggere in cielo fortune e sventure — e ogni anima
di essere legata a un astro, a un segreto di stelle.
(Si è riso, sì, e tanto, ignorando forse
che spesso è ridicolo quanto chi ride,
questo volgersi in su, allo spiegarsi del buio).
Ora quelli nati sotto Saturno, astro selvaggio,
prediletto dei maghi, portano scritto nel sangue
un fato di bile, di nera sfortuna.
In loro l’immaginazione ansiosa e fragile
annulla ogni sforzo della Ragione.
Il sangue, sottile come filtro amaro,
lava che brucia lenta, scorre e ristagna,
fossilizzando un ideale triste che crolla.
Così i Saturniani nascono per soffrire,
per una vita che a ogni riga delinea
la logica, cieca, d’una maligna influenza.
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Rassegnazione
Da bambino, sognavo Koh-i-Noor,
fasto persiano, palazzi sontuosi,
presenze d’eliogabali, di sardanapali!
Il mio desiderio inventava sotto tetti d’oro,
tra profumi, e al suono di musiche,
harem infiniti, paradisi del corpo!
Oggi più quieto, non meno ardente,
conoscendo ormai le pieghe della vita,
ho dovuto frenare la mia folle fantasia,
rassegnarmi a un nulla di niente.
E sia! Il grandioso fugge il mio morso;
ma, vergogna della grazia e del vile!
Sempre odio la dolce donna-gioiello,
la rima insulsa e l’amico prudente.
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Nevermore
Ricordo, ricordo, che vuoi da me? L’autunno
faceva volare il tordo nel grigio a-tono,
e il sole dava un raggio mono-tono
al bosco che ingiallisce nel freddo che stona.
Eravamo soli, passeggiando e sognando,
lei ed io, capelli e pensieri al vento.
Quando, improvvisa, volgendo il suo sguardo:
“Qual è stato il tuo giorno più bello?”
disse, con voce dorata, angelica e fresca.
Risposi sottovoce con un sorriso di pesco,
e le baciai con devozione le mani bianche.
Ah! i primi fiori come son profumati,
e come suonano, dolci echi,
i primi sì dei labbri amati!
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Dopo tre anni
Spinto il cancello stretto e vacillante,
ho passeggiato nel piccolo giardino,
schiarito dal sole del mattino,
ogni corolla un luccichio brillante.
Nulla è mutato. Ho rivisto ogni cosa:
la pergola umile di vite selvatica,
le sedie di giunco, il mormorio argentino
della fontana, e il pioppo sempre lamentoso.
Le rose palpitano ancora come sempre,
i gigli orgogliosi sempre ai venti danzano.
Ogni allodola che va e viene, già conosciuta.
E ho ritrovato, in piedi, la piccola Valletta
dove il gesso si scaglia sul sentiero incerto,
fragile, fra l’odore tenue di reseda.
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Voto
Ah! i colloqui intimi! Le prime amate!
L’oro dei capelli, il blu degli occhi, il fiore
della carne, fra i giovani profumi d’amore,
e la spontaneità delle carezze delicate!
Lontani sono questi momenti di gioia,
tutti questi candori! Ahimè, tutto fugge
in una primavera di rimpianto; nero inverno
che si riversa su di me, noia e tristezza.
Ora eccomi solo, taciturno e solo,
mesto e disperato, più freddo d’un avo,
simile a un povero senza sorelle, orfano.
Ah, quella fanciulla dolce e ardente,
pensierosa e bruna, mai arretrata,
che talvolta vi bacia in fronte, come un bambino.
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Stanchezza
“A batallas de amor campo de pluma.”
(Góngora)
Dolcezza, dolcezza, dolcezza!
Frena questi febbrili trasporti, mia incantatrice.
Al culmine stesso del piacere, l’amante
dovrebbe serbare la pacatezza d’una sorella.
Sii languida, rendi il tuo abbraccio dormiente,
i tuoi sospiri uguali, i tuoi occhi tranquilli.
L’abbraccio geloso, lo spasmo ossessivo
non valgono un lungo bacio, persino mentale!
Nel tuo cuore d’oro, mia bambina,
suona la passione come il corno dell’olifante!
Che suoni, dunque, finché vuole, sfrenata.
Appoggia la fronte alla mia e nelle mie mani,
e prometti che domani dimenticherai,
e piangiamo fino al giorno, o mia infuocata!
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Il mio sogno familiare
Sovente sogno questa donna sconosciuta,
che amo e che mi ama in cambio,
che non è mai la stessa, eppure identica,
mi comprende e m’è compagna.
Perché solo lei m’intende, e solo a lei
il mio cuore si fa trasparente,
cessa di tremare il mio animo sgomento,
che lei sa consolare con lacrime pietose.
È bruna? Bionda? Rossa? Non so dire.
Il suo nome mi ricorda suoni dolci
come quelli dei nomi amati e dimenticati.
I suoi occhi come statue, il suo sguardo
lontano, la sua voce grave mi abbraccia,
morte parole nel pieno del silenzio.
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A una donna
A voi, questi versi per la grazia affabile
dei vostri grandi occhi, dove un sogno ride e piange,
per la vostra anima pura e buona, a voi,
questi versi dalla mia disperazione che vi si aggrappa.
Ahimè, l’incubo orrendo che mi tormenta
non si stanca, va furioso e folle,
si moltiplica come una schiera di lupi
e si lega alla mia sorte sanguinante.
Oh! soffro orribilmente, un affronto
che fa il primo gemito di Adamo,
pare ecloghe dolci al mio confronto!
E la dolce premura che mi offrite,
s’è come rondine d’un meriggio
sopra un cielo autunnale che dilegua.
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L’angoscia
Natura, niente di te mi commuove, né i campi,
né l’eco vermiglia dei canti siciliani,
né le grandi aurore, né il dolore lento
delle sere che calano.
Rido dell’Arte, rido dell’Uomo, dei versi,
dei templi greci, delle cattedrali
che slanciano nel vuoto torri spiralate,
e guardo ogni cosa con occhio distaccato.
Non credo in Dio, abiuro e rinnego,
né idea né amore, come chi più non osa.
Tedio di vivere, e paura di morire,
la mia anima, simile a nave smarrita,
salpa per perdersi nei mari del male.