venerdì 31 ottobre 2025

Léger e i suoi eredi: la modernità come promessa condivisa alla Reggia di Venaria fino al 1° febbraio 2026


C’è una linea luminosa, quasi impercettibile, che attraversa l’intero secolo scorso come un respiro trattenuto: nasce nei laboratori del Cubismo, vibra tra le officine futuriste, si infrange contro la guerra e rinasce nelle città popolate di segni, di pubblicità e di colori. È la linea di Fernand Léger — pittore, teorico, costruttore d’immagini, ma soprattutto inventore di un’idea di modernità che ancora ci appartiene. Non è un caso che la Reggia di Venaria, luogo simbolico del potere e della memoria, abbia deciso di dedicargli una grande mostra, visitabile fino al 1° febbraio 2026 e curata da Anne Dopffer, che non si limita a esporre opere, ma le mette in relazione come in una sinfonia visiva, costruendo un dialogo continuo tra Léger e i suoi eredi spirituali: Yves Klein, Martial Raysse, Daniel Spoerri, Niki de Saint Phalle, Robert Indiana, May Wilson, Gilbert & George e Keith Haring.

Entrare nelle Sale delle Arti della Venaria significa varcare una soglia temporale. Si è accolti da un mondo in movimento, dove le figure geometriche di Léger convivono con i blu vibranti di Klein, le sculture esplosive di Niki e i corpi danzanti di Haring. È come se l’energia del primo Novecento fosse passata, intatta ma trasformata, attraverso i decenni fino a farsi ritmo urbano, gesto performativo, colore puro. In questa prospettiva, la mostra non si limita a raccontare un’influenza o una continuità: ricostruisce una genealogia dello sguardo, una mappa delle corrispondenze affettive e concettuali che hanno legato, spesso in modo sotterraneo, la lezione di Léger alla libertà sperimentale dei Nuovi Realisti e delle neoavanguardie americane.

Fernand Léger, nato ad Argentan nel 1881 e morto a Gif-sur-Yvette nel 1955, è una delle figure più radicali dell’arte moderna europea. La sua pittura, caratterizzata da forme tubolari, colori netti e un senso quasi architettonico della composizione, nasce da un’intuizione: che la modernità, con le sue macchine, le sue città, i suoi oggetti quotidiani, non fosse un nemico dell’arte, ma la sua nuova musa. In lui il meccanico e l’umano si fondono in una visione armoniosa, quasi utopica: l’uomo nuovo non è più il pastore romantico o il lavoratore oppresso, ma un corpo ritmico, geometrico, perfettamente integrato nel paesaggio industriale.

Questa fiducia nel mondo moderno, che potrebbe sembrare ingenua dopo la catastrofe delle guerre, diventa invece per Léger un terreno di riconciliazione. Il suo “realismo poetico” non descrive, ma costruisce: le forme diventano simboli di una società possibile, fondata sull’armonia tra tecnica e sensibilità. È proprio questa tensione costruttiva, quasi civile, a renderlo un punto di riferimento per gli artisti degli anni Sessanta, che riprenderanno la sua lezione portandola nei territori del gesto, del consumo e del corpo.

La mostra della Venaria, grazie ai prestigiosi prestiti del Musée d’Art Moderne et d’Art Contemporain (MAMAC) di Nizza, dei Musées nationaux du XXe siècle des Alpes-Maritimes, del Centre Pompidou e degli Archivi Yves Klein di Parigi, offre una narrazione complessa e appassionata. Le settanta opere esposte – tra dipinti, sculture, ceramiche, stampe e installazioni – formano un percorso che attraversa la nascita e le metamorfosi della modernità visiva. In una sala, le figure metalliche e potenti di Léger dialogano con i corpi liberi e sensuali delle “Nanas” di Niki de Saint Phalle; in un’altra, il blu assoluto di Klein, steso come una reliquia o come un campo magnetico, sembra sublimare la materia in energia. Più avanti, gli accumuli di Spoerri e le lettere monumentali di Robert Indiana testimoniano come la lezione di Léger si sia diffusa non solo come stile, ma come mentalità: un modo di pensare l’arte come costruzione di senso nel mondo contemporaneo.

Non c’è nostalgia, in questo confronto. C’è piuttosto la percezione che ogni generazione, per essere viva, debba riscrivere il proprio rapporto con la modernità. Léger lo aveva fatto nei primi decenni del secolo, quando ancora le fabbriche erano templi di un’utopia razionale; Klein e i Nuovi Realisti lo fanno nei Sessanta, quando la modernità si è ormai trasformata in consumo e immagine. Ma in entrambi i casi, il gesto artistico conserva la stessa forza: l’idea che l’arte possa ancora costruire uno spazio comune, un luogo di esperienza condivisa.

Keith Haring, che chiude simbolicamente il percorso della mostra, rappresenta la traduzione definitiva di quella visione: la sua linea continua, i suoi corpi danzanti, i suoi graffiti che trasformano il muro urbano in un manifesto popolare, portano alle estreme conseguenze l’utopia sociale di Léger. Dove Léger dipingeva le macchine e i corpi come ingranaggi di un ordine visivo, Haring li fa esplodere in una danza democratica, libera, pulsante. Lo stesso impulso attraversa le opere di Gilbert & George, i cui autoritratti performativi sembrano citare la frontalità monumentale dei personaggi légériani, ma contaminandola con l’ironia, la provocazione, la disobbedienza.

Il vero tema della mostra, più che un’eredità stilistica, è dunque quello della trasformazione: come il linguaggio di un artista possa mutare, farsi corpo collettivo, diventare terreno fertile per altri linguaggi. Léger non è qui solo come figura storica, ma come principio attivo, come forza generatrice che attraversa il tempo e riemerge in nuove forme. Nelle sue opere, la macchina era il simbolo di una nuova umanità; in quelle dei suoi eredi, è l’umanità stessa a farsi macchina, a moltiplicarsi, a fondersi con il mondo circostante.

Ciò che colpisce, attraversando le sale, è la sensazione di una continuità dinamica. Le linee di Léger sembrano proseguire nei tracciati di Haring; i colori puri dei suoi murales industriali anticipano la monocromia assoluta di Klein; la sua fede nel collettivo trova eco nelle azioni condivise dei Nuovi Realisti, nelle performance di Gilbert & George, nei giochi sensuali di Niki de Saint Phalle. È come se il secolo intero, da Léger agli anni Ottanta, avesse disegnato una spirale ininterrotta: da un’idea di ordine a un’idea di libertà, da un’estetica della costruzione a una del desiderio.

In questo senso, la mostra alla Venaria è anche una riflessione sul futuro. Cosa rimane oggi della lezione di Léger? Forse proprio la sua fiducia nella possibilità che l’arte possa parlare a tutti. Nel mondo frammentato e digitale del XXI secolo, quella visione collettiva appare quasi rivoluzionaria. L’arte di Léger, pur nata dal linguaggio della macchina, conserva una tenerezza umana, una dolcezza costruttiva che riaffiora nei lavori dei suoi discendenti spirituali. Da Klein a Haring, da Niki a Spoerri, tutti hanno creduto, come lui, in un’arte capace di generare legami, di costruire una comunità estetica e affettiva.

Alla fine del percorso, il visitatore si trova di fronte non a un semplice omaggio, ma a una trasmissione di energia. Léger non è più soltanto un maestro del modernismo, ma una figura ancora viva, capace di interrogare il nostro presente. Il suo sogno di un’arte per tutti, fondata sulla forma, sul ritmo e sul colore, si rinnova nel corpo danzante dei linguaggi contemporanei. E forse è proprio questo il segreto della mostra: ricordarci che la modernità non è mai finita — continua a parlare attraverso gli artisti che, come Léger, sanno vedere nel mondo non un enigma, ma una promessa di bellezza condivisa.

Giovanni Raboni e Patrizia Valduga


La storia d’amore e di poesia tra Giovanni Raboni e Patrizia Valduga è uno di quegli intrecci che sembrano usciti da un’opera letteraria, un legame in cui l’esperienza umana e il genio artistico si sono nutriti reciprocamente, dando vita a una relazione straordinaria tanto nel quotidiano quanto nelle pagine di poesia. Due vite diverse, due percorsi che si incrociano in un pomeriggio del 1981, quando Patrizia, giovane poetessa emergente di 28 anni, arriva a casa di Raboni con una copia della sua prima raccolta di versi. La scena si apre con una domanda che, riletta col senno di poi, assume una straordinaria carica simbolica: «Scusi, dov’è il bagno?». In questa richiesta disarmante c’è la semplicità di un incontro destinato a sconvolgere le loro vite. Lui, poeta e critico affermato di 49 anni, era già un uomo maturo, con alle spalle una lunga carriera e una vita consolidata; lei, invece, era una figura brillante, giovane e determinata, alla ricerca di un riconoscimento che, forse inconsapevolmente, desiderava non solo nella letteratura ma anche nella sfera personale.

Raboni, colpito dalla spontaneità e dall’energia della giovane donna che gli siede ai piedi, regala a Patrizia una copia del suo libro La fossa di Cherubino con una dedica semplice e toccante: «A Patrizia per il mio compleanno». È un gesto che, nella sua essenzialità, rivela già un’inclinazione verso quell’intimità che avrebbe caratterizzato il loro rapporto. Poi il primo bacio, un atto che, in un certo senso, inaugura un nuovo capitolo della vita di entrambi. Quell’incontro si trasforma nel preludio di una relazione che durerà ventitré anni, fino alla morte di Raboni nel 2004, e che segnerà profondamente sia le loro esistenze che la loro produzione poetica.

Le poesie che Raboni scrive per Patrizia sono forse il documento più autentico e struggente della loro storia. Nelle Canzonette mortali, pubblicate nel 1983, Raboni si espone senza difese, raccontando la sua fragilità, i suoi dubbi, la sua malinconia e, soprattutto, il timore di perdere la donna amata. Questi versi sono una finestra su un’anima che ama con intensità e consapevolezza, un’anima che si confronta con il passare del tempo e con il divario generazionale che inevitabilmente mette a nudo differenze e insicurezze. «Io che ho sempre adorato le spoglie del futuro», scrive, dando voce a un sentimento in cui l’amore si mescola alla paura, alla nostalgia per ciò che sarà inevitabilmente perduto.

Raboni non si limita a cantare il suo amore: lo analizza, lo interroga, lo scompone nelle sue componenti più intime e dolorose. Nelle poesie dedicate a Patrizia c’è il ritratto di un uomo che osserva il proprio corpo invecchiare accanto a quello della donna amata, ancora giovane e piena di vita. È una consapevolezza che si traduce in versi di rara bellezza e vulnerabilità: «Quando alle mie carezze smetterai di bagnarti, quando dal mio piacere sarai divisa e forse, per bellezza d’essere tanto amata o per dolcezza d’avermi amato, farai finta lo stesso di godere». L’amore, per Raboni, non è mai statico o idealizzato, ma una condizione che evolve, si trasforma, mettendo a dura prova chi lo vive con la stessa intensità con cui lui lo affronta.

La relazione tra Raboni e Valduga, però, non si limita a essere un amore tormentato; è anche un sodalizio creativo, un incontro tra due menti che trovano nella poesia il linguaggio privilegiato per comunicare. Raboni, nel descrivere le Canzonette mortali, parla di queste poesie come di un approdo definitivo a una scrittura personale, spudoratamente intima: «Sono poesie d’amore, e a questo punto direi che il privato, e il racconto di me, è entrato addirittura in modo spudorato nella mia poesia». In esse, Raboni abbandona ogni filtro, raccontando se stesso in modo diretto e sincero, come un uomo che non teme di mostrare la propria fragilità.

Il tema del tempo che passa è centrale in queste poesie, e non potrebbe essere altrimenti, data la differenza d’età tra i due. La paura di perdere Patrizia, o peggio ancora, di non essere più desiderato, è un’ossessione che attraversa i versi, portando Raboni a riflettere sul significato stesso dell’amore e della rinuncia: «Un giorno o l’altro ti lascio, un giorno dopo l’altro ti lascio, anima mia. Per gelosia di vecchio, per paura di perderti – o perché avrò smesso di vivere, soltanto». È un sentimento che si nutre tanto di gioia quanto di sofferenza, un amore che Raboni descrive come un equilibrio precario tra l’attaccamento e il bisogno di lasciar andare.

Eppure, nonostante le ombre, c’è anche una straordinaria dolcezza nei versi di Raboni. La loro relazione non è fatta solo di tormento, ma anche di momenti di pura intimità, come quando scrive: «Quando ci scivoliamo dalle braccia è solo per cercare un altro abbraccio». È in questi istanti che emerge tutta la forza di un amore che, nonostante le difficoltà, resta saldo, ancorato a una profonda comprensione reciproca.

Patrizia Valduga, dal canto suo, ha sempre riconosciuto l’importanza di Raboni nella sua vita, sia come poeta che come uomo. In un’intervista, ha dichiarato: «Quando penso alla mia inadeguatezza mi ripeto le parole di Proust: l’essere amato lo creiamo noi e creiamo anche i suoi difetti. Se non mi avesse amata, non sarebbe rimasto. E lui non è mai andato via. Nemmeno ora». Queste parole, così cariche di emozione, rivelano quanto il loro legame abbia segnato anche lei, lasciandole una traccia indelebile.

La loro storia, però, non è solo quella di due amanti, ma anche quella di due artisti che hanno saputo trasformare il loro amore in arte, creando opere che, ancora oggi, continuano a emozionare chi le legge. Raboni e Valduga sono stati, e sono tuttora, un esempio di come la poesia possa diventare il luogo in cui l’esperienza umana trova la sua massima espressione, un territorio in cui l’amore, con tutte le sue contraddizioni, viene restituito in tutta la sua verità.

Nelle Canzonette mortali, Raboni non solo racconta il suo amore per Patrizia, ma lo consegna alla memoria collettiva, trasformandolo in qualcosa che va oltre la loro storia personale. Queste poesie non sono solo un omaggio alla donna amata, ma anche una riflessione sull’amore stesso, sul tempo, sulla fragilità dell’esistenza. E proprio in questa capacità di universalizzare il particolare risiede la grandezza di Raboni come poeta.

La loro storia d’amore, con le sue luci e le sue ombre, ci ricorda che l’amore è un’esperienza complessa e multiforme, capace di illuminare ma anche di ferire, di dare gioia ma anche di portare dolore. È questa dualità che Raboni cattura nei suoi versi, regalandoci una testimonianza unica di un legame che ha saputo sfidare il tempo e le avversità, trovando nella poesia il suo luogo di eternità.

giovedì 30 ottobre 2025

La gabbia di Ezra Pound


Un testo che si propone non soltanto come documentazione storica, ma come meditazione critica e poetica sulla prigionia di Ezra Pound nel campo militare americano allestito nei pressi di Pisa alla fine della Seconda guerra mondiale. Una riflessione stratificata, immersiva, che non si accontenta di raccontare i fatti, ma tende ad attraversarli, interrogarli, illuminarli con lo sguardo lungo della coscienza e con la vibrazione profonda della parola. Si tratta di una narrazione che non solo osserva, ma si interroga, che non solo espone, ma espia, nella consapevolezza che ogni umiliazione inflitta a un uomo — anche al più controverso — si imprime nella memoria collettiva come un trauma che ci riguarda tutti.

Esiste un’immagine, una sola, che brucia ancora nel paesaggio interiore della cultura novecentesca. Non è un’icona ufficiale, non è una fotografia stampata nei manuali scolastici, ma una scena interiore, viscerale, incisa nella carne della memoria collettiva come un marchio a fuoco. Un uomo anziano, il cranio rasato, le mani nude, lo sguardo affondato in un tempo senza tempo. Una figura che non ha più un nome, né un titolo, né un destino, ma solo un corpo esposto. Sotto il sole abbacinante di maggio, nel cuore della Toscana ferita, quell’uomo è chiuso in una gabbia metallica — una gabbia vera, con sbarre e filo spinato, montata sul terreno polveroso di un campo militare americano. Quell’uomo è Ezra Pound.

Il luogo è un’area semidesertica tra Coltano e Metato, alle porte di Pisa, in un’Italia distrutta, disorientata, lacerata tra i fantasmi del fascismo e i bagliori inquietanti della liberazione. Il tempo è maggio del 1945. La guerra in Europa si è appena conclusa. Le rovine ancora fumano. I soldati tornano a casa, ma i conti con la coscienza sono appena cominciati. In quel limbo tra la vendetta e la giustizia, tra l’epilogo del conflitto e l’aurora di un nuovo disordine, si decide anche il destino di un poeta.

Non era un criminale nel senso comune del termine, né un soldato in armi. Era un intellettuale. Un uomo che aveva pronunciato parole offensive, deliranti, violente, ma che aveva anche scritto versi di bellezza vertiginosa. Era un cittadino americano che aveva scelto di vivere in Italia, di identificarsi con l’utopia (malata, distorta) del fascismo. Era un caso di tradimento, certo. Ma anche una figura simbolica. Gli americani — che lo catturarono, lo interrogarono, e infine lo rinchiusero in una gabbia come una bestia esotica — non punivano solo un corpo. Punivano un’idea. Punivano la voce. Punivano il poeta.

A quell’epoca, Ezra Pound non era un personaggio marginale. Era una delle colonne del modernismo. Era l’uomo che aveva riscritto le regole della poesia inglese, che aveva sostenuto giovani poeti come Eliot, che aveva fatto da editore a Joyce, che aveva reinventato il verso libero, la sintassi spezzata, la parola scarnificata e musicale. Era un classicista visionario, un medievalista eretico, un sinologo improvvisato, un lettore di testi confuciani, un erudito poliglotta capace di mescolare Dante e l’economia di Silvio Gesell. Era una figura che sfidava le categorie.

Ma era anche, insieme, un ideologo ostinato, un simpatizzante del fascismo, un convinto assertore di teorie economiche antisemitiche. A partire dal 1940, utilizzò i microfoni della radio fascista per trasmettere decine di discorsi infuocati in inglese contro Roosevelt, contro le banche, contro la guerra, contro “l’usura” (da lui interpretata come il peccato originale del capitalismo moderno), e soprattutto contro gli ebrei. Discorsi spesso incoerenti, urlati, ripetitivi, ma sempre martellanti. Quei messaggi raggiungevano le truppe americane e l’opinione pubblica statunitense: una forma di propaganda diretta, violenta, in tempo di guerra. Un’azione che gli valse l’accusa di alto tradimento.

Rapallo, maggio 1945: l’arresto.
Quando venne arrestato dai partigiani nei dintorni di Rapallo, Ezra Pound era calmo. Non fuggì, non si nascose, non si difese. Chiese solo carta e penna. Fu consegnato agli americani come un trofeo scomodo. Ci si sarebbe potuti aspettare un processo, una detenzione ordinaria, un percorso giuridico rispettoso delle regole. Ma la sorte decise altro. O meglio: il potere decise altro.

Fu portato a Pisa, in quel campo provvisorio per prigionieri considerati “pericolosi” o “speciali”. Non era una prigione riconosciuta, non un carcere militare con celle e codici. Era un’area improvvisata, delimitata da recinzioni, con tende da campo, filo spinato e gabbie d’acciaio. Vi erano rinchiusi ex ufficiali fascisti, collaborazionisti, disertori e — tra loro — un vecchio poeta.

La gabbia di Ezra Pound non aveva un tetto. Non aveva un pavimento. Era un quadrato metallico esposto alle intemperie. Di notte veniva illuminata a giorno, con riflettori puntati per impedirgli di dormire. Niente materasso, niente coperte. Niente latrina. Solo terra battuta e occhi addosso. Era una condizione animale, anzi sottoanimale. Una nudità esistenziale.

E lì dentro, lentamente, cominciò a scivolare nel delirio. Lo udirono parlare da solo, declamare versi a memoria, alternare frasi in greco antico e cinese, cantare le lodi di Cavalcanti, citare Confucio, gridare litanie che sembravano sortilegi. I soldati americani lo guardavano con perplessità e fastidio. Per loro era un vecchio matto. Per altri — tra gli ufficiali colti — era un problema. Non si poteva semplicemente eliminarlo. Ma nemmeno perdonarlo. Allora lo si lasciava in quella gabbia, come in un esperimento crudele.

Eppure, da quel luogo disumano, nacque qualcosa. Nacque poesia. Nacquero i “Canti Pisani”. Non ancora scritti, ma già pensati, composti nella mente febbrile di Pound. Quando finalmente gli fu data carta e penna, li trascrisse in furia. Sono canti lirici, spezzati, traversati da dolore e da grazia. In essi, la cultura classica si mescola con gli uccelli del campo, con le ombre dei morti, con preghiere a metà. La sua poesia si fece più tenera, più umana, più fragile. Non fu una confessione, né un pentimento. Fu un canto di rovine.

Dopo alcune settimane, Pound fu trasferito negli Stati Uniti. Lo attendeva un processo per alto tradimento. Ma prima che potesse iniziare, una commissione lo dichiarò “incapace di intendere e volere”. Così fu internato nell’ospedale psichiatrico criminale di St. Elizabeths, a Washington. Ci restò tredici anni. Lì divenne una figura mitica: riceveva visite, rilasciava interviste, scriveva versi, dettava lettere. Era un poeta-recluso, un pazzo-sapiente, un oracolo decaduto.

Alcuni — come i giovani poeti della Beat Generation — lo consideravano un maestro. Altri lo evitavano come un lebbroso. Era un simbolo vivo della contraddizione: la grandezza e la follia, il genio e il crimine, la poesia e l’abiezione.

Nel 1958, dopo una lunga campagna internazionale, Pound fu liberato. Tornò in Italia. Aveva perso tutto: reputazione, patria, tempo. Si stabilì a Venezia. Visse in silenzio, passeggiando lungo la laguna, visitando il cimitero di San Michele, come in una liturgia privata. Parlava poco, scriveva ancora meno. Alcuni videro nel suo silenzio un rifiuto del mondo. Altri una forma estrema di poesia muta. Morì nel 1972. Fu sepolto sull’isola di San Michele, come aveva desiderato. Accanto a lui, Olga Rudge, la donna che gli fu accanto tutta la vita.

Quella gabbia resta, ancora oggi, come simbolo. Non solo del potere che umilia, ma del linguaggio che fallisce. Gli americani imprigionarono un poeta, e così facendo colpirono la poesia stessa. Ezra Pound non fu giustiziato, ma fu sfigurato. La sua parabola ci interroga ancora: sulla giustizia e sulla vendetta, sulla libertà della parola, sul diritto alla follia, sul limite dell’arte e sul suo prezzo.

Ogni volta che parliamo di censura, di voce poetica, di colpa e redenzione, la sagoma di quella gabbia riemerge. E dentro, da qualche luogo che non è più storia ma coscienza, Ezra Pound ci sussurra ancora:


“What thou lovest well shall not be reft from thee.”


mercoledì 29 ottobre 2025

Tra forma e silenzio: il viaggio nel vuoto poetico di Hidetoshi Nagasawa


Nel silenzio che avvolge la materia e nel respiro del vuoto prende forma la poetica di Hidetoshi Nagasawa, artista giapponese che ha eletto l’Italia come dimora del proprio sguardo e del proprio spirito. Non è soltanto un artista nel senso occidentale del termine, ma un viandante del pensiero, un cercatore di equilibri invisibili, di zone intermedie dove la forma si dissolve e si rigenera, dove l’assenza diventa densità, dove lo spazio non è contenitore ma evento. Nagasawa ha portato in Occidente una percezione dello spazio che non mira a riempirlo ma ad ascoltarlo, a farne risuonare le vibrazioni profonde, a coglierne la vita segreta.

La sua opera non nasce da un gesto impulsivo, ma da un ascolto, da un tempo lungo e meditativo che accompagna la nascita di ogni forma. Si tratta di una tensione continua fra il visibile e l’invisibile, fra la materia e la sua ombra, fra ciò che appare e ciò che sfugge. È da questa zona di passaggio, fragile e intensa, che sgorga il suo linguaggio artistico, fatto di equilibrio e rischio, di sospensione e di grazia.

Il suo percorso ruota attorno a un concetto fondamentale della cultura giapponese: il Ma. Questa parola, quasi intraducibile, è la chiave per entrare nel suo mondo. Ma non significa soltanto vuoto, ma intervallo, spazio potenziale, silenzio fertile. È l’attimo tra due suoni, la pausa che dà senso alla musica, la soglia tra due presenze. Nel pensiero orientale, il vuoto non è mai negazione, ma possibilità; è la matrice dove tutto può nascere. Nagasawa ha tradotto questa idea in scultura, in architettura, in gesto: le sue opere non rappresentano il Ma, lo incarnano.
Ogni materiale, dal marmo al bronzo, dal ferro alla carta, diventa il corpo di una tensione invisibile. Le sue installazioni non occupano lo spazio, ma lo risvegliano; non si impongono, ma respirano con ciò che le circonda. Entrare in una sua opera è come entrare in un respiro, in una sospensione dove il tempo sembra fermarsi. Ciò che appare fragile si rivela possente; ciò che sembra pesante si fa leggero; ciò che pare immobile vibra.

L’arte di Nagasawa non è mai chiusa in sé: è un invito, una soglia, un passaggio. Ogni scultura è un luogo dove l’occhio e lo spirito possono sostare, dove il visitatore è chiamato non a “guardare”, ma a partecipare, a essere. L’opera non è dunque un oggetto isolato ma una relazione, una dinamica di forze tra chi crea, chi osserva e lo spazio che li accoglie. Il Ma diventa così anche un metodo di relazione: è il luogo dell’incontro, dell’intervallo tra due coscienze.
In questa dimensione, Nagasawa si pone in dialogo con antiche tradizioni giapponesi, ma anche con il pensiero fenomenologico occidentale, da Merleau-Ponty a Heidegger, dove l’essere si manifesta solo nel suo apparire temporaneo, nel suo darsi e ritirarsi. Le sue sculture, sospese fra pieno e vuoto, materia e respiro, sembrano voler dire che ogni forma è soltanto la traccia momentanea di un equilibrio più grande.

Al centro del suo immaginario vi è anche il tema del viaggio. Ma il viaggio, in Nagasawa, non è soltanto esperienza biografica — quella che lo porta, negli anni Sessanta, a lasciare il Giappone per un lungo itinerario che lo condurrà, in bicicletta, attraverso l’Asia e fino all’Europa — bensì archetipo spirituale. La barca, che ricorre in molte sue opere, è il simbolo di questo attraversamento continuo. È strumento di passaggio, veicolo dell’anima, immagine di precarietà e libertà. Le sue barche, leggere e sospese, non solcano acque reali ma spazi mentali: galleggiano tra due mondi, tra il tangibile e l’impalpabile, tra la memoria e il sogno.
Queste imbarcazioni impossibili — spesso costruite con materiali come marmo, ferro o carta — sembrano contraddire la fisica, ma obbediscono a una legge più sottile, quella della tensione tra gravità e ascesa. Esse diventano metafore del cammino umano, del desiderio di andare oltre, di varcare le soglie della percezione e del tempo.

L’esperienza del viaggio, d’altra parte, ha segnato in modo decisivo la vita dell’artista. Partito dal Giappone negli anni delle contestazioni, Nagasawa attraversa l’Oriente e l’Occidente portando con sé soltanto l’essenziale. Quando approda in Italia, trova in Milano e poi a Volpaia una nuova patria dello spirito. L’incontro con figure come Luciano Fabro, Jole de Sanna, Kounellis e Merz lo introduce in un contesto fertile di scambio, dove l’arte si pensa come esperienza di libertà e di responsabilità. Nagasawa diventa parte di quella generazione che ha trasformato la scultura in un linguaggio mentale e fisico insieme, in cui il peso della materia si coniuga al pensiero, alla tensione etica, al mistero.

Le sue opere dialogano con l’architettura e con il paesaggio in modo organico. Nagasawa non costruisce mai contro lo spazio, ma dentro lo spazio. Ogni intervento nasce da una lunga osservazione del luogo, come se l’artista attendesse che il luogo stesso gli rivelasse il suo segreto. È in questo atteggiamento che risiede la sua affinità con la tradizione del giardino zen, dove l’equilibrio tra pietra, sabbia e vuoto diventa immagine della mente serena. Nelle installazioni di Nagasawa, la pietra e il metallo, pur nella loro resistenza, si aprono a una leggerezza impensata; la geometria diventa meditazione; l’assenza parla.

Un altro aspetto cruciale della sua ricerca è la metamorfosi della materia. Nagasawa trasforma la carta, il bronzo, il marmo o l’oro in stati di coscienza. La carta, in particolare, diventa un elemento centrale del suo linguaggio: da fragile superficie si fa sostanza scultorea, corpo della luce. Attraverso pieghe, tagli e stratificazioni, egli riesce a trasformare ciò che è effimero in un’apparizione solida, come se il pensiero stesso prendesse corpo. È una lezione di umiltà e di rigore, dove la leggerezza diventa forma di resistenza alla pesantezza del mondo.

In questo continuo attraversamento di confini — geografici, linguistici, materiali — si manifesta l’identità duplice dell’artista. Nagasawa è ponte tra culture, traduttore di sensibilità differenti. L’estetica giapponese, con la sua attenzione al vuoto, alla sobrietà e all’impermanenza, si fonde con la sperimentazione concettuale occidentale, erede delle avanguardie e del minimalismo. Il risultato è un linguaggio che non appartiene né all’una né all’altra tradizione, ma a una terra intermedia: quella del pensiero poetico, dove la materia e il tempo si ascoltano reciprocamente.
In questo senso, Nagasawa non è soltanto un artista orientale “trapiantato” in Occidente, ma un alchimista culturale, capace di far reagire due mondi e generare un terzo, nuovo e imprevedibile.

Le sue opere esposte alla Biennale di Venezia, nelle gallerie e negli spazi pubblici europei, hanno portato nel dibattito contemporaneo un senso di silenzio e di concentrazione che appare quasi sovversivo. In un tempo in cui l’arte tende a gridare, Nagasawa sussurra; in un’epoca di accumulo, egli toglie, alleggerisce, scava. Il suo gesto è quello di chi cerca la verità nel minimo, nella linea, nell’intervallo, nella pausa. Così, il suo fare diventa un esercizio spirituale, una disciplina dell’attenzione.

Parallelamente, il suo insegnamento alla NABA di Milano ha lasciato un’impronta profonda. Nagasawa non trasmetteva semplicemente tecniche, ma un modo di essere artista: insegnava a respirare con la materia, a percepire il tempo dell’opera, a lasciarsi condurre dal dialogo invisibile tra mani e spazio. Per molti allievi, la sua presenza silenziosa e rigorosa ha rappresentato un incontro decisivo, un’iniziazione a un’arte intesa come conoscenza e responsabilità.

Nagasawa ci insegna che il vuoto non è privazione ma pienezza, che lo spazio non è distanza ma relazione, che il silenzio non è assenza ma voce profonda delle cose. La sua poetica ci invita a guardare diversamente, a scoprire ciò che si cela tra le forme, nelle pause, nelle ombre. In un mondo che teme il vuoto, egli ci mostra che proprio lì risiede la libertà.
Le sue sculture, che sembrano fluttuare tra cielo e terra, sono ponti verso una percezione più vasta, dove ogni cosa trova la propria misura nel respiro comune dell’universo. L’arte, per lui, non è un fine ma un cammino: un modo di abitare il mondo con consapevolezza, di trasformare il peso in leggerezza, il tempo in contemplazione.

Così, attraverso la sua opera, Hidetoshi Nagasawa ha costruito non tanto oggetti quanto esperienze, non tanto monumenti quanto stati d’animo. Il suo lascito è una filosofia visiva, un invito a “vedere con il corpo”, a sentire la vibrazione dello spazio come parte di noi. In questo senso, il Ma non è soltanto un concetto estetico, ma un principio etico: imparare a rispettare il vuoto, a riconoscere il limite, a celebrare la distanza come forma di relazione.

Nagasawa, infine, ci consegna una lezione di libertà: quella di chi ha attraversato mondi senza mai appartenere completamente a nessuno, di chi ha trasformato la scultura in respiro, il viaggio in conoscenza, il silenzio in presenza. La sua arte rimane un luogo di meditazione, una soglia tra materia e spirito, dove ogni cosa, anche la più minima, vibra di significato. In quel vuoto luminoso che egli chiama Ma, tutto comincia e tutto ritorna: l’origine e la fine coincidono, e ciò che resta è soltanto un respiro, un ritmo di luce, una forma che scompare per rivelare l’invisibile.

martedì 28 ottobre 2025

Decostruire la mascolinità: radici della violenza e percorsi di libertà



Quando affrontiamo la questione della violenza maschile e di genere, dobbiamo partire da un principio fondamentale: liberare la discussione dai miti e dalle semplificazioni. Troppo spesso ci viene detto, o noi stessi potremmo credere, che la violenza sia “innata”, un tratto naturale dell’uomo. Che gli uomini siano, per natura, aggressivi, violenti, destinati al dominio. Questo è un mito antico e pericoloso, perché sposta la responsabilità dalle strutture sociali, culturali ed educative verso l’individuo. Se la violenza fosse “innata”, allora nulla potrebbe cambiare: sarebbe un destino inevitabile. Ma la realtà è completamente diversa. La violenza maschile nasce da un intreccio complesso di fattori: sociali, culturali, educativi, storici, psicologici. È una costruzione che si insinua nelle vite, nelle menti, nei corpi, spesso invisibile, ma che produce effetti profondi e duraturi.

Pensiamo all’infanzia, perché lì tutto inizia. Fin dai primissimi anni, ragazzi e ragazze ricevono messaggi profondamente diversi su chi sono e chi dovrebbero diventare. Ai ragazzi viene spesso detto: “Non piangere”, “Sii forte”, “Non mostrare paura”, “Gli uomini non si fanno comandare dalle emozioni”. Frasi che sembrano innocue, ma che impongono un modello di mascolinità rigido e limitante: l’uomo è colui che domina, controlla, non mostra debolezza. La vulnerabilità viene stigmatizzata, l’empatia talvolta derisa. Così i ragazzi imparano a nascondere emozioni fondamentali, come la tristezza, la paura, l’insicurezza. Ma le emozioni non spariscono: si accumulano. Se non trovano canali di espressione sani, possono trasformarsi in rabbia, frustrazione, aggressività, fino a esplodere in violenza.

La violenza maschile e di genere non si limita agli atti fisici. Esiste una violenza silenziosa, psicologica, emotiva, simbolica: intimidazioni, svalutazioni, prevaricazioni sottili ma continue. Sono frasi o comportamenti che, nel tempo, modellano l’identità, consolidano il potere e alimentano la percezione che dominare sia naturale. “Non fare la femminuccia”, “Così non ci stai dentro”, “Tanto è normale che sia aggressivo”: queste parole non sono innocue. Sono mattoni di una cultura che plasma comportamenti, aspettative e relazioni. E spesso diventano il terreno in cui germoglia la violenza, perché normalizzano il dominio e minimizzano la responsabilità.

Se osserviamo la storia, vediamo come le società patriarcali abbiano strutturato gerarchie basate sul genere, dando agli uomini privilegi, spesso invisibili, e relegando le donne in ruoli subordinati. Ancora oggi, in molti contesti, le donne devono negoziare costantemente spazi, libertà, diritti, mentre gli uomini godono di vantaggi dati per scontati. In questo quadro, la violenza diventa uno strumento per confermare ruoli prestabiliti, per proteggere uno status percepito come “naturale”. Non è quindi solo un problema individuale: è culturale, storico, sistemico.

A rafforzare queste dinamiche contribuiscono i media e la cultura popolare. Film, pubblicità, musica, videogiochi, letteratura, persino alcune tradizioni sociali raccontano uomini come forti, dominanti, virili, e le donne come passive, oggetti di desiderio, premi da conquistare o ostacoli da superare. Questi modelli, ripetuti all’infinito, si sedimentano nell’immaginario fin dall’adolescenza, diventano modelli interiorizzati difficili da disinnescare. Così, la mascolinità viene misurata attraverso il dominio e la forza, mentre la femminilità viene misurata attraverso adattamento e disponibilità. Si creano frustrazioni, conflitti interiori e incomprensioni che possono facilmente sfociare in violenza.

Non possiamo poi trascurare il ruolo dei traumi. Molti uomini che diventano violenti hanno vissuto esperienze di abuso, trascuratezza o violenza nell’infanzia o nell’adolescenza. Non è una regola universale, ma una correlazione significativa. Il dolore non elaborato, la sofferenza interiorizzata, la paura di mostrare debolezza possono trasformarsi in aggressività. È un circolo perverso e invisibile agli occhi della società: spesso considerato un problema personale, una colpa individuale, quando in realtà è l’effetto di dinamiche sociali e culturali. Chi subisce violenza rischia di sentirsi colpevole, chi la esercita spesso non si rende conto della radice dei propri comportamenti, intrappolato in schemi appresi fin dall’infanzia.

A questi fattori si aggiungono condizioni sociali ed economiche. La precarietà, l’esclusione, l’impossibilità di soddisfare ideali culturali di “uomo di successo” generano frustrazione, rabbia e senso di impotenza. Quando queste emozioni non trovano sfogo in modalità sane, l’aggressività diventa un modo per riaffermare il controllo e il potere. Così, la violenza non è solo personale o psicologica, ma profondamente sociale e culturale.

E qui entriamo nel concetto di decostruzione della mascolinità. Questo termine può sembrare astratto o minaccioso, ma in realtà è semplice: significa ripensare radicalmente cosa voglia dire essere uomini. Non è un attacco all’identità maschile, non significa “eliminare l’essere uomini”. Significa liberare la mascolinità dai modelli tossici che la società impone da secoli. Significa imparare che la forza non è dominare, che la vulnerabilità non è debolezza, che la cura, l’empatia, l’ascolto e la responsabilità sono qualità centrali.

Decostruire la mascolinità significa anche riconoscere i propri privilegi. Privilegi invisibili, dati per scontati, che non derivano da meriti personali ma da una struttura sociale. Riconoscerli non è sentirsi colpevoli: è assumersi responsabilità. È capire che questi vantaggi non devono trasformarsi in violenza o prevaricazione. È un atto di consapevolezza e di coraggio, perché mette in discussione l’idea di mascolinità che ci è stata insegnata e ci invita a crearne una più libera, più sana, più umana.

Per fare questo servono strumenti concreti. L’educazione emotiva è fondamentale: insegnare a riconoscere e gestire le emozioni, comunicare senza aggressività, comprendere la rabbia e la frustrazione come segnali da ascoltare, non come pretesti per sfogare violenza. Serve anche l’esempio: uomini capaci di empatia, cura, responsabilità, figure visibili nella comunità, nella scuola, nei media e nella politica, che mostrino concretamente che essere maschio non significa dominare.

Occorre creare spazi sicuri di confronto. Gruppi, laboratori, incontri dove uomini possano parlare di emozioni, fragilità, paure, conflitti, senza giudizio. Spazi in cui si possa riflettere su cosa significhi crescere, amare, convivere e collaborare in un mondo in cui i ruoli tradizionali non sono più vincolanti. E questi spazi non sono solo per uomini: il confronto con donne, persone non binarie, minoranze, chiunque subisca discriminazione o violenza è fondamentale. Solo attraverso lo sguardo dell’altro possiamo comprendere l’impatto delle nostre azioni, parole e comportamenti.

Non possiamo poi dimenticare la dimensione collettiva. La violenza maschile non si sconfigge solo con il cambiamento individuale. È un fenomeno culturale, sociale e politico. Serve lavorare sulle norme, sui racconti che facciamo ai ragazzi, sulle istituzioni, sui media, sul linguaggio quotidiano. Solo così possiamo costruire una società in cui la violenza non sia normalizzata, in cui la mascolinità non coincida con il dominio, e in cui il rispetto diventi una pratica diffusa e quotidiana.

Parlare di violenza maschile significa quindi andare alle radici: comprendere come si costruiscono le identità, come i modelli culturali influenzano comportamenti e percezioni, come traumi, frustrazioni e pressioni possano trasformarsi in atti distruttivi. Significa aprire spazi di riflessione e responsabilità, promuovere strumenti di educazione, creare modelli alternativi e favorire dialoghi interculturali e intergenerazionali.

Quando affrontiamo la questione della violenza maschile e di genere, dobbiamo partire da un principio fondamentale: liberare la discussione dai miti e dalle semplificazioni. Troppo spesso ci viene detto, o noi stessi potremmo credere, che la violenza sia “innata”, un tratto naturale dell’uomo. Che gli uomini siano, per natura, aggressivi, violenti, destinati al dominio. Questo è un mito antico e pericoloso, perché sposta la responsabilità dalle strutture sociali, culturali ed educative verso l’individuo. Se la violenza fosse “innata”, allora nulla potrebbe cambiare: sarebbe un destino inevitabile. Ma la realtà è completamente diversa. La violenza maschile nasce da un intreccio complesso di fattori: sociali, culturali, educativi, storici, psicologici. È una costruzione che si insinua nelle vite, nelle menti, nei corpi, spesso invisibile, ma che produce effetti profondi e duraturi.

Pensiamo all’infanzia, perché lì tutto inizia. Fin dai primissimi anni, ragazzi e ragazze ricevono messaggi profondamente diversi su chi sono e chi dovrebbero diventare. Ai ragazzi viene spesso detto: “Non piangere”, “Sii forte”, “Non mostrare paura”, “Gli uomini non si fanno comandare dalle emozioni”. Frasi che sembrano innocue, ma che impongono un modello di mascolinità rigido e limitante: l’uomo è colui che domina, controlla, non mostra debolezza. La vulnerabilità viene stigmatizzata, l’empatia talvolta derisa. Così i ragazzi imparano a nascondere emozioni fondamentali, come la tristezza, la paura, l’insicurezza. Ma le emozioni non spariscono: si accumulano. Se non trovano canali di espressione sani, possono trasformarsi in rabbia, frustrazione, aggressività, fino a esplodere in violenza.

La violenza maschile e di genere non si limita agli atti fisici. Esiste una violenza silenziosa, psicologica, emotiva, simbolica: intimidazioni, svalutazioni, prevaricazioni sottili ma continue. Sono frasi o comportamenti che, nel tempo, modellano l’identità, consolidano il potere e alimentano la percezione che dominare sia naturale. “Non fare la femminuccia”, “Così non ci stai dentro”, “Tanto è normale che sia aggressivo”: queste parole non sono innocue. Sono mattoni di una cultura che plasma comportamenti, aspettative e relazioni. E spesso diventano il terreno in cui germoglia la violenza, perché normalizzano il dominio e minimizzano la responsabilità.

Se osserviamo la storia, vediamo come le società patriarcali abbiano strutturato gerarchie basate sul genere, dando agli uomini privilegi, spesso invisibili, e relegando le donne in ruoli subordinati. Ancora oggi, in molti contesti, le donne devono negoziare costantemente spazi, libertà, diritti, mentre gli uomini godono di vantaggi dati per scontati. In questo quadro, la violenza diventa uno strumento per confermare ruoli prestabiliti, per proteggere uno status percepito come “naturale”. Non è quindi solo un problema individuale: è culturale, storico, sistemico.

A rafforzare queste dinamiche contribuiscono i media e la cultura popolare. Film, pubblicità, musica, videogiochi, letteratura, persino alcune tradizioni sociali raccontano uomini come forti, dominanti, virili, e le donne come passive, oggetti di desiderio, premi da conquistare o ostacoli da superare. Questi modelli, ripetuti all’infinito, si sedimentano nell’immaginario fin dall’adolescenza, diventano modelli interiorizzati difficili da disinnescare. Così, la mascolinità viene misurata attraverso il dominio e la forza, mentre la femminilità viene misurata attraverso adattamento e disponibilità. Si creano frustrazioni, conflitti interiori e incomprensioni che possono facilmente sfociare in violenza.

Non possiamo poi trascurare il ruolo dei traumi. Molti uomini che diventano violenti hanno vissuto esperienze di abuso, trascuratezza o violenza nell’infanzia o nell’adolescenza. Non è una regola universale, ma una correlazione significativa. Il dolore non elaborato, la sofferenza interiorizzata, la paura di mostrare debolezza possono trasformarsi in aggressività. È un circolo perverso e invisibile agli occhi della società: spesso considerato un problema personale, una colpa individuale, quando in realtà è l’effetto di dinamiche sociali e culturali. Chi subisce violenza rischia di sentirsi colpevole, chi la esercita spesso non si rende conto della radice dei propri comportamenti, intrappolato in schemi appresi fin dall’infanzia.

A questi fattori si aggiungono condizioni sociali ed economiche. La precarietà, l’esclusione, l’impossibilità di soddisfare ideali culturali di “uomo di successo” generano frustrazione, rabbia e senso di impotenza. Quando queste emozioni non trovano sfogo in modalità sane, l’aggressività diventa un modo per riaffermare il controllo e il potere. Così, la violenza non è solo personale o psicologica, ma profondamente sociale e culturale.

E qui entriamo nel concetto di decostruzione della mascolinità. Questo termine può sembrare astratto o minaccioso, ma in realtà è semplice: significa ripensare radicalmente cosa voglia dire essere uomini. Non è un attacco all’identità maschile, non significa “eliminare l’essere uomini”. Significa liberare la mascolinità dai modelli tossici che la società impone da secoli. Significa imparare che la forza non è dominare, che la vulnerabilità non è debolezza, che la cura, l’empatia, l’ascolto e la responsabilità sono qualità centrali.

Decostruire la mascolinità significa anche riconoscere i propri privilegi. Privilegi invisibili, dati per scontati, che non derivano da meriti personali ma da una struttura sociale. Riconoscerli non è sentirsi colpevoli: è assumersi responsabilità. È capire che questi vantaggi non devono trasformarsi in violenza o prevaricazione. È un atto di consapevolezza e di coraggio, perché mette in discussione l’idea di mascolinità che ci è stata insegnata e ci invita a crearne una più libera, più sana, più umana.

Per fare questo servono strumenti concreti. L’educazione emotiva è fondamentale: insegnare a riconoscere e gestire le emozioni, comunicare senza aggressività, comprendere la rabbia e la frustrazione come segnali da ascoltare, non come pretesti per sfogare violenza. Serve anche l’esempio: uomini capaci di empatia, cura, responsabilità, figure visibili nella comunità, nella scuola, nei media e nella politica, che mostrino concretamente che essere maschio non significa dominare.

Occorre creare spazi sicuri di confronto. Gruppi, laboratori, incontri dove uomini possano parlare di emozioni, fragilità, paure, conflitti, senza giudizio. Spazi in cui si possa riflettere su cosa significhi crescere, amare, convivere e collaborare in un mondo in cui i ruoli tradizionali non sono più vincolanti. E questi spazi non sono solo per uomini: il confronto con donne, persone non binarie, minoranze, chiunque subisca discriminazione o violenza è fondamentale. Solo attraverso lo sguardo dell’altro possiamo comprendere l’impatto delle nostre azioni, parole e comportamenti.

Non possiamo poi dimenticare la dimensione collettiva. La violenza maschile non si sconfigge solo con il cambiamento individuale. È un fenomeno culturale, sociale e politico. Serve lavorare sulle norme, sui racconti che facciamo ai ragazzi, sulle istituzioni, sui media, sul linguaggio quotidiano. Solo così possiamo costruire una società in cui la violenza non sia normalizzata, in cui la mascolinità non coincida con il dominio, e in cui il rispetto diventi una pratica diffusa e quotidiana.

Parlare di violenza maschile significa quindi andare alle radici: comprendere come si costruiscono le identità, come i modelli culturali influenzano comportamenti e percezioni, come traumi, frustrazioni e pressioni possano trasformarsi in atti distruttivi. Significa aprire spazi di riflessione e responsabilità, promuovere strumenti di educazione, creare modelli alternativi e favorire dialoghi interculturali e intergenerazionali.

E c’è un ultimo punto, forse il più importante: decostruire la mascolinità non è un compito individuale, è collettivo. Non possiamo aspettare che gli uomini cambino da soli. È un lavoro che coinvolge famiglie

domenica 26 ottobre 2025

il diverso



Il diverso, il senza nome, figura ombrata, s’avanza — lento, quasi trascinato, come un’ombra cui si chiede troppo peso — e si distacca dal corteo di quei pallidi esseri frenetici, affamati di sé, che lottano per farsi eco del proprio grido nella foresta urbana. Essi hanno un nome, il loro nome, e ne vanno fieri, brandendo quell’identità fragile e luminosa come uno stendardo, cercando disperatamente di attaccarlo all’eterno, di inciderlo sul tessuto stesso del cielo; eppure, il diverso, questo pellegrino dell'ignoto, questa creatura segnata dall’assenza, fugge dal nome come dalla prigione di un sogno smarrito.

Ecco, si ferma. Chiude gli occhi, si guarda dentro, e sprofonda nei recessi della sua anima dove regna una luce opaca, quasi di cimitero. Qui, tra questi giardini segreti, mai davvero intravisti, non una singola impronta si è mai posata; ogni cosa vi esiste come sospesa, un orizzonte soffuso, popolato di essenze rarefatte, di sussurri che evaporano, eppure profondi come il silenzio della morte. Le viole… sì, in quell'angolo riposto fioriscono viole; piccole, umide di rugiada, brillano come lacrime smarrite nell’eterno. E che pena provano a vederlo lì, privo di nome, solo come una nota persa nel vento! Egli non le coglie, no, non osa, poiché persino la loro fragranza è intollerabile nella sua intensità, un profumo che gli spezza il cuore con la sua dolcezza amara.

Silenzio. Egli resta lì, senza nome, senza suono; in lui risuona una voce stanca, una voce che potrebbe essere sua, come potrebbe essere l’eco di mille vite passate, vite trascorse in altre sere simili, malinconiche e lontane. Lo strazia, sì, il peso di questa sera che scende come un sudario, l’ora della stanchezza che si insinua in ogni cosa, che penetra fino alla radice dell’anima e della carne. La casa è là, all’orizzonte, lontana, appena visibile come un sogno sfocato; eppure, ogni passo sembra allontanarla, tramutando quella visione in un desiderio irraggiungibile, un paradiso perduto.

Intorno a lui, la risata dell’indifferenza si alza, il mondo ride di lui, un ghigno che brilla crudele come la lama della notte. Ogni cosa ride, si schiude in un sussurro beffardo, persino le ombre, persino i muri, come se tutto fosse parte di un gioco malato, un congegno orchestrato contro di lui. Ma non è vero, no, non è reale. O forse sì?

sabato 25 ottobre 2025

Frederick Rolfe alias Baron Corvo: un genio marginale tra estetismo, fantasia e rovina

Frederick William Serafino Austin Lewis Mary Rolfe, noto ai più con il nome autoimposto di Baron Corvo, fu una figura letteraria eccentrica e controversa della fine dell’Ottocento e dei primi anni del Novecento. La sua esistenza, più romanzesca dei suoi stessi romanzi, si è impressa nell’immaginario letterario soprattutto grazie alla biografia "The Quest for Corvo" (1934) di A. J. A. Symons, che è diventata un’opera cult nel panorama della saggistica britannica. In essa, l’indagine sull’uomo e sull’autore si fonde con l’esplorazione di una mente creativa che sfugge a ogni tentativo di classificazione. Questo saggio intende restituire la complessità di Rolfe, indagando il contesto storico e personale, l’originalità della sua opera e la singolare ricezione postuma.

Rolfe nacque a Cheapside, Londra, il 22 luglio 1860, figlio di un costruttore di pianoforti. Dopo una formazione irregolare, abbandonò la scuola a quattordici anni per lavorare come insegnante. La sua precoce conversione al cattolicesimo romano (1886) fu il primo segno tangibile della sua tendenza alla teatralizzazione dell’identità. Tentò senza successo di farsi accettare al seminario, studiando brevemente allo Scots College di Roma e in seguito presso l’Abbazia benedettina di Fort Augustus in Scozia, ma fu espulso per problemi di condotta e forse per l’evidente eccentricità del carattere. Il fallimento della vocazione sacerdotale diventò il trauma fondativo che informò tutta la sua opera letteraria.

Rolfe fu ossessionato dall’idea di riconoscimento e status. L’adozione del titolo nobiliare fittizio di "Barone Corvo" non fu solo un vezzo, ma l’espressione profonda di un desiderio di legittimazione. La sua firma variava in modo grottesco e barocco: Frederick William Serafino Austin Lewis Mary Rolfe era un accumulo simbolico di identità religiose, aristocratiche, esoteriche. In questo senso, si può leggere la sua intera parabola esistenziale come un tentativo di performare un personaggio letterario nella realtà. La personalità di Rolfe anticipa in modo singolare il fenomeno moderno dell’autofiction e della costruzione narcisistica dell’identità attraverso la scrittura.

L’opera di Rolfe si inserisce nel clima estetizzante fin de siècle, in cui l’arte è concepita come assoluta, separata dalla morale e dalla funzione sociale. Le sue prose sono dense, ornate, talvolta esasperate. Non scriveva per il lettore comune, ma per un pubblico ideale di iniziati, per chi sapesse cogliere le allusioni erudite, il latino ecclesiastico, i riferimenti alla liturgia e alla teologia cattolica. La lingua è spesso enfatica, ma sempre profondamente controllata. Come altri decadentisti del suo tempo, da Huysmans a D’Annunzio, Rolfe si rifugiò in una dimensione estetica assoluta, dove la vita imita l’arte e l’arte risarcisce la vita mancata.

Pubblicato nel 1904, "Hadrian the Seventh" è il capolavoro di Rolfe. Il romanzo mette in scena un alter ego, George Arthur Rose, che dopo essere stato rifiutato dal sacerdozio e abbandonato dalla società, viene miracolosamente eletto Papa. In un turbine di eventi grotteschi, surreali e spirituali, Hadrian VII rivoluziona la Chiesa e il mondo. È una fantasia di potere e redenzione, ma anche una critica feroce alla mediocrità del clero e all’ipocrisia dell’istituzione ecclesiastica. Il testo fu accolto con fascino e diffidenza: troppi vi leggevano un delirio narcisista, una vendetta romanzata; ma oggi lo si riconosce come un’opera originalissima, ibrido di romanzo psicologico, satira politica e confessione visionaria.

Negli ultimi anni della sua vita, Rolfe visse a Venezia, spesso ospite di benefattori e mecenati che puntualmente finivano per stancarsi di lui. Lì scrisse una delle sue opere più affascinanti, pubblicata postuma nel 1934: "The Desire and the Pursuit of the Whole". È un romanzo epistolare e diaristico che racconta la miseria materiale e la ricchezza interiore di un artista in fuga. Venezia, città della dissoluzione e del sogno, diventa specchio della psiche di Rolfe. L’opera è un pastiche raffinato di autobiografia, prosa poetica e riflessione metafisica: un addio lirico al mondo e una meditazione sulla solitudine creativa.

Frederick Rolfe era omosessuale in un’epoca in cui l’omosessualità era criminalizzata. Non fu mai perseguito apertamente, ma la sua sessualità permea la sua opera in forme cifrate e subliminali. Nei racconti della serie "Stories Toto Told Me" e in "Don Tarquinio", il desiderio per giovani uomini è trasfigurato in un’estetica spiritualizzata, tra sacralità e paganesimo. Il suo modo di narrare l’attrazione erotica ricorda certi passaggi di Walter Pater o le confessioni mistiche. La censura dell’epoca lo costrinse a esprimersi in forme indirette, rafforzando la complessità e la tensione simbolica della sua scrittura.

Nel 1934 A.J.A. Symons pubblicò "The Quest for Corvo: An Experiment in Biography", un libro che divenne un classico del genere. Invece di una narrazione cronologica, Symons racconta il processo di ricerca su Rolfe, mostrando la difficoltà di ricostruire la vita di un uomo così sfuggente. Il libro ebbe un’enorme influenza e contribuì a risvegliare l’interesse per Rolfe nel mondo anglofono. La figura di Corvo divenne un’icona della marginalità artistica, un prototipo del genio incompreso. Symons, con finezza e ironia, mostra come l’impossibilità di definire Rolfe sia anche il suo più grande fascino.

L’eredità di Rolfe ha conosciuto ondate di revival, soprattutto negli anni Sessanta e Novanta. L’adattamento teatrale di "Hadrian the Seventh" realizzato da Peter Luke e interpretato da Alec McCowen nel 1968, fu un grande successo a Londra e a Broadway. Negli anni Novanta, Terry Hands ne mise in scena una nuova versione con Derek Jacobi. Questi adattamenti hanno riportato in vita l’universo grottesco e spirituale di Rolfe, attirando l’attenzione su un autore che continua a dividere. La sua scrittura resta ostica, barocca, provocatoria, ma sempre capace di esercitare un magnetismo irresistibile su lettori disposti ad abbandonare le coordinate narrative tradizionali.

Frederick Rolfe fu uno scrittore impossibile da catalogare: dandy cattolico, mistico egocentrico, visionario solitario. Le sue opere sono soglie di accesso a un mondo in cui l’identità è un’opera d’arte, la verità è una costruzione e la marginalità è un destino estetico. Nel panorama della letteratura inglese tra Otto e Novecento, Corvo è una cometa anarchica e abbagliante, che ha lasciato una scia di eccesso, mistero e seduzione. Il suo culto sopravvive, nonostante (o forse proprio grazie a) la sua irriducibile eccentricità. E in tempi in cui l’identità è al centro del dibattito culturale, leggere Rolfe significa confrontarsi con un antesignano delle forme più estreme di autofinzione e di resistenza artistica.


Divenire rivoluzionari.e: pensare con Deleuze e Guattari nel presente


Il titolo del nuovo libro di Roberto Ciccarelli, Divenire rivoluzionari.e. Gilles Deleuze, Félix Guattari e noi, è già una soglia e un gesto, un piccolo atto politico travestito da paratesto editoriale. Non c’è neutralità, non c’è accademismo nella scelta delle parole: c’è piuttosto un invito, una sfida, una vibrazione che chiede al lettore di fermarsi, di ascoltare. Quel “divenire” non è soltanto una citazione del lessico deleuziano, ma la dichiarazione di un’intenzione: non si tratta di essere rivoluzionari, di incarnare un’identità, ma di entrare in un processo, di accettare la metamorfosi, la precarietà del divenire stesso come condizione di possibilità della vita politica. Il titolo funziona come una formula di passaggio: attraversarlo significa già assumere un punto di vista, un ritmo, una postura esistenziale. La scrittura “rivoluzionari.e” – con il punto e quella “e” sospesa – rende visibile una tensione. È un segno che incrina la lingua, un gesto di apertura che rifiuta la chiusura binaria del genere, ma anche quella della filosofia che pretende di rappresentare il mondo anziché attraversarlo. È un atto di ospitalità linguistica, un modo per far entrare le differenze nella materia stessa del testo.

In questa piccola rivoluzione tipografica si condensa l’intero programma del libro: non proclamare ma disporre, non imporre ma generare movimenti. Ciccarelli non adotta la lingua inclusiva come moda o correttezza, ma come forma di vita, come pratica politica. La scrittura diventa qui un campo di battaglia, o meglio, di divenire: non il luogo dove si fissano i significati, ma quello in cui si lasciano fluire. È un titolo che si muove, che sfugge, che accenna una danza più che una definizione. E da questa danza nasce il ritmo stesso del libro, che si sottrae alle forme chiuse del saggio per proporsi come un corpo concettuale in movimento, attraversato da tensioni, contaminazioni, aperture.

L’uscita del volume nel 2025 non è casuale. L’anno segna il centenario della nascita di Gilles Deleuze e il trentennale della sua morte. Un doppio anniversario che, nel circuito editoriale, rischiava di trasformarsi in occasione celebrativa, di ridurre la forza del pensiero a icona. Ciccarelli sceglie la via più difficile: sottrarsi alla commemorazione, evitare la santificazione, rifiutare ogni tentazione museale. Non scrive un libro “su” Deleuze e Guattari, ma “con” Deleuze e Guattari. È una differenza decisiva: significa pensare in compagnia, non da discepolo ma da compagno di viaggio. In questo senso Divenire rivoluzionari.e non appartiene al genere della storia delle idee, ma a quello – più raro e necessario – della filosofia attiva, del pensiero che continua, che prolunga, che sperimenta.

Ciccarelli si muove dentro il solco tracciato da L’Anti-Edipo e Mille piani, ma non per ripeterli. Li tratta come strumenti, come dispositivi operativi, come armi concettuali. Deleuze e Guattari sono per lui una cassetta degli attrezzi per leggere il presente, per smontare i meccanismi del dominio contemporaneo, per riconoscere nelle nostre vite gli stessi flussi di potere, desiderio, soggezione che animavano la loro analisi del capitalismo. I concetti vengono riattivati: “macchina da guerra”, “desiderio”, “corpo senza organi”, “molteplicità”, “agencement”, “linea di fuga” diventano ancora una volta parole vive, strumenti da impugnare. La filosofia, qui, non è mai esposizione neutra: è un esercizio militante, un modo di stare al mondo, un modo di respirare.

Il libro affronta uno dei temi più urgenti e sottili del pensiero politico contemporaneo: la mutazione del fascismo. Non come ritorno del passato, non come nostalgia di regimi, ma come logica permanente, come virus capace di mutare. Ciccarelli lo definisce “fascismo molecolare”, e lo descrive come un fenomeno diffuso, capillare, infiltrato nelle pieghe del quotidiano. Non più un potere dall’alto, ma un fascismo che agisce nei linguaggi, nei comportamenti, nei desideri, nelle micro-relazioni di potere. È un fascismo che non impone soltanto, ma seduce; che non domina con la paura, ma con il consenso; che non si limita a disciplinare, ma produce soggettività. È il fascismo del like, dell’identità ostentata, della violenza algoritmica.

Qui Ciccarelli dialoga profondamente con Deleuze e Guattari: già negli anni Settanta avevano intuito che il fascismo è un desiderio, un godimento perverso nell’aderire a forme rigide, a gerarchie, a chiusure. Il “micro-fascismo” è il piacere di servire, la soddisfazione di sottomettersi, la ricerca di sicurezza nell’ordine. Ciccarelli aggiorna questa intuizione e la porta dentro la nostra epoca di reti sociali, di piattaforme che mercificano l’attenzione, di populismi algoritmici. Il fascismo non è più fuori di noi: ci attraversa, ci modella, ci seduce. La precarietà economica e affettiva diventa il terreno su cui attecchiscono le pulsioni autoritarie. La vulnerabilità produce consenso, la frustrazione diventa rancore, il rancore alimenta il potere.

Ecco allora che “divenire rivoluzionari.e” significa innanzitutto disinnescare questo fascismo molecolare, rompere i circuiti di cattura del desiderio. Non si tratta di attendere la grande rivoluzione, ma di inventare micro-resistenze, pratiche quotidiane di liberazione, forme di vita che sfuggano alla norma. La rivoluzione, qui, è un verbo all’infinito, non un nome. È un movimento che non si chiude mai, un processo di sperimentazione collettiva. È il tentativo di costruire un’etica della trasformazione: una politica che si confonde con la vita, un’etica che diventa potenza di esistere.

Ciccarelli scrive con un’urgenza che raramente si ritrova in un testo filosofico. La sua lingua è precisa ma vibrante, capace di muoversi tra piani diversi: la filosofia politica, l’arte contemporanea, le lotte transfemministe, la critica ecologica, la psicoanalisi, la teoria queer. Non cerca la purezza, ma la contaminazione. Il suo stile è un laboratorio, un luogo di attraversamenti. Si avvertono echi di Spinoza e Foucault, ma anche di Donna Haraway, Rosi Braidotti, Judith Butler, Toni Negri, Achille Mbembe. Ogni citazione è una connessione, ogni concetto è una soglia. Il pensiero procede per assemblaggi, come in Deleuze e Guattari: il libro è esso stesso un “agencement”, un piano di consistenza che connette corpi, linguaggi, esperienze.

Questa trasversalità, però, comporta anche un rischio. La rapidità dei passaggi, l’ampiezza del campo semantico, la moltiplicazione delle linee di fuga possono disorientare il lettore. Ma questo disorientamento è parte del metodo: la filosofia del divenire non promette mappe, ma invita a perdersi. Ciccarelli non costruisce un sistema, costruisce un flusso. Ogni concetto si apre, si deforma, si rigenera in un altro. È una scrittura che accetta la propria instabilità come condizione di verità.

In questo movimento continuo, Divenire rivoluzionari.e affronta anche la grande questione politica del nostro tempo: come pensare la rivoluzione dopo la fine delle rivoluzioni? Dopo il fallimento delle avanguardie, dopo il collasso delle sinistre storiche, dopo la cattura neoliberale della democrazia, è ancora possibile parlare di trasformazione? Ciccarelli risponde sì, ma a condizione di cambiare completamente prospettiva. Non più la rivoluzione come evento finale, ma come processo permanente. Non più il soggetto come portatore della storia, ma come flusso di forze che si trasforma insieme al mondo. Non più la lotta per il potere, ma la creazione di nuove forme di vita.

È un pensiero che risuona con le esperienze più radicali del presente: i movimenti transfemministi e queer, le pratiche ecologiche che mettono in discussione la centralità umana, le esperienze di mutualismo e cooperazione che emergono nei margini urbani, le comunità artistiche e digitali che sperimentano linguaggi alternativi. Tutti questi fenomeni, per Ciccarelli, sono esempi di “divenire rivoluzionari.e”: non movimenti dottrinali, ma forme di vita che si inventano.

Il pregio più evidente del libro sta nella sua capacità di unire rigore teorico e passione politica. Ciccarelli non è un accademico che commenta: è un pensatore che agisce nella lingua. La sua scrittura è parte del problema che analizza. In un panorama editoriale dove spesso la filosofia politica si riduce a commentario o divulgazione, Divenire rivoluzionari.e riporta il pensiero là dove brucia, dove si rischia.

Certo, il testo non è privo di limiti. La dimensione del divenire, così mobile e fluida, rischia talvolta di dissolversi in evocazione, di non offrire strumenti organizzativi concreti. Il pericolo è quello di restare nel piano dell’ispirazione, senza incidere nelle strutture materiali del potere. Ma forse non è questo il suo compito. Ciccarelli non scrive un manuale di tattica, ma una filosofia del possibile. Il suo scopo non è dire al lettore cosa fare, ma ricordargli che può ancora fare qualcosa.

In questo senso il libro è profondamente deleuziano: non prescrive, provoca. Non insegna, stimola. Non tranquillizza, inquieta. È un testo che non lascia indifferenti. Rifiuta la passività della lettura, chiama alla partecipazione. Ogni pagina invita a pensare con, a pensare contro, a pensare oltre.

Nel contesto italiano, Divenire rivoluzionari.e ha un valore particolare. Da un lato rompe con il deleuzismo accademico, che ha trasformato un pensiero del movimento in un sistema di citazioni; dall’altro rifiuta il deleuzismo “pop” che usa concetti complessi come slogan decorativi. Ciccarelli sceglie una terza via: quella del pensiero militante, vivo, incarnato nella storia. È un libro che non teme di sporcarsi con l’attualità, di attraversare la cronaca, di parlare di fascismo e algoritmi, di linguaggio e precarietà, di vita e desiderio.

Ed è proprio per questo che Divenire rivoluzionari.e è importante. Perché riporta la filosofia al suo compito originario: interrogare il presente, creare concetti per sopravvivere al caos. Non un sapere consolatorio, ma un sapere in lotta. Ciccarelli ricorda che pensare è un atto rivoluzionario, e che ogni atto di pensiero, se sincero, produce uno spostamento. Nel mondo, nelle relazioni, nei corpi.

Il libro si chiude come si apre: con un gesto. Non un punto fermo, ma una sospensione, un’invocazione al possibile. Nessuna conclusione definitiva, ma un invito a continuare il movimento. Divenire rivoluzionari.e non chiede di credere, ma di fare esperienza del divenire stesso. È un libro che non insegna cosa sia la rivoluzione: la fa accadere, nella lingua, nel pensiero, nella vita. In un’epoca in cui la filosofia sembra aver rinunciato a incidere nel reale, questo testo restituisce la sensazione di un pensiero che ancora pulsa, che ancora osa. E se, come diceva Deleuze, pensare significa creare, allora questo libro non è solo una riflessione sulla rivoluzione, ma un suo frammento in atto.


venerdì 24 ottobre 2025

Sospesi nella galleria: Kafka, arte e condizione umana



Capitolo 1. Un genio non basta: Kafka oltre la misura dell’umano

Parlare di Kafka è sempre un rischio, perché non c’è aggettivo, non c’è categoria critica che non si sia già logorata a furia di ripetizioni. Lo si chiama “profeta del Novecento”, “cantore dell’alienazione”, “maestro dell’assurdo”. Eppure nessuna di queste formule basta a contenere ciò che le sue pagine effettivamente operano nel lettore. Il fatto è che la sua scrittura non sembra appartenere del tutto alla sfera dell’umano: non è il frutto di una semplice intelligenza acuminata, di un talento letterario straordinario, ma di un dono che si colloca in una zona ambigua, a metà tra il divino e l’infernale. Forse, se volessimo davvero rischiare una definizione, dovremmo dire che Kafka non fu un genio, bensì un semidio, come se avesse potuto vedere il nostro mondo da una prospettiva che non ci è concessa, e poi ce l’avesse restituita, scheggiata e folgorante, nella forma della prosa.

Perché un genio, dopotutto, resta ancora dentro i confini dell’umano: un genio inventa, crea, sorprende. Ma un semidio, invece, non inventa: rivela. Mostra ciò che già esiste, ciò che esiste da sempre, ma che noi non abbiamo la capacità di cogliere finché qualcuno non lo mette davanti ai nostri occhi. In questo senso Kafka si colloca più vicino all’oracolo che al romanziere. Le sue parole hanno la durezza della sentenza e l’ambiguità della visione. Non raccontano storie per consolare o per intrattenere, ma aprono fenditure nel muro del reale, lasciando passare una luce troppo abbagliante per non ferire.

La sua grandezza non sta solo nelle architetture complesse dei romanzi incompiuti, nelle parabole che si leggono come enigmi talmudici, né nelle descrizioni minuziose che trasformano l’ordinario in un incubo. Sta soprattutto nella capacità di immaginare — o meglio, di rendere visibile — scenari che somigliano a premonizioni. Non tanto profezie sul futuro storico (anche se spesso vi si accostano), ma prefigurazioni dell’esperienza interiore dell’uomo moderno, quell’essere schiacciato tra poteri anonimi, norme incomprensibili e il peso di un destino che non controlla.

Eppure c’è un aspetto che spesso sfugge: Kafka non si limita a diagnosticare, come un medico che osserva la malattia. Non si ferma a delineare il male. Nei suoi testi, anche nei più brevi, egli costruisce sempre un’alternativa, un bivio, un’altra via che si apre improvvisa. È il caso di “In galleria”, dove due possibilità della scena vengono messe a confronto: la crudeltà meccanica di uno spettacolo interminabile e la grazia folgorante di una cavallerizza incantatrice. La potenza non sta tanto nell’una o nell’altra immagine, ma nel loro contrasto, nel loro accostamento. Ed è qui che Kafka smette di essere solo un interprete del disagio moderno per diventare qualcosa di più: un visionario capace di mostrare, nello stesso respiro, la condanna e la salvezza.

Quando lo leggiamo, dunque, ci troviamo davanti a un gesto che non appartiene più al mestiere della scrittura, ma a un atto mitico. E come ogni mito, non è mai solo una storia: è un dispositivo che ci avvolge, che ci obbliga a riconoscerci in figure più grandi di noi. Kafka, con apparente semplicità, riesce a fare di un circo qualunque un’immagine universale dell’esistenza, e di uno spettatore relegato in galleria un alter ego del lettore stesso. Non c’è compiacimento estetico in questo, non c’è virtuosismo: c’è la lucidità di chi vede attraverso.

Ecco perché dire “Kafka era un genio” non basta. Un genio affascina, stupisce, insegna. Kafka, invece, inquieta, ferisce, costringe a guardare dove non vorremmo. Eppure, nello stesso tempo, consola, nel modo più ambiguo possibile: non perché ci offra speranza, ma perché ci dice che la disperazione è comune, che il pianto che sgorga “senza saperlo” non è solo nostro, ma di chiunque abbia assistito allo spettacolo della vita.


Capitolo 2. Praga, il circo e il rumore del mondo

Per capire il respiro di “In galleria” bisogna fermarsi un istante a osservare il mondo in cui Kafka scriveva. Non tanto per trovare corrispondenze dirette — come se il circo della parabola fosse un ricordo preciso di uno spettacolo visto — ma per comprendere quale atmosfera culturale e sociale rende possibile una visione di tale potenza. La Praga di inizio Novecento era un crocevia: città imperiale e insieme provinciale, dominata dalla burocrazia austro-ungarica ma attraversata da tensioni nazionaliste, da fermenti artistici e da un ebraismo che oscillava tra assimilazione e segregazione. Era una città plurilingue, dove il tedesco e il ceco convivevano tra diffidenze reciproche, e dove l’ebreo colto come Kafka si trovava inevitabilmente in bilico, sospeso in una condizione di doppia estraneità.

In questo contesto, il circo non era un semplice svago popolare, ma una delle grandi icone della modernità. Alla fine dell’Ottocento e nei primi decenni del Novecento, i tendoni itineranti invadevano le città, portando con sé lo spettacolo della velocità, del rischio, del corpo esibito come macchina. L’arte circense, con i suoi cavalli, le sue acrobazie e le sue orchestrazioni rumorose, incarnava perfettamente l’ambivalenza del nuovo secolo: da un lato la meraviglia per la tecnica, dall’altro la trasformazione dell’essere umano in ingranaggio di un meccanismo spettacolare. Il circo era il teatro del corpo ridotto a funzione, e allo stesso tempo il luogo in cui il corpo poteva farsi miracolo.

Kafka, che era un osservatore instancabile del quotidiano e del suo rovescio, non poteva non cogliere questa ambiguità. “In galleria” prende spunto da una situazione comune — il numero della cavallerizza, esibizione amata dal pubblico — e la porta all’estremo, fino a trasformarla in allegoria. Da un lato la cavallerizza tisica, condannata a girare senza fine, immagine del lavoro alienato, della fatica resa spettacolo, della vita umana consumata sotto lo sguardo di un pubblico indifferente. Dall’altro, la cavallerizza giovane e radiosa, esaltata come creatura angelica, che entra tra le tende e viene sollevata con premura dal direttore.

Dietro questa scena, però, si sente il rumore del mondo: la marcia della modernità, il fragore delle macchine che trasformano anche l’applauso in “magli a vapore”. È la Praga delle fabbriche, delle nuove tecnologie, del telefono che squilla nelle case borghesi, dei tram elettrici che scorrono lungo le strade. È la civiltà della velocità e della massa, che fa della folla un meccanismo compatto, capace di battere le mani come se fosse una sola macchina in funzione.

Eppure, in mezzo a tutto questo, Kafka isola lo spettatore in galleria: una figura solitaria, anonima, un ragazzo che assiste al trionfo o al supplizio senza poterlo fermare, e che, proprio in questa impotenza, diventa specchio del lettore. È significativo che Kafka scelga la galleria: non il posto d’onore, non il palco riservato ai ricchi, ma lo spazio alto, lontano, dove si accumula la polvere e dove siedono gli ultimi. Lo sguardo che osserva dall’alto non è privilegiato, ma distaccato, e proprio per questo coglie il senso profondo dello spettacolo.

La Praga che Kafka attraversava ogni giorno, fatta di uffici amministrativi, di tribunali, di sale da concerto e caffè fumosi, era essa stessa un grande circo. E forse “In galleria” non è altro che la sua trascrizione simbolica: il mondo come pista, gli uomini come cavalli e cavallerizzi, il potere come direttore con la frusta, e il pubblico come folla che applaude a comando.

Così, nella breve parabola, risuona l’intero clima del tempo: la tensione tra alienazione e incanto, tra macchina e grazia, tra la crudeltà di una modernità che divora e la promessa di una bellezza che rapisce. Kafka lo percepisce e lo restituisce in un’immagine che non appartiene solo al suo tempo, ma a ogni epoca che conosce la seduzione e la violenza dello spettacolo.


Capitolo 3. La cavallerizza tisica: allegoria della condanna

La prima immagine che Kafka ci offre è volutamente estrema, quasi insopportabile nella sua crudezza. Non si tratta di una cavallerizza elegante e sorridente, ma di una donna decrepita, malata, tisica: un corpo fragile, ridotto a rovina, che pure continua a girare sulla pista, instancabile, come costretto da un destino che non concede tregua. Il cavallo su cui si regge è “traballante”, segno che la sua fatica non è soltanto personale, ma condivisa con l’animale, anch’esso stremato. Il circo, dunque, non è il luogo della leggerezza, ma quello del supplizio ripetuto, trasformato in spettacolo.

In questa descrizione non c’è pietà: Kafka accentua la crudeltà della scena per portarla a un livello simbolico. La cavallerizza diventa la rappresentazione dell’essere umano ridotto a funzione, costretto a produrre movimento e intrattenimento per un pubblico che non conosce stanchezza. L’applauso, che dovrebbe essere segno di ammirazione, si trasforma in martello, in “maglio a vapore”: non incoraggiamento, ma pressione, costrizione. È come se la folla fosse complice del direttore, anzi, come se la folla fosse essa stessa la macchina che rende necessario lo spettacolo infinito.

Il direttore, con la sua frusta, incarna il potere: un potere impersonale, cieco, che non si ferma di fronte alla sofferenza. La sua frusta non è solo un oggetto materiale, ma il segno di un comando che non conosce misericordia. Non importa quanto sia logora la cavallerizza, né quanto vacilli il cavallo: ciò che conta è che il numero continui, che la ruota non si fermi, che il meccanismo spettacolare resti intatto. È un’immagine che, letta oggi, sembra anticipare la logica spietata del lavoro industriale, e poi del lavoro tardo-capitalista: corpi consumati, malattie ignorate, fatica trasformata in performance per gli occhi di un pubblico che si intrattiene senza percepire il prezzo reale di ciò che vede.

Ma c’è un dettaglio ancora più crudele: la cavallerizza, nonostante tutto, continua a sorridere, a trullare sul cavallo, a lanciare baci. La sua funzione non è soltanto quella di sopravvivere allo spettacolo, ma di renderlo gradevole, di mascherare la sofferenza sotto la finzione della gioia. È il volto dipinto di rosso che copre il pallore della malattia, è l’inganno dell’apparenza che rende invisibile la verità del dolore. Qui Kafka tocca una corda che riguarda non solo il circo, ma l’intera esistenza sociale: quante volte l’essere umano è costretto a sorridere, a fingere, a mostrarsi entusiasta mentre dentro di sé è logorato?

Lo spettatore di galleria, posto davanti a questa scena, ha una sola possibilità: la rivolta. Scendere i gradini, interrompere lo spettacolo, gridare che basta. Ed è significativo che Kafka gli riconosca questa potenzialità, questa carica rivoluzionaria. Per un istante, il giovane spettatore diventa l’eroe possibile, colui che potrebbe spezzare la catena, che potrebbe rivelare la verità e liberare la cavallerizza. Ma questo rimane nel condizionale: “forse allora” scenderebbe, “forse allora” interromperebbe. È un gesto che non avviene, che resta sospeso nell’ipotetico.

Così la prima ipotesi di “In galleria” si chiude su una nota di impotenza: la scena della condanna è costruita, è possibile, ma non accade. Kafka la pone davanti ai nostri occhi come un sogno negativo, come un’ombra che incombe, ma che subito viene ribaltata dalla seconda versione. Non è questo che avviene realmente, ci dice, ma potrebbe avvenire: e se accadesse, saremmo costretti a ribellarci.

Questa prima immagine, dunque, funziona come monito e come specchio. Mostra cosa significa la vita quando diventa ingranaggio, quando il corpo si consuma per alimentare un meccanismo che non concede tregua. Mostra la crudeltà della folla che applaude senza coscienza, e la violenza di un potere che brandisce la frusta come puro segno d’autorità. Ma mostra anche la possibilità, seppur non realizzata, di una ribellione: un giovane che, vedendo l’ingiustizia, potrebbe dire basta.

“In galleria” si apre con questa immagine, e già in essa si concentra tutto il peso della modernità kafkiana: alienazione, spettacolo, sofferenza invisibile e desiderio represso di liberazione.


Capitolo 4. La cavallerizza radiosa: incanto e celebrazione

Dopo aver sollevato davanti a noi l’immagine insostenibile della cavallerizza tisica, Kafka compie un gesto che ha la forza di un rovesciamento teatrale: ci dice che non è così. Non la decrepitezza, non il supplizio, non la crudeltà senza fine. La realtà che ci viene mostrata è un’altra: sul palcoscenico entra una donna bella, giovane, fresca, con il volto bianco e rosso, quasi icona di salute e di grazia. Non più l’agonia del corpo che resiste all’usura, ma la leggerezza di un’apparizione che sembra scivolare tra le tende come se fosse portata da un vento propizio.

Il direttore, che prima era figura di potere implacabile, qui muta radicalmente. Non è più il carnefice che brandisce la frusta, ma un servitore devoto, quasi un padre premuroso. Ansima, si commuove, si avvicina a lei con un rispetto che sfiora l’adorazione. Quando la solleva sul cavallo, non compie un gesto meccanico, ma un atto carico di tenerezza: la colloca sul dorso dell’animale come se fosse la nipotina amatissima che intraprende un viaggio pericoloso. Ogni suo movimento è attraversato dall’ansia e dalla cura. La frusta, che prima colpiva con crudeltà, ora si abbatte con esitazione, come se dovesse vincere una resistenza interiore. È uno strumento che non serve più a punire, ma a compiere un rito, a segnare l’inizio di un numero che appare come una cerimonia sacra.

La cavallerizza, a sua volta, non è un corpo consumato, ma un corpo che incarna la grazia. Ogni suo salto è seguito con occhi spalancati dal direttore, che sembra incapace di contenere lo stupore. Non è più spettacolo di sofferenza, ma spettacolo di incanto. L’orchestra, il pubblico, gli stallieri: tutto si trasforma in un contorno che amplifica la centralità di questa figura luminosa. Quando si avvicina il grande salto mortale, il direttore stesso supplica l’orchestra di tacere, come se volesse garantire a quell’istante una solennità assoluta, un silenzio degno di un rito religioso.

Ed è proprio qui che la scena raggiunge la sua apoteosi: la cavallerizza, sorretta dal direttore, scende in punta di piedi, avvolta dalla polvere, con le braccia aperte e la testa rovesciata, come se fosse una creatura angelica che distribuisce la propria felicità al mondo intero. È un’immagine di epifania, un’apparizione che sospende il tempo e che sembra travolgere ogni altra realtà. Non più supplizio, ma trionfo; non più condanna, ma celebrazione.

Il pubblico applaude, ma ogni tributo sembra insufficiente. La cavallerizza non è un’artista che riceve un riconoscimento: è un essere che suscita devozione, che trasforma la folla in una comunità adorante. Non c’è distanza tra lei e il pubblico, non c’è più separazione tra artista e spettatore: il gesto delle braccia spalancate, la polvere che si alza, la luce che si riflette sul corpo, creano un’unità che travolge. L’intero circo diventa spazio sacro, tempio improvvisato in cui il rito della grazia si compie davanti agli occhi di tutti.

Eppure, proprio in questo splendore, si annida una sottile inquietudine. Perché la bellezza, così assoluta e così folgorante, non lascia spazio all’azione dello spettatore. Laddove la cavallerizza tisica avrebbe spinto il giovane a ribellarsi, la cavallerizza radiosa lo immobilizza. Non c’è nulla da interrompere, nulla da correggere, nulla da salvare: resta soltanto da contemplare, da lasciarsi trascinare, da accettare la commozione che sgorga senza controllo. Così, mentre nella prima scena la rivolta era possibile, qui la resa è inevitabile. Lo spettatore non scende più le scale, non urla, non si oppone: poggia il volto sul parapetto e piange, “senza saperlo”, rapito dall’incanto.

Il rovesciamento, dunque, non è soltanto estetico, ma etico: la bellezza paralizza, la grazia trattiene, la felicità condivisa diventa catena invisibile. Kafka non ci mostra soltanto due versioni dello stesso spettacolo, ma due forme opposte di rapporto con il reale: da un lato la crudeltà che spinge alla ribellione, dall’altro l’incanto che disarma ogni resistenza.

Questa seconda ipotesi, apparentemente più consolante, non è meno inquietante della prima. Anzi, in un certo senso lo è di più, perché ci mostra come la bellezza stessa possa diventare un meccanismo di immobilizzazione. Non ci obbliga con la frusta, ma con la dolcezza. Non ci schiaccia con la sofferenza, ma ci ipnotizza con la gioia. E lo spettatore, senza rendersene conto, diventa parte di un sogno che lo trascina in lacrime, incapace di opporsi.


Capitolo V – L’inquietudine dello spettatore

Lo spettatore, nel racconto kafkiano, non è mai un semplice osservatore. È una figura sospesa, condannata a un doppio movimento: da un lato rimane immobile nella sua posizione marginale, dall’altro è già in potenza colui che potrebbe rompere l’incanto, attraversare lo spazio della distanza e intervenire. L’inquietudine che lo abita non è data tanto dallo spettacolo in sé, quanto dalla coscienza della sua responsabilità: egli sa che potrebbe scendere, sa che le sue gambe sarebbero capaci di percorrere le scale, eppure non lo fa. Questo trattenersi, questo “non-atto”, è il cuore stesso dell’angoscia che Kafka rappresenta.

È come se il giovane in galleria fosse prigioniero della sua posizione, non per vincoli esteriori ma per l’intima paralisi che l’esperienza dell’arte produce. Vedere è un atto passivo, ma in Kafka non lo è mai del tutto: lo spettatore vede troppo, vede oltre. E questo eccesso di visione si trasforma in impossibilità d’azione. La consapevolezza lo inchioda, lo rende estraneo a sé stesso e al pubblico che applaude. L’applauso, infatti, è una macchina anonima, un rumore uniforme che assorbe le singolarità; il giovane, invece, sente di non potersi unire a quella corrente indistinta, e tuttavia non trova la forza di opporvisi.

Questa tensione richiama un tema costante nell’opera kafkiana: la colpa senza colpa, l’attesa di un compito che non viene mai chiarito, il sentirsi investiti di una missione impossibile da compiere. Lo spettatore non riceve alcun ordine, ma lo percepisce lo stesso: come un richiamo interiore, un imperativo che lo logora. Da qui il paradosso: Kafka non descrive semplicemente un circo, bensì una metafora del mondo moderno, in cui l’individuo assiste a spettacoli sociali, politici e culturali che lo inquietano, ma nei quali si sente impotente, inchiodato a una platea che non ha scelto.

L’inquietudine dello spettatore è allora l’inquietudine di ciascuno di noi, costretti a guardare lo spettacolo della storia senza poterlo interrompere, intrappolati in un eterno dilemma: restare immobili e complici, o intervenire rischiando il crollo dell’intero scenario. Kafka, con la sua crudele chiaroveggenza, mostra che quasi sempre scegliamo la prima via, e che il nostro pianto – come quello del giovane in galleria – sgorga non per pietà verso la cavallerizza, ma per l’oscura consapevolezza della nostra stessa passività.

Capitolo VI – Il direttore di circo come figura del potere

Il direttore che Kafka mette in scena non è un semplice impresario di spettacolo. Egli non appartiene al piano realistico di un circo qualsiasi, ma incarna una funzione: quella del potere, dell’autorità che organizza, disciplina e al tempo stesso soffre dell’atto artistico. È un personaggio sdoppiato, che vive nel paradosso. Da una parte è inflessibile, pronto a brandire la frusta, a pretendere il massimo dalla cavallerizza, a garantire che lo spettacolo non si interrompa mai. Dall’altra, Kafka ce lo mostra quasi supplice, incapace di colpire con decisione, come se l’affetto e la paura lo rendessero esitante. È un’autorità fragile, che non riesce a esercitare pienamente se stessa.

Questa fragilità non è un dettaglio pittoresco, ma la chiave interpretativa. Il potere, nel mondo kafkiano, non è mai saldo e trasparente: è un enigma, un meccanismo che si sostiene solo grazie al riconoscimento di chi lo osserva. Il direttore corre accanto al cavallo, ansima, guarda la cavallerizza con occhi devoti, cerca di proteggerla e allo stesso tempo di spingerla oltre il limite. La sua autorità è spasmodica, continuamente in bilico tra il comando e la supplica, tra la violenza e l’adorazione. È come se egli fosse schiavo del medesimo spettacolo che dovrebbe governare.

Qui Kafka anticipa una delle intuizioni più profonde della modernità: il potere non è mai assoluto, ma sempre incompleto, e si fonda su un gioco teatrale in cui il governante e il governato sono entrambi attori. Il direttore non può vivere senza la cavallerizza, perché è lei a dargli un senso, è lei a trasformare il suo gesto in qualcosa di visibile. Allo stesso modo, la cavallerizza ha bisogno di lui, perché solo il suo comando, il suo ordine, il suo fischio o il suo colpo di frusta trasformano la sua destrezza in spettacolo. L’arte, dunque, non è autonoma, ma legata a un dispositivo di potere che la rende possibile e insieme la soffoca.

Si potrebbe dire che il direttore rappresenti, nella pagina kafkiana, l’immagine del legislatore, del sovrano, del burocrate onnipresente che regola senza mai riuscire a possedere del tutto ciò che regola. È una maschera che si dibatte tra l’esigenza di ordine e l’incapacità di controllare la vita che gli sfugge. Da questo punto di vista, il direttore è specchio del giovane spettatore: entrambi sono intrappolati, entrambi incapaci di agire secondo la propria volontà piena. L’uno è spettatore, l’altro è sovrintendente, ma la loro condizione di impotenza è parallela.

Kafka suggerisce così una verità amarissima: anche chi comanda, in fondo, non comanda davvero. Anche chi regge la frusta è schiavo di un ordine superiore, di un copione che non ha scritto. Il direttore si inginocchia, prega l’orchestra di tacere, invoca gli stallieri, eleva le mani: tutti gesti che svelano la natura disperata e insicura del potere. L’autorità non si manifesta come forza granitica, ma come atto nervoso, incerto, quasi febbrile. Il potere non è mai saldo, ma sempre tremante, come il cavallo sotto la cavallerizza.

Capitolo VII – La cavallerizza come corpo artistico e sacrificio

La cavallerizza di Kafka non è un semplice personaggio di contorno: è il fulcro del racconto, la figura su cui converge lo sguardo di tutti, dal direttore ansimante al pubblico che applaude, fino al giovane spettatore in galleria. È il corpo esposto, fragile e insieme invincibile, che trasforma lo spettacolo in un rito collettivo. Nella sua leggerezza sospesa, nei suoi salti calibrati, nella sua grazia che sembra sfidare la caduta, ella non rappresenta soltanto un’artista circense, ma il destino dell’arte stessa.

Kafka la descrive con tratti contrastanti: da un lato bella, luminosa, quasi angelica; dall’altro continuamente minacciata dal rischio, dal pericolo, dalla possibilità del crollo. Il suo corpo diventa campo di battaglia tra vitalità e rovina, tra celebrazione e sacrificio. Non è un caso che, in alternativa, l’autore evochi la visione della cavallerizza decrepita e tisica, costretta a esibirsi su un cavallo traballante. Le due immagini – quella della giovinezza radiosa e quella della decrepitezza disperata – non sono separate, ma convivono: la bellezza dell’istante porta in sé l’ombra del suo sfacelo.

La cavallerizza, dunque, è simbolo della condizione dell’artista, costretto a offrirsi in pasto allo sguardo altrui, a mantenere un equilibrio impossibile sotto l’assillo del comando e della disciplina. Ogni suo salto è un atto di obbedienza e al tempo stesso di ribellione: obbedienza al direttore che le impone la prova, ribellione perché, nell’atto del salto, ella si sottrae a ogni controllo, librandosi in un’aria che nessuno può governare. È in quel momento che l’arte mostra il suo nucleo di libertà, fragile ma invincibile.

Eppure, questa libertà non è mai pura. È attraversata dalla polvere che avvolge la scena, dall’ansia che si legge nel volto del direttore, dal brusio incessante del pubblico. L’artista non esiste in solitudine, ma è sempre immerso in una rete di sguardi, di aspettative, di comandi. La cavallerizza divide con il circo intero la sua felicità, ma questa felicità è contaminata, segnata dalla fatica e dalla pressione. È un dono che non può essere integro, perché l’arte, in Kafka, è sempre ferita, sempre segnata da un’ombra di sacrificio.

In lei si incarna anche una dimensione femminile, vista con ambivalenza: la grazia, la delicatezza, l’elevazione, ma anche la vulnerabilità, l’essere esposta e consumata dallo sguardo maschile che la circonda. Il direttore la solleva come fosse una nipotina, la protegge e insieme la sfrutta. Il pubblico la acclama, ma il suo applauso è una macchina anonima che divora l’individuo. La cavallerizza diventa così immagine di un corpo femminile costretto a essere simbolo, emblema, spettacolo, senza mai potersi appartenere del tutto.

Kafka tocca un punto vertiginoso: l’arte, come la cavallerizza, non è mai autonoma. È sempre sottoposta a una logica di esposizione e di consumo, sempre sospesa tra la gloria e la distruzione. E proprio in questa condizione estrema, quasi insopportabile, risiede la sua potenza.

Capitolo VIII – Il pubblico come macchina collettiva

Nel racconto kafkiano, il pubblico non ha volto. Non c’è mai un individuo riconoscibile tra le file della platea: non un nome, non un gesto singolare che si stacchi dal coro. È una massa indistinta, rumorosa, instancabile, che applaude come se fosse un congegno automatico, senza mai fermarsi, senza mai esaurirsi. Kafka, con la sua precisione chirurgica, non lo descrive come un insieme di persone, ma come una macchina: “mani che propriamente sono magli a vapore”. L’immagine è crudele e geniale, perché mostra come l’applauso – atto che dovrebbe esprimere calore umano, emozione condivisa – venga ridotto a rumore meccanico, a energia impersonale che schiaccia ogni soggettività.

Il pubblico è la vera potenza che governa lo spettacolo. Non il direttore, non la cavallerizza, non lo spettatore in galleria, ma l’insieme indistinto degli sguardi e delle mani che, unendosi, diventano una macchina di consenso. È il pubblico che pretende che lo spettacolo continui, che alimenta il ritmo frenetico della scena, che trasforma la fatica della cavallerizza in un rito necessario. L’orchestra può tacere o suonare, il direttore può esitare o gridare, ma il pubblico rimane: la sua persistenza è assoluta, come un dio che non si mostra mai eppure decide tutto.

In questa descrizione, Kafka coglie un tratto che oggi appare ancora più attuale: la trasformazione delle masse in apparati anonimi di consumo. Il pubblico non è lì per comprendere, ma per applaudire. Non osserva con attenzione, non riflette, non giudica con discernimento: produce rumore, alimenta la macchina dello spettacolo. La sua funzione non è critica, ma produttiva: alimenta la ripetizione, impone che la scena si protragga all’infinito. In questo senso, il pubblico è complice della sofferenza dell’artista, ma in modo innocente, quasi inconsapevole. È un ingranaggio che non pensa, ma agisce.

Eppure, proprio qui si annida la tragedia. Perché il pubblico non è altro che la somma di individui che, presi singolarmente, potrebbero anche provare pietà o disagio, ma che, fusi insieme, diventano un meccanismo che annienta ogni sentimento personale. La massa non conosce la compassione: conosce soltanto il proprio ritmo, il proprio fragore. Così, il pianto dello spettatore in galleria si contrappone alla voce collettiva che applaude: il singolo che soffre e non sa perché, contro la moltitudine che rumoreggia e non pensa.

Questa opposizione rivela un punto essenziale della poetica kafkiana: l’isolamento dell’individuo di fronte alla collettività. Lo spettatore è solo, non perché nessuno altro sia presente, ma perché la presenza degli altri non ha volto, non ha voce, non ha pietà. È in questo divario che si colloca la vertigine kafkiana: l’arte non è mai un rapporto intimo tra artista e spettatore, ma un sacrificio consumato da una macchina anonima che pretende senza sosta.

In definitiva, il pubblico del circo è il vero “tribunale” del racconto. Non giudica con sentenze, non emette verdetti: applaude, e questo basta. Ma in quell’applauso si condensa la più terribile delle condanne, perché rende impossibile ogni interruzione, ogni atto di ribellione. Lo spettacolo deve continuare, sempre.

Capitolo IX – Musica, rumore e ipnosi collettiva

Un altro elemento cruciale di “In galleria” è la presenza costante della musica, che Kafka descrive non come semplice accompagnamento, ma come forza viva e spesso minacciosa. L’orchestra non suona per allietare lo spettatore: produce un fragore incessante, un ritmo che trascina e soffoca insieme. I suoni diventano corpo, diventano aria compressa che avvolge cavalli, artisti e pubblico. È come se ogni nota fosse un’onda che spinge, un vento che impedisce la fuga, un vincolo invisibile che lega tutti gli attori dello spettacolo in un unico, continuo movimento.

Kafka insiste su questa impressione di ipnosi: la musica è un rumore che obbedisce alla scena ma, al contempo, domina la scena stessa. Nel passo in cui descrive lo spettatore in galleria, il “fragore dell’orchestra e dei ventilatori” diventa un elemento che comprime, che ostacola la volontà di intervenire. L’orchestra è parte del dispositivo di potere: crea tensione, scandisce il ritmo dello spettacolo, amplifica l’effetto della cavallerizza, sottolinea l’ansia del direttore e scandisce la partecipazione del pubblico. Non è un accompagnamento neutro: è un corpo, un’energia che penetra nel sistema e ne guida ogni azione.

L’ipnosi collettiva generata dalla musica ha anche una valenza simbolica. Kafka ci suggerisce che la percezione del reale è sempre mediata da forze che ci trascinano, che modellano il nostro sguardo e la nostra esperienza. L’arte, in questo caso, diventa un meccanismo di soggiogamento dolce: il fragore non punisce direttamente, non schiaccia come la frusta, ma costringe a seguire un ritmo, a sincronizzarsi con un ordine invisibile. Lo spettatore che poggia il viso sul parapetto, travolto dall’applauso e dalla musica, non piange soltanto per la gioia o per il dolore, ma per l’esperienza totale di essere incorporato in un sistema più grande di lui, in cui la volontà individuale è sospesa.

La musica diventa dunque metafora di molteplici dinamiche: del potere, della massa, della disciplina, ma anche della fascinazione estetica. La tensione prodotta dall’orchestra è duplice: da una parte amplifica il rischio e il trionfo della cavallerizza, dall’altra obbliga lo spettatore a riconoscere la propria impotenza, a sentirsi parte di un meccanismo che lo travolge. Non c’è separazione tra suono e gesto, tra movimento e percezione, tra artista e spettatore: tutto è un flusso continuo, in cui la realtà si confonde con l’illusione, e la contemplazione con il coinvolgimento obbligato.

Kafka ci offre così una visione totale dello spettacolo: non come semplice narrativa circense, ma come metafora della modernità, dove suoni, gesti e corpi si intrecciano per creare uno spazio che afferra l’individuo e lo sospende tra meraviglia e oppressione. L’orchestra, il pubblico, la cavallerizza e il direttore formano un unico organismo: la galleria stessa diventa un’entità viva, respirante, in cui la realtà quotidiana e l’arte si mescolano fino a confondersi.


Capitolo X – La scala e il gesto potenzialmente rivoluzionario

La scala, nell’“In galleria”, non è un semplice elemento architettonico: è simbolo della possibilità di azione, della scelta tra l’immobilità e l’intervento, tra l’osservazione passiva e la ribellione. Kafka insiste sul percorso dello spettatore che, dall’alto della galleria, potrebbe “scendere di corsa la lunga scala attraverso tutti gli ordini di posti”. Questa discesa non è un gesto banale: è la metafora di un atto morale, di una decisione che potrebbe interrompere il meccanismo dello spettacolo e porre fine alla sofferenza, reale o simbolica, della cavallerizza.

La scala rappresenta il passaggio tra due mondi: quello della contemplazione e quello dell’azione. Dall’alto, lo spettatore osserva tutto, vede ogni dettaglio, percepisce le tensioni, le paure, le forze in gioco. Ma restando immobile, rimane impotente. La discesa, invece, significherebbe interrompere l’equilibrio apparente, modificare il corso degli eventi, introdurre un elemento di caos che rompe la perfezione del rito circense. È un gesto di responsabilità, di coraggio, di liberazione, ma Kafka lo sospende nel condizionale: “forse allora…”. L’incertezza è totale: la possibilità esiste, ma non si realizza.

In questa ambivalenza risiede la grandezza della pagina kafkiana: il potere dello spettatore non è negato, ma rimane sospeso. La scala diventa simbolo della libertà possibile, ma della libertà che richiede rischio. Ogni gradino rappresenta una scelta: il coraggio di agire contro la folla, contro il potere del direttore, contro la magia seducente della cavallerizza radiosa. E ogni passo rischia di spezzare l’illusione, di rompere l’incanto, di provocare un crollo nel sistema che sembrava perfetto.

Inoltre, la scala simboleggia anche la distanza tra il singolo e la collettività. Dall’alto, lo spettatore è separato dalla massa, osserva come estraneo e insieme come parte integrante del meccanismo. La discesa significherebbe avvicinarsi al pubblico, intervenire nella logica della massa, smascherare la macchina che trasforma l’applauso in martello. È l’atto che potrebbe ristabilire la centralità dell’individuo, il primato della coscienza e della volontà.

Kafka ci lascia in sospeso: la scala è lì, visibile, ma il gesto non avviene. L’immagine è potente perché mostra che la rivoluzione non è impossibile, ma richiede coraggio e decisione, che il giovane spettatore non ha o non trova. Eppure, proprio in questa sospensione, si concentra la tensione etica del racconto: la consapevolezza di ciò che potrebbe essere, la visione di un mondo in cui l’azione individuale ha un peso reale.

Così, la scala non è solo un oggetto fisico, ma un simbolo morale: la linea di demarcazione tra impotenza e potere, tra sogno e realtà, tra osservazione passiva e partecipazione attiva. Ogni lettore, seduto nella propria “galleria”, riconosce in quella scala la propria possibilità di scelta, la propria responsabilità di intervenire o di rimanere inerte. Kafka costruisce così un meccanismo di tensione universale: ogni gradino è un bivio etico, e ogni discesa sospesa è un invito a confrontarsi con la propria capacità di agire nel mondo.


Capitolo XI – La polvere e l’effetto sensoriale della scena finale

Uno degli aspetti più straordinari di “In galleria” è la cura maniacale con cui Kafka descrive gli elementi sensoriali della scena, e tra questi la polvere assume un ruolo centrale. Non è un dettaglio decorativo: la polvere avvolge la cavallerizza, si alza come un velo luminoso intorno al corpo sospeso, crea un alone che trasforma la realtà in sogno, e al tempo stesso sottolinea la fatica e la fragilità della sua performance.

Quando Kafka scrive che la cavallerizza è “avvolta da una nube di polvere, con le braccia spalancate e la testolina rovesciata”, ogni parola è calibrata per far percepire il peso e la leggerezza insieme. La polvere, materiale solido e fine, sospende il movimento, lo rallenta e lo evidenzia. Cattura la luce, accentua i gesti, trasforma la scena in un fenomeno quasi mistico, in cui il corpo dell’artista sembra fluttuare tra la realtà tangibile e un altrove impalpabile.

La polvere è anche simbolo del tempo e della fatica accumulata. Ogni salto, ogni trullo, ogni gesto della cavallerizza lascia traccia, e la nube di polvere è il resoconto visibile di tutta l’energia consumata per quel numero. È memoria del movimento, testimonianza dell’impegno, indice della vulnerabilità del corpo che resiste all’usura e allo sguardo collettivo. La leggerezza apparente non cancella il lavoro e il sacrificio: la polvere li rende visibili, li rende reali anche nell’incanto.

Inoltre, la polvere accentua il distacco tra lo spettatore e la cavallerizza. Essa delimita uno spazio etereo, una barriera sottile che protegge e insieme separa. Il giovane in galleria può vedere tutto, può percepire la magnificenza, ma non può toccarla, non può interromperla, non può possederla. La polvere diventa così metafora del limite tra percezione e partecipazione, tra sogno e azione. Essa rende la scena irraggiungibile, amplifica la suspense emotiva, costruisce un effetto di vertigine visiva e psicologica.

Kafka riesce, con la polvere, a far coincidere la dimensione estetica con quella etica. La bellezza del gesto non è neutra: nasce dalla fatica, dal rischio, dall’attenzione del direttore e dall’energia del pubblico. La polvere sospesa è il segno di questa convergenza, la manifestazione visibile di un equilibrio instabile tra incanto e tensione, tra gioia e consapevolezza della precarietà.

Infine, la polvere sottolinea la temporalità sospesa della scena finale. Non c’è più il prima e il dopo: tutto è concentrato nell’istante in cui la cavallerizza raggiunge la perfezione dei gesti, mentre il corpo del direttore la sorregge e il pubblico applaude. La polvere cristallizza questo momento, lo rende eterno nella percezione dello spettatore, e al tempo stesso fragile: basta un gesto, un passo falso, un respiro diverso perché l’illusione crolli.

In questa cura del dettaglio sensoriale, Kafka trasforma la pagina in un’esperienza quasi cinematografica: il lettore non osserva semplicemente, ma sente la polvere sollevarsi, percepisce il calore della luce, il fruscio dei movimenti, l’odore dell’arena. Ogni elemento contribuisce a costruire la tensione emotiva, a creare uno spazio in cui il reale e il simbolico si fondono in modo inscindibile.


Capitolo XII – Il pianto dello spettatore: gesto metafisico

Il pianto dello spettatore in galleria non è un pianto comune: non scaturisce da dolore personale, né da una semplice emozione estetica. È un pianto metafisico, che nasce dalla consapevolezza della propria impotenza di fronte a un meccanismo più grande, della propria impossibilità di modificare ciò che si svolge sotto i suoi occhi. Kafka lo descrive con precisione: “affondando nella marcia finale come in un sogno greve, piange senza saperlo”. Non c’è volontà, non c’è intenzione: il pianto sgorga come effetto inevitabile della tensione accumulata, della meraviglia e del timore che lo spettatore prova.

In questo gesto si condensano tutte le dinamiche del racconto: il sacrificio della cavallerizza, la tensione del direttore, la forza meccanica del pubblico, la musica dell’orchestra, la possibilità inesaudita della discesa lungo la scala. Il pianto è il punto di convergenza, il segno che tutto ciò che si è osservato ha colpito l’animo fino a un limite estremo. Non è semplice commozione, ma esperienza radicale dell’inadeguatezza, della subordinazione, della partecipazione forzata a un rito che travalica l’individuo.

Il pianto metafisico dello spettatore porta con sé una rivelazione sottile: l’arte, per Kafka, non è mai neutra. Non si limita a rappresentare, a illustrare o a intrattenere: agisce, investe, modifica chi la osserva. La pagina diventa così un laboratorio emotivo, una macchina capace di produrre sensazioni che trascendono la logica ordinaria. Lo spettatore non è libero, eppure il pianto stesso è un atto di libertà involontaria: esprime ciò che la mente non può controllare, ciò che l’individuo non può dirsi o spiegarsi.

Kafka suggerisce che la verità dello spettacolo non risiede nella cavallerizza né nel direttore, né nel pubblico, ma nell’esperienza totale che essi generano insieme. Il pianto, così, è emblematico: segna il punto in cui la soggettività dell’individuo incontra il dispositivo collettivo e la bellezza, riconoscendo al tempo stesso la propria fragilità. È un gesto che unisce corpo e mente, partecipazione e impotenza, coscienza e sogno.

In definitiva, il pianto dello spettatore è la chiave interpretativa di tutta la pagina. È il segnale che Kafka lascia al lettore: la realtà e l’arte, la vita e il rito, la bellezza e la sofferenza non sono mai separabili. Ogni gesto, ogni salto, ogni nota musicale ha un effetto su chi guarda, e chi guarda non può sfuggire. Il pianto è la prova tangibile di questa connessione totale: indica che lo spettacolo ha compiuto il suo destino, ha attraversato la coscienza dello spettatore e l’ha trasformata, anche contro la sua volontà.

Con il pianto, “In galleria” raggiunge la sua apoteosi: non è solo racconto di circo, ma meditazione sulla relazione tra potere, arte, spettatore e collettività. L’esperienza estetica si fa etica e metafisica insieme, e la pagina kafkiana diventa specchio di una condizione universale: quella dell’essere umano sospeso tra desiderio di azione e impotenza, tra incanto e coscienza.


Capitolo XIII – Sintesi e lettura complessiva: “In galleria” come metafora della condizione umana

Arrivati a questo punto, diventa chiaro come "In galleria” non sia semplicemente una pagina sul circo, ma un microcosmo in cui Kafka concentra tutta la complessità della condizione umana. Ogni elemento – la cavallerizza, il direttore, lo spettatore, il pubblico, la musica, la scala, la polvere – opera come parte di un unico organismo simbolico che riflette le tensioni fondamentali della vita: potere e impotenza, osservazione e azione, individualità e collettività, bellezza e sofferenza.

La cavallerizza rappresenta la purezza e la vulnerabilità dell’atto creativo, l’arte esposta al mondo eppure fragile, continuamente minacciata dal peso della performance. Il direttore incarna il potere che è sempre incompleto, sempre sospeso tra autorità e devozione, incapace di controllare completamente ciò che governa, ma al tempo stesso indispensabile al funzionamento del sistema. Lo spettatore in galleria è la coscienza dell’individuo moderno, sospeso tra desiderio di intervento e immobilità, tra responsabilità morale e impotenza concreta. Il pubblico, massa anonima e incessante, mostra come l’energia collettiva possa sovrastare la volontà del singolo, trasformando l’esperienza estetica in un atto di pressione sociale e psicologica.

La scala, metafora dell’azione possibile ma non compiuta, e la polvere, simbolo della fatica, del tempo e della sospensione sensoriale, rendono visibile l’intreccio tra il reale e l’illusione, tra la percezione e la partecipazione. L’orchestra, con il suo fragore incessante, accentua la tensione e crea un effetto di ipnosi collettiva, dimostrando come la percezione umana sia sempre mediata da forze che trascendono il controllo individuale. Infine, il pianto dello spettatore è la manifestazione più pura dell’impatto dell’arte: un gesto involontario che unisce emotività e riflessione, esperienza e comprensione, soggettività e partecipazione.

In questo insieme complesso, Kafka mostra la modernità nella sua crudezza e nella sua bellezza: la tensione tra possibilità e impotenza, la necessità di confrontarsi con il mondo e il desiderio di sfuggirne, la seduzione del bello e l’angoscia del limite. L’“In galleria” diventa così un laboratorio filosofico, etico e psicologico in cui la scena circense si trasforma in metafora universale: il mondo intero è un circo in cui gli individui oscillano tra il desiderio di agire e la paura di infrangere l’equilibrio che li circonda.

La lettura complessiva del testo evidenzia la maestria di Kafka nel combinare la precisione narrativa con la profondità simbolica. La sua scrittura non descrive soltanto eventi, ma costruisce spazi di esperienza in cui il lettore è coinvolto, chiamato a percepire, a sentire, a riflettere. La tensione tra immobilità e azione, tra controllo e abbandono, tra individualità e collettività, non è mai risolta: rimane sospesa, come la cavallerizza nell’aria, e invita chi legge a confrontarsi con la propria condizione.

In conclusione, “In galleria” è un testo che trascende il suo apparente soggetto circense. È un racconto sulla vita, sull’arte e sul ruolo dell’individuo in un mondo complesso e spesso incomprensibile. Kafka ci mostra che la bellezza e la sofferenza sono inseparabili, che l’osservazione porta con sé responsabilità e che la libertà, anche quando possibile, è sempre rischiosa e incompleta. In questo senso, la pagina non è solo letteratura, ma esperienza etica e metafisica: un invito a percepire la vita in tutta la sua tensione, a confrontarsi con la propria impotenza e a riconoscere la grandezza di ciò che, pur senza poterlo controllare, ci travolge e ci trasforma.


Epilogo critico – L’“In galleria” come esperienza estetica e metafisica

L’epilogo di questa analisi vuole restituire la complessità di "In galleria” non come somma di dettagli, ma come esperienza totale, dove ogni elemento narrativo concorre a una visione integrale del mondo kafkiano. Kafka non racconta il circo semplicemente per descrivere un fenomeno spettacolare, ma per costruire un dispositivo simbolico in cui la percezione del lettore si intreccia con la rappresentazione delle dinamiche di potere, della fragilità dell’arte, della responsabilità individuale e della pressione della collettività.

La cavallerizza, il direttore, lo spettatore, il pubblico, l’orchestra, la scala, la polvere: ogni figura e ogni elemento tecnico hanno funzione simbolica, ma insieme generano un effetto unitario che trascende la loro singolarità. La cavallerizza è il corpo esposto dell’arte, fragilissimo eppure straordinariamente potente, il direttore incarna l’autorità incompleta, lo spettatore riflette l’angoscia e l’impossibilità di agire, mentre il pubblico rappresenta la forza anonima e inarrestabile della collettività. La polvere e la musica diventano strumenti sensoriali di sospensione e coinvolgimento, mediatori tra realtà e illusione, tra percezione e partecipazione.

Questa pagina ci mostra come Kafka lavori al limite tra racconto e meditazione filosofica. L’atto estetico non è neutro: coinvolge, trasforma, interroga chi osserva. Il pianto dello spettatore in galleria sintetizza questa esperienza: gesto involontario, metafisico, simbolo della tensione tra desiderio di partecipare e incapacità di incidere sul corso degli eventi. È un gesto che rivela la condizione universale dell’essere umano, sospeso tra osservazione e azione, tra libertà e vincoli, tra consapevolezza e impotenza.

"In galleria” diventa così paradigma della condizione moderna. Ogni lettore, guardando attraverso Kafka la cavallerizza, il direttore, il pubblico e lo spettatore, percepisce la propria posizione in un sistema complesso che mescola bellezza e sofferenza, potere e impotenza, contemplazione e partecipazione. La pagina non offre soluzioni, non chiude la tensione narrativa: lascia sospeso il lettore, lo costringe a confrontarsi con la propria incapacità e con la straordinaria forza dell’esperienza estetica.

In ultima analisi, Kafka costruisce un laboratorio emotivo e intellettuale. La perfezione apparente dello spettacolo circense e la fragile perfezione della cavallerizza riflettono la precarietà della vita, l’inesorabilità del tempo, la tensione tra il desiderio di controllo e l’imprevedibilità del reale. “In galleria” non è solo un racconto: è un invito a comprendere che la bellezza e la responsabilità sono sempre intrecciate, che l’osservazione implica partecipazione, e che la nostra posizione di spettatori, pur apparendo marginale, è centrale nella comprensione del mondo.

Così, chi legge non si limita a osservare Kafka: entra con lui nella galleria, sente il fragore dell’orchestra, il peso della polvere, il battito dei salti della cavallerizza, l’ansia del direttore, la forza impersonale del pubblico, e infine scopre, con il giovane spettatore, il significato del proprio pianto. È un pianto che non ha bisogno di spiegazione, perché rivela l’essenza della condizione umana: fragile, consapevole, sospesa tra incanto e impotenza, tra possibilità e realtà.

In questo senso, “In galleria” non è mai chiuso, mai completo, mai risolto: è uno spazio di esperienza totale, un invito continuo alla riflessione, alla partecipazione emotiva e morale, e alla comprensione della bellezza come atto rischioso e irripetibile. Kafka ci ricorda che osservare è già agire, che comprendere è già partecipare, e che ogni gesto, anche quello involontario del pianto, porta con sé la misura dell’uomo di fronte al mondo.