sabato 4 ottobre 2025

Marc Chagall, testimone del suo tempo. Una retrospettiva a Ferrara



Marc Chagall: testimonianza, immaginazione e identità nel Novecento

L’opera di Marc Chagall (1887–1985) occupa un posto di singolare rilievo nel panorama artistico del XX secolo. Non soltanto per l’inconfondibilità del suo linguaggio pittorico, capace di coniugare lirismo visionario e radici popolari, ma anche per la sua capacità di attraversare, reinterpretandoli, i traumi della modernità europea. L’artista, nato nello shtetl di Vitebsk, figlio di una famiglia ebraica immersa in un contesto marginale dell’impero zarista, approda ben presto a Parigi, capitale delle avanguardie, e da lì intraprende un percorso che lo porterà a confrontarsi con le vicende più drammatiche della storia contemporanea: l’esilio, la guerra, la Shoah, l’emigrazione forzata. In ciascuna di queste fasi, la sua arte diviene strumento di testimonianza, ma non nel senso documentario: Chagall non registra ciò che accade, piuttosto ne restituisce la memoria trasfigurata, attraverso figure sospese, cromatismi assoluti, simboli che oscillano tra autobiografia e universalità.

La mostra “Chagall. Testimone del suo tempo”, ospitata presso il Palazzo dei Diamanti di Ferrara dall’11 ottobre 2025 all’8 febbraio 2026, si propone di indagare questo paradosso: come un artista apparentemente estraneo a ogni ideologia militante abbia saputo tuttavia incarnare, nella sua opera, la condizione stessa dell’uomo novecentesco, diviso tra radicamento e sradicamento, memoria e oblio, lirismo e tragedia. Promossa dalla Fondazione Ferrara Arte in collaborazione con Arthemisia e curata da Paul Schneiter e Francesca Villanti, l’esposizione si distingue non soltanto per l’ampiezza del corpus esposto – oltre duecento opere, tra dipinti, gouaches, incisioni, disegni e illustrazioni – ma per la costruzione di un percorso critico capace di restituire, attraverso nuclei tematici e cronologici, la complessità del rapporto tra Chagall e il suo tempo.


La questione del “testimone”

Il titolo stesso della mostra merita un approfondimento. Definire Chagall “testimone del suo tempo” significa assumere una prospettiva che va oltre il dato biografico. Il termine “testimone” implica un ruolo non neutrale: il testimone non è colui che osserva passivamente, ma chi, attraverso la propria voce, rende presente un’esperienza che altrimenti rischierebbe di andare perduta. In questo senso, Chagall non fu mai un cronista degli eventi – non troviamo nei suoi quadri rappresentazioni dirette di battaglie, di massacri o di scene di persecuzione – e tuttavia la sua opera non si sottrae al peso della storia. Piuttosto, ne restituisce gli effetti interiori: lo sradicamento, il dolore dell’esilio, la memoria di una comunità perseguitata, la ricerca di salvezza.

La sua testimonianza si esercita dunque in forma visionaria: egli trasforma i dati storici in immagini liriche, dove la realtà viene sublimata attraverso la forza del colore e la leggerezza della composizione. È proprio questa tensione tra trauma e immaginazione a costituire il nucleo critico della sua opera e, di conseguenza, il fulcro interpretativo della mostra ferrarese.


Lo shtetl come matrice iconica

Il percorso espositivo prende avvio dalle opere giovanili realizzate a Vitebsk, la città natale. Qui Chagall assimila le immagini della vita quotidiana dello shtetl: le case sbilenche, i violinisti erranti, i rabbini assorti, i matrimoni celebrati secondo i riti ebraici. Tali figure non sono riprodotte con intento realistico, ma rielaborate attraverso una memoria affettiva e simbolica. Esse divengono emblemi di un mondo arcaico che, pur destinato alla distruzione, sopravvive nell’immaginazione dell’artista. In questo senso, lo shtetl diventa la matrice iconica di un’identità che Chagall non abbandonerà mai, nemmeno negli anni della piena adesione alla modernità parigina.

Le radici culturali di Vitebsk, d’altra parte, offrono la chiave per comprendere la particolare forma di mitopoiesi che caratterizza tutta la sua produzione. Lungi dall’essere un semplice repertorio etnografico, lo shtetl diventa il luogo simbolico da cui emanano visioni universali: la coppia di sposi sospesi in aria, l’animale antropomorfo, il violinista solitario. Immagini che, nate dalla memoria personale, si trasformano in archetipi della condizione umana.


Parigi e le avanguardie: assimilazione e resistenza

Il trasferimento a Parigi nel 1911 segna l’ingresso di Chagall nella modernità artistica. Qui egli entra in contatto con il cubismo e con il fauvismo, ma la sua adesione è sempre parziale. Se da un lato assimila la frammentazione dello spazio e la violenza cromatica, dall’altro mantiene una distanza critica: i suoi quadri non perdono mai la dimensione narrativa, la verticalità, la tensione lirica. La modernità, per Chagall, non è un modello da imitare, ma un linguaggio da piegare a un immaginario personale.

Questa resistenza a ogni assimilazione integrale costituisce uno degli aspetti più affascinanti della sua figura. Egli si sottrae al paradigma delle avanguardie come movimento collettivo, scegliendo invece una traiettoria solitaria, dove l’ibridazione diventa strategia di libertà. Proprio in questa posizione liminale – tra adesione e scarto, tra assimilazione e rifiuto – si fonda l’originalità della sua poetica.


La Bibbia come atlante visionario

Un momento cruciale del percorso è rappresentato dalle illustrazioni bibliche commissionate da Ambroise Vollard nel 1931. Si tratta di un ciclo incisorio che occupò Chagall per decenni e che costituisce una delle più straordinarie testimonianze della sua arte. La Bibbia, per lui, non è testo storico né oggetto di erudizione filologica: è un atlante visionario, un repertorio di archetipi attraverso cui leggere il presente.

In queste incisioni, i patriarchi e i profeti non sono rappresentati con intento realistico, ma come figure universali, in grado di incarnare i drammi della modernità. Abramo che sacrifica Isacco, Mosè che riceve le tavole, Geremia che piange: tutti diventano specchi dell’esperienza contemporanea dell’esilio, della distruzione, della speranza. L’ebraismo di Chagall si fa linguaggio universale, capace di parlare a chiunque attraverso immagini che coniugano sacro e quotidiano, mito e realtà.


Guerra, esilio e memoria tragica

La Seconda guerra mondiale e l’esodo forzato negli Stati Uniti (1941–1948) rappresentano una frattura radicale nella biografia dell’artista. L’esperienza della Shoah, pur non tradotta in immagini dirette di violenza, getta un’ombra sulla sua produzione. I suoi colori si fanno più cupi, le scene nuziali si caricano di valenze salvifiche, gli sposi sospesi in aria non sono più soltanto simboli di amore, ma richiami di un’umanità che cerca rifugio.

In queste opere la favola si tramuta in elegia, e la pittura assume un valore di resistenza morale. Chagall non testimonia l’orrore con la crudezza del realismo, ma con la delicatezza della trasfigurazione: mostra non ciò che è accaduto, ma ciò che accade nella memoria e nella psiche. È in questa capacità di trasformare il trauma in immagine poetica che risiede la forza testimoniale della sua opera.


La dimensione monumentale: luce e collettività

Negli anni della maturità, Chagall amplia il proprio linguaggio alla dimensione monumentale: vetrate, mosaici, scenografie teatrali e liturgiche. Questi progetti, dai celebri cicli per l’Opéra di Parigi alle vetrate della cattedrale di Metz, rappresentano l’estensione della sua poetica individuale alla collettività. Qui la luce diventa medium artistico, il colore si traduce in esperienza corale, e il lirismo si fa linguaggio pubblico.

Il passaggio alla monumentalità non implica un abbandono della sua dimensione intima, ma piuttosto una traslazione: l’immaginario personale si innesta nell’architettura e nello spazio comunitario, generando un’arte che è al tempo stesso visione privata e spiritualità collettiva.


Le sale immersive: tra spettacolarità e critica

Elemento innovativo della mostra ferrarese sono le due sale immersive, che attraverso proiezioni a 360° e sonorizzazioni ambientali permettono al visitatore di entrare letteralmente nel mondo di Chagall. Lungi dall’essere un semplice espediente spettacolare, tali dispositivi assumono qui un valore critico: traducono in esperienza sensoriale quella sinestesia che caratterizza la sua opera, dove immagine, musica, parola e memoria si intrecciano senza soluzione di continuità.

L’uso della tecnologia non tradisce dunque la lezione dell’artista, ma ne prolunga l’effetto, offrendo al pubblico un’immersione che non sostituisce l’opera, ma ne amplifica la risonanza.


Conclusione: il testimone visionario

La mostra “Chagall. Testimone del suo tempo” restituisce dunque un artista che sfugge a ogni classificazione riduttiva: non militante, eppure intimamente legato alla storia; non cronista, ma testimone; non avanguardista, ma sempre moderno. La sua opera si colloca in quella zona liminare in cui la memoria diventa visione e la poesia diventa testimonianza.

In un presente segnato da nuove fratture identitarie e da antiche crisi riemergenti, Chagall continua a parlarci. Non attraverso la cronaca degli eventi, ma attraverso immagini che rendono visibile l’invisibile: il dolore, l’esilio, l’amore, la trascendenza. In questa trasfigurazione lirica risiede il senso profondo della sua opera, e la ragione della sua attualità.