sabato 4 ottobre 2025

prova in prosa



Non fu una pagina che mi si presentò davanti, ma un paesaggio intero: un deserto d’avorio in cui improvvise apparivano, come sorgenti oscure, macchie tremolanti, irregolari, quasi pulsanti. Non sembravano più segni d’inchiostro né errori della stampa, ma presenze, tracce lasciate da qualcosa di vivo che aveva attraversato il foglio e poi era scomparso, lasciandosi dietro soltanto il suo respiro. In quel momento mi parve di non leggere un testo, ma di assistere a un rito antico, a un sacrificio che si consumava sotto i miei occhi in forma di minuscole ferite. Ero spettatore e officiante insieme, testimone e vittima, perché quelle macchie mi parlavano in una lingua che non conoscevo, eppure capivo.

Le macchie si disponevano senza ordine, come stelle su un cielo offuscato, ma ognuna irradiava un suo dolore, una sua tenerezza. Erano minuscoli universi che, anziché esplodere, collassavano su sé stessi, concentrando in un punto oscuro tutta la memoria di una vita. Non potevo non pensarle come reliquie: ossa di santi mai esistiti, lacrime evaporate di un pianto antico. Non erano umide, no: erano pietrificate. E in quella solidità del dolore c’era qualcosa di più tremendo del pianto stesso, perché sembrava che l’anima che le aveva generate fosse rimasta imprigionata nella carta, a vibrare ancora, invisibile e disperata.

Mi accorgevo, sfiorandole, che la superficie del foglio sembrava cedere leggermente, come pelle viva sotto le dita. Non era carta, era epidermide. Non era inchiostro, era sangue rappreso. Quella metamorfosi mi spaventava e mi seduceva insieme: avrei voluto fuggire, ma rimanevo a contemplare, come davanti a un corpo amato e morente. Ogni goccia era un abisso; dentro ciascuna intuivo un occhio spalancato che mi fissava, non per chiedere aiuto, ma per ricordarmi che non c’è scampo, che ogni destino umano finisce con l’impronta di una macchia su un foglio o sulla terra.

Non erano soltanto tracce, erano traduzioni. La carne era diventata parola, il cuore inchiostro, il respiro cenere. Tutto era stato distillato e riversato lì, senza pietà. E io mi sentivo, davanti a quel sacrificio, come un sacerdote ignaro, come un lettore che si inginocchia senza saperlo. Il libro stesso – perché di un libro si trattava, sebbene non osassi più chiamarlo così – assumeva il carattere di un idolo muto, un oggetto sacro a cui rivolgersi non per trovare risposte, ma per sentire ancora il fremito dell’incomprensibile. Mi ritrovai a trattenerne il peso tra le mani con la cautela di chi regge un cuore estraneo, sapendo che potrebbe pulsare da un momento all’altro.

In quel respiro muto della pagina mi parve di scorgere il momento esatto in cui la vita e il dolore diventano una cosa sola. Ogni macchia era il fossile di una storia interrotta, il frammento di un’esistenza che, non potendo più gridare, aveva deciso di nascondersi fra le righe. Nessuno avrebbe mai ascoltato quel lamento, se non chi – come me – fosse stato pronto a lasciarsi inghiottire. Mi sentivo parte di un rito segreto: il lettore e l’autore, l’anima ferita e l’anima in ascolto, si intrecciavano come due correnti in un mare scuro. Non era più un atto di lettura, era una comunione silenziosa.

Il mio stesso corpo reagiva: un brivido lungo la schiena, un’eco nella gola, come se qualcosa dentro di me si fosse aperto e versasse lacrime che non potevo vedere. Avrei voluto che il mio pianto si mescolasse a quello, che le mie gocce cadessero sulla pagina e completassero il disegno, formando insieme un fiume scuro che trascinasse via parole, dolore e memoria. Sognavo, in quell’istante, di cancellare tutto con un bianco perfetto, un vuoto in cui il dolore finalmente potesse spegnersi, quietarsi. Ma la pagina non voleva essere purificata: voleva essere guardata, compresa, venerata.

E rimasi, allora, con il silenzio. Un silenzio che era più denso di qualsiasi parola, uno sguardo che mi osservava dalle macchie pallide come occhi stanchi che non trovano più il cielo. Capivo, in una chiarezza improvvisa e crudele, che quelle macchie non erano il segno di un altro soltanto, ma anche il mio. Tutti noi, alla fine, lasciamo soltanto impronte, residui, ombre su un foglio o su una pelle; il resto è già scomparso. Quelle macchie erano la prova del nostro destino comune: sopravvivere non come presenza, ma come ferita che nessuno può più sanare, ma che qualcuno – chissà quando – potrà ancora contemplare tremando.