lunedì 29 maggio 2023

Dialogo in Versi III


Napoleone a Cavallo

 

L’ultima opera che occorrerebbe pubblicare in vita, non postuma, dovrebbe essere esattamente già come fosse postfazione agli ultimi versi di un qualunque poetucolo. Il peggio.

 

Parrebbe, così, avere una sottile vena polemico-nostalgica, come in una serie di caustici trionfi che segnerebbero la disfatta del presente di quel tal autore.

 

Dunque, si tratterebbe di una poetica amorosa che, tenenendo ben presente lo scrivere, conterrebbe il mondo che essa stessa continuerà ad abitare. Il nulla del non dire.

 

Al contrario, l’ultima opera è quasi sempre tutta protesa verso il fulgente splendore. Come se il lettore fosse dedicatario dell’opera – e non lo è, più – in un orrorifico esplicitato fin dall’epigrafe: l’opera riverbera il legame con la malattia e la morte della scrittura e della lettura ormai prossima: si tratta di una scrittura in apnea, che segue gli spasmi e sposa l’andamento, foss’anche fintamente liturgico, per la supplica a una stoica sopravvivenza [come se il resistere fosse infrequente in chi scrive, in specie quando non letto].

 

Occorrerebbe semplificare tutto: la metrica interna al prosar poetico e, specialmente, la lingua, come anche lo schema rimico interno al testo [la frequente frequentazione di rime identiche o equivoche], in direzione di un’immediatezza comunicativa.

 

«Cuore», «vita» e «amore» sono parole-chiave al lettore che, con la loro comprensibile ma ricca eredità semantica, conducono a un messaggio privato e commosso da rivolgere ora all’amato, ora a un dio qualunque, cui si affida l’onnipotenza della guarigione.

 

Pronunciare la parola, e quindi scriverla, sarà la guarigione. Quindi, la parola ribassata, spogliata, si affiderà a un potere salvifico più forte e assoluto rispetto alle precedenti opere. Che non c’è.

 

Il ruolo dell’ultima opera dovrebbe presentarsi come attraverso analessi d’intensa autobiografia dell’io-lirico, in cui affiorano spiegazioni senza giustificarne le difesa.

 

Non mancheranno ripensamenti metapoetici, nel finale, che riconsidereranno e ridimensioneranno la propria scrittura alla luce del dramma presente: le scemenze scritte nel combattere l’infanzia sempre mai finita e l’avvertimento incostante di incolpevolezza e impurità.

 

Tutta una denuncia aperta di dolore per la mancanza d’interlocutore e una critica aperta e sincera alla società letteraria, all’abbruttimento del lettore seriale, a peso, a chilo, a “leggo dove mi costa minor fatica”, a scrittura di basso ordine, contro cui la sola speranza è giusto motivo di inesausto ringraziamento per chi ha letto. Davvero.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(14 febbraio 2016)

 

 

 

 

 

 

 

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