La città lo avvolgeva come un sudario, un corpo in decomposizione che respirava ancora, tra miasmi di pioggia stagnante e un silenzio denso come una palude. Le strade erano vene prosciugate, disseminate di detriti e ombre evanescenti; il cielo sopra di esse sembrava essersi disfatto in un grigiore senza fondo. Camminava tra vicoli che conosceva troppo bene, sentendosi parte di quel paesaggio corrotto, un fantasma che sfiorava altri fantasmi.
C’erano uomini lungo quei muri, statue animate da pulsioni sordide, facce scavate da una fame insaziabile. Erano creature senza nome, figure smarrite in cerca di un contatto che lenisse, anche solo per un istante, l’abisso che portavano dentro. Si incrociavano con lo sguardo, si studiavano, si annusavano come cani randagi prima di decidere se valesse la pena avvicinarsi.
Uno di loro gli si avvicinò, un profilo affilato che spuntava dall’ombra. “Cerchi o ti fai trovare?” chiese, con un tono che era insieme una sfida e una resa.
“Non lo so,” rispose, con un’indifferenza studiata, come a proteggersi da una domanda che graffiava troppo a fondo.
“Non lo sa mai nessuno,” replicò l’altro, accendendo una sigaretta. Il fumo che spirava dalle sue labbra sembrava aggiungersi alla foschia già densa del vicolo.
Il dialogo si spezzò lì, come una corda troppo tesa. L’altro uomo si allontanò, dissolvendosi nell’oscurità, lasciandolo con quella domanda che continuava a ronzargli in testa: Sto cercando o mi sto lasciando cercare?
Più tardi, entrò in un caffè che conosceva da tempo, un tempio decadente dove le anime perdute si rifugiavano per sfuggire al gelo esterno. Il fumo stagnava nell’aria, opprimente come un incenso blasfemo, e il tanfo di alcool impregnava ogni superficie. Era un luogo in cui il tempo si deformava, si spezzava: notte e giorno non avevano più significato.
Si sedette in un angolo, le spalle al muro, come un animale in allerta. Gli altri avventori erano uomini, ciascuno a suo modo una reliquia del desiderio. Alcuni ridevano con una gioia innaturale, sfidando l’oscurità che avevano dentro; altri parlavano sottovoce, scambiandosi parole cariche di un’intimità che sapeva di disperazione. Una coppia vicino alla porta sedeva così vicina che i loro corpi sembravano intrecciarsi in un’unica figura; non avevano bisogno di parlare: il loro silenzio era già una confessione.
Al bancone c’era un uomo distinto, che beveva solo, con l’aria di chi porta sulle spalle un peso che nessuno può vedere. Era vestito di nero, elegante, come un lutto vivente. Ogni suo movimento era misurato, come se fosse consapevole di essere osservato. L’uomo si voltò e lo guardò. Non c’era curiosità in quello sguardo, solo una quieta determinazione, come se avesse già deciso qualcosa.
“Ti va di sederti qui?” chiese con voce calma, senza traccia di esitazione.
Lui esitò un momento, poi si alzò e si avvicinò al bancone.
“Non sei di qui, vero?” disse l’uomo, studiandolo come si studia un dipinto consumato dal tempo.
“Sono ovunque e in nessun luogo.”
“Bella frase,” replicò, con un accenno di sorriso. “Ma non è una risposta.”
La notte era avanzata quando tornò nella sua stanza, quel rifugio che sembrava più una tomba che una casa. Le pareti sembravano avvicinarsi, soffocandolo, e il silenzio era un ronzio costante nelle sue orecchie, simile al lamento di un’anima che non trova pace.
Si sedette alla scrivania, il foglio bianco davanti a lui come un giudice in attesa. La penna giaceva lì, inerte, eppure pesava come un’arma. Per un attimo restò immobile, ascoltando il battito irregolare del suo cuore. Poi qualcosa si spezzò, o forse si aprì: prese la penna e iniziò a scrivere.
Le parole sgorgavano come sangue da una ferita, dense, vischiose, cariche di un’oscurità che non cercava redenzione. Scrisse della città, del suo ventre marcescente; scrisse degli uomini che la popolavano, delle loro voglie e dei loro rimpianti; scrisse di se stesso, del vuoto che lo divorava dall’interno. Ogni frase era un grido soffocato, un pezzo della sua anima strappato e gettato sulla carta.
Quando finì, era quasi l’alba. La stanza era immersa in una penombra irreale, e fuori il mondo si preparava a un nuovo giorno che sembrava uguale a tutti gli altri. Si alzò, aprì la finestra e lasciò entrare l’aria fredda del mattino. Respirò profondamente, sentendo per la prima volta una strana calma. Non era felicità, non era speranza: era solo accettazione.
L’ombra nella stanza era ancora lì, accovacciata in un angolo, ma sembrava più piccola, più debole. Lui la guardò per un lungo momento, poi spense la luce.
Quella notte, mentre il buio si ritirava lentamente sotto i colpi incerti dell’alba, sentì qualcosa cedere dentro di sé. Non un crollo, ma piuttosto uno spostamento, come se le fondamenta su cui poggiava la sua esistenza avessero smesso di opporre resistenza al peso.
Uscì di casa senza sapere dove andare, lasciandosi portare dalle strade ancora vuote, che si stiracchiavano pigre nel chiarore incerto. La città, così familiare nella sua decadenza, sembrava più docile a quell’ora, come se non avesse ancora deciso quale maschera indossare per il giorno.
Passò davanti a una vetrina polverosa, il riflesso del suo volto si scompose in mille fratture. Si fermò, osservandosi con curiosità, come se vedesse uno sconosciuto dall’altra parte del vetro. Gli occhi erano cerchiati, ma c’era qualcosa di diverso in quello sguardo: forse l’eco di una stanchezza antica, forse la rassegnazione che precede ogni rinascita.
Accanto alla vetrina c’era un muro scarabocchiato con frasi lasciate a metà, promesse anonime che nessuno si era preso la briga di completare. Una scritta attirò la sua attenzione: “Chi cerca si perde. Chi si perde, trova.”
Rise, ma senza sarcasmo. Sembrava una risposta, o forse un avvertimento. Continuò a camminare, lasciando che i passi decidessero per lui.
Alla fine si ritrovò di nuovo davanti al caffè della sera prima. Le luci all’interno erano spente, ma la porta era socchiusa, come se il luogo non dormisse mai del tutto. Esitò. Entrare significava accettare qualcosa, forse solo l’inevitabilità di ritrovarsi sempre nello stesso punto.
Spinse la porta con cautela. Dentro, l’uomo in nero era ancora lì, seduto allo stesso posto, con la stessa calma distaccata. Non sembrava sorpreso di rivederlo.
“Non hai dormito,” osservò, inclinando leggermente la testa.
“Non dormo mai davvero.”
L’uomo annuì come se avesse previsto quella risposta. Versò lentamente un liquido scuro in due bicchieri e ne spinse uno verso di lui.
“Bere all’alba è un lusso che pochi si concedono,” disse l’uomo.
“Bere all’alba è una necessità, a volte.”
Bevvero in silenzio, lasciando che il calore della bevanda attenuasse la freddezza del mattino.
“Scrivi ancora?” chiese l’uomo, dopo un lungo silenzio.
Lui annuì, fissando il fondo del bicchiere.
“E cosa scrivi?”
“Quello che vedo. Quello che sento.”
“E quello che senti… ti basta?”
Restò in silenzio. La risposta si smarrì in qualche angolo della sua mente, come un animale spaventato.
Alla fine, si alzò per andarsene.
“Tornerai,” disse l’uomo, senza alzare lo sguardo.
Lui non rispose. Uscì nel mattino ormai chiaro, con la sensazione che, in un modo o nell’altro, quella frase fosse una certezza.
Le strade si erano risvegliate lentamente, come un animale che scrolla via il sonno con movimenti pesanti. La luce del mattino non addolciva i contorni della città; anzi, sembrava accentuarne la ruvidezza, rivelando ogni crepa, ogni cicatrice sui muri.
Camminava senza una meta precisa, lasciandosi guidare dal ritmo dei suoi passi, mentre il caffè ancora caldo gli risaliva in gola con un sapore amaro che non riusciva a scrollarsi di dosso. Il pensiero dell’uomo in nero lo accompagnava, come una presenza appena fuori dal campo visivo.
Si ritrovò lungo il fiume, appoggiato alla ringhiera di ferro arrugginito che separava il marciapiede dall’acqua scura. Il riflesso del sole galleggiava sulla superficie come una promessa che non osava mantenere. A poca distanza, una figura si stagliava contro il paesaggio grigio: capelli corti, spalle strette, mani nelle tasche di un cappotto troppo leggero per la stagione.
Non sapeva perché, ma si avvicinò.
“Non dovresti stare qui,” disse, come se parlasse a se stesso.
L’altro si voltò appena, abbastanza per rivelare un sorriso sottile. Era giovane, ma con quegli occhi che avevano visto troppo in troppo poco tempo.
“E dove dovrei stare?” rispose l’altro, con un tono morbido che sembrava voler sciogliere il ghiaccio tra loro.
Non c’era una risposta pronta. Restarono entrambi in silenzio, osservando il lento fluire del fiume, che non sembrava mai realmente muoversi.
“Ti ho visto ieri sera,” disse il giovane dopo un po’. “Nel caffè.”
Lui annuì, ma non aggiunse nulla.
“Quello non è un posto per chi vuole restare a galla,” continuò l’altro, abbassando lo sguardo verso l’acqua.
“E tu? Galleggi o affondi?”
Il giovane rise, ma era una risata breve, senza allegria.
“Dipende dai giorni.”
Il vento si alzò leggero, facendo danzare i riflessi sull’acqua.
“Vuoi camminare?” chiese il giovane, allontanandosi dalla ringhiera senza aspettare una risposta.
Lui esitò solo un istante, poi lo seguì.
Camminarono fianco a fianco, senza sfiorarsi, come se una distanza invisibile si mantenesse da sola. Non parlarono molto, eppure ogni passo sembrava dire qualcosa.
Dopo un po’, il giovane si fermò davanti a una porta arrugginita, seminascosta tra due edifici decadenti. Estrasse una chiave dal cappotto e la infilò nella serratura con un gesto familiare.
“Vieni su?” chiese, come se non ci fosse nulla di strano nell’invitare uno sconosciuto.
Lui lo fissò per un attimo, cercando un segno, una traccia di secondi fini, ma trovò solo stanchezza e un desiderio troppo antico per essere malizioso.
“Sì,” rispose infine, seguendolo oltre la soglia.
L’appartamento era piccolo, ma pulito, con una finestra che dava su un cortile interno dove l’erba cresceva selvaggia. Il giovane si tolse il cappotto e lo buttò su una sedia, accendendo una sigaretta con gesti lenti.
“Posso chiederti il tuo nome?” domandò, con un’ombra di sorriso sulle labbra.
“Puoi, ma non so se te lo dirò.”
Il giovane rise di nuovo, stavolta più a lungo.
“Va bene così.”
Si sedettero vicini, il fumo che si avvolgeva intorno a loro come una seconda pelle. Nessuno dei due aveva fretta.
Il silenzio che si distese tra loro non era scomodo. Era denso, come la nebbia fuori dalla finestra, ma non pesava. Ogni tanto il giovane espirava il fumo, disegnando figure effimere che si dissolvevano nell’aria.
“Ti piace giocare a fare il misterioso?” chiese infine, inclinando la testa di lato, con quel sorriso sornione che non lo lasciava mai del tutto.
Lui scrollò le spalle, fissando il posacenere pieno a metà.
“Non è un gioco.”
“Ah, sei uno di quelli che prendono tutto sul serio.”
“Non sempre.”
Il giovane lo studiò con attenzione, come se cercasse di decifrare qualcosa nascosto sotto la superficie. Poi si alzò, attraversò la stanza e mise su un disco. La puntina graffiò appena il vinile prima che una vecchia melodia jazz riempisse la stanza, morbida e malinconica.
“Ti piace?”
“Sì,” rispose, anche se non era sicuro di star davvero ascoltando.
Il giovane si appoggiò al davanzale della finestra, fissando il cortile oltre il vetro appannato. La sigaretta si consumava lentamente tra le sue dita, lasciando una scia di cenere che lui lasciava cadere senza badarci.
“Non resti mai a lungo, vero?” chiese senza girarsi.
Lui lo guardò per un momento, cercando di capire cosa intendesse davvero.
“No.”
“Si vede.”
Non c’era né giudizio né delusione in quella frase. Solo una constatazione.
Il giovane si voltò, e per la prima volta lasciò cadere il sorriso, come se la maschera gli fosse improvvisamente troppo stretta.
“Restare è complicato. Lo capisco.”
Per un attimo, sembrarono entrambi bloccati in una pausa, sospesi tra la voglia di dire di più e la paura di rivelare troppo.
Alla fine fu lui a parlare.
“Non è complicato restare. È complicato volerne avere bisogno.”
Il giovane annuì lentamente. Poi si avvicinò, fermandosi a un passo di distanza. La luce del mattino filtrava attraverso le tende leggere, disegnando contorni sfumati sulle loro ombre.
“Tu ne hai bisogno?” chiese il giovane, con voce appena udibile.
Non ci fu risposta immediata. Lo sguardo di lui scivolò verso la finestra, come se la città potesse offrirgli una via di fuga, ma non c’era niente là fuori che non avesse già visto.
“Forse,” rispose infine, e si sorprese di quanto fosse sincero.
Il giovane sorrise di nuovo, ma stavolta era un sorriso più quieto, più reale. Si abbassò a spegnere la sigaretta, poi tornò a sedersi accanto a lui.
“Restiamo qui ancora un po’,” disse semplicemente, come se fosse la cosa più naturale del mondo.
E lui, per la prima volta da tempo, non sentì il bisogno di andarsene.
La stanza sembrava galleggiare in quel silenzio fragile, come se il tempo avesse rallentato solo per loro. Il disco continuava a girare, e la voce roca del cantante riempiva ogni angolo, coprendo i pensieri che nessuno dei due voleva mettere in parole.
Lui si lasciò andare contro lo schienale della sedia, chiudendo gli occhi per un istante. Era stanco, ma di quella stanchezza che non si dissolve con il sonno. Sentiva la presenza del giovane accanto a lui, il calore che emanava, una vicinanza sottile che non invadeva, ma che in qualche modo bastava.
“Allora,” disse il giovane, rompendo la quiete con una voce leggera, “hai intenzione di scrivere di questa mattina?”
Lui aprì gli occhi, lasciando vagare lo sguardo verso il tavolo, dove un quaderno sbrecciato faceva capolino dallo zaino che aveva poggiato in un angolo.
“Non lo so,” rispose, quasi parlando tra sé. “Scrivo quello che resta, e non so se questo resterà.”
Il giovane annuì, come se capisse perfettamente.
“Quello che resta,” ripeté, assaporando le parole. “Mi piace.”
Si alzò in piedi con la grazia di chi conosce bene il proprio corpo e attraversò di nuovo la stanza per affacciarsi alla finestra. Spostò appena le tende, lasciando entrare più luce.
“È strano,” disse, fissando il cortile. “A volte mi sembra che le mattine come questa abbiano il potere di cancellare tutto. Come se, per qualche ora, il passato si dissolvesse.”
Lui si alzò lentamente, avvicinandosi alla finestra, e per un attimo guardarono insieme fuori. Il cortile non era nulla di speciale: muri scrostati, qualche pianta cresciuta per sbaglio, una bicicletta arrugginita abbandonata in un angolo. Ma sotto quella luce tenue sembrava quasi avere un senso, come una fotografia invecchiata che acquista valore solo con il tempo.
“Il passato non si dissolve mai davvero,” disse infine, con un sorriso stanco. “Si nasconde.”
Il giovane si voltò a guardarlo.
“E tu? Cosa nascondi?”
Lui incontrò quello sguardo con una calma che non sapeva di avere.
“Più di quanto riesca a scrivere.”
Il giovane sorrise, stavolta senza ironia, e tornò a sedersi.
“Puoi restare quanto vuoi,” disse, come se lo conoscesse da una vita.
Lui annuì, sedendosi di nuovo. Non disse nulla, ma dentro di sé sapeva che, almeno per quella mattina, non aveva intenzione di andarsene.
Il caffè si raffreddava lentamente nella tazza, mentre il silenzio tra loro si riempiva di qualcosa che nessuno aveva voglia di dissipare. La finestra continuava a filtrare la luce grigia del mattino, disegnando sagome sfocate sul pavimento.
Lui si spostò sulla sedia, inclinando leggermente la testa per osservare l'altro, che fissava il fondo della tazza come se ci fosse qualcosa da leggere.
"Se ti chiedo perché sei qui, menti o dici la verità?"
Un sorriso appena accennato increspò le labbra dell’altro.
"Di solito mento. Ma oggi potrei dire la verità, se serve."
"Non serve."
Il sorriso si allargò di poco, ma non scomparve.
"Allora mento. Mi piace avere delle abitudini."
La tazza venne poggiata sul tavolo con un rumore lieve, mentre l'aria si fece più densa.
"Resti a lungo?"
"Non lo so. Di solito vado prima che diventi necessario restare."
"Questa stanza non chiede niente."
"Le stanze non chiedono mai niente. Sono quelli dentro a farlo."
Per un momento restarono fermi, entrambi con lo sguardo perso fuori dalla finestra.
La città oltre il vetro sembrava ancora assonnata, come se il giorno stentasse a prendere forma.
"Che succede se resto?" chiese lui, senza voltarsi.
L’altro lo guardò con calma, poi scrollò le spalle.
"Forse niente. Forse tutto."
Non c’era bisogno di altro.
Il caffè finì, e la stanza tornò a riempirsi di silenzio, come se il tempo si fosse messo comodo tra le pieghe dei loro respiri.
La tazza vuota rimase tra le mani di uno dei due, che la faceva ruotare piano, come se il gesto potesse tenere a bada il peso dell’aria.
"Non sembri uno che ha fretta."
Lui sollevò appena lo sguardo, lasciando la tazza sul tavolo.
"Forse no. Forse sto aspettando che qualcosa mi convinca ad alzarmi."
L’altro sorrise, ma c’era una quiete diversa nei suoi occhi ora.
"Se aspetti abbastanza, il giorno passa da solo."
"Lo fa sempre."
Si guardarono per un momento, e nel silenzio non c’era imbarazzo, solo quella strana familiarità che nasce tra sconosciuti che non sentono il bisogno di riempire i vuoti.
Lui si alzò, avvicinandosi alla finestra. Il vetro era freddo sotto la punta delle dita, e fuori la città iniziava a scivolare nella sua consueta danza di passi anonimi e rumori ovattati.
"Da qui sembra quasi bella," disse piano.
L’altro si avvicinò, restando a pochi passi di distanza.
"Solo perché non hai bisogno di guardarla troppo da vicino."
Lui annuì, le dita che disegnavano tracce invisibili sul vetro.
"Non ho mai saputo se sono io a guardare la città o se è lei che mi osserva."
"Ti piace l’idea di essere osservato?"
Lui si voltò appena, incontrando uno sguardo curioso.
"Forse. Ma solo se non capisce tutto di me."
Un piccolo sorriso increspò l'angolo delle labbra dell’altro.
"Non capisco nemmeno io, quindi direi che sei al sicuro."
Il silenzio tornò, ma questa volta sembrava più leggero.
Dopo un po’, lui tornò a sedersi, mentre l’altro si appoggiava al davanzale, come se quel posto fosse stato sempre suo.
"E se domani non fossi qui?"
Lui fissò un punto indefinito davanti a sé.
"Allora questa mattina resterà solo questo: una finestra, un caffè e un po’ di fumo che si perde."
L’altro annuì lentamente.
"Non è male."
"No," rispose lui. "Non lo è."
E per il momento, bastava così.