sabato 18 ottobre 2025

Il ritorno del Dio Fluviale: Michelangelo ritrova la sua Firenze

Benissimo. Eccolo, finalmente, il ritorno del Dio fluviale di Michelangelo Buonarroti — e scusate se è poco.
Un capolavoro che non è un capolavoro nel senso canonico del termine, ma qualcosa di infinitamente più alto: un atto di creazione pura, un lampo di divinità gettato nella materia. È tornato dove deve stare, all’Accademia delle Arti del Disegno di Firenze — non in un deposito, non in un magazzino per “beni culturali”, ma nel cuore vivo della città che l’ha generato. Perché quest’opera non è un reperto: è un respiro, un corpo, un’idea che pulsa ancora, cinque secoli dopo, come un muscolo del mondo.

E guardatelo bene, questo Dio fluviale. È un’opera di gesso, paglia, terra, acqua — una miscela primordiale. Non c’è marmo, non c’è bronzo, non c’è niente di “nobile”. Eppure è Michelangelo.
Michelangelo! L’uomo che sapeva trarre la divinità dalla pietra, qui la estrae dal fango. È come se dicesse: “Non serve il marmo, se ho il fuoco dentro.” È un urlo messo in posa, una forma che nasce nel momento stesso in cui si disfa. E questa è la sua grandezza: è l’opera che precede l’opera, il pensiero che si fa carne prima che la carne diventi idea.

Quando la fece, verso il 1525, Michelangelo stava lavorando alla Sagrestia Nuova per i Medici. Ed era nel suo periodo più tormentato, più febbrile, più divino. Il suo animo, diviso tra la devozione e la ribellione, si riflette in questa figura distesa: non un fiume qualunque, ma il corpo stesso della creazione. Guardatelo — non dorme, non riposa. È in attesa. Ha gli occhi chiusi, ma dentro c’è un universo che si muove. È la potenza che precede il gesto, l’eternità che ancora non ha deciso in che forma manifestarsi.

E sapete qual è la cosa più straordinaria? Che è incompiuto. Non rifinito, non levigato, non “presentabile”. Ma proprio per questo è un capolavoro assoluto. Michelangelo sapeva che la perfezione è noiosa. Che la verità non sta nella finitura, ma nella tensione. Il Dio fluviale è l’idea colta in flagrante. È il pensiero nudo. E nessun artista dopo di lui ha avuto il coraggio di mostrare così brutalmente il momento in cui l’invisibile diventa visibile.

Il restauro — condotto tra il 2015 e il 2017, e ora riconsacrato alla vista pubblica — è stato, per una volta, un atto di intelligenza. Non hanno “rifatto” Michelangelo, non l’hanno sterilizzato. Non l’hanno reso un gadget da museo, lucido e innocuo. No: hanno lasciato che restasse vivo. Che avesse le sue crepe, le sue ombre, la sua fragilità. Perché l’arte non si restaura, si risveglia.
E questa opera, oggi, respira di nuovo.

Camminando nella sala dell’Accademia, il visitatore lo sente. Non si guarda un oggetto, si incontra una presenza. Il corpo disteso è enorme, eppure non schiaccia. È dolente e potente insieme, come un dio che ha conosciuto la fatica del mondo. Ogni piega del gesso, ogni venatura della terra, sembra un pensiero di Michelangelo rimasto impresso nella materia. Non è un “disegno tridimensionale”, come direbbero oggi i curatori che non hanno mai toccato un blocco di pietra in vita loro. È un atto di fede nella forma.

E qui bisogna dirlo chiaramente: Michelangelo non era un artista, era un cosmo. In lui la materia non obbedisce: esplode. E nel Dio fluviale c’è tutta la sua follia divina.
Altro che “studio preparatorio”. È il bozzetto di Dio stesso.

Guardate il modo in cui il corpo giace: non è morto, non è dormiente. È in una sospensione che è quasi cosmica. Il busto si solleva appena, il volto si volta, il braccio scende pesante — ma c’è una tensione che scorre ovunque. È come se la scultura trattenesse il respiro prima del Big Bang.
Michelangelo non rappresenta: inventa la vita.

E poi, certo, la Firenze che lo accoglie oggi è un’altra. Una città che spesso dimentica di essere stata il centro del mondo. Ma nel momento in cui quest’opera torna a casa, è come se la città ritrovasse se stessa. Non la Firenze turistica, da cartolina, da spritz e apericene; ma la Firenze che ha partorito il genio, la rabbia, la grandezza. Il ritorno del Dio fluviale è un atto politico, spirituale, estetico. È un monito: ricordate chi siete stati.

Ecco, qui bisogna dirlo, con la voce ferma:
Michelangelo non aveva paura dell’incompiuto. Oggi invece si teme tutto ciò che non è finito, che non è “perfetto”. Ci spaventano le crepe, i margini, l’irregolare. Ma è lì che vive la bellezza. L’arte non è un risultato, è una tensione.
E il Dio fluviale lo dimostra: l’imperfezione è la forma più alta della verità.

Quando lo si osserva da vicino, si vedono i segni delle dita, le pressioni della mano, il disordine della creazione. È Michelangelo in presa diretta. Non un mito, non un nome sui manuali, ma un uomo in lotta con l’assoluto.
C’è il sudore, c’è la furia, c’è la poesia. E sopra tutto, c’è la grandezza di chi sa che l’arte non deve piacere: deve scuotere.

E questa è la lezione che dovremmo imparare oggi, in un mondo che ha sostituito la bellezza con il marketing.
Il Dio fluviale non ha bisogno di hashtag, non ha bisogno di storytelling. È già tutto lì: nella sua massa, nel suo respiro, nella sua umiltà titanica.
Michelangelo non chiede di essere capito: chiede di essere sentito.

E allora sì, gridiamolo pure: questa non è un’esposizione, è un evento metafisico.
Un ritorno che vale più di mille mostre contemporanee messe insieme.
Perché ogni volta che Michelangelo riappare, ci ricorda chi siamo.
E chi non lo capisce — mi dispiace — ma non ama l’arte. Ama la moda. Ama il rumore.

Il Dio fluviale, invece, tace.
Ma nel suo silenzio c’è tutta la potenza del mondo.
E noi, piccoli esseri del XXI secolo, possiamo solo restare zitti e guardare.
Perché davanti a Michelangelo, ogni parola è superflua — tranne una:
Grazie.

CASA BALLA: LA VITA COME OPERA TOTALE


1. Il ritorno di una visione

Nel quartiere Della Vittoria, dietro la facciata sobria di una palazzina borghese, si nasconde uno dei luoghi più visionari del Novecento italiano. È Casa Balla, l’abitazione-laboratorio dove Giacomo Balla trasformò la sua esistenza in una continua invenzione estetica. Dopo decenni di attesa, lo Stato italiano ne ha completato l’acquisizione, sancendo la nascita di un Museo Nazionale dedicato all’artista e al Futurismo domestico. L’operazione, del valore di 6,9 milioni di euro, comprende non solo l’immobile ma anche opere, arredi, decorazioni, documenti e diritti d’autore, restituendo alla collettività una testimonianza rara di arte totale vissuta.

La notizia è di quelle che cambiano la geografia culturale di un Paese. Casa Balla non è un semplice bene artistico: è la concretizzazione fisica di un manifesto, un luogo in cui la pittura, la vita e l’utopia coincidono. Balla aveva scritto nel 1915, insieme a Fortunato Depero, nel celebre testo Ricostruzione futurista dell’universo:

“Noi daremo scheletro e carne all’invisibile, all’impalpabile, all’imponderabile, all’impercettibile.”

In via Oslavia 39B, quel programma diventa realtà tangibile. Ogni muro, lampada e piatto da cucina è un frammento di quell’invisibile reso forma, un tassello di un universo costruito sulla vibrazione della luce e del colore.


2. La casa come opera d’arte totale

Quando Balla si trasferisce con la famiglia nel 1929, ha già attraversato la parabola più intensa del Futurismo. Dopo le compenetrazioni iridescenti, le velocità d’automobile e le forze di paesaggio, decide di portare la rivoluzione pittorica nello spazio privato. Casa Balla nasce come proiezione tridimensionale della sua mente artistica: un organismo vivo dove ogni elemento – dalle maniglie alle tende, dai mobili ai pavimenti – partecipa al ritmo dinamico dell’insieme.

Non esistono stanze neutre, ma ambienti in continua mutazione visiva. Le pareti diventano campi di luce in espansione, i corridoi si animano di geometrie pulsanti. Le tonalità variano dal rosa arancio al verde acido, fino al blu cobalto, in un equilibrio studiato per generare “gioia ottica”. L’artista annotava spesso:

“La casa è la nostra pelle. Essa deve vibrare, respirare, accendere la vita.”

L’interior design futurista, teorizzato da Balla decenni prima che il termine esistesse, prefigura il concetto di ambiente immersivo. Non si tratta di decorazione, ma di esperienza percettiva totale. Il visitatore — allora come oggi — non guarda un quadro, ma entra in esso.


3. Le figlie Luce ed Elica: continuità e custodia

A dare forma quotidiana a questo laboratorio di sogni sono le figlie Luce ed Elica, nate rispettivamente nel 1904 e nel 1914. Educate alla pittura, al ricamo, al design e alla fotografia, diventano le compagne di lavoro del padre, non semplici assistenti. È grazie a loro se l’esperimento di via Oslavia dura fino alla fine degli anni Cinquanta, e se l’intera abitazione resta intatta nei decenni successivi.

Nelle lettere di Elica, oggi conservate all’Archivio Storico del MAXXI, emerge un tono affettuoso ma anche consapevole del ruolo rivoluzionario del luogo:

“Qui dentro non c’è polvere, c’è energia. Ogni giorno inventiamo qualcosa. Mio padre dice che l’arte non deve stare nei musei, ma nei cuscini, nelle tazze, nei panni stesi.”

Per le due sorelle, Casa Balla non è solo un’eredità artistica, ma un microcosmo affettivo che unisce gesto creativo e quotidianità. Dopo la morte di Giacomo, nel 1958, si assumono la responsabilità di custodire l’abitazione come un sacrario della modernità. Nessun oggetto viene spostato, nessuna parete ridipinta. Le superfici restano così come le ha volute l’artista, permettendo oggi una ricostruzione filologica straordinaria del suo pensiero.

La loro dedizione diventa anche un atto politico. In un’Italia che negli anni Sessanta e Settanta riscopre il Futurismo con ambivalenza — tra revisioni critiche e sospetti ideologici —, Luce ed Elica resistono al tempo, garantendo che la casa resti un archivio vivente.


4. Dal mito privato alla tutela pubblica

La storia recente di Casa Balla è quella di una lunga attesa. Solo nel 2021, in occasione del centenario del Manifesto del Futurismo, l’abitazione è stata aperta al pubblico in via temporanea, grazie al progetto curato da Bartolomeo Pietromarchi per il MAXXI. Quella mostra — sostenuta dalla Fondazione Biagiotti Cigna e realizzata in collaborazione con il MiC — fu una rivelazione: le immagini di interni saturi di colore e ritmo fecero il giro del mondo, restituendo al grande pubblico la potenza visionaria di un artista spesso ridotto a figura accademica.

Il successo di quell’apertura convinse il Ministero a considerare l’acquisizione definitiva. La trattativa, avviata nel 2022, ha coinvolto la Direzione Generale Creatività Contemporanea e la Direzione Generale Archivi, con l’obiettivo di preservare non solo l’immobile, ma l’intera eredità materiale e immateriale di Balla.

Il valore complessivo dell’operazione — 6,9 milioni di euro — comprende l’acquisto dell’edificio, delle opere e degli arredi, oltre ai diritti patrimoniali e d’autore. Un intervento che riconosce, di fatto, Casa Balla come bene d’interesse nazionale e ne assicura la gestione pubblica.

Il Ministro della Cultura, nella nota ufficiale, ha definito l’acquisizione “un passo decisivo nella tutela dell’avanguardia italiana e nella restituzione di un patrimonio al servizio della ricerca e della didattica artistica”.


5. Il valore simbolico dell’acquisizione

Dal punto di vista culturale, l’operazione segna una svolta nella politica museale italiana. L’acquisizione di Casa Balla non è solo un atto di conservazione, ma un riconoscimento del valore delle case d’artista come strumenti narrativi della modernità. Fino a oggi, in Italia, solo pochi esempi erano stati valorizzati pienamente: la casa di Giorgio Morandi a Grizzana, quella di Gabriele D’Annunzio al Vittoriale, e la Casa Museo Depero a Rovereto.

Con Balla, si recupera un tassello diverso: quello di un artista che ha fatto dell’abitare un atto estetico. Il suo progetto anticipa, in modo sorprendente, la riflessione del Bauhaus sulla sintesi delle arti e la successiva concezione dell’“environment” come linguaggio artistico totale. In Casa Balla convivono pittura, design, scenografia, tessuto, mobili, luce: è un’unità dinamica che parla direttamente alle pratiche contemporanee di installazione e arte ambientale.

Come ha scritto il critico Enrico Crispolti già nel 1986, “Casa Balla è il più compiuto esempio di arte come forma di vita che il Novecento italiano abbia prodotto”. La sua acquisizione pubblica, dunque, non è solo un recupero del passato, ma una dichiarazione di intenti: riaffermare la centralità del Futurismo nella costruzione di un linguaggio estetico europeo moderno.


6. Un modello museale contemporaneo

L’apertura di Casa Balla come museo nazionale non è pensata come un semplice atto celebrativo. L’obiettivo dichiarato dal Ministero e dai curatori del progetto è costruire un modello museale sperimentale, capace di coniugare conservazione, ricerca e formazione. Il principio ispiratore è quello dell’“abitare l’opera”, un concetto che implica la restituzione dello spazio come esperienza immersiva e partecipata.

Nel programma di valorizzazione, presentato a Roma nel 2025, si legge:

“Casa Balla non sarà un luogo cristallizzato, ma un laboratorio di pensiero sul rapporto tra arte e vita quotidiana. Ogni intervento, ogni restauro, ogni attività dovrà rispondere alla logica dinamica che fu propria dell’artista.”

In questo senso, il museo si propone come una sorta di “casa viva”, aperta a progetti di ricerca interdisciplinari: dall’arte contemporanea al design, dalla pedagogia visiva alla storia dell’abitare. Le superfici originali — intatte dal 1958 — sono state sottoposte a un complesso intervento di restauro conservativo, basato sul principio della reversibilità e sull’uso di materiali compatibili con le tecniche pittoriche di Balla.

L’esperienza museale, inoltre, si avvale di strumenti tecnologici non invasivi: proiezioni di luce, realtà aumentata, audio-narrazioni tratte dalle lettere delle figlie, e ricostruzioni tridimensionali che consentono di percepire le variazioni cromatiche originarie. È una strategia curatoriale che cerca di restituire la vibrazione sensoriale dell’opera, senza tradirne la natura analogica.

Il MAXXI, partner scientifico del progetto, ha assunto la supervisione delle attività di catalogazione e ricerca, creando una banca dati integrata che raccoglie documenti, fotografie, schizzi e carteggi. Ne risulta un archivio digitale unico nel panorama museale italiano, capace di restituire la complessità della pratica artistica balliana e di favorire nuovi studi sul rapporto tra avanguardia e design.


7. Casa Balla nel contesto delle “case d’artista” europee

L’ingresso di Casa Balla nel patrimonio statale si colloca all’interno di una tendenza internazionale che, da alcuni decenni, rivaluta le case d’artista come luoghi privilegiati di conoscenza estetica. In Europa, esempi celebri come il Cabaret Voltaire a Zurigo, la Maison Dalí a Portlligat o la Villa Stuck a Monaco di Baviera hanno dimostrato che l’abitazione di un artista non è solo un documento, ma un linguaggio.

A differenza di questi casi, tuttavia, la casa di Balla si distingue per la sua organicità concettuale: non è la dimora di un artista decorata con gusto personale, ma una vera e propria opera totale costruita come ambiente immersivo. Se la Casa Depero di Rovereto rappresenta il corrispettivo trentino in chiave razionale e geometrica, Casa Balla si offre come la versione lirica e luminosa del Futurismo domestico.

È interessante notare come, a livello museologico, l’Italia arrivi oggi a riconoscere in modo sistematico questo patrimonio. Dopo la Casa Morandi e la Casa Depero, Casa Balla costituisce il terzo grande polo dedicato all’abitare come forma d’arte. Ma, a differenza dei due precedenti, essa nasce da un progetto autoriale interamente autogenerato, non da una musealizzazione postuma.

L’artista tedesco Franz von Stuck, ad esempio, progettò la propria villa in stile simbolista come espressione del suo immaginario mitologico; Klee, a Dessau, visse in una casa progettata dal Bauhaus come laboratorio di colore. Balla, invece, trasforma una casa borghese in un’architettura futurista senza architetti, ricoprendo ogni superficie con una grammatica cromatica e ritmica autonoma. È una rivoluzione silenziosa, domestica, che anticipa i concetti di site-specific e installation art di mezzo secolo.


8. La lezione di Balla oggi: luce, progetto, futuro

Nel panorama contemporaneo, Casa Balla assume un valore che va oltre la semplice memoria storica. Essa diventa un punto di riferimento teorico per il rapporto tra arte e abitare, tra estetica e funzione. L’interesse crescente di artisti e designer contemporanei per la dimensione esperienziale dello spazio trova in via Oslavia un precedente radicale.

Molti studiosi hanno osservato come la visione di Balla anticipi quella che oggi definiremmo una “ecologia estetica”: un modo di concepire l’ambiente come organismo vivente, dove ogni elemento concorre all’equilibrio del tutto. In tempi di riflessione ecocritica e sostenibile, la sua ricerca di armonia tra colore, luce e spazio assume un valore sorprendentemente attuale.

In un appunto datato 1935, l’artista scriveva:

“Bisogna inventare un’arte che respiri, che non sia oggetto ma atmosfera. L’arte non deve essere appesa, deve circolare.”

Casa Balla, oggi, offre proprio questa possibilità di “circolazione” tra arte e vita. È un ambiente in cui il pensiero futurista, depurato dalle retoriche ideologiche del primo Novecento, si manifesta nella sua essenza vitale: la ricerca del movimento, dell’energia, dell’equilibrio dinamico.

Anche dal punto di vista didattico, il nuovo museo rappresenta una piattaforma di straordinario potenziale. Le università e le accademie d’arte italiane potranno utilizzarlo come luogo di studio e sperimentazione, rendendo la casa non solo museo ma centro di formazione per la cultura visiva contemporanea.

Il direttore del MAXXI, Pietromarchi, ha dichiarato:

“Casa Balla non è solo una testimonianza del Futurismo, è un dispositivo di pensiero. Parla alla nostra epoca, a chi crede ancora che l’arte possa trasformare la vita.”


9. Conclusione: la vita come architettura di luce

L’apertura di Casa Balla come museo nazionale segna una tappa fondamentale nella ridefinizione del rapporto tra arte e istituzioni in Italia. In un momento in cui la museologia internazionale si interroga sulla funzione stessa dei musei — se debbano conservare o generare conoscenza —, questo progetto dimostra che la tutela può essere anche creazione.

L’abitazione di via Oslavia è ora un luogo dove il passato e il futuro dialogano attraverso la materia del colore. Lì, nel corridoio dai toni arancio e viola, nelle lampade geometriche, nei mobili che sembrano vibrare, si avverte la presenza di una mente che ha immaginato la modernità come gioia visiva.

In un appunto degli anni Quaranta, Balla annotava semplicemente:

“Ho fatto della mia casa un’opera d’arte perché la vita lo chiedeva.”

Oggi quella scelta privata diventa patrimonio pubblico, memoria collettiva, laboratorio per le generazioni future. Casa Balla non è solo la casa di un artista, ma la metafora concreta dell’arte come modo di vivere.

Con questa acquisizione, l’Italia non recupera soltanto un bene culturale: restituisce al Futurismo la sua dimensione più umana e sperimentale. Nel luogo dove il colore diventa pensiero e la forma si fa respiro, l’eredità di Giacomo Balla torna a risplendere come una promessa mantenuta.

Casa Balla è — e resta — il futuro che abita il presente.

Fratture del visibile. Henri Michaux e l’arte di disfare il mondo


Introduzione generale

Henri Michaux rappresenta senza dubbio una delle figure più enigmatiche, innovative e radicali del panorama culturale del Novecento europeo e mondiale. La sua opera, a cavallo tra letteratura, arte visiva, filosofia e sperimentazione psicologica, si configura come un unicum difficile da inquadrare nei tradizionali confini disciplinari. Scrittore, poeta, pittore, esploratore delle soggettività e delle percezioni, Michaux si muove in un terreno liminale dove il linguaggio si frantuma, la realtà si sfalda e la visione si fa frammento, segno, suono, immagine. La sua ricerca artistica e intellettuale si presenta come un viaggio profondo e inquieto dentro le pieghe dell’essere, dentro le discontinuità della mente e della materia, dentro le tensioni tra oppressione e liberazione che segnano la condizione umana.

Nato nel 1899 in Belgio e attivo soprattutto nella prima metà e metà del secolo scorso, Michaux incarna il ruolo dell’esploratore dell’invisibile, dell’indagatore delle zone oscure dell’esistenza. Il suo lavoro si impone per la capacità di andare oltre le forme espressive convenzionali, di rovesciare le modalità tradizionali di narrazione e rappresentazione, di costruire un linguaggio che è al contempo destrutturato e potentissimo, dove la parola si fa segno grafico, il segno diventa gesto corporeo e la scrittura si trasforma in immagine pulsante. Questa sua singolare unione tra dimensione verbale e dimensione visiva fa di Michaux un precursore delle sperimentazioni più audaci che oggi attraversano la scena artistica e letteraria, dalla poesia visiva all’arte concettuale, dalla scrittura performativa alle nuove forme di espressione digitale.

Il presente saggio nasce con l’intento di restituire una panoramica esaustiva e articolata di questo percorso complesso, mettendo in luce non solo le tappe biografiche fondamentali, ma soprattutto le chiavi interpretative che rendono l’opera di Michaux una risorsa preziosa per la riflessione contemporanea. Attraverso un’analisi che si muove tra storia letteraria, teoria dell’arte, filosofia del linguaggio e studi sulla percezione, si intende mostrare come Michaux abbia saputo trasformare la propria esperienza personale, le sue esplorazioni psichedeliche, i suoi viaggi geografici e interiori, in un processo di continua sperimentazione estetica e concettuale.

I capitoli che seguono si articolano quindi in un percorso che va dalla biografia minima ma significativa dell’autore, per poi attraversare momenti fondamentali come l’influenza destabilizzante di Lautréamont, maestro del perturbante e della rottura, che ha segnato profondamente lo stile di Michaux e il suo rapporto con la parola e l’inconscio. Si approfondiscono poi i viaggi in Asia, intesi non solo come spostamenti fisici, ma soprattutto come metafore di un viaggio dentro se stessi, dentro le zone più oscure e frammentate della mente, dove le certezze si sgretolano e si aprono nuovi orizzonti percettivi.

Un capitolo centrale è dedicato all’esperienza con la mescalina, che rappresenta per Michaux un vero e proprio specchio incrinato della coscienza, un’opportunità per osservare se stesso e il mondo da prospettive sconosciute, al di fuori delle categorie ordinarie di senso. Questa esperienza viene poi letta in relazione alle forme espressive adottate dall’autore, sia nella scrittura che nel disegno, rivelando come la sostanza psichedelica abbia agito come un catalizzatore di nuove possibilità linguistiche e visive, capaci di tradurre l’indicibile e di rendere visibili le tensioni profonde dell’animo umano.

Inoltre, si analizza la scelta di Michaux di costruire una “antilingua” e di sviluppare una filosofia che si può definire antifilosofia, basata sulla frattura e sulla discontinuità come metodo di pensiero e di espressione. Qui la parola si fa strumento non di ordine e di chiarezza, ma di disordine e di ambiguità, capace di rompere con la razionalità tradizionale e di aprire la strada a una dimensione più autentica e libera dell’esperienza.

Un’altra tappa fondamentale del saggio riguarda la dialettica tra immagine e parola, che Michaux esplora in modo straordinario, mettendo in tensione due modalità di espressione che spesso sono state considerate separate o gerarchizzate. Nei suoi disegni, nei suoi testi e nelle sue sperimentazioni visive, l’immagine e la scrittura si fondono in una “forma della visione” che è al tempo stesso oppressiva e liberatoria, segno di costrizione ma anche di slancio creativo. Questo aspetto è cruciale per comprendere la modernità di Michaux e la sua capacità di anticipare alcune delle sfide più attuali dell’arte contemporanea.

L’ultima parte del saggio si dedica a esplorare l’eredità che Michaux ha lasciato nel mondo culturale contemporaneo, un’eredità che non si esaurisce nella sua produzione diretta, ma che si riflette in molteplici campi: dalla poesia sperimentale alla filosofia poststrutturalista, dall’arte visiva contemporanea alla riflessione interdisciplinare tra scienze cognitive, studi culturali e pratiche artistiche innovative. La figura di Michaux emerge così come un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia interrogare i confini del linguaggio, della percezione e della soggettività, e per chiunque sia disposto a mettersi in gioco in un processo di esplorazione e trasformazione.

In un mondo segnato da complessità crescente, crisi di identità e mutamenti radicali, l’opera di Michaux si presenta come un invito potente a riconoscere la frammentazione non come limite, ma come opportunità di liberazione e rinnovamento. Ci insegna che la rottura e la discontinuità non sono solo segni di disordine, ma anche fonti di nuova vitalità e di creatività. In questo senso, la sua esperienza artistica e intellettuale rimane di straordinaria attualità e rappresenta una risorsa preziosa per affrontare le sfide estetiche, culturali e filosofiche del nostro tempo.

Attraverso le pagine che seguono, il lettore sarà guidato in un viaggio affascinante e complesso, alla scoperta di un autore che ha saputo inventare nuove forme di linguaggio e di immagine, aprendo finestre su dimensioni dell’esistenza spesso trascurate o negate. Un viaggio che è al tempo stesso un’esplorazione del sé e del mondo, un invito a guardare oltre le apparenze e a interrogare le profondità dell’esperienza umana con coraggio e curiosità.


Capitolo 1. La dissonanza come metodo

Henri Michaux è uno di quegli autori che sembrano eludere ogni tentativo di classificazione, come una figura sfuggente immersa in un gesto perpetuo di dis-identificazione. Non surrealista, benché frequentato dai surrealisti; non beat, pur avendo anticipato le esplorazioni psichedeliche di Ginsberg e Leary; non espressionista, sebbene la sua arte grafica ne evochi gli spasmi; non simbolista, anche se i suoi versi sembrano scavati in una lingua interiore; non strutturalista, sebbene in ogni suo scritto sia presente una lucidità da etologo del pensiero. Michaux è, per paradosso, una figura che non vuole essere nulla. E in questa sua volontà di sparizione, di distacco, risiede l’enorme forza dirompente del suo lavoro.

La sua intera opera – poetica, narrativa, visuale – si presenta come un laboratorio di stati alterati, un atlante del disorientamento. Ma la particolarità sta nel fatto che egli si serve della dissonanza non per alimentare il caos, ma per osservarlo. A differenza di altri autori attratti dalla droga come strumento di liberazione dell’inconscio, Michaux affronta la mescalina come un entomologo che osserva una forma di vita aliena. Il suo è uno sguardo gelido, controllato, chirurgico.

Questo saggio intende restituire tutta la complessità di questa posizione – radicale e solitaria – che ha portato Michaux a esplorare, più di ogni altro, i confini del linguaggio, del segno e della coscienza, anticipando visioni e tecniche che solo decenni dopo troveranno eco nel pensiero contemporaneo.

Nel corso dei tredici capitoli, affronteremo non solo la relazione tra parola e visione, tra scrittura e stati modificati di coscienza, ma anche le molteplici strategie di resistenza simbolica, etica ed esistenziale messe in atto da Michaux per preservare la propria singolarità. Saranno messe a confronto le sue opere più significative, lette in parallelo ai contesti storici, scientifici e artistici che le attraversano. La psiconautica di Michaux non è evasione, ma tensione critica. È un attraversamento dell’ignoto senza mai dimenticare chi lo attraversa.

Se per molti autori la visionarietà è un fine, per Michaux è un mezzo. Non cerca una verità allucinatoria: cerca le condizioni stesse dell’allucinazione. E lo fa con uno stile in cui l’ironia si alterna all’abisso, il calcolo alla vertigine, la scrittura al silenzio.



Capitolo 2 – Henri Michaux: biografia minima, movimenti massimi

Henri Michaux nasce a Namur, in Belgio, il 24 maggio 1899, in una famiglia borghese francofona: ambiente rispettabile, ben ordinato, segnato dalla disciplina cattolica e da una visione tradizionale della cultura. È il figlio che si vorrebbe devoto, brillante e destinato a una professione liberale: medico, magistrato, sacerdote. E invece fin da giovanissimo, Michaux mostra una tensione opposta: non voler essere qualcosa, non voler diventare nulla di definito. La sua biografia si configura così fin da subito come un’esitazione, una resistenza. L’educazione gesuitica che riceve negli anni della formazione non fa che affinare una tensione già presente: il rigore sì, ma anche la clandestinità del pensiero.

Negli anni della prima giovinezza tenta invano di iscriversi a medicina. L’abbandono precoce degli studi universitari, che lo porta a scegliere un impiego da marinaio sulla nave Persepolis, è un gesto simbolico di rifiuto. Non un gesto eroico, ma piuttosto una fuga necessaria, un allontanamento dal noto. È nel movimento che Michaux comincia a riconoscersi: movimento fisico, geografico, ma anche mentale. Dalla Francia al Sud America, dall’Asia al Nordafrica, il suo viaggio assume i tratti di un apprendistato antropologico rovesciato: non cerca di comprendere l’Altro, ma di mettere in crisi se stesso. I suoi taccuini di viaggio sono resoconti straniati, spesso sarcastici, in cui l’io è il primo bersaglio.

Il 1922 è l’anno cruciale in cui legge I Canti di Maldoror di Lautréamont. Questo testo opera su di lui un vero trauma. L’io che legge non ne esce rafforzato, ma disturbato. È la scoperta di un linguaggio che non consola, ma lacera. Lautréamont diventa il segnale di una vocazione diversa: la scrittura non come comunicazione, ma come disarticolazione. A partire da quel momento, Michaux scriverà per destabilizzare. La sua lingua si fa tagliente, a tratti illeggibile, piena di interruzioni, spasmi, spigoli. Pubblica Cas de folie circulaire, Les rêves et la jambe, Qui je fus: opere giovanili già cariche di quell'insofferenza al significato, quell’impazienza verso la forma che caratterizzeranno tutta la sua produzione.

Nel 1928 si trasferisce a Parigi, ma non per diventare un letterato in senso tradizionale. Frequenta, sì, i surrealisti – Éluard, Artaud, Gide – ma ne resta sempre ai margini. È interessato alla loro energia, non alla loro ideologia. Si tiene lontano dalle parole d’ordine, dai manifesti, dalle rivendicazioni. Se il surrealismo cercava il meraviglioso, Michaux cercava lo spaesante. Se i surrealisti esploravano l’inconscio per liberare l’immaginazione, Michaux voleva attraversarlo per dissolvere l’identità. Il suo non essere parte di è in realtà un essere oltre.

Viaggia ossessivamente. Ogni viaggio è un campo di prova per la dissoluzione dell’io. In Ecuador, in India, in Cina, l’Altro non è una figura esotica, ma un’eco deformata del proprio smarrimento. Pubblica Un barbare en Asie (1933), Voyage en Grande Garabagne (1936), Plume (1938), testi che mischiano narrazione, aforisma, paradosso, disegno. C’è sempre un’ironia crudele, un umorismo che decostruisce ogni impalcatura logica. In Plume, il protagonista è una sorta di marionetta, una figura di disfacimento che attraversa il mondo senza comprenderlo, incapace di adattarsi. In Barbare en Asie, invece, l’autore riflette sulla propria inadeguatezza, ridicolizza i tentativi di comprensione etnologica, destruttura ogni tentazione di superiorità occidentale.

Nel 1948, un evento tragico irrompe nella sua vita: la moglie Marie-Louise muore in un incendio. La frattura è definitiva. Michaux si rifugia nel silenzio, nella solitudine. Comincia a disegnare ossessivamente. La pittura – fino ad allora vissuta come estensione della scrittura – diventa un linguaggio autonomo. Inizia a produrre segni, grafie, astrazioni che sembrano traduzioni visive di uno stato mentale in preda alla dissoluzione. I suoi disegni non rappresentano: restituiscono tensioni, contrazioni, onde emotive. Ogni tratto è un sintomo. Ogni linea è un sismografo del dolore.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, Michaux inizia i suoi esperimenti con le droghe psichedeliche, ma lo fa in modo radicalmente diverso da chiunque altro. Non si lascia andare. Non partecipa. Osserva. Assume mescalina sotto controllo medico, annota ogni effetto, trasforma le allucinazioni in linguaggio e le visioni in segni. Pubblica Misérable miracle (1956), L’infini turbulent (1957), Les grandes épreuves de l’esprit (1966): testi vertiginosi, che mescolano disegno e prosa poetica, sintassi liquefatta e schemi riflessivi. Sono veri e propri trattati di fenomenologia dell’alterazione. In essi, il soggetto è ridotto a uno stato di fluttuazione, ma mai completamente perso. C’è sempre, in fondo, una coscienza che registra.

Michaux rifiuta premi, interviste, riconoscimenti. Quando nel 1972 riceve il Grand Prix National des Lettres, rifiuta con eleganza e distacco. È fedele a un’etica dell’invisibilità, che lo ha accompagnato per tutta la vita. Non cerca l’aura, ma il margine. Non desidera essere riconosciuto, ma riconoscere – ciò che si cela, ciò che sfugge, ciò che vibra oltre la soglia del dicibile. Scrive e disegna fino alla fine, in una casa parigina immersa nel silenzio. Muore il 19 ottobre 1984, senza mai essersi lasciato ridurre a un ruolo.

Henri Michaux è stato un autore in costante movimento: non tanto nel senso biografico (che pure conta), quanto nel senso psichico, simbolico, ontologico. La sua esistenza è stata un processo di sottrazione, un esperimento condotto per decenni su se stesso. La sua biografia – scarna, volutamente depotenziata – è lo specchio di un’opera che ha cercato di cancellare l’autore per far emergere l’impersonale, l’oscuro, il molteplice. In un’epoca che chiedeva identità forti, Michaux ha risposto con il disfacimento. In un’epoca che celebrava la parola, ha portato il silenzio come controcanto.

Più che un autore, Michaux è stato un vettore. Un attraversamento. Un vuoto attivo. Un movimento massimo, appunto, in una biografia minima.



Capitolo 3 – L’incontro con il perturbante: Lautréamont e la genesi di uno stile

Nella traiettoria di ogni autore radicale c’è spesso un punto di frattura, un evento epifanico che produce uno spostamento irreversibile del pensiero e del linguaggio. Per Henri Michaux, tale evento è la lettura de I Canti di Maldoror di Lautréamont, avvenuta intorno al 1922. Ma non si tratta di un semplice incontro letterario, bensì di uno choc estetico, esistenziale e nervoso che mette in moto un’intera poetica: il perturbante come fondamento, la dissonanza come metodo. A partire da quella lettura, Michaux non sarà più uno scrittore tra gli altri, ma un cartografo dell’instabilità, un costruttore di labirinti.

Il libro di Lautréamont, scritto sotto lo pseudonimo del misterioso Comte, e pubblicato nel 1869, è una colata lavica di immagini ossessive, sarcasmi cosmici, paradossi linguistici e metamorfosi mostruose. L’opera fu riscoperta dai surrealisti negli anni Venti, ma il suo impatto su Michaux non ha nulla di ideologico. Dove i surrealisti vi leggono un inno all’inconscio liberato, Michaux ne coglie l’anatomia mentale: lo stile chirurgico, l’intelligenza perversa, la capacità di evocare l’Altro senza identificarsi in esso. Michaux non vuole imitare Lautréamont: lo assume come principio generativo di una visione del linguaggio come allucinazione ordinata, come isteria messa in riga.

Più che un maestro, Lautréamont diventa per Michaux un agente infettivo. È colui che mostra che si può scrivere in stato di febbre e tuttavia mantenere una lucidità feroce. Che si può evocare la vertigine senza perdercisi dentro. In Maldoror, Michaux trova ciò che stava segretamente cercando: una lingua che non costruisce senso, ma lo disgrega, lo sabota dall’interno. Una lingua che non consola, ma disturba. Che non accompagna, ma disorienta.

Ma il vero insegnamento non è solo stilistico. Lautréamont gli insegna a desidentificarsi. Il soggetto, nei Canti, è un organismo proteiforme, attraversato da istinti, visioni, pulsioni contraddittorie. Maldoror non è un personaggio, ma un sintomo. E Michaux ne ricava una lezione fondamentale: la soggettività non è un dato, ma una tensione. Da qui nasce il bisogno di frantumare l’io anche nella propria scrittura. Non autobiografia, ma auto-spoliazione. Non confessione, ma restituzione di uno stato liminare.

Questo approccio prende forma nei suoi primi libri, a cominciare da Qui je fus (1927), che si presenta come un’autopsia dell’identità: “Ero uno, poi due, poi cento... e non ero nessuno”. L’identità viene trattata come un oggetto da manipolare, da destrutturare. Il pronome personale diventa una trappola: Michaux lo assume solo per sabotarlo. Come Lautréamont, anche lui si serve della prima persona come di una maschera instabile. E come Lautréamont, anche lui non cerca adesione, ma distanza nel delirio.

C’è una tensione metodica nella follia di entrambi: l’estasi è sottomessa a un’impalcatura retorica che ne garantisce il controllo. Questo equilibrio tra esplosione e forma sarà uno dei tratti più profondi dello stile di Michaux. La frase deve tremare, ma non crollare. Il testo deve evocare lo squilibrio, ma mai perdere la geometria. È da qui che nasce il suo tono inconfondibile: non lirico, non narrativo, ma parossisticamente analitico. Michaux è un poeta che scrive come un neurologo sotto acido. Lautréamont gli insegna che la furia può essere organizzata. Che il caos può avere un suo rigore.

A ciò si aggiunge la lezione dell’immagine: l’analogia mostruosa, la metamorfosi continua, la contaminazione semantica. Nei Canti di Maldoror, ogni sostantivo si decompone in animali, strumenti, organi, entità senza nome. Questa zoologia mutante diventa, per Michaux, un arsenale di figure. Non tanto da replicare, quanto da riattivare nel proprio spazio psichico. Anche nei suoi testi più visionari, la trasformazione è centrale: esseri che si allungano, corpi che si piegano, volti che si moltiplicano. Ogni immagine è instabile. Ogni metafora è una minaccia.

Ed è qui che si innesta la futura vocazione grafica. Se Lautréamont deforma il linguaggio fino a renderlo grido, Michaux comincerà a disegnare gridi muti: linee che sono spasmi, segni che sono onde di perturbazione. Il segno prende il posto della frase quando la frase non può più reggere il carico. Lautréamont ha fatto della parola un organismo pulsante. Michaux farà del disegno una scrittura nervosa, una stenografia dell’abisso.

Il loro rapporto, dunque, non è quello tra maestro e allievo, ma tra detonatore e esploso. Lautréamont accade dentro Michaux. Lo infetta. Lo frammenta. Lo obbliga a rispondere. E Michaux risponde costruendo un’opera che si regge proprio su questa tensione: scrivere per distruggere la scrittura, vedere per oltrepassare la visione, essere per svanire nell’atto stesso dell’essere.

Il perturbante di Lautréamont diventa, per Michaux, una forma di igiene spirituale: tenere a distanza il già detto, il già noto, il già vissuto. Ma è anche una pedagogia dello scarto: Michaux apprende come si resta ai margini, come si dissimula l’enfasi, come si contraddice l’enunciazione. Il suo stile sarà, da allora, una lingua obliqua, di rigetto e risonanza, una continua variazione sulla soglia dell’indicibile.

Così, l’incontro con Lautréamont non genera un’identificazione, bensì una metodologia. E se Michaux non diventa mai davvero “surrealista”, “simbolista” o “psichedelico” in senso pieno, è anche perché ha trovato in Maldoror non una famiglia, ma una faglia. Un luogo dove l’identità si spezza, il linguaggio si contorce, il pensiero si avvita. E da quella ferita, Michaux non vorrà più guarire.


Capitolo 4 – Viaggiare per fratturarsi: dall’Asia all’inconscio

Per Henri Michaux, il viaggio non è mai mera curiosità geografica, né una ricerca di evasione. Non è il luogo della contemplazione, ma dell’urto. Michaux non parte per arrivare, parte per disgregarsi. Il viaggio è un dispositivo di alterazione del sé, un’esercitazione psicofisica sul margine. Muoversi nel mondo significa provocare fratture nella percezione, lacerazioni nell’io, sfaldamenti del linguaggio. Lontano da casa, lontano da sé: è questa la sua equazione di fondo.

Fin dai primi viaggi, Michaux mostra una radicale diffidenza verso la “narrativa del mondo”. Le mappe, i resoconti, le cronache, tutto ciò che tenta di restituire un ordine al molteplice viene sabotato. L’ordine è illusione, e l’esperienza autentica è sempre nella scossa, nell’asimmetria. I suoi testi di viaggio – Ecuador (1929), Un barbare en Asie (1933), Ailleurs (1948) – non sono mai reportage. Sono vere e proprie interferenze psichiche. Raccolgono incidenti percettivi, vertigini cognitive, deformazioni ottiche. Il paesaggio non è descritto: è sentito come corpo ostile, come lingua che si rifiuta di essere tradotta.

Il viaggio diventa così una modalità estrema del pensiero: pensare è viaggiare senza approdo. Ogni cultura incontrata, ogni popolo, ogni abitudine, è un punto di attrito, un’occasione per verificare la precarietà della coscienza. L’incontro con l’Asia è esemplare: non è affascinato dalla sapienza orientale, non la idealizza. Anzi, ne esaspera la distanza. In Un barbare en Asie, l’Asia è un magma di gesti incomprensibili, protocolli rigidi, silenzi troppo lunghi. Michaux vi si aggira come una creatura fuori posto. Il titolo stesso è autoironico, programmatico: il barbaro è lui. Non cerca la sintonia, ma il corto circuito.

Ogni oggetto diventa uno specchio deformante. La lingua cinese non è affascinante: è aliena. L’alimentazione giapponese non è raffinata: è minacciosa. I corpi si muovono in un tempo rallentato, le architetture sembrano visioni. La realtà è sempre sul punto di smottare. La scrittura cerca di seguirne il ritmo, adattandosi a uno stato percettivo instabile. Così nasce lo stile nervoso, spezzato, ellittico di Michaux. I periodi si accorciano, si frantumano. La punteggiatura non ordina più: balbetta. Ogni frase è un tremore. Viaggiare significa quindi diventare una frase tremante, un pronome disarticolato.

Ma questa poetica della frattura non è fine a se stessa. Serve a smascherare la retorica dell’identità. Per Michaux, l’io non è una struttura, ma una zona di interferenze. Nei suoi diari di viaggio non c’è mai traccia di nostalgia, di rimpianto, di radici. Al contrario: si viaggia per perdere sé stessi, per sottrarsi alle narrazioni stabili, per mettere in crisi ogni attribuzione. Anche l’“Occidente” come categoria viene destrutturato. Michaux non oppone Oriente e Occidente, ma gioca con la loro inconciliabilità. Non si pone al di sopra delle culture, ma dentro la loro incomparabilità.

In questo contesto, Ecuador è un libro cruciale. Più che un diario, è una serie di fratture. Il paesaggio sudamericano non viene romanticizzato: è ostile, eccessivo, privo di armonia. Le città sono descrizioni afasiche, i volti sono entità disordinate, la foresta è una massa che fagocita il pensiero. Il viaggio è percepito come una “malattia dell’orientamento”. Ci si perde, ma senza desiderio di ritrovarsi. Il testo si trasforma in un corpo infettato: ogni parola è una cellula disturbata, ogni immagine un sintomo. Il lettore è costretto a subire il disorientamento dell’autore.

Ma è a partire da questi esperimenti che Michaux comincia a percepire la continuità tra viaggio e inconscio. L’altrove geografico si trasforma progressivamente in altrove mentale. L’Asia, con i suoi gesti ritualizzati, la sua lentezza, le sue architetture simboliche, diventa una figura dell’inconscio: un luogo dove il tempo si deforma, dove il significato non è mai stabile, dove ogni percezione è attraversata dal dubbio. L’inconscio non è più un abisso freudiano da esplorare: è uno spazio visitabile, un paesaggio da percorrere, da cartografare attraverso la scrittura.

E qui entra in gioco un nuovo passaggio. Michaux comincia a percepire che lo spostamento fisico non basta più. Il corpo ha bisogno di altri strumenti per continuare il proprio smottamento. Nasce così la tentazione della sostanza: la droga come viaggio interno, come rovesciamento dell’esperienza. Ma la logica resta la stessa: anche sotto mescalina, Michaux non cerca visioni, ma disfuzioni del controllo. La continuità è evidente: la scrittura del viaggio e la scrittura sotto droga hanno lo stesso ritmo sincopato, la stessa impazienza, la stessa impossibilità di descrivere senza deformare.

In entrambi i casi, il soggetto si disintegra. Ma non si perde. Michaux mantiene sempre un punto di osservazione, una fredda coscienza che annota. Nei viaggi, come nelle droghe, egli è un testimone dentro la turbolenza. Questo tratto lo distingue da ogni altra figura del suo tempo. Dove altri si abbandonano al flusso, lui lo analizza. Dove altri cercano l’ebbrezza, lui cerca la descrizione dell’ebbrezza. È questa precisione che lo rende unico. Viaggia per fratturarsi, ma tiene nota della frattura. E questa nota – spezzata, nervosa, spasmodica – è ciò che chiamiamo la sua scrittura.

A ogni viaggio corrisponde quindi un’esperienza di de-subiettivazione. Il soggetto non si dissolve, ma si disloca. E il lettore viene trascinato con lui, in questo teatro delle percezioni precarie, in questa geografia del disagio. Il mondo non è mai presentato come totalità, ma come frammento in crisi. Non c’è paesaggio: ci sono scosse di realtà. Non c’è cronologia: ci sono punti di rottura.

In definitiva, l’opera di Michaux ci insegna che si può viaggiare non per vedere, ma per disvedere. Non per conoscere, ma per decostruire la conoscenza. Non per incontrare l’altro, ma per smarrire se stessi. L’Asia, l’America Latina, l’Africa del Nord: tutte tappe di un unico itinerario interiore, un pellegrinaggio nella dissoluzione del sé. E ogni testo che ne nasce è la traccia fragile di un corpo in stato di smottamento.



Capitolo 5 – La mescalina come specchio incrinato

Il corpo, la mente, il linguaggio: tre territori che Henri Michaux decide di attraversare non con l’intenzione di conquistarli, ma di metterli in crisi. Dopo aver sperimentato la frattura attraverso lo spostamento geografico – i viaggi in Asia, in Sud America, tra le culture dell’alterità – Michaux sente che occorre spingersi oltre. Non basta cambiare scenario: bisogna corrodere la percezione stessa. È in questo momento, nei primi anni Cinquanta, che l’autore inizia le sue sperimentazioni con la mescalina, una sostanza psicotropa capace di provocare allucinazioni visive e acustiche, stati di iperattività sensoriale, alterazioni del tempo e dello spazio, ma soprattutto lo sgretolamento della coscienza ordinaria.

A differenza della maggior parte degli intellettuali e artisti del Novecento che si sono accostati a sostanze simili, Michaux rifiuta ogni romanticismo dell’esperienza allucinogena. Nulla nella sua scrittura, né nella sua iconografia, lascia pensare a una fuga nella beatitudine lisergica, né a un’estetica del sublime visionario. Il suo approccio è radicalmente analitico, spesso clinico, sempre asciutto. La mescalina viene assunta come strumento di interrogazione dell’io, come occasione per osservare lo smantellamento della macchina percettiva, come esperimento di “scienza interiore” in senso nietzschiano. Lo scrittore si pone non come profeta dell’inconscio, ma come cronista del proprio scompenso.

Il primo frutto di queste esperienze è il libro Miserabile miracolo, pubblicato nel 1956. Già il titolo contiene l’intera ambivalenza dell’opera: da una parte la percezione dell’evento eccezionale, anzi “miracoloso”, capace di spalancare zone normalmente precluse alla coscienza vigile; dall’altra il sentimento della rovina, del danno irreparabile, dell’umiliazione cognitiva. Il miracolo non è salvifico, è miserabile. Non produce saggezza, ma detriti. Non rende liberi, ma ipervulnerabili. Michaux annota con minuzia estrema le sue reazioni: lo sguardo che si scompone in onde, le immagini che si sovrappongono fino alla nausea, la memoria che implode, il tempo che si arresta, raddoppia, si torce.

La scrittura si adegua. Ogni pagina è una stenografia dello squilibrio. La lingua diventa una serie di scariche elettriche, di guizzi, di grafemi ripetuti, interrotti, dilatati. Il tono è talvolta ironico, talvolta disperato, sempre alieno. Si ha l’impressione che a scrivere non sia più una persona, ma un impulso nervoso che cerca una sintassi. L’effetto è quello di un continuo “zoom mentale” su un pensiero che non si lascia mai afferrare del tutto. La frase rincorre sé stessa, la punteggiatura non ordina più ma frammenta. Non c’è retorica, non c’è ornamento: solo il tremore della percezione messo in pagina.

Questa forma di scrittura viene ripresa e variata nei libri successivi: L’infinito tumulto (1957) e Conoscenze attraverso i brividi (1961). Tutti questi testi possono essere letti come un unico grande taccuino delle turbolenze. Non c’è un prima e un dopo: c’è l’istante multiplo dell’alterazione. La struttura è franta, non c’è alcun ordine progressivo. L’opera è composta da lampi, da ripetizioni parossistiche, da micro-visioni che si sgonfiano, da intuizioni che si smentiscono nell’attimo stesso in cui vengono formulate. È l’esercizio di una scrittura sismica, fondata sul principio della perturbazione e dell’instabilità.

In parallelo alla scrittura, Michaux sviluppa una produzione grafica straordinaria, che si intensifica proprio durante e dopo le esperienze con la mescalina. I suoi disegni non sono illustrativi né decorativi: sono tracciati del delirio, mappe di una coscienza in collisione. Linee spezzate, scarabocchi ossessivi, ripetizioni maniacali, ondate di segni che sembrano provenire da un alfabeto sconosciuto. È la mente che, non riuscendo più a ordinare il mondo, lo rifà da capo con il gesto. Eppure anche qui Michaux non abdica mai alla vigilanza. Il gesto è disturbato ma non cieco, il segno è caotico ma sorvegliato. L’opera d’arte, anche nell’abisso, resta una forma costruita.

A livello teorico, ciò che Michaux mette in questione è l’idea stessa di soggetto. Sotto mescalina, l’io si frantuma, si moltiplica, si osserva da fuori. Le emozioni diventano oggetti fluttuanti, le idee si comportano come insetti che si accavallano e scompaiono. C’è una “desoggettivazione” costante, un effetto-larva che interessa sia la coscienza che il corpo. Il soggetto, lungi dal rivelarsi nella sua verità profonda, si mostra come una superficie attraversata da flussi impazziti. Non c’è alcuna “identità” che emerga: solo fenomeni transitori, picchi, accelerazioni, bui. È l’anti-cartesianesimo assoluto: non penso, dunque non sono.

Michaux sa bene che questo stato è pericoloso. E non esita a dichiararlo. In più punti scrive della paura, del rischio, dell’irreversibilità. Alcuni effetti perdurano per giorni, talvolta settimane. I disegni invadono la mente anche a sostanza esaurita. Le immagini mentali, una volta sbloccate, continuano a ripresentarsi come traumi minori. E tuttavia, Michaux insiste. Perché solo passando per il guasto si può avvicinare qualcosa di simile a una verità. Non una verità ontologica, ma una verità percettiva: quella che mostra il linguaggio mentre si rompe, la memoria mentre si dissolve, il corpo mentre si guarda da fuori.

La mescalina, dunque, non è uno strumento di evasione, ma un corpo ottico che deforma l’accesso al mondo. È come un diaframma impazzito: lascia passare tutto, troppo, e proprio per questo costringe a un nuovo linguaggio. Quello che Michaux cerca di scrivere non è l’esperienza in sé, ma l’effetto collaterale del vedere troppo. Una visione che non si può reggere, ma che va nominata. O, almeno, scritta nella sua impossibilità.

In questo senso, il “miracolo” è veramente miserabile: ti mostra ciò che non puoi sostenere. Ti apre a una conoscenza che non si può possedere. Ti porta all’illimitato, ma senza strumenti. E allora, la scrittura si fa gesto ripetitivo, sismografo, contorsione. Il testo si spezza, si inceppa, si riprende. E il lettore, di fronte a queste pagine, non legge: subisce, attraversa, incespica. Esattamente come Michaux davanti alle sue visioni.

Così, nei suoi testi più spinti, la mescalina diventa un prisma per leggere il mondo, ma anche un avvertimento. Sotto l’alterazione percettiva si annida sempre il rischio del collasso. Ma è in quel rischio che si genera il più alto atto poetico: scrivere ciò che sfugge, vedere ciò che deforma, toccare ciò che si dissolve. È questa la sfida estrema che Michaux raccoglie: una poesia che non redime, ma esaurisce. Che non interpreta, ma si lascia attraversare.



Capitolo 6 – Antilingua, antifilosofia: il pensiero per fratture

Henri Michaux si muove in una zona di frontiera linguistica e filosofica dove il linguaggio non è più uno strumento innocuo o neutro, ma una forza instabile, capace di produrre rotture e smottamenti nella coscienza. La sua scrittura si configura come un incessante lavoro di decostruzione e disgregazione delle strutture linguistiche convenzionali, un procedimento che potremmo definire come la produzione di un’“antilingua”. Sebbene il termine stesso sia stato coniato in seguito da altri teorici, esso calza perfettamente con la pratica di Michaux, il quale abbandona la lingua come sistema di comunicazione codificato per trasformarla in un luogo di scissione e dissociazione. Nella sua opera, le parole perdono la loro solidità semantica e diventano segni mobili, suoni frantumati, frammenti grafici, manifestazioni di una lingua che si nega o si ritrae.

Questa destrutturazione linguistica è coerente con una profonda sfiducia nella filosofia tradizionale. Michaux non è interessato a costruire sistemi di pensiero, né a coltivare un logos che ordini e chiarifichi il reale. Al contrario, la sua “antifilosofia” si oppone a ogni tentativo di totalizzazione, a ogni sistema chiuso e rigido che pretende di fornire risposte univoche. Michaux si situa piuttosto sul versante della frattura: il suo pensiero è un pensiero per differenze, per scarti, per crepe, che moltiplica ambivalenze e tensioni anziché risolverle. Il suo modo di pensare il mondo, e la propria esperienza, si fonda sul paradosso e sull’incongruenza, sul dissenso interno e sull’ambiguità.

Nel suo testo si moltiplicano i dispositivi stilistici che rendono visibile questa logica della rottura. La frase è spesso spezzata, scissa da cesure improvvise e da interruzioni che impediscono la lettura lineare. La punteggiatura, invece di organizzare e ordinare il discorso, diventa un elemento di disgregazione, creando pause irregolari, sovrapposizioni e ripetizioni ossessive. Le parole sembrano oscillare tra senso e nonsenso, tra significato e rumore, dando vita a una sorta di musica dissonante che accompagna il disfacimento della coscienza e del linguaggio.

È significativo che questa poetica della frattura si intrecci con le sue esperienze di alterazione percettiva e mentale, legate ai viaggi e alle sperimentazioni con la mescalina. Lo stile non è mai solo estetico o retorico: è una diretta trasposizione della dinamica di una percezione alterata, della dissoluzione dei confini tra il reale e l’immaginario, tra la coscienza e l’incoscienza. Scrivere, per Michaux, diventa un esercizio di riproduzione della frattura, un modo per rendere tangibile il movimento del pensiero e della percezione che si spezza e si ricompone in modo disarmonico.

Questa scrittura “per fratture” si traduce spesso in una forma di prosa aforistica o frammentaria, dove il discorso si sviluppa non in una narrazione lineare, ma in piccoli lampi, in intuizioni brevi, in schegge di pensiero che rifiutano la sistematicità e la conclusione. Questi frammenti, da un lato, sembrano rifuggire ogni tentativo di interpretazione chiara, dall’altro aprono uno spazio di riflessione che è sempre sospeso e aperto, un campo di possibilità anziché di certezze. È un pensiero che vive nella soglia dell’indeterminazione e che si alimenta della propria instabilità.

A livello filosofico, l’opera di Michaux anticipa molti temi che verranno sviluppati successivamente nel pensiero postmoderno e nelle teorie contemporanee della soggettività. La sua destrutturazione del linguaggio e del pensiero si collega a una visione della soggettività come processo fluido, mai definito una volta per tutte, sempre aperto a scarti, differenze e discontinuità. Michaux rifiuta infatti ogni idea di sé come entità compatta e coerente. Al contrario, l’io è per lui un campo di interferenze, un continuo oscillare tra presenza e assenza, tra ordine e caos, tra consistenza e dissoluzione.

Questa condizione di “frammentazione esistenziale” si riflette anche nella sua esperienza di vita e nelle modalità della sua scrittura. Michaux non produce semplicemente testi, ma esperienze di lettura che implicano un coinvolgimento attivo del lettore, il quale è chiamato a orientarsi in un paesaggio linguistico e concettuale che rifiuta la familiarità e la rassicurazione. Leggere Michaux significa accettare di perdersi, di navigare in una lingua che frana, che si sgretola, che mette continuamente in crisi la possibilità stessa di comprendere.

In questo senso, la sua antilingua e la sua antifilosofia non sono semplicemente strategie stilistiche o temi teorici, ma forme di pensare e di vivere che mettono in discussione le fondamenta della modernità. Michaux ci invita a vedere il linguaggio come luogo di conflitto, di trasformazione e di resistenza; il pensiero come campo di battaglia e di movimento perpetuo; il sé come processo aperto, incompiuto, sempre in crisi. E in questa visione, il suo specchio incrinato diventa anche lo specchio in cui possiamo riconoscere la nostra stessa frammentazione e la nostra condizione esistenziale più autentica.

Più che un semplice autore, Michaux si configura come un profeta dell’instabilità e della discontinuità, un testimone che non offre risposte ma apre domande, che non ordina ma moltiplica crepe. La sua scrittura è un atto di coraggio radicale, perché affronta il vuoto, la dissoluzione, l’abisso con uno sguardo non consolatorio ma profondamente umano e rigoroso. In questo modo, la sua opera continua a parlare con forza e attualità, offrendo a chi la incontra un’esperienza di lettura che è anche esperienza di vita, un invito a vivere e pensare al limite, dove la realtà si sfalda e si ricostruisce continuamente.



Capitolo 7 – La forma della visione – immagine e scrittura tra oppressione e liberazione

Henri Michaux occupa una posizione del tutto singolare nel panorama artistico e letterario del Novecento, grazie alla sua capacità di intrecciare in modo indissolubile parola e immagine, testo e segno grafico, verbo e gesto. La sua opera si configura come un laboratorio permanente, un campo di sperimentazione in cui la scrittura non si limita a trasmettere contenuti o narrazioni, ma diventa un gesto creativo che sfida i confini tradizionali della lingua e dell’arte visiva. Allo stesso modo, i suoi disegni non sono mai semplici illustrazioni di un testo o mere decorazioni, bensì discorsi autonomi, veicoli di significati complessi e ambigui, connessi a un universo interiore di frammentazioni e turbolenze.

Questa unione tra immagine e parola dà vita a una forma della visione che vive costantemente nel territorio della tensione, oscillando tra oppressione e liberazione, tra costrizione e slancio vitale. L’immagine, da un lato, può rappresentare la tentazione di fissare e cristallizzare la percezione in una forma definitiva, che si impone come verità stabile e riconoscibile. Dall’altro lato, tuttavia, essa è anche strumento di rottura e di espansione, capace di dilatare la percezione, di aprire nuovi orizzonti, di far emergere ciò che sfugge ai codici e alle convenzioni. In questo continuo gioco di forze, l’opera di Michaux si configura come un’esperienza estetica e conoscitiva che non si lascia mai rassicurare da forme compiute, ma che cerca incessantemente di aprire nuove vie di senso.

I disegni realizzati soprattutto nel periodo successivo alle sue sperimentazioni con la mescalina sono esempi emblematici di questa tensione. Questi segni grafici sono caratterizzati da una potenza espressiva straordinaria, ma anche da una complessità formale che li rende indecidibili e sfuggenti. Non si tratta mai di rappresentazioni realistiche o figurative: sono piuttosto tracciati ossessivi, linee spezzate, onde sovrapposte, segni nervosi e ripetitivi, come se il gesto stesso fosse un tentativo di tradurre visivamente la dinamica interna di uno stato d’animo, di una percezione tumultuosa. Attraverso questi segni, Michaux tenta di dare forma a ciò che il linguaggio verbale fatica a contenere: il caos, la frammentazione, la sensazione di essere sospesi in un vuoto pulsante.

Parallelamente, la sua scrittura assume una valenza iconica che va oltre la semplice trasmissione di significati. Il testo diventa esso stesso “forma della visione”, un modo per afferrare immagini che emergono e si dissolvono, forme che si deformano e si rigenerano continuamente. La pagina scritta non è più solo uno spazio di lettura, ma uno spazio dinamico di tensione tra segno e senso, tra presenza e assenza, dove la parola acquista una forza visiva capace di evocare stati emotivi e percettivi complessi. La scrittura di Michaux si configura così come un “linguaggio per immagini”, un dispositivo in cui la parola si fa segno, gesto, movimento, una sorta di pittura verbale che rompe con la linearità e la chiarezza tradizionali del discorso.

Questa dialettica tra immagine e parola si inserisce in un contesto più ampio di oppressione e liberazione. L’artista e scrittore vive in un’epoca segnata da sistemi di potere, rigidezze culturali, e forme di controllo che cercano di normare e omologare la percezione, l’espressione e il pensiero. In questo scenario, l’atto creativo di Michaux si configura come una forma di resistenza radicale, una ribellione che passa attraverso la frattura e la rottura delle forme codificate. L’arte diventa così un’arma contro l’oppressione, ma anche una via per sperimentare una possibile liberazione: un’esperienza estetica e spirituale che riconosce la complessità e la molteplicità dell’essere, e che si oppone alla semplificazione e alla riduzione.

L’opera di Michaux si può dunque leggere come un vero e proprio “laboratorio della visione”, uno spazio di sperimentazione in cui si mettono alla prova i limiti della percezione e dell’espressione, si esplorano i confini tra visibile e invisibile, tra parola e segno, tra realtà e immaginazione. Attraverso questa esperienza, immagine e parola diventano strumenti per attraversare la soglia dell’ignoto, per navigare tra oppressione e liberazione, tra identità e alterità, tra ordine e caos. La forma della visione non è mai stabile o definitiva, ma un processo continuo di divenire, un esercizio di tensione creativa che apre spazi nuovi e inattesi di senso.

Non sorprende che Michaux rifiuti ogni classificazione semplice o convenzionale. Egli non si riconosce né come pittore, né come scrittore in senso stretto, ma si definisce piuttosto come un “operatore di fratture”, un artigiano che usa la materia dell’immagine e della parola per costruire una grammatica nuova, fondata sulla dissonanza, sull’ambiguità e sul movimento incessante. Questa grammatica rompe con ogni idea di forma chiusa e compiuta, proponendo invece una forma aperta, fluida, in perpetuo divenire.

In definitiva, la forma della visione nell’opera di Michaux ci parla di un’esperienza estetica che è insieme dolorosa e gioiosa, lotta e resa, confusione e chiarezza. Ci ricorda che il vedere è sempre un atto rischioso, che la rappresentazione è necessariamente incompleta, e che la parola non potrà mai contenere completamente il senso delle cose. È proprio in questo spazio di mancanza, in questa “incompiutezza” e fragilità, che si apre la possibilità di un nuovo modo di abitare il mondo, di un nuovo modo di essere.

Attraverso la sua opera, Michaux ci invita a riconoscere che la visione autentica non è mai statica o rassicurante, ma un processo dinamico, contraddittorio e fragile, capace di mettere in crisi le nostre certezze e di aprire orizzonti nuovi di percezione e di espressione. La sua eredità consiste nell’aver mostrato come la forma della visione sia inseparabile da quella della frattura e del movimento, e come l’arte possa essere una pratica di liberazione che passa attraverso il rischio, la rottura e la trasformazione continua.



Capitolo 8 – L’eredità di Michaux – influenze e rifrazioni contemporanee

Henri Michaux, figura di confine e di ibridazione tra letteratura, arte visiva, sperimentazione psicologica e riflessione filosofica, ha lasciato una traccia indelebile nel tessuto culturale del Novecento e continua a influenzare, in modo spesso sottile ma profondo, molteplici ambiti dell’arte e del pensiero contemporanei. La sua opera, caratterizzata da un’esperienza radicale di frattura linguistica e visiva, da una tensione costante tra ordine e caos, e da un’indagine serrata della soggettività e della percezione, si configura come un punto di riferimento imprescindibile per le pratiche artistiche, letterarie e teoriche che riflettono sul corpo, sulla mente e sul linguaggio in termini di instabilità e trasformazione.

Uno dei tratti fondamentali dell’eredità di Michaux risiede nella sua capacità di anticipare e in qualche modo inaugurare pratiche artistiche e letterarie di sperimentazione estrema. La sua “antilingua”, fatta di ripetizioni ossessive, segni indecidibili, frammentazioni e scarti semantici, è diventata un modello di riferimento per numerosi artisti e autori contemporanei impegnati a destrutturare il linguaggio e a esplorare la materialità del segno. Nel campo della poesia visiva e concreta, così come nelle pratiche performative che valorizzano la dimensione sonora e gestuale della parola, si ritrovano echi dell’esperienza di Michaux, che ha saputo mostrare la scrittura non solo come strumento di comunicazione ma come gesto creativo che produce tensione e dissonanza.

Dal punto di vista del corpo e della percezione, l’interesse di Michaux per le alterazioni cognitive indotte da sostanze psicotrope – in particolare la mescalina – ha aperto un orizzonte di ricerca che si collega alle più recenti indagini interdisciplinari sulle neuroscienze, sulle pratiche artistiche sperimentali e sulla psicologia. La sua opera si configura così come un ponte tra l’esperienza artistica e la conoscenza scientifica, una forma di indagine che guarda al corpo non solo come contenitore ma come agente attivo e trasformativo della percezione e della coscienza.

Nel panorama letterario contemporaneo, la presenza di Michaux è evidente in quegli autori che scelgono di mettere in crisi le forme tradizionali della narrazione e del discorso. La sua attenzione alla dimensione sonora della parola, alla sua materialità e alla sua capacità di produrre sensazioni più che significati stabili, ha ispirato una scrittura che privilegia l’esperienza sensoriale e corporea, l’oralità, la frammentarietà e l’indeterminatezza. In questo senso, Michaux ha anticipato e influenzato correnti che si muovono tra poesia sperimentale, scrittura performativa e poesia sonora, aprendo la strada a nuove possibilità espressive.

L’impatto di Michaux si estende inoltre al campo della filosofia e della teoria critica, dove la sua destrutturazione del linguaggio e della soggettività si interseca con le riflessioni poststrutturaliste e postmoderne. La sua opera può essere letta come un contributo fondamentale alla messa in discussione dell’idea di un soggetto unitario e stabile, aprendo al riconoscimento della pluralità, della frammentazione e dell’instabilità ontologica dell’essere umano. I temi della dissociazione, della molteplicità identitaria e della decostruzione del sé che attraversano il pensiero contemporaneo trovano in Michaux un precursore e un interlocutore importante.

Parallelamente, la sua eredità visiva continua a esercitare una forte influenza su molte generazioni di artisti. La capacità di Michaux di tradurre in immagini la complessità delle esperienze psichedeliche e cognitive, di trasformare in segni visivi i processi interiori della mente, ha anticipato molti sviluppi dell’arte contemporanea che indagano i rapporti tra percezione, rappresentazione e realtà alterata. Le sue opere grafiche, con le loro linee nervose, i segni ossessivi e le forme mutevoli, sono state fonte di ispirazione per movimenti e artisti impegnati a esplorare il corpo e la mente nelle loro potenzialità trasformative e disgregative.

Questa multidimensionalità e interdisciplinarietà rendono Michaux un autore e artista di grande attualità, particolarmente rilevante per le pratiche culturali contemporanee che si collocano all’incrocio tra umanesimo, scienze cognitive e nuove tecnologie. La sua opera sfida infatti ogni riduzione monodisciplinare, invitando a un approccio integrato che valorizzi la complessità e la molteplicità dei livelli di esperienza e di conoscenza. In questa prospettiva, Michaux appare come un precursore di quel pensiero complesso che oggi cerca di superare le rigidità disciplinari e di affrontare le sfide di un mondo sempre più frammentato e interconnesso.

In sintesi, l’eredità di Henri Michaux si configura come un patrimonio ricco e complesso, capace di alimentare riflessioni profonde sulle possibilità e i limiti del linguaggio, della percezione e della soggettività. La sua opera continua a essere un laboratorio aperto, un terreno di sperimentazione e di interrogazione che nutre il pensiero critico e creativo contemporaneo, offrendo strumenti e prospettive per affrontare le sfide estetiche, culturali e filosofiche del nostro tempo. Michaux ci insegna che la frattura, la dissonanza e la tensione non sono solo condizioni di crisi, ma anche fonti di nuova vitalità e di trasformazione, una lezione di cui oggi più che mai sentiamo il bisogno.


Ecco la conclusione generale ampliata e raddoppiata nella lunghezza, con un approfondimento più articolato e riflessivo sui temi centrali dell’opera di Henri Michaux e sul suo lascito culturale:


Conclusione generale

Henri Michaux emerge come una figura cruciale e al contempo sfuggente nella storia culturale del Novecento, un autore e artista la cui opera sfida con decisione ogni forma di categorizzazione semplice. La sua ricerca estetica e filosofica si inscrive in un territorio di confine e di margine, dove parola e immagine si intrecciano in un dialogo perpetuo che scardina le convenzioni tradizionali del linguaggio e della rappresentazione. Michaux non si limita a raccontare o descrivere, ma si dedica a una pratica di dissezione e riorganizzazione della coscienza e della percezione, trasformando la scrittura e il segno visivo in strumenti di sperimentazione e di rottura.

Il cammino che abbiamo ricostruito attraverso i vari capitoli mette in luce la complessità e la profondità della sua esperienza: dall’incontro con le pulsioni dirompenti della letteratura simbolista e surrealista, in particolare l’influenza cruciale di Lautréamont, alla scelta consapevole di operare per fratture e discontinuità linguistiche; dalla ricerca di una dimensione interiore ed esotica nei suoi viaggi verso l’Asia, fino all’immersione negli abissi dell’inconscio stimolata dall’uso della mescalina. Ogni tappa di questo percorso rivela un costante desiderio di Michaux di mettere in crisi le strutture fisse e rassicuranti della realtà, per accedere a un mondo di molteplicità e di trasformazione.

La sua “antilingua”, che disarticola e scompone la parola in suoni, segni e frammenti, si configura non solo come un espediente stilistico ma come un’autentica strategia di pensiero, un modo di esprimere la complessità del reale e dell’interiorità in modo che vada oltre la mera comunicazione. Michaux rifiuta ogni totalizzazione, ogni ordine univoco, per abbracciare l’ambiguità, la dissonanza e l’incompiutezza. Le sue parole si fanno segni di una mente inquieta, sempre in movimento, sempre tesa verso l’ignoto.

Allo stesso modo, la sua produzione visiva – fatta di disegni ossessivi, tracciati nervosi e forme fluide – rappresenta una forma di scrittura visiva, un modo per tentare di afferrare ciò che sfugge alla parola e alla razionalità. Questo dialogo fra immagine e parola costituisce il cuore pulsante della sua opera, la sua modalità di esplorazione del limite, dove oppressione e liberazione si intrecciano in un gioco dialettico che si fa esperienza estetica e conoscitiva.

L’eredità di Michaux si estende ben oltre il suo tempo e i suoi confini geografici. Nel campo della poesia contemporanea, nelle arti visive, nella filosofia poststrutturalista e nella teoria critica, il suo lavoro ha rappresentato una fonte d’ispirazione inesauribile. La sua attenzione al corpo, alla mente e alle alterazioni della percezione ha anticipato molte riflessioni e pratiche che oggi si collocano all’incrocio fra scienze cognitive, studi culturali e ricerche artistiche interdisciplinari. Michaux ha fornito strumenti e paradigmi per affrontare la complessità del soggetto contemporaneo, sempre più fluido, plurale, in crisi ma anche potenzialmente creativo.

La sua opera, infatti, ci parla di una soggettività che non è più monolitica o lineare, ma frammentata e in continua trasformazione. Michaux ha saputo cogliere e descrivere questo stato di tensione interna, ponendo la frattura e la discontinuità come elementi costitutivi dell’esperienza umana. In questo senso, il suo lavoro non è soltanto un esercizio estetico o un’impresa letteraria, ma un vero e proprio contributo alla comprensione del sé e della realtà nell’epoca moderna e contemporanea.

In un mondo segnato da crisi e incertezze, dove le identità si moltiplicano e le certezze si sgretolano, Michaux ci offre uno specchio incrinato che riflette la nostra condizione più autentica: fragile, molteplice, mai definita una volta per tutte. La sua lezione fondamentale è che nella rottura, nel disordine, nell’incompiutezza si nasconde una possibilità di libertà e di rinnovamento. L’esperienza estetica che egli propone è un invito a riconoscere e ad abitare la complessità, ad accogliere la differenza e a esplorare senza paura i territori dell’ignoto e dell’ambiguità.

Questa prospettiva rappresenta un antidoto potente contro ogni forma di semplificazione e di riduzione, e si configura come una risorsa preziosa per affrontare le sfide culturali, filosofiche e artistiche del nostro tempo. Michaux ci insegna che la ricerca della verità e della conoscenza non è una linea retta, ma un percorso tortuoso, fatto di passi indietro e di scarti, di cadute e di rialzate, di crisi e di rinascite.

In definitiva, la figura di Henri Michaux rimane un punto di riferimento imprescindibile per chiunque voglia spingersi oltre i confini convenzionali del pensiero e della rappresentazione. La sua opera, con la sua intensità e la sua radicalità, ci accompagna in un viaggio senza fine alla scoperta delle molteplici forme della visione, della parola e dell’identità, mostrandoci come la frattura non sia un limite, ma una potenza creativa da coltivare e valorizzare.

Con questo spirito, il lavoro di Michaux continua a parlare con forza al presente, offrendoci non solo testi e immagini, ma un metodo, una filosofia di vita, un modo di vedere e di sentire che invita all’apertura, al rischio, alla trasformazione. In questo senso, la sua eredità è viva e dinamica, una fonte inesauribile di stimoli per chiunque sia disposto a mettersi in gioco e a navigare tra le complessità e le contraddizioni del nostro tempo.


venerdì 17 ottobre 2025

Rovesciato, sì



Rovesciato, sì.
Ma non subito.
Prima un ascolto cieco —
una fenditura che respira nel fondo della gola.
Non il corpo, ma il suo negativo,
il suono che viene da dietro la pelle,
la pressione che si fa luce,
come se la carne, improvvisamente, avesse ricordato il suo contrario.

È qui che comincia:
dal rumore che non arriva,
dall’ombra del tatto.
Il volto non si mostra: vibra,
si apre, si ritrae, diventa aria che chiama.
Eppure esiste —
la tua faccia, il punto dove tutto si concentra,
dove vengo, fino in fondo,
in doppia enunciazione, quasi a riscrivere
l’orgasmo come lingua.
Un’ondulazione di spasmi.
Una parola che non si chiude.

Non dire.
O dillo piano.
Tu dici — e già si consuma: la fine.
Tre giorni, sciolti, disfatti nell’odore.
Un respiro lungo, obliquo.
Diverso, sì.
Non più presente.
Col membro che si solleva da solo,
come se la carne avesse appreso la nostalgia.

È un gesto, ormai.
Leggere i tuoi occhi come si sfiora un codice.
Eravamo, e si vede.
Il tempo, qui, è tessuto —
stoffa che copre, che assorbe,
che tenta di colmare ciò che non fu.
Dell’aria resta il bordo,
un alone che continua.

Qualcosa si muove,
frammenti obliqui, schegge di luce,
un riflesso che non coincide con la cosa.
Eppure è lì,
distorto, vivo.

Difficile risalire.
Il pensiero — un vortice senza radice.
L’acqua della mente è quasi agitata,
si piega, non trova il proprio corso.
Questo presente non appartiene al tempo.
Scorre, si interrompe, si riavvolge.
Ogni volta.
S’era interrotto, sì, ma tornava,
ripiegato, inciso.
Una registrazione, non proprio identica.
Una cicatrice di suono.

Non più precisi di così.
Io, restavo.
Perché vengono —
queste presenze senza volto.
Accumularsi, dilatarsi,
fino al limite del dicibile.
L’insieme non si dice.
Lo trovo, oggi, coricato sull’orlo,
un resto di corpo che non finisce.

Voi, in piedi, di fianco,
dentro l’operazione —
come dentro un rito che non ci comprende.
Io non nel numero,
non nella conta.
La torsione era l’eco,
la memoria piegata su se stessa,
il ritorno del gesto nella sua ombra.

Istantaneamente: profondità.
O meglio — carne.
Quel salto che risponde come era scritto.
Il muro, là, riceve solo un colore.
Non altro.
Il sudore, la prova.

Così, il punto e gli occhi,
la forma che copre,
e allora sorge la testa.
Questo richiamo.
La bocca — qualcuno al seme.
L’episodio che non avrebbe reso il rosso,
né il cielo riflesso,
strappato, terroso,
dalla parte giusta, che è poi la stessa che tutti indicano.

Al momento, in questo recesso.
Un punto di noi che vibra ancora,
gridando alla gola, venivamo.

S’apriva, sì,
per darci.
In rilievo remoto.
Poi ancora — il di fuori che si volta,
l’ascolto ribaltato,
una superficie che non sa cessare di respirare.
Qui restiamo,
non più due, ma residuo.
Impronta sul nulla.
L’ombra che continua a parlarci,
con la voce del muro,
del sudore,
dell’eco che s’attacca al respiro.

Il corpo ripetuto.
Il battito,
senza fine.
L’eco compressa,
sulla pelle che non riconosce più il suo nome.

E poi — l’assenza.
Questo movimento cieco che ci chiama.
Dal fondo della materia sale un suono,
un sibilo,
la traccia che non muore.
La fine piega,
ricomincia,
si apre di lato,
si contorce,
diventa luce che passa tra le dita.

E tu, lontano,
sei sempre più vicino.
Come se la distanza fosse una forma d’intimità.
Ogni respiro, un ritorno.
Ogni silenzio, una bocca che non si chiude.

Io, coricato sull’orlo,
in ascolto del tuo corpo che non c’è.
Un respiro, forse due.
E poi, niente:
solo la vibrazione che rimane.

Rovesciato, ancora.
Ascoltato, fuori.
Non più parola, ma pressione,
non più immagine, ma durata.

La carne, ormai, non risponde.
È la pelle che parla.
E sotto, la memoria sfrigola,
un riverbero umido, un residuo.

Tu non dici.
Ma l’aria, intorno, ti nomina.
Ti apre, ti piega.
Ti solleva dal fondo come una risposta.

Io guardo, ma non vedo.
Mi piego, ma non arrivo.
È tutto qui, nel quasi.
Nel limite che pulsa,
nell’eco che scava.

E quando sorge la testa —
quella luce, quella bocca —
tutto torna.
Il respiro, il colore, la terra.
Lì, dove finisce il quadro.
Lì, dove inizia la carne.

Un corpo rovesciato nel proprio suono.
Un ascolto che si finge silenzio.
E da quel silenzio,
ancora,
veniamo.


mercoledì 15 ottobre 2025

Corpi indocili: Foucault tra psichiatria, queer e insorgenze transfemministe


Prefazione

Il pensiero è un corpo che inciampa. Una soglia per Michel Foucault e per chi lo attraversa senza chiederne il permesso.

Entrare in questo testo non significa semplicemente leggere Foucault. Non significa neppure interpretarlo, sistemarlo, o difenderlo — come se ci fosse qualcosa da proteggere. Significa, piuttosto, fare un passo dentro la zona di rischio che il suo pensiero ha aperto e continua ad aprire: quella zona in cui il sapere non è più uno sguardo dall’alto, ma un campo di battaglia, in cui la verità non è un diritto acquisito, ma un effetto precario di forze che si contendono la parola, i corpi, le vite.

Questo non è un testo su Foucault, né soltanto con Foucault, ma attraverso Foucault. Attraverso le sue domande, le sue omissioni, le sue fratture e le sue scommesse ancora incandescenti. È un testo che lo convoca non come icona filosofica ma come compagno d’indagine, come traccia da disturbare, come gesto che si prolunga in altri gesti: quelli di chi ha decostruito la psichiatria istituzionale, di chi ha vissuto la propria identità sessuale come una diserzione, di chi ha inventato nuove forme di militanza transfemminista dentro e contro le rovine del patriarcato globale.

Foucault stesso non ha mai voluto lasciare un sistema, né fondare una scuola. Si è sempre definito come uno che lavora “ai margini”. Non costruisce edifici, ma cammina lungo i muri, cercando le crepe. Questo testo nasce proprio da lì: dalla volontà di esplorare le crepe, di abitarle, di amplificarle. Le crepe nelle istituzioni — ospedali, prigioni, manicomi — ma anche nelle parole, nei corpi, nei modi in cui ci percepiamo come soggetti. Ogni categoria che ci definisce (omosessuale, donna, sano, deviante, madre, paziente, cittadino) è, per Foucault, un prodotto storico e contingente: non un dato, ma una forma di assoggettamento che può e deve essere smontata.

Leggere questo testo è dunque un’esperienza situata, posizionata. Non propone una panoramica neutra né una celebrazione. Non difende né demolisce. Lavora, piuttosto, con la lente della genealogia, che non cerca l’origine ma il campo di forze. Si sofferma sui punti in cui il potere attraversa la carne, sulla pelle, nei gesti, negli sguardi, nei documenti, nelle diagnosi. Si sofferma anche, con uguale intensità, sui punti in cui questi attraversamenti possono essere interrotti, scartati, invertiti.

Ed è per questo che Foucault, qui, si incontra — senza che fosse stato pianificato — con figure cruciali del pensiero e della pratica italiana: Franco Basaglia, con la sua rivoluzione psichiatrica, che non fu solo una riforma medica ma un’esplosione etica; ed Ernesto de Martino, con la sua antropologia delle crisi, del dolore, dei rituali che danno senso al disfacimento dell’io. Entrambi, a modo loro, hanno fatto con il pensiero ciò che Foucault chiedeva: lo hanno incarnato, lo hanno politicizzato, lo hanno spinto là dove il sapere si fa rischio, dove la cura non è addomesticamento, ma restituzione di voce e presenza.

Questo testo non ha un baricentro, ma più fuochi. Uno di questi è senza dubbio la riflessione sulla soggettività queer e transfemminista: su ciò che oggi significa esistere fuori dalla norma, senza nostalgia per un’identità perduta né ambizione di una legittimazione garantita. Le lotte dei movimenti transfemministi latinoamericani, le pratiche di mutualismo queer, i corpi che rifiutano la definizione unica, che performano invece l’eccedenza, l’instabilità, la relazione — tutto ciò dà nuova linfa alla riflessione foucaultiana, portandola ben oltre le sue formulazioni iniziali. Foucault diventa così una fonte non chiusa, una soglia attraversabile, uno strumento che può essere riscritto da chi lo pratica, lo sfida, lo reinventa in altri contesti.

Ecco allora che anche le parole, qui, non sono mai innocue. “Corpi indocili” non è un’espressione poetica. È una descrizione politica. Significa corpi che rifiutano di lasciarsi governare nel modo previsto, corpi che resistono non con la forza ma con la molteplicità delle posture, dei desideri, delle traiettorie. Significa anche, con la massima umiltà, corpi che non sanno più bene chi sono — e proprio per questo possono ancora diventare qualcosa. Foucault non ha mai promesso salvezza, ma possibilità. E le possibilità iniziano dove finisce il dominio delle etichette, dove la soggettività non si fissa ma si sperimenta.

Questo testo, allora, chiede di essere letto con il corpo, prima ancora che con la mente. Di essere abitato, disturbato, forse anche rifiutato. Non offre soluzioni ma complicità. Non formula teoremi, ma compone mappe. Mappe che attraversano la storia della psichiatria e quella della sessualità, le genealogie del potere e le politiche dell’intimità, la pandemia e i corpi trans, l’identità come trappola e la comunità come creazione. Mappe che servono per orientarsi dove non ci sono strade segnate. Dove non si può chiedere il permesso per vivere.

Michel Foucault ci ha lasciato una domanda: come possiamo essere governati, e come possiamo non esserlo? Questo testo prova a rispondere — non con una formula, ma con un viaggio. Un viaggio che passa per la chiusura dei manicomi, per i cortei queer, per le piazze sudamericane che gridano “Vivas nos queremos”, per le parole interrotte da Derrida, per le confessioni mai concluse della carne.

Se oggi il pensiero ha ancora senso, è forse perché ci permette di ritrovare quel punto in cui smette di descrivere e comincia a cambiare. Questo è ciò che fa Foucault. E questo è ciò che — nel suo piccolo — cerca di fare anche questo testo.



Michel Foucault: genealogia del potere, riscrittura del sé e invenzione dell’anormalità

All’interno della costellazione del pensiero novecentesco, Michel Foucault emerge come una figura decisamente anomala, obliqua, per certi versi ingovernabile. Non filosofo in senso sistematico, né storico nel senso accademico del termine, né sociologo secondo i paradigmi canonici, Foucault è stato qualcosa di più e qualcosa di meno: un pensatore che ha rifiutato qualunque etichetta, qualunque appartenenza disciplinare rigida, e che ha invece attraversato le pieghe delle istituzioni, dei testi e dei corpi con la determinazione di chi vuole smascherare l’evidenza e portare alla luce l’impensato. Pensare, per Foucault, non significava mai costruire un sistema, ma piuttosto far esplodere le categorie stabilite, mettere in crisi le ovvietà, disturbare la quiete del senso comune. In questo senso, il suo pensiero ha generato una frattura nell’edificio del sapere moderno, costringendo intere discipline a riconsiderare i propri fondamenti.

Nato in una famiglia borghese della provincia francese, Michel Paul Foucault si forma tra la fine della Seconda guerra mondiale e gli anni Cinquanta in un clima culturale in cui la psichiatria, la medicina e il sapere scientifico sono ancora percepiti come strumenti di progresso e liberazione. Ma è proprio questa fiducia che Foucault inizia a smontare, mostrando come i saperi cosiddetti “positivi” siano storicamente situati e profondamente compromessi con i meccanismi di esclusione e controllo sociale. La sua formazione filosofica si intreccia presto con una militanza intellettuale che lo porterà a frequentare i movimenti di sinistra radicale, a prendere posizione a fianco dei prigionieri politici, dei malati mentali, dei soggetti emarginati.

Sin dalle prime opere — Storia della follia nell’età classica (1961), Nascita della clinica (1963), Le parole e le cose (1966) — Foucault si mostra come un “archeologo del sapere”, interessato a decostruire non tanto le opinioni o le ideologie, quanto le forme discorsive attraverso cui un’epoca organizza e produce la propria idea di verità. Non c’è verità senza regimi di veridizione, dirà, non c’è scienza senza dispositivi di esclusione. Ogni sapere è un campo di forze, un campo di battaglia, un effetto di potere. Ed è proprio qui che si afferma uno dei nuclei concettuali centrali della sua opera: il potere non come entità sovrana, ma come rete diffusa, immanente, capillare, che attraversa ogni rapporto sociale e che si incarna nei dispositivi più disparati — ospedali, prigioni, scuole, confessionali, statistiche, pratiche mediche, esami, anamnesi, confessioni.

Nel 1970, la consacrazione istituzionale arriva con la nomina al Collège de France, dove tiene la cattedra di “Storia dei sistemi di pensiero”, un titolo volutamente vago e inclusivo, che gli consente di continuare il suo lavoro critico al di fuori di ogni recinto disciplinare. Negli anni successivi, Foucault concentra la sua attenzione sul tema della governamentalità, ovvero l’insieme di tecniche attraverso cui i governi — e non solo gli Stati — regolano, orientano, modellano le condotte. È in questa fase che prende forma l’ambizioso progetto della Histoire de la sexualité, concepita inizialmente come una serie in sei volumi, ma che si interrompe alla pubblicazione del terzo (il quarto volume vedrà la luce solo postumo, e controverse saranno le circostanze della sua diffusione).

Nel primo volume, La volontà di sapere (1976), Foucault prende di mira la cosiddetta “ipotesi repressiva”, ossia l’idea — diffusa nella cultura occidentale — che la sessualità sia stata storicamente oggetto di censura e rimozione. Al contrario, Foucault sostiene che a partire dal XVII secolo si sia prodotto un immenso apparato discorsivo intorno al sesso: una vera e propria scientia sexualis, nutrita di confessione, sorveglianza, disciplinamento. Questo sapere non reprime, ma produce soggetti, classifica identità, fissa ruoli, etichetta desideri. La sessualità diventa così il terreno privilegiato su cui si esercita il biopotere, quel nuovo modo di esercitare il controllo sulle popolazioni attraverso la gestione della vita, della salute, della riproduzione, dei corpi.

In tale cornice, le identità sessuali — “omosessuale”, “perverso”, “deviante”, “normale” — non sono realtà naturali, ma effetti di dispositivi, costruzioni storicamente determinate, funzionali a una più fine e penetrante operazione di normalizzazione. Il celebre esempio dell’invenzione della figura dell’“omosessuale” nell’Ottocento dimostra come il discorso medico-giuridico trasformi un insieme di atti in una “persona”, dando così corpo a un’identità destinata a essere osservata, registrata, trattata. Ma proprio in questa costruzione, scrive Foucault, risiede anche la possibilità della resistenza: ciò che il potere produce può essere riscritto, disarticolato, sovvertito.

I due volumi successivi della Storia della sessualità, L’uso dei piaceri e La cura di sé (entrambi 1984), compiono un sorprendente cambio di prospettiva. Foucault si allontana dalla modernità e si immerge nel mondo greco-romano per esplorare un altro modo di intendere la relazione tra soggetto e desiderio. Qui non si tratta più di disciplinare o reprimere, ma di esercitare una cura di sé, di coltivare un’etica dell’esistenza in cui il piacere è regolato da pratiche di autoformazione, di equilibrio, di dominio di sé. La soggettività non è imposta dall’esterno, ma si costruisce attraverso tecniche interiori: lettura, meditazione, esame di coscienza, confessione. Foucault inaugura così una nuova genealogia dell’etica, mostrando come il soggetto occidentale moderno, ossessionato dal sesso e dalla verità, sia il risultato di una lunga sedimentazione cristiana, filosofica e medica.

Nel corso delle sue ultime conferenze a Berkeley e al Collège de France, Foucault amplia ancora il proprio campo d’indagine, arrivando a coniugare le analisi del potere con la spiritualità e la soggettivazione. Il suo interesse si concentra sempre più sulle “tecnologie del sé”, ovvero su quei processi attraverso cui gli individui si costituiscono come soggetti morali, politici, erotici. In questa prospettiva, l’identità sessuale non è un destino, né un’essenza: è una pratica, un effetto, una stilizzazione dell’esistenza. Il soggetto non è qualcosa che si scopre, ma qualcosa che si inventa.

Questa visione ha avuto un impatto incalcolabile sugli studi queer, post-coloniali e critici. Pensatrici come Judith Butler, Eve Sedgwick, Paul B. Preciado, Didier Eribon hanno trovato in Foucault un compagno di strada e una miniera inesauribile di intuizioni. Non per riprodurne fedelmente il pensiero, ma per proseguirne il gesto: quello di disfare le identità, smascherare le norme, disinnescare i meccanismi del riconoscimento obbligato. Nella rilettura foucaultiana, l’omosessualità non è tanto un’essenza da difendere, quanto una posizione strategica da problematizzare, una scena da ripensare ogni volta. È l’effetto di un sapere/potere, ma anche il punto da cui questo sapere può essere disarmato.

Nel 1984, Michel Foucault muore a Parigi, vittima dell’AIDS, senza che la stampa francese osi pronunciare il nome della malattia. La sua scomparsa lascia un vuoto immenso, ma anche una traccia inestinguibile: quella di una scrittura analitica e vertiginosa, capace di esplorare le soglie della follia e della norma, del piacere e della punizione, dell’identità e dell’alterità. Eredità tanto più preziosa oggi, in un’epoca in cui i dispositivi di sorveglianza si sono fatti algoritmici e invisibili, e in cui il corpo queer continua a essere al centro di una contesa simbolica e politica globale.

Pensare con Foucault, oggi, significa accettare il rischio dell’instabilità, del non sapere, della disidentificazione. Significa anche, forse, riscoprire la possibilità che la filosofia non sia una disciplina accademica, ma un gesto vitale: un’arte dell’esistenza. Un modo di vivere criticamente, intensamente, liberamente. E di trasformare, nel cuore stesso del dispositivo, il margine in potenza.



Dissidenze in filigrana: l’eredità italiana di Foucault tra identità, resistenza e governo dei corpi

Se la Francia e gli Stati Uniti rappresentano i principali crocevia teorici in cui si è irraggiato il pensiero foucaultiano — con effetti dirompenti nella filosofia, nella storiografia e nella critica della sessualità — l’Italia ha conosciuto una ricezione più carsica, frammentata, ma non per questo meno profonda o radicale. Michel Foucault, in Italia, è entrato spesso “dalla porta laterale”, attraverso i margini delle discipline accademiche, le esperienze militanti, i laboratori underground della soggettività politica. I suoi testi — tradotti inizialmente con lentezza, talvolta in edizioni fuori catalogo, spesso osteggiati dai classicisti della filosofia continentale — hanno finito per divenire veri e propri strumenti di lettura del presente per coloro che cercavano nuove vie di autodeterminazione, linguaggio e pratiche rivoluzionarie non riducibili né al dogmatismo marxista né alla liberalizzazione identitaria mainstream.

È a partire dagli anni Novanta, e più ancora dopo l’arrivo del nuovo millennio, che si assiste a un crescente recupero delle analisi foucaultiane nel cuore dei movimenti LGBTQIA+ italiani. In un contesto ancora segnato dall’omofobia istituzionale, dalla marginalizzazione culturale e dall’assenza di un riconoscimento giuridico stabile, Foucault offre un vocabolario alternativo, capace di smascherare i meccanismi del potere normalizzante senza cedere alla tentazione di naturalizzare le identità. In particolare, la sua genealogia della sessualità e la sua analisi del dispositivo di confessione trovano una fertile risonanza nei collettivi queer e transfemministi, che ne fanno un uso strategico per smontare i presupposti eteropatriarcali della famiglia, del desiderio e del riconoscimento.

Non si tratta solo di adottare la sua terminologia — dispositivo, biopotere, governamentalità, soggettivazione — ma di prolungarne il gesto critico: quello di pensare la soggettività non come un’entità preesistente da tutelare, bensì come un campo di forze in cui si gioca, si negozia, si resiste. Le realtà italiane più sensibili a questa prospettiva — dai centri sociali queer autogestiti, come il Fuoriluogo di Bologna o il Smascheramenti di Roma, fino alle esperienze editoriali come I Quaderni Viola, A/traverso, Femminismi/Foucault, o più recentemente NERO e Not — si sono mosse nell’orizzonte di una critica decostruttiva dell’identità. Per molti giovani attivistǝ queer, Foucault diventa così non un “maestro” in senso tradizionale, ma una cassetta degli attrezzi per pensare l’indisciplinabile, il non ancora pensato.

Un capitolo a parte merita l’incontro tra Foucault e le eredità della filosofia italiana. Autori come Giorgio Agamben, Roberto Esposito, Adriana Cavarero e soprattutto Judith Revel (italo-francese) hanno elaborato interpretazioni profonde del concetto di biopolitica, interrogandosi sulla possibilità di una soggettività post-identitaria, mobile, resistente alla codificazione. Nei testi di Preciado, ma anche in quelli di Lorenzo Bernini (Il sessuale politico), Massimo Prearo (Le identità non sono argomento) e Federico Zappino, si ritrova una riflessione incarnata, politica e desiderante, che prende spunto da Foucault ma lo rilavora alla luce delle trasformazioni contemporanee del capitalismo affettivo, del linguaggio algoritmico e del management delle emozioni.

Michel Foucault e Jacques Derrida: il confronto mai chiuso tra genealogia e decostruzione

Il rapporto tra Foucault e Derrida rappresenta uno dei più affascinanti e misconosciuti scenari di tensione del pensiero francese del secondo Novecento. Entrambi discepoli — in modo diseguale e critico — della tradizione fenomenologica, entrambi influenzati da Nietzsche e da Heidegger, entrambi lettori ossessivi dei testi canonici, si muovono lungo traiettorie parallele ma profondamente diverse. Foucault scava nella storia come campo materiale di pratiche e istituzioni, mentre Derrida opera nel linguaggio come luogo di dislocazione costante del significato. Il loro scontro — aperto, ma mai risolto — attesta una differenza epistemologica e politica irriducibile.

Il nodo polemico principale resta la questione cartesiana della follia. Foucault, nella Storia della follia, accusa il progetto cartesiano di aver escluso la follia dal dominio del pensiero, inaugurando così una nuova forma di razionalismo escludente. Derrida, nel suo celebre saggio di risposta, sostiene che Foucault legga Descartes in modo anacronistico, e che lo stesso Cogito contenga al suo interno la possibilità della follia come traccia indecidibile. Ma al di là della disputa filologica, ciò che emerge è una divergenza più profonda: Foucault si affida all’archivio, alle rotture storiche, ai regimi di sapere; Derrida, invece, scava nella scrittura, nella différance, nell’instabilità costitutiva di ogni concetto.

Per la teoria queer contemporanea, questo confronto è tutt’altro che accademico. I due approcci si sono rivelati complementari, anche se spesso in tensione. Se Foucault ci insegna che l’identità è un effetto del potere, una sedimentazione normativa, Derrida ci mostra che ogni identità è anche una finzione, una citazione, una struttura iterabile. La performatività del genere, così come viene elaborata da Judith Butler, è impensabile senza il supporto foucaultiano (il potere che produce il soggetto) e quello derridiano (la ripetizione che destabilizza la norma).

La critica transfemminista italiana ha saputo muoversi su questo crinale: Foucault per analizzare i dispositivi istituzionali (scuola, famiglia, legge), Derrida per sovvertirne il linguaggio, il vocabolario stesso della norma. Da questa duplice eredità nasce una politica del corpo che non si limita a denunciare la repressione, ma produce nuovi regimi di visibilità, nuove poetiche della carne, nuove strategie di disidentificazione. Essere queer non significa più “essere altro”, ma non essere mai del tutto — un gesto che riflette sia il foucaultiano “non essere mai del tutto soggetti” sia il derridiano “non essere mai interamente presenti a sé stessi”.

Foucault e il biopotere in epoca pandemica: corpi sorvegliati, soggettività vulnerabili

La pandemia da Covid-19 ha reso improvvisamente attuale — e forse inevitabile — il ritorno a Michel Foucault. Non tanto come “profeta del lockdown” (come alcuni titoli giornalistici frettolosi hanno insinuato), quanto come pensatore del corpo governato, del rischio epidemiologico come strumento di disciplinamento, della soggettività come terreno di gestione politica. La nozione di biopotere, elaborata da Foucault nel primo volume della Storia della sessualità e nelle lezioni al Collège de France tra il 1975 e il 1979, è tornata centrale nel discorso pubblico: chi gestisce la vita? Chi decide la morte? Come si articolano, nella pandemia, libertà individuale e tutela collettiva?

Durante i mesi più critici della crisi sanitaria, le categorie foucaultiane di sorveglianza, dispositivo, normalizzazione, emergenza, produzione della soggettività hanno funzionato come griglie interpretative immediate. Il Green Pass, le app di tracciamento, le quarantene, i decreti d’urgenza, ma anche la retorica del “comportamento responsabile” e dell’“igiene individuale” sono stati letti — in Italia come altrove — attraverso la lente della governamentalità. Ma la riflessione foucaultiana non si limita a denunciare il controllo: piuttosto, ci invita a capire come si produce il consenso, come si interiorizza la norma, come si costruisce la soggettività obbediente.

Per i movimenti transfemministi, la pandemia ha avuto un doppio effetto. Da un lato, ha esacerbato la vulnerabilità delle soggettività già marginalizzate: corpi trans, sex worker, migranti, disabili, precari. Dall’altro, ha fornito un’occasione per ripensare la comunità non più come spazio di riconoscimento identitario, ma come legame di cura, come tecnologia relazionale. L’insegnamento di Foucault sulla “cura di sé” e sulle “tecnologie del sé” è stato reinterpretato in senso collettivo, comunitario, in forme di mutualismo queer, reti di supporto dal basso, pratiche di solidarietà de-medicalizzata.

In questo senso, il pensiero foucaultiano non è una teoria chiusa, ma un archivio in tensione: offre strumenti per leggere il presente senza prescriverne il futuro. E proprio qui sta forse la sua potenza: nel rifiuto della consolazione, nella critica come gesto etico, nella filosofia come esperienza di disobbedienza permanente. Se il biopotere ci chiede corpi docili, il queer foucaultiano risponde con corpi che eccedono, che mutano, che godono al di fuori della norma. Non per celebrare l’anarchia, ma per inventare un’altra etica della vulnerabilità: un’etica della vita incalcolabile.



Psichiatria, etnografia e potere: Foucault e il dialogo mai esplicitato con l’Italia di Basaglia e De Martino

Michel Foucault non conobbe personalmente Franco Basaglia, ma i loro cammini si incrociarono sullo stesso terreno: quello della critica radicale alla psichiatria come istituzione del controllo, della devianza e della norma. Foucault pubblica Histoire de la folie nel 1961, mentre Basaglia, in quegli stessi anni, sta avviando a Gorizia la rivoluzione psichiatrica italiana. Entrambi — uno dalla filosofia, l’altro dalla clinica — convergono verso una denuncia senza appello del manicomio come spazio concentrazionario, macchina di esclusione, forma di neutralizzazione sociale del diverso.

Tuttavia, le loro prospettive divergono nei metodi e nelle finalità. Foucault compie un’“archeologia della follia”, analizzando le rotture epistemiche che definiscono cosa sia considerato “follia” nelle diverse epoche, mostrando come la ragione occidentale si sia costituita proprio escludendo e silenziando il folle. Basaglia, invece, parte da una prospettiva esistenzialista e fenomenologica (influenzata da Jaspers e Binswanger), e traduce la critica in prassi istituzionale: smantellare concretamente il manicomio, restituire parola e soggettività ai pazienti, trasformare la cura in relazione tra pari.

La Legge 180 del 1978, che sancisce la chiusura dei manicomi in Italia, rappresenta un unicum nel panorama mondiale. Nonostante Foucault la citasse con rispetto in alcune conferenze, non le dedicò studi approfonditi. Eppure, il suo concetto di dispositivo e la sua analisi delle forme di potere disciplinare si rispecchiano perfettamente nella lotta basagliana contro la psichiatria come sapere normalizzante. Entrambi rifiutano l’idea che la follia sia una malattia da guarire: è invece una costruzione sociale, una forma di alterità radicale con cui la società deve fare i conti — non reprimere, non “curare” nel senso normativo, ma ascoltare e con-vivere.

Anche la figura di Ernesto de Martino, antropologo e filosofo della cultura, offre un parallelo sorprendente con Foucault. Nei suoi studi sul Sud italiano — in particolare La terra del rimorso (1959) — De Martino analizza il tarantismo, i riti di possessione, le forme simboliche della sofferenza e del dolore psichico. Egli non patologizza, ma interpreta: si interroga su come la crisi della presenza venga ritualizzata, ricomposta, attraversata. È una sorta di contro-discorso rispetto all'antropologia colonialista, che può essere letto in chiave foucaultiana: anche qui la soggettività non è un dato, ma una costruzione culturale, e il potere — sebbene non ancora tematizzato come tale da De Martino — è presente nelle dinamiche tra sapere, cura e tradizione.

Nel crocevia tra Basaglia, De Martino e Foucault si può dunque intravedere una costellazione critica italiana, in cui la follia, il corpo, il rito, la devianza diventano zone di indagine privilegiata per comprendere il modo in cui una cultura definisce sé stessa. È una genealogia che meriterebbe ulteriori esplorazioni: un Foucal-Basaglismo da scrivere, dove la storia della follia non è solo critica teorica, ma pratica di liberazione quotidiana.


Foucault e le nuove insorgenze transfemministe: da NiUnaMenos ai collettivi transfem latinoamericani

Negli ultimi dieci anni, il pensiero di Michel Foucault ha vissuto una seconda vita nei movimenti transfemministi globali, in particolare nei paesi dell’America Latina. Qui, Foucault non è più il filosofo francese “accademico” o l’autore eurocentrico da rileggere con cautela, ma diventa strumento pratico, linguaggio condiviso, fonte di azione politica. Nelle piazze di Buenos Aires, Santiago, Bogotá o Città del Messico, la genealogia foucaultiana si trasforma in gesto di piazza, in corpo disobbediente, in pratica di resistenza incarnata.

Il movimento NiUnaMenos, nato in Argentina nel 2015 in risposta ai femminicidi e alla violenza strutturale di genere, ha rapidamente oltrepassato i confini del femminismo classico per abbracciare un’ottica intersezionale e queer. La loro parola d’ordine “Vivas, libres y desendeudadas nos queremos” unisce la lotta contro la violenza maschile con quella contro il neoliberismo, la medicalizzazione del corpo e il controllo poliziesco delle soggettività dissidenti. In questo orizzonte, Foucault non è tanto il teorico della repressione, ma il cartografo del potere: come si produce la soggettività di genere?, quali sono i dispositivi che rendono legittima la violenza sulla vita non conforme?, come si può decostruire il nesso tra normalità, legge e verità?

I collettivi transfem latinoamericani — come La Tribu, Vivas Nos Queremos, La Revuelta, M.A.F.I.A. o Casa Trans — hanno elaborato una militanza transfemminista fondata sulla disobbedienza, la performance, l’uso radicale del corpo come luogo di narrazione politica. Foucault è stato letto, riscritto, tradito e riforgiato: le sue “tecnologie del sé” diventano pratiche comunitarie di autogestione ormonale, transizione collettiva, mutuo soccorso; il biopotere diventa strumento per capire la criminalizzazione delle sex workers, l’abbandono sanitario delle donne nere, la necropolitica che uccide le soggettività non produttive.

La nozione di resistenza, mai totalmente tematizzata da Foucault, viene qui radicalizzata: non come opposizione binaria al potere, ma come creazione di nuovi spazi di vita al di fuori del dispositivo. I corpi queer, trans, migranti, intersessuali diventano non solo bersagli del potere, ma laboratori del possibile: incarnano vite che non si lasciano ridurre, che si sottraggono, che eccedono. In questa genealogia, il sé non è ciò che va difeso, ma ciò che va continuamente reinventato insieme agli altri.

Anche le estetiche politiche di questi collettivi risuonano foucaultianamente: la parata queer come contro-processione, la performance transfem come confessione al contrario, il linguaggio ibrido tra autobiografia e manifesto come dispositivo di veridizione ribelle. Non si chiede più di essere “riconosciutə” dallo Stato, ma si costruiscono pratiche radicali di auto-legittimazione, in cui la verità non è più quella del sapere medico o giuridico, ma quella di chi vive nel corpo il disallineamento come gioia.


Conclusione provvisoria: un pensiero ancora in rivolta

Michel Foucault non appartiene solo alla storia della filosofia. Appartiene — come pochi altri — ai margini, agli spazi in cui si inventa la soggettività. Non ha lasciato una dottrina, ma una serie di strumenti affilati: per leggere il potere, per smontare l’identità, per reinventare il sé. Nell’incontro con Basaglia e De Martino, con NiUnaMenos e i collettivi transfem, il suo pensiero si è liberato dall’università per entrare nelle comunità, nei cortei, nelle case occupate, nei consultori autogestiti.

Foucault vive ancora là dove si disobbedisce, là dove si costruisce un’etica senza morale, là dove il desiderio non è ricondotto alla norma ma rilanciato come futuro condiviso. Il suo pensiero non serve per capire il mondo, ma per cambiarlo — a partire dai corpi che, anche oggi, non vogliono più essere messi a tacere.


Postfazione

Qualcosa resta aperto. E deve restarlo.

Abbiamo seguito il filo di un pensiero che non si lascia mai prendere tutto intero. Michel Foucault ci ha accompagnati, sorvegliati, talvolta contraddetti, altre volte scomparsi sotto i piedi mentre camminavamo. Questo testo non ha voluto metterlo al centro come figura d’autorità, ma renderlo presenza operativa: come forza in tensione, come asse lungo cui si possono innestare storie, pratiche, rotture. Foucault, qui, è meno autore che nodo. Nodo da cui si dipartono strade divergenti, che non pretendono coerenza, ma provocano domande nuove.

Se qualcosa resta, al termine di questa lettura, non è una conclusione. È una condizione. La condizione instabile della soggettività quando smette di essere garantita — dal sapere, dalla legge, dalla verità. La condizione di un pensiero che non serve a rassicurare ma a spostare. E soprattutto la condizione di chi legge e si riconosce non più del tutto leggibile.

Il potere, ci ha insegnato Foucault, non è mai solo repressione. È produzione, disseminazione, codifica. Ma proprio per questo si può anche smontare, sabotare, riscrivere. Non con un gesto eroico, ma con una costanza minuta, con pratiche parziali, con alleanze precarie e intermittenti. È quello che hanno fatto — che continuano a fare — i movimenti transfemministi, le soggettività queer, le esperienze psichiche e corporee che rifiutano di essere definite una volta per tutte.

Questo testo non pretende di offrire un sapere alternativo. Piuttosto, tenta un’altra postura. Una postura laterale, disobbediente, inafferrabile. E in questo senso è stato scritto non solo su Foucault, ma contro una certa maniera di leggerlo, di incasellarlo, di trasformarlo in idolo intoccabile o in oggetto accademico. Il Foucault che ci interessa è quello inquieto, contraddittorio, a tratti scomodo, che parla più ai margini che ai salotti. Il Foucault che si scopre nelle pieghe del non detto, nei corpi che non si lasciano governare.

Se questo testo ha un fine — ammesso che lo abbia — non è quello di convincere, ma di lasciare irrisolto. Di disinnescare l’aspettativa che tutto debba portare a un senso. Di restituire al pensiero la sua fragilità, la sua carne. Perché, come i corpi indocili che lo attraversano, anche il pensiero ha bisogno di inciampare per diventare politico.

Non sappiamo dove porteranno queste traiettorie. Non sappiamo come verranno accolte, tradite, rifiutate, magari riscritte da chi verrà dopo. Ma sappiamo che non appartengono solo a chi le ha tracciate. Appartengono a chi vorrà spingersi oltre.
A chi non si accontenta della norma.
A chi non cerca identità, ma intensità.
A chi riconosce, nel proprio stesso turbamento, una forma di sapere.

Questo è quanto resta. Non una risposta.
Ma una prossimità critica.
Una dissonanza operativa.
Una domanda ancora viva.