L’uomo, fragile artigiano dei propri inganni, ha costruito l’idea di Dio come l’ultimo, disperato tentativo di salvarsi dal vuoto che lo abita. In quell’atto di creazione, che è insieme un gesto di paura e di speranza, ha proiettato fuori di sé l’immagine di un assoluto che potesse giustificare la propria miseria. Dio non è allora un’entità che esiste al di là dell’uomo, ma la sua più perfetta illusione: l’ombra che egli ha eretto per nascondere la vertigine dell’assenza, il silenzio che lo devasta quando scopre di non essere altro che un frammento di materia destinato a dissolversi. Come un bambino che teme il buio e disegna il sole sul muro, l’uomo ha inventato la divinità per darsi un rifugio, per convincersi che dietro il caos esiste un senso. Ma quell’ombra, quell’idolo immenso, non è che la proiezione del suo stesso terrore. L’ha adorato, l’ha temuto, l’ha umiliato e poi invocato, come se in quell’immagine vi fosse la chiave di ogni dolore. E invece, ciò che chiama “Dio” non è altro che una benda posta sugli occhi per non vedere l’abisso, una carezza che nasconde la ferita.
Eppure, in certi momenti di lucidità, quando il silenzio del mondo si fa più acuto e il respiro sembra un gesto inutile, emerge un dubbio sottile: e se tutto ciò fosse privo di senso? Se le parole “bene” e “male” non avessero più sostanza, se non fossero che suoni vuoti, eco di una coscienza antica che ha smarrito se stessa? In quel pensiero si insinua un veleno dolce, un’ironia che libera e al tempo stesso condanna. Forse tutto è apparenza, e l’universo non è che un grande teatro in cui recitiamo il nostro delirio, convinti che il sipario non calerà mai. Forse la materia stessa è un sogno che si finge reale per non implodere. In questa libertà che non salva, che invece ferisce, l’uomo scorge la sua più intima rovina: il desiderio di significato si scioglie, come neve al sole, lasciando soltanto il sapore amaro dell’assenza. Non c’è un “perché”, non c’è un fine: solo la danza eterna di cause e effetti che si ripetono, cieche e indifferenti, dentro un universo che non ha volto.
La vita allora si rivela per ciò che è: una spirale di dolore, paura, desiderio, un moto continuo che imprigiona e seduce. Essa si stringe intorno all’uomo come una creatura amante e crudele, lo fa tremare di piacere e di angoscia, e lui, incapace di fuggirne, si aggrappa a quel tormento con la devozione di un fedele. Si avvolge nella sua stessa sofferenza come in un mantello regale, convinto che il dolore lo definisca, che solo attraverso la ferita possa riconoscersi. E così, invece di guarire, coltiva la sua malattia come un giardino segreto, ne fa un altare, una forma di identità. Perché il dolore è l’unica cosa che non mente, l’unico specchio in cui il suo volto, anche deformato, continua a riflettersi. È la sua prova d’esistenza, il suo sigillo d’autenticità. Senza quel bruciore, senza quella lama che divide l’essere dal nulla, l’uomo non saprebbe più dire di essere vivo.
Ma proviamo a immaginare un’altra possibilità: un uomo che abbia attraversato ogni paura, che non conosca più il terrore della morte, che abbia perduto perfino la necessità di difendersi. Un uomo che non si affanni più a cercare un senso, ma si abbandoni al flusso del reale come chi dorme nel grembo del mare. Che cosa resterebbe allora di lui? Non la gioia, non il dolore — solo un’immensa indifferenza, la quiete che nasce dall’aver oltrepassato ogni opposizione. In lui il vecchio Dio svanirebbe come un sogno al risveglio, dissolto dall’alba di una consapevolezza più pura. E anche la paura, il rimorso, la colpa — tutte le antiche reliquie dell’umanità — si ridurrebbero in polvere, testimonianze di un’epoca di tenebre ormai tramontata. In quel silenzio, forse, si dischiuderebbe la vera libertà: non quella di fare, ma quella di essere, senza più nome né scopo.
In questa condizione, l’uomo potrebbe finalmente vedere la verità con occhi nuovi. Scoprirebbe che l’infelicità non è una condanna, ma un malinteso: il non sapere di essere già felice, già intero. La felicità non sarebbe più una conquista da inseguire, ma uno stato di pura consapevolezza, come il respiro del vento tra le foglie. E ogni cosa — il dolore, la perdita, la gioia, l’attesa — si rivelerebbe parte di un unico disegno, non più buono né cattivo, ma semplicemente necessario. Tutto sarebbe bene, tutto sarebbe giusto, perché non vi sarebbe più un giudizio, solo la presenza.
E allora, quando l’angelo dell’Apocalisse scenderà a parlare, non annuncerà una distruzione, ma una fine diversa: la dissoluzione dell’illusione. Il tempo, quel grande inganno che separa il prima dal dopo, si dissolverà come sabbia al vento, e l’eternità non apparirà più come un altrove, ma come ciò che da sempre ci abita. Non vi sarà più l’attesa del paradiso, né il terrore dell’inferno, ma una quiete che avvolge ogni cosa. La rivelazione sarà questa: che non c’è nulla da temere, nulla da salvare, perché tutto è già compiuto. L’uomo, finalmente, riconoscerà che l’eternità non è un luogo remoto, ma lo stato stesso della coscienza che si è destata. E in quell’attimo immobile, dove il tempo non scorre e il dolore tace, scoprirà che non vi è mai stato un Dio al di fuori di sé — solo la sua stessa luce, riflessa nell’infinito.