Rovesciato, sì.
Ma non subito.
Prima un ascolto cieco —
una fenditura che respira nel fondo della gola.
Non il corpo, ma il suo negativo,
il suono che viene da dietro la pelle,
la pressione che si fa luce,
come se la carne, improvvisamente, avesse ricordato il suo contrario.
È qui che comincia:
dal rumore che non arriva,
dall’ombra del tatto.
Il volto non si mostra: vibra,
si apre, si ritrae, diventa aria che chiama.
Eppure esiste —
la tua faccia, il punto dove tutto si concentra,
dove vengo, fino in fondo,
in doppia enunciazione, quasi a riscrivere
l’orgasmo come lingua.
Un’ondulazione di spasmi.
Una parola che non si chiude.
Non dire.
O dillo piano.
Tu dici — e già si consuma: la fine.
Tre giorni, sciolti, disfatti nell’odore.
Un respiro lungo, obliquo.
Diverso, sì.
Non più presente.
Col membro che si solleva da solo,
come se la carne avesse appreso la nostalgia.
È un gesto, ormai.
Leggere i tuoi occhi come si sfiora un codice.
Eravamo, e si vede.
Il tempo, qui, è tessuto —
stoffa che copre, che assorbe,
che tenta di colmare ciò che non fu.
Dell’aria resta il bordo,
un alone che continua.
Qualcosa si muove,
frammenti obliqui, schegge di luce,
un riflesso che non coincide con la cosa.
Eppure è lì,
distorto, vivo.
Difficile risalire.
Il pensiero — un vortice senza radice.
L’acqua della mente è quasi agitata,
si piega, non trova il proprio corso.
Questo presente non appartiene al tempo.
Scorre, si interrompe, si riavvolge.
Ogni volta.
S’era interrotto, sì, ma tornava,
ripiegato, inciso.
Una registrazione, non proprio identica.
Una cicatrice di suono.
Non più precisi di così.
Io, restavo.
Perché vengono —
queste presenze senza volto.
Accumularsi, dilatarsi,
fino al limite del dicibile.
L’insieme non si dice.
Lo trovo, oggi, coricato sull’orlo,
un resto di corpo che non finisce.
Voi, in piedi, di fianco,
dentro l’operazione —
come dentro un rito che non ci comprende.
Io non nel numero,
non nella conta.
La torsione era l’eco,
la memoria piegata su se stessa,
il ritorno del gesto nella sua ombra.
Istantaneamente: profondità.
O meglio — carne.
Quel salto che risponde come era scritto.
Il muro, là, riceve solo un colore.
Non altro.
Il sudore, la prova.
Così, il punto e gli occhi,
la forma che copre,
e allora sorge la testa.
Questo richiamo.
La bocca — qualcuno al seme.
L’episodio che non avrebbe reso il rosso,
né il cielo riflesso,
strappato, terroso,
dalla parte giusta, che è poi la stessa che tutti indicano.
Al momento, in questo recesso.
Un punto di noi che vibra ancora,
gridando alla gola, venivamo.
S’apriva, sì,
per darci.
In rilievo remoto.
Poi ancora — il di fuori che si volta,
l’ascolto ribaltato,
una superficie che non sa cessare di respirare.
Qui restiamo,
non più due, ma residuo.
Impronta sul nulla.
L’ombra che continua a parlarci,
con la voce del muro,
del sudore,
dell’eco che s’attacca al respiro.
Il corpo ripetuto.
Il battito,
senza fine.
L’eco compressa,
sulla pelle che non riconosce più il suo nome.
E poi — l’assenza.
Questo movimento cieco che ci chiama.
Dal fondo della materia sale un suono,
un sibilo,
la traccia che non muore.
La fine piega,
ricomincia,
si apre di lato,
si contorce,
diventa luce che passa tra le dita.
E tu, lontano,
sei sempre più vicino.
Come se la distanza fosse una forma d’intimità.
Ogni respiro, un ritorno.
Ogni silenzio, una bocca che non si chiude.
Io, coricato sull’orlo,
in ascolto del tuo corpo che non c’è.
Un respiro, forse due.
E poi, niente:
solo la vibrazione che rimane.
Rovesciato, ancora.
Ascoltato, fuori.
Non più parola, ma pressione,
non più immagine, ma durata.
La carne, ormai, non risponde.
È la pelle che parla.
E sotto, la memoria sfrigola,
un riverbero umido, un residuo.
Tu non dici.
Ma l’aria, intorno, ti nomina.
Ti apre, ti piega.
Ti solleva dal fondo come una risposta.
Io guardo, ma non vedo.
Mi piego, ma non arrivo.
È tutto qui, nel quasi.
Nel limite che pulsa,
nell’eco che scava.
E quando sorge la testa —
quella luce, quella bocca —
tutto torna.
Il respiro, il colore, la terra.
Lì, dove finisce il quadro.
Lì, dove inizia la carne.
Un corpo rovesciato nel proprio suono.
Un ascolto che si finge silenzio.
E da quel silenzio,
ancora,
veniamo.