mercoledì 1 ottobre 2025

El Horno. Dentro il forno che brucia


Scrivere di El Horno è sempre un atto di esposizione. Non perché abbia paura del testo in sé, ma perché so che ogni volta che ne parlo devo tornare in una città che non esiste eppure continua a insistere dentro di me, con le sue strade irreali e i suoi corridoi senza uscita. È come se avessi costruito un labirinto e poi mi fossi perso nel suo centro, insieme a Skeeen e al fantasma di Godz. A volte penso che il libro mi abbia scritto più di quanto io l’abbia scritto: era lì, un insieme di immagini che premevano, che non volevano saperne di diventare “romanzo” nel senso rassicurante del termine.

Il titolo, El Horno, viene da un locale vero. Esisteva, lo frequentai, ma non è quello che ho raccontato. L’ho deformato, caricato, gonfiato fino a renderlo altro. Nel libro diventa un ventre che inghiotte, un forno che cuoce i corpi e li restituisce deformati. Non era sufficiente descriverlo come un bar, una discoteca o un club gay: quello che cercavo era un luogo-mito, un organismo che potesse incarnare il desiderio e la rovina, la liberazione e la catena. Chi entra in El Horno non esce mai davvero come prima: porta con sé un odore di sudore e incenso, una macchia addosso, un ricordo che brucia come brace.

Skeeen nasce dentro quel forno. O forse è lui stesso parte della sua architettura. Non ho mai voluto chiarire se fosse un personaggio inventato, un alter ego, una somma di voci. Per me Skeeen è il corpo che si lascia attraversare, che vive di memorie frammentarie, di allucinazioni che si scambiano con la realtà senza che ci sia un confine. Quando scrivevo di lui, non mi chiedevo mai “cosa fa adesso”: mi chiedevo piuttosto “quale immagine lo divora adesso”. Skeeen è un uomo in astinenza: astinenza da un amore, da una droga, da un dio che si chiama Godz. E quell’astinenza lo trasforma in visionario.

Godz, invece, è assenza incarnata. Non appare mai in modo pieno, eppure domina il libro. È l’amante crudele che fa mancare la dose, il dio laico che promette e ritira, il padrone che regala un bacio e subito dopo scompare lasciando la febbre. In realtà Godz non è neanche una persona: è un’ossessione. Ma un’ossessione che diventa tangibile, che scava nel corpo di Skeeen come una malattia. Chi ha amato davvero sa cosa significa: il corpo reagisce, trema, suda, cerca disperatamente una presenza che non c’è. E più quell’assenza si prolunga, più diventa totale, più si trasforma in una divinità.

Il libro non ha mai avuto una trama vera e propria. Non la cercavo, non mi interessava. Usavo la tecnica del cut-up, che non è mai stata per me un gioco d’avanguardia ma un modo necessario di raccontare. Tagliavo frasi, spostavo paragrafi, inserivo parole prese da quaderni vecchi, da riviste, da pubblicità strappate. Volevo che la pagina fosse come una parete ricoperta di graffiti, dove ogni segno si sovrappone e cancella il precedente. In questo senso Burroughs è stato un maestro, certo, ma io non volevo imitarlo: volevo attraversarlo e sporcarmi con la sua stessa ossessione per la frattura.

La città di El Horno non ha mai accolto nessuno. È fatta di ponti che portano al nulla, di piazze deserte in cui si sente solo un rumore di passi invisibili, di palazzi che si aprono su scale interminabili. Di parchi oscuri. Non è una città riconoscibile, ma chiunque abbia vissuto abbastanza sa di che città parlo. È la città della solitudine, dell’estraneità, del sentirsi ospiti anche quando si è a casa. Io stesso, mentre scrivevo, la sentivo montare attorno: una Milano che non era Milano, una Sitges che non era Sitges, un amalgama di notti vissute e immaginate.

Il sesso, in El Horno, non è mai descrizione compiaciuta. È materia politica. I corpi che si cercano e si consumano raccontano sempre un rapporto di forza. Ricordo ancora quando un editore mi disse: “Non possiamo pubblicarlo così, dovresti attenuare certe scene, sono troppo crude.” Ma non erano scene crude: erano verità. Non potevo scrivere un romanzo in cui la sessualità gay fosse sempre liberatoria, colorata, armoniosa. Dovevo mostrare anche la parte oscura: l’abuso, il ricatto, la solitudine dentro l’eccesso. Volevo che il lettore capisse che anche dentro i margini ci sono gerarchie feroci, che non basta appartenere a una comunità per essere salvo dalla legge del più forte.

Molti mi hanno chiesto, negli anni, se Skeeen fossi io. Non so rispondere. Skeeen sono io e non sono io. È l’uomo che non ce l’ha fatta, ma è anche quello che continua a camminare. È l’ombra che mi segue nei vicoli della memoria, il corpo che trema quando l’amore manca. In fondo, scrivere di lui era scrivere della mia stessa incapacità di trovare un centro stabile. Ma non volevo fare autobiografia: volevo che la mia instabilità diventasse letteratura, che il mio dolore si trasformasse in una città da abitare.

La ricezione del libro è stata un capitolo a sé. Lo inviai a vari editori, e le risposte furono sempre simili: “interessante, ma non adatto al nostro catalogo”. Alcuni mi proposero di alleggerirlo, di “pulirlo”. Uno addirittura mi disse: “se togliamo il sesso esplicito, potremmo farne una bella storia sul disagio esistenziale.” Ma El Horno senza sesso sarebbe stato un cadavere imbalsamato. Non accettai. Così il libro rimase confinato a un’esistenza digitale, una serie di file che circolavano tra pochi lettori. Era come se fosse stato scritto apposta per l’invisibilità, e forse in parte era così. Io stesso non volevo che fosse addomesticato.

Non posso negare che ci siano parti del libro che fanno male. Ci sono scene in cui Skeeen si lascia attraversare da corpi senza nome, in cui l’amore si confonde con la violenza, in cui il desiderio diventa strumento di annientamento. Ma erano necessarie: volevo che El Horno fosse un romanzo che non consola, che non offre vie d’uscita facili. Non esistono happy end in un forno che brucia. Esistono solo braci che continuano a scaldare anche quando tutto sembra spento.

A distanza di anni, ho imparato a considerare El Horno non come un fallimento editoriale, ma come un atto di resistenza. È un libro che non ha trovato scaffale, e per questo non è stato ridotto a prodotto. È rimasto un corpo vivo, un testo che si muove tra chi lo incontra per caso. So che è difficile, che è spigoloso, che non si lascia leggere senza fatica. Ma è anche il mio modo più sincero di testimoniare cosa significa desiderare in un mondo che non ti accoglie.

Forse non avrà mai una vera edizione cartacea, e va bene così. Non tutti i libri devono avere la stessa forma. El Horno è nato storto, ed è giusto che continui a vivere storto. È il mio forno che continua a bruciare, la mia città mai accogliente, il luogo dove Skeeen continua a cercare Godz senza trovarlo. E in quella ricerca infinita, in quell’assenza che diventa presenza, riconosco ancora oggi la mia stessa verità.