Tetsuo: The Iron Man (1989) di Shin’ya Tsukamoto non è semplicemente un film: è un’esperienza brutale, ipnotica e disturbante che lavora come un virus audiovisivo. È uno dei manifesti più puri e radicali del cyberpunk giapponese, ma anche qualcosa che lo oltrepassa: un atto performativo, quasi rituale, che mette in scena la dissoluzione dell’umano attraverso il suo accoppiamento – o forse sarebbe meglio dire stupro – da parte della macchina, del metallo, della città.
Girato in un bianco e nero granuloso e ossessivamente contrastato, con un budget irrisorio e una troupe ridotta (lo stesso Tsukamoto è regista, attore, montatore, scenografo), Tetsuo è un’orgia visiva che rifiuta ogni forma di comfort narrativo. Non c'è psicologia dei personaggi, non c'è arco narrativo convenzionale, non c'è pausa per la riflessione: tutto è accelerazione, pulsazione, rumore, shock. In questo senso, è un film che trova la sua poetica nella collisione, nel cortocircuito, nel collasso dei linguaggi cinematografici tradizionali.
Il punto di partenza narrativo – l’incidente stradale che mette in contatto un impiegato qualunque (il "salaryman") con un misterioso "feticista del metallo" – è solo un pretesto. Da lì in poi, assistiamo a una mutazione grottesca e crescente del corpo umano in metallo, bulloni, fili elettrici, tubature arrugginite. Ma ogni trasformazione è anche un’espansione del desiderio, un’espulsione della normalità, una perdita irreversibile del controllo. Il corpo, violato e ricomposto, diventa il luogo dove si combatte l’ultima battaglia tra organico e meccanico, tra identità e perdita di sé.
Il montaggio epilettico – fatto di salti temporali, scosse, reiterazioni visive – evoca una mente in delirio, un soggetto frantumato, un allucinato stato febbrile. Ogni fotogramma è contaminato: da fluidi, da suoni metalmeccanici, da urla soffocate, da un erotismo disturbante e alieno. Il ritmo del film non segue la logica del tempo diegetico, ma quella della crisi psicofisica. Si tratta di un cinema dell’attacco: ai nervi, ai sensi, al pensiero.
Un'estetica della de-composizione
Tutto in Tetsuo grida l’impossibilità di una separazione netta tra l’uomo e l’ambiente tecnologico. Il film prende sul serio l’idea, quasi mcluhaniana, che la tecnologia sia una "protesi" dell’uomo — ma qui quella protesi prende il sopravvento, infetta il corpo, lo scardina e lo riscrive. Il protagonista non viene semplicemente ferito: viene riscritto dal metallo. La trasformazione, una volta iniziata, è inarrestabile. E diventa insieme orrore, desiderio, orgasmo, annientamento.
La sessualità, nel film, non è mai semplice. Ogni scena sessuale (esplicita o solo allusa) è ambigua, dolorosa, perversa. L’elemento fallico – spesso letterale, come nella celebre scena della "trivella" – si intreccia al tema della mutazione. Il metallo penetra, sottomette, trasforma. L’orgasmo è anche esplosione e morte. Non c’è erotismo senza distruzione.
È impossibile non pensare a Cronenberg, in particolare a Videodrome e The Fly, ma Tsukamoto porta l’estetica del body horror a un grado ancora più estremo: Cronenberg rimane nel cinema, mentre Tsukamoto sembra volerlo polverizzare. La macchina da presa diventa un corpo in sé, frenetico, invasivo, malato. La città, nel frattempo, si mostra solo attraverso squarci claustrofobici: treni, tubature, uffici, vicoli umidi, che più che essere spazi reali, sembrano appartenere a un incubo industriale.
Violenza, desiderio e identità in frantumi
In Tetsuo, la violenza non è solo fisica. È una violenza ontologica, che agisce sul concetto stesso di identità. Il protagonista non sa più chi è, cosa sta diventando, quale sia la sua volontà. Il metallo che lo invade è anche una metafora dell’alienazione post-industriale: l’impiegato giapponese, perfettamente inserito nella macchina sociale e produttiva, scopre di essere già da sempre parte di un ingranaggio che lo sovrasta.
Il tema della mutazione è trattato senza alcuna nostalgia per la condizione umana. Non si rimpiange il corpo originario, la carne intatta: la trasformazione è necessaria, irreversibile, forse persino desiderata. Il finale – con la fusione totale tra i due protagonisti e la promessa apocalittica di “trasformare il mondo intero in metallo” – non è una catastrofe, ma una rivelazione. È come se l’ibrido uomo-macchina non fosse solo un mostro, ma una nuova forma di essere, una possibilità ulteriore. Una fine che è anche inizio.
Influenza e posizione nella storia del cinema
Tetsuo ha avuto un impatto enorme, nonostante – o forse proprio per – il suo carattere underground. Ha influenzato registi giapponesi e internazionali, ha ispirato videoclip, anime, videogiochi. La sua estetica lo pone accanto a certi lavori di Lynch (Eraserhead) e ai cortometraggi sperimentali degli anni ’70, ma anche alla scena punk e industriale. Tsukamoto, come artista, è l’anello di congiunzione tra il teatro corporeo giapponese (come il Butoh) e il cinema postmoderno globale.
Il film inaugura una poetica che Tsukamoto svilupperà nei sequel (Tetsuo II: Body Hammer, Tetsuo: The Bullet Man), ma anche in altri film come Tokyo Fist o A Snake of June: una poetica incentrata sul corpo, sulla violenza, sull’identità che implode. È un cinema che non consola, che non cerca risposte, ma che si offre come esperienza estrema, vertigine, allucinazione lucida.
Tetsuo: The Iron Man è un cinema-limite. Va guardato con il corpo, più che con la mente. Non chiede comprensione, ma abbandono. È un incubo metallico che parla il linguaggio della città, del desiderio, della mutazione. Un'opera che, con pochissimi mezzi e una visione radicale, ha riscritto le coordinate del cinema sperimentale giapponese e ha lasciato una traccia indelebile nel modo in cui il corpo e la tecnologia possono essere rappresentati sullo schermo.
Tetsuo II: Body Hammer (1992)
L’orrore organico della città – Anatomia di una mutazione secondaria
Con Tetsuo II: Body Hammer, Shin’ya Tsukamoto non si limita a reiterare la poetica disturbante e metalloide del primo Tetsuo, ma tenta piuttosto una mutazione del proprio stesso linguaggio, come se l’infezione che aveva trasformato il corpo dell’Uomo di Ferro ora si fosse espansa al livello del racconto, del ritmo, della composizione dell’immagine, e soprattutto del mito. Il film del 1992 si pone, dunque, come una sorta di risonanza paranoica del primo episodio, ma girata con mezzi tecnici superiori, con una fotografia più elaborata e con una sceneggiatura che – pur mantenendo il tono da sogno febbrile – introduce elementi di linearità narrativa che The Iron Man aveva rifiutato in modo quasi programmatico.
Già nei primi minuti, Body Hammer stabilisce una differenza fondamentale: non c’è più solo un uomo fuso col metallo, ma un’intera architettura familiare, borghese, esposta alla contaminazione. Il protagonista – ora padre, ora marito, ora civile qualunque – si muove in uno spazio apparentemente normale, una città contemporanea attraversata da voci meccaniche, grattacieli, passanti anonimi. Ma questo spazio è solo una maschera: sotto la pelle della metropoli, il caos è ancora più vasto, più invasivo, più pericoloso, perché ha imparato a camuffarsi meglio. L’attacco dei teppisti-cyborg, il rapimento del figlio, l’esplosione della violenza: tutto arriva con una brutalità improvvisa, come se l’orrore fosse lì da sempre, solo in attesa di manifestarsi.
Se Tetsuo era un film sull’involontario, sulla contaminazione erotica e irreversibile, Body Hammer si struttura come un’apocalisse interiore scatenata dalla perdita, dalla memoria repressa, dal trauma non più negabile. Il protagonista, colpito nella parte più intima e sociale di sé – la paternità – subisce una trasformazione che è insieme difensiva, offensiva e autodistruttiva. Il corpo, come nel primo film, diventa veicolo di mutazione, ma qui la carne è anche lo spazio della memoria sepolta. L’acciaio che emerge dalla pelle non è solo simbolo di alterazione tecnologica: è la vendetta che si fa corpo, è il passato che ritorna, è l’io che si frantuma in un arsenale vivente.
Tsukamoto prende la mutazione del corpo come metafora del dolore inespresso, del trauma sepolto che, non potendo essere rielaborato, erompe nel fisico. In questo senso, il film anticipa molte delle riflessioni della psicosomatica, e soprattutto delle estetiche del trauma tipiche del cinema post-bellico giapponese: la mutazione, qui, è il sintomo estremo della rimozione. In più, lo spazio urbano che circonda la vicenda – enormi complessi industriali, corridoi metallici, palazzi senza volto – è una proiezione visiva della mente devastata del protagonista. Non c’è un luogo che non parli di repressione, di energia compressa pronta a esplodere.
Nel confronto con The Iron Man, emergono almeno tre linee di frattura fondamentali.
La prima è il passaggio dal desiderio alla perdita. Se il primo Tetsuo era attraversato da una pulsione sessuale distorta e deformata – il corpo che gode e si contorce fino a diventare macchina –, qui la spinta è tragica: è la sofferenza, la frustrazione, la perdita del figlio a scatenare l’ibridazione. La seconda è la scoperta della memoria come detonatore. Il protagonista non muta per contagio, ma perché “ricorda” di essere stato già parte di quel mondo. La mutazione non è nuova: è un ritorno. La terza è la metastasi del metallo: in Body Hammer, il metallo non invade solo il corpo individuale, ma comincia a insinuarsi in un’intera struttura di potere, un laboratorio, una società sotterranea in cui la tecnica è un’arma identitaria.
Il regista approfondisce anche il tema della maschilità fragile, già presente nel primo film, ma qui reso più evidente attraverso la crisi paterna. Il corpo mutante è quello di un uomo incapace di difendere la sua famiglia, e che per questo rinasce come arma. Ma questa maschilità meccanica è un fallimento annunciato: più il corpo diventa potente, più l’umanità si perde. L’esplosione della violenza coincide con l’estinzione dell’empatia. Non a caso, le ultime sequenze del film – tra esplosioni, inseguimenti, e corpi che si sbriciolano – assumono toni da tragedia mitologica. È un teatro d’ombre metalliche in cui l’uomo non è più uomo, ma un’eco dissonante del proprio dolore.
L’estetica del metallo: colore, suono, carne
Dal punto di vista formale, Body Hammer marca un’evoluzione: la scelta del colore è cruciale, con una palette dominata da grigi ferrosi, blu tossici, verdi marcescenti, che contribuiscono a un’atmosfera malsana, come se l’intero film fosse immerso in un bagno galvanico. Il colore qui non è naturalismo, ma un filtro psichico, un modo per mostrare lo stato d’animo del corpo contaminato.
Il sonoro, come sempre in Tsukamoto, è protagonista: le musiche industriali, i rumori martellanti, le pulsazioni meccaniche sono il battito cardiaco del film stesso. Ogni inquadratura è percorsa da un’inquietudine acustica che rende impossibile la quiete, la contemplazione, la distanza. Tetsuo II non si guarda: si subisce.
La regia, infine, è più fluida ma non meno disturbante: il montaggio resta ipercinetico, ma inserisce momenti di apparente quiete – sguardi, silenzi, attese – che vengono immediatamente violati dall’irruzione del metallo. Il ritmo non è più solo sincopato: è intermittente, schizofrenico, imprevedibile. Come se il film stesso fosse affetto da un tic nevrotico, da una sindrome dell’arto fantasma.
Tetsuo II: Body Hammer è un film che va letto come una seconda ondata di mutazione, più cosciente, più disperata, e forse anche più dolorosa. Se The Iron Man era l’esplosione della materia desiderante, Body Hammer è il canto funebre del corpo che cerca di non soccombere al trauma. La mutazione non è più solo contaminazione: è sopravvivenza, urlo, difesa estrema. Ma anche in questo secondo capitolo, non c’è salvezza possibile. La città non è più solo lo sfondo della mutazione: è il laboratorio genetico del disumano.
Tsukamoto, in questo film, non fa che portarci più a fondo nel labirinto dell’identità maschile postmoderna, in una Tokyo che ha smesso di essere città per farsi organismo senz’anima, predatore tecnologico, trauma collettivo. Il corpo, ancora una volta, è l’ultima frontiera violabile.
(Procedo con un’analisi approfondita e intensificata, espansa nei suoi molteplici strati, dei riferimenti estetici, filosofici e culturali che attraversano Tetsuo: The Iron Man e Tetsuo II: Body Hammer, i due film-cardine di Shinya Tsukamoto. Cercherò di delineare con la massima ampiezza possibile il sottobosco culturale e intellettuale da cui Tsukamoto attinge consapevolmente o inconsapevolmente, in un'operazione cinematografica che travolge e disintegra categorie tradizionali come corpo/macchina, maschile/femminile, individuo/sistema, soggetto/oggetto. Sarà un viaggio dilatato fra Artaud, Deleuze, il Butoh, il trauma atomico e il corpo nel pensiero giapponese contemporaneo, con incursioni nell’arte performativa, nel linguaggio rituale della ferita, nella teologia negativa del post-umano e nel cyberpunk asiatico. Fino a sfiorare il cuore nero del desiderio come forza simultaneamente distruttiva e generativa, un cuore meccanico e organico che batte in profondità sotto la carne e sotto il ferro.)
Il teatro della crudeltà e il corpo-destino come detonatore del visibile
Uno dei riferimenti più profondi, anche se mai esplicitato da Tsukamoto, è Antonin Artaud, figura liminale e profetica del teatro del Novecento. Nel suo Teatro e il suo doppio, Artaud parla del corpo come soglia estrema della rappresentazione, luogo dove deve accadere la crisi, dove il linguaggio si disgrega, dove il significato si sfalda e la carne prende il posto della parola, e dove la violenza fisica diventa non solo rappresentazione ma canale trascendente, accesso ad una verità che non può passare dalla razionalità, ma solo dalla devastazione. Tsukamoto sembra incarnare proprio questo principio artaudiano: nei suoi film, il corpo è il teatro, la scena stessa della tragedia, del delirio, dell’insurrezione contro l’ordine simbolico. Non c'è separazione tra attore e ferita: lo spettatore guarda il corpo farsi evento, diventare linguaggio pre-umano, disintegrarsi come unico modo di dire la verità.
Artaud invocava un teatro capace di scardinare il linguaggio verbale e riattivare una gestualità primitiva, incisa, bruciante, un linguaggio dei nervi, dei tendini, del midollo: i corpi mutanti di Tetsuo non parlano, ma urlano senza voce, tremano, si torcono, si auto-incidono, comunicano attraverso l’esplosione del dolore. La macchina che si fonde con l’uomo non è solo l’allegoria della modernità alienante: è la maschera che si lacera, lasciando il posto al nocciolo inarticolabile del desiderio, della colpa, dell’identità che implode. L’accelerazione del montaggio, il suono iperarticolato, la cinematografia frenetica diventano forme di possessione artaudiana: l’intero film è un esorcismo visivo.
Il teatro di Artaud è stato spesso inteso come una forma di esorcismo collettivo, una cerimonia di purificazione attraverso il caos, un rito capace di mettere in scena le zone più oscure dell'inconscio individuale e collettivo. Allo stesso modo, Tsukamoto sembra voler realizzare un rituale cinematografico di espulsione e riemersione, in cui l'immagine, il suono, il ritmo, e soprattutto il corpo vengono usati come strumenti di discesa agli inferi, come medium per portare in superficie ciò che la civiltà urbana, tecnologica e anestetizzata reprime, cancella o vuole dimenticare. In questo senso, la mutazione fisica è anche e soprattutto una mutazione dell'ordine simbolico: una ribellione viscerale al linguaggio, alla grammatica dell’identità, alla logica normativa della soggettività. La carne fusa col metallo è la profanazione estrema del logos occidentale.
Nel corpo mutante di Tetsuo si cristallizzano tutte le contraddizioni della modernità: il desiderio di potere, la dissoluzione della soggettività, la violenza come sintomo di un trauma non elaborabile né rappresentabile. E proprio come nel teatro di Artaud, la scena si fa campo di battaglia ontologica tra l’io e l’altro, tra il dentro e il fuori, tra l’umano e l’inumano, fino alla definitiva implosione delle coordinate del reale. La carne diventa il veicolo della visione, e la visione stessa una ferita.
Deleuze e Guattari: macchina desiderante, deterritorializzazione, corpo senza organi
Un altro asse teorico decisivo è quello del pensiero deleuziano, in particolare “L’Anti-Edipo” e “Mille Piani”, opere in cui Deleuze e Guattari elaborano una visione radicale del desiderio e del corpo come forze sempre in trasformazione, al di là delle categorie psicoanalitiche e identitarie. In Tetsuo, il corpo mutante è l’incarnazione più cruda e visionaria della macchina desiderante: un assemblaggio instabile e vertiginoso tra materia organica e inorganica, in cui il desiderio non è più legato a un soggetto definito, ma diventa forza impersonale, produttiva, metastabile, che attraversa i corpi e li plasma con violenza. Il protagonista non “sceglie” la mutazione: ne è posseduto, investito, travolto, come da un’epidemia metafisica.
Nel lessico di Deleuze e Guattari, questo è l’effetto del desiderio schizoide, che rifiuta ogni struttura edipica (padre, madre, figlio) e si disperde in un territorio deterritorializzato e plurimo. La Tokyo di Tsukamoto è proprio questo: una macchina schizofrenica pulsante, in cui il corpo non è più luogo di identità, ma campo magnetico di flussi incontrollabili e non assimilabili. Il protagonista diventa corpo senza organi: un piano di consistenza, un campo di forze e possibilità, che rinuncia all’identità biologica per esporsi al puro divenire, al caosmos del vivente.
Nel secondo film, Body Hammer, si manifesta anche una re-territorializzazione parziale: la paternità, il trauma, la memoria cercano di restaurare un ordine, di dare forma al flusso. Ma la violenza del passato non può essere assimilata in alcuna grammatica stabile: ritorna come spettro, come detonatore dell’identità, e la macchina torna a prendere possesso del corpo. La fragile struttura sociale viene smembrata e risucchiata nel vortice dell’indicibile.
La teoria delle macchine desideranti permette di leggere Tetsuo non come un film sulla tecnologia, ma come una meditazione abissale sul desiderio stesso, inteso come forza metamorfica, destabilizzante, catastrofica. E proprio come in Deleuze, il corpo senza organi di Tsukamoto è uno spazio non più umano, ma oltre-limite, in cui si dissolvono i confini tra soggetto e mondo, tra interno ed esterno. Questa visione, al tempo stesso teorica, mistica e allucinata, non conduce però al nichilismo: al contrario, è una forma estrema di vitalismo oscuro, che celebra la potenza dell’essere anche e soprattutto nella sua distruzione. Essere corpo è essere materia in divenire, e la mutazione è il canto di questa materia viva, impura, indocile.
Il corpo come territorio di contaminazione: il Butoh come matrice performativa
Uno dei riferimenti estetici più pregnanti nel lavoro di Tsukamoto è il Butoh, la danza giapponese post-atomica nata negli anni Sessanta da Tatsumi Hijikata e Kazuo Ohno come reazione traumatica alla perdita d’identità culturale del Giappone dopo Hiroshima e Nagasaki. Il Butoh è un'arte del corpo portato al limite, un'esplorazione del gesto deformato, del tempo rallentato, dell'identità disgregata. È una danza dell’agonia e del silenzio, una mimesi dell'osceno e dell’informe. Hijikata parlava di un corpo-cadavere danzante, invaso dai fantasmi della storia: ed è esattamente ciò che vediamo nei film di Tsukamoto, dove il corpo non danza ma si contorce, vibra, implode, si dilania e si rifonda.
Nel Butoh, il corpo è spesso bianco, nudo, rasato, muto: si fa spettro della memoria collettiva. Tsukamoto non cita mai il Butoh, ma ne incarna lo spirito, trasformando il suo cinema in un palco rituale di metamorfosi e contaminazione. Le sequenze di trasformazione, con il corpo che si apre come un fiore metallico, sono profondamente performative: non raccontano, non simboleggiano, accadono come eventi del corpo stesso. La cinepresa non è spettatrice ma medium: partecipa alla danza, vibra con essa, collassa nel corpo che riprende. Questa è la lezione più radicale del Butoh: l’arte come possessione, non come rappresentazione.
Lentezza e spasmo, ieraticità e convulsione, vuoto e saturazione: Tetsuo è un film-danza in cui il corpo è sempre in disequilibrio, sempre altrove, mai pacificato. È un corpo post-traumatico, attraversato da memorie che non può più raccontare, ma solo incarnare nella carne lacerata. Questo lo avvicina anche alle pratiche performative occidentali degli anni Settanta (da Gina Pane a Marina Abramović), ma in Tsukamoto il gesto non è mai fine a se stesso: è parte di una genealogia del dolore inscritta nel tessuto stesso della nazione.
Il trauma atomico e il corpo nazionale: Hiroshima come sottotesto visivo
L’inconscio visivo del cinema di Tsukamoto è segnato in modo indelebile dalla ferita nucleare. Anche se non ci sono riferimenti diretti ad Hiroshima o Nagasaki, Tetsuo si colloca idealmente in quella linea traumatica che attraversa tutto il post-bellico giapponese, da Godzilla a Akira, da Onibaba a Ringu. Il corpo che esplode, che si disfa, che muta, è il corpo del Giappone stesso, devastato, contaminato, incapace di tornare a uno stato “umano” originario. La fusione carne-metallo è il sintomo di un’esposizione radioattiva non metabolizzabile: la macchina non è solo progresso, ma anche scoria, residuo, mutazione incontrollata.
La violenza che emerge nei due film è quindi una violenza iscritta nella memoria collettiva, che riemerge senza mediazione, senza simboli, senza allegoria. Il corpo-macchina è un corpo atomizzato, che implode sotto la pressione di un trauma storico che non ha mai trovato un linguaggio per essere detto. La nudità, le ferite, le perforazioni, i corpi ibridi che infestano le inquadrature, sono manifestazioni post-sismiche di un evento non superato: Tetsuo è un film-eco, un film-ombra, che sussurra e urla ciò che la società giapponese ha silenziato per decenni.
In questo senso, l’opera di Tsukamoto non è solo cyberpunk, ma post-Hibakusha: porta nel cuore la voce muta dei sopravvissuti all’atomica, come se l’intera estetica del film fosse una traduzione in immagini del corpo contaminato, del gene danneggiato, della città radiografata. Il metallo che cresce nella carne non è altro che l’icona orrorifica della modernità letale, della scienza usata come arma, della tecnologia che ritorna come maledizione. Il protagonista non è un eroe, ma un testimone sacrificale, un corpo votato all’implosione per rivelare l’osceno.
Teologia negativa e desiderio apocalittico: il cinema come rito e invocazione
La spiritualità che attraversa Tetsuo è una spiritualità senza Dio, senza salvezza, senza trascendenza: è una teologia negativa del corpo, in cui il sacro si manifesta nella sua forma più oscura, più ambigua, più materica. Il corpo che muta è un altare sconsacrato, una reliquia vivente, un ostensorio di nervi, tubi e carne. Tsukamoto non costruisce una mitologia, ma una liturgia del disfacimento: ogni sequenza è un atto liturgico, ogni mutazione un mistero doloroso. Non ci sono profeti, né dogmi, né epifanie: c’è solo la materia che grida, che suppura, che si trascina verso un oltre non nominabile.
In questa teologia negativa, il desiderio diventa una forza apocalittica. Non si tratta più del desiderio erotico o libidico, ma del desiderio come forza cosmica di distruzione e rifondazione. Il corpo che desidera si spezza, si contamina, si estingue. Ma in questa estinzione non c’è solo morte: c’è la possibilità di un nuovo inizio, mostruoso, informe, non umano. In questo senso, il finale di Tetsuo II, con l’esplosione e la fusione totale, è un’apocalisse mistica, una parusia oscura che non annuncia salvezza ma una nuova ontologia del corpo e della materia.
Tsukamoto costruisce così un cinema-rito, un cinema che non rappresenta ma officia, che non racconta ma invocherebbe, se avesse voce. Il suo spettatore ideale non è lo spettatore passivo ma il fedele, l’iniziato, il penitente: colui che accetta di vedere la carne mutare e ne trae, non piacere estetico, ma terrore sacro, una forma di verità ferina e inarticolabile. Il cinema diventa così un sacramento inverso, un antidoto alla visione anestetizzata e mercificata, un dispositivo per riattivare il trauma come sapere e la visione come ferita.
L'ossessione come forma di resistenza
Shin'ya Tsukamoto non racconta una storia, né costruisce un universo coerente: egli inscena un’ossessione, un nodo psichico, somatico e spirituale che si ripete e si modula tra Tetsuo (1989) e Tetsuo II: Body Hammer (1992). Pur molto diversi per struttura narrativa, linguaggio visivo e direzione attoriale, i due film sono due versioni dello stesso incubo, due epifanie della medesima frattura: il corpo come campo di battaglia, il desiderio come detonatore, la tecnologia come virus e protesi.
Nel primo Tetsuo, girato in un bianco e nero spasmodico, granoso, abrasivo, la mutazione è irreversibile e inarrestabile. Il corpo del protagonista si fonde con il metallo in un processo incontrollato, che culmina in una fusione amorosa/terroristica con un altro corpo, anch’esso metallico. La città diventa un’estensione della carne, il ferro prende il posto del linguaggio, la macchina dell’identità implode. È un film radicalmente nichilista e sacrale: la sua logica è quella del corto circuito.
Tetsuo II, in apparenza più lineare e “comprensibile”, a colori e con una fotografia più elaborata, non è una continuazione ma una variazione: qui il protagonista è un uomo comune, padre di famiglia, che scopre nel trauma la chiave della propria mutazione. Il nemico non è più l’altro, ma il doppio, il rimosso, l’infanzia contaminata e repressa. Il ferro non cresce più da solo: viene iniettato, risvegliato, risale come una memoria tossica. La mutazione, in Body Hammer, è un atto volontario, una risposta estrema al dolore e all’impotenza. Ma proprio per questo il film perde parte della sua potenza sacrale e si sposta verso una parabola tragica più riconoscibile, quasi classica.
In entrambi i casi, tuttavia, la violenza è il linguaggio del corpo quando ogni altro linguaggio è fallito. Tsukamoto mostra come, in una società ipertecnologica e repressiva, l’unico modo per dire “io” sia distruggere l’“io” stesso. Il corpo non è più né biologico né meccanico: è un terreno di scontro, un paesaggio apocalittico dove si giocano le ultime possibilità di soggettività. E in questo, il suo cinema è ancora oggi, a decenni di distanza, un grido irriducibile, un gesto insubordinato, una messa nera sul corpo moderno.
In un'epoca in cui l’identità è spesso ridotta a superficie e performance, l’opera di Tsukamoto ci ricorda che il corpo è prima di tutto ferita, metamorfosi, enigma. E che solo attraversando il ferro — cioè il trauma, la macchina, la perdita — possiamo forse intravedere una forma altra di umanità, più mostruosa e più vera.