lunedì 29 settembre 2025

L'infinito di Mario Merz?



La trama invisibile

Avvicinarsi all’opera di Mario Merz significa accettare di entrare in un territorio in cui le categorie consuete si dissolvono. Non è sufficiente parlare di arte contemporanea, né di scultura, né di installazione: queste parole si sbriciolano di fronte a un’opera che vive di processi, di tensioni e di continui slittamenti semantici. L’impressione è che Merz abbia cercato per tutta la vita di mostrare ciò che non si vede, quella trama invisibile che unisce gli uomini alla natura, i numeri alla crescita delle piante, lo spazio al tempo, la fragilità dei materiali alla durezza delle leggi cosmiche.

La parola “informare” assume in questo contesto una valenza che non ha nulla a che vedere con il giornalismo o con la divulgazione. Informare è dare forma dall’interno, immettere nel mondo un principio che si organizza, che plasma la materia e la rende visibile. Un’opera di Merz non comunica semplicemente un’idea: la incarna, la fa fiorire davanti agli occhi. È, come avrebbe detto Dorfles, un tentativo di far coincidere strutture artistiche e strutture scientifiche. Ma laddove gli esperimenti di altri si fermano al livello della suggestione, Merz apre un varco più profondo: la sua arte non vuole coincidere con la scienza, ma portare alla luce ciò che in entrambe rimane inesprimibile.

Le soglie dello spazio

Lo spazio, nelle sue opere, non è mai neutrale. Non è una cornice che contiene, ma un organismo che cresce, che si dilata e respira. Pensiamo all’igloo: non una forma architettonica riprodotta, ma un principio che ritorna, variato, ripensato, disseminato in decine di lavori. L’igloo è insieme rifugio primordiale e concetto filosofico. È un ventre che accoglie e un cristallo che respinge. È materia opaca, legno, pietra, che isola; ma anche vetro e luce che lasciano filtrare.

Ogni igloo porta in sé la contraddizione di un isolamento che non è mai completo. C’è sempre uno spiraglio, un’apertura, un varco visivo o fisico che lo collega all’esterno. Questa doppiezza lo rende un simbolo potente: da un lato la necessità di protezione, dall’altro il desiderio di comunicazione. Merz costruisce così non tanto abitazioni, quanto mondi in miniatura, nuclei energetici che si pongono al centro del reale e lo riorientano.

Luciano Fabro parlava della tautologia come di una forma che si autoafferma. In Merz la tautologia è un principio vitale: lo spazio produce spazio, l’arte produce arte. Non è un gioco sterile di rimandi, ma un continuo ripetersi che genera nuove possibilità. Guardando un igloo non vediamo soltanto una costruzione: vediamo il ripetersi del gesto, il richiamo a tutte le altre volte in cui quell’immagine è apparsa, e insieme l’apertura verso tutte le volte in cui ancora potrà manifestarsi.

La logica del numero

Al cuore di questa poetica sta il numero, che per Merz non è mai un dato morto, un risultato da calcolare. È un impulso vitale, una pulsazione. “I numeri vivi danno delle visioni”: non è una metafora, ma una dichiarazione letterale. I numeri non si limitano a rappresentare, creano. Sono organizzazioni di energia che prendono forma davanti ai nostri occhi.

La serie di Fibonacci, che ritorna ossessivamente nelle sue opere, non è dunque un omaggio alla matematica, ma un modo per portare nel mondo dell’arte la logica stessa della crescita naturale. Come le foglie si dispongono lungo un ramo, come le spirali delle conchiglie si sviluppano, così anche l’opera segue una traiettoria che non è arbitraria ma necessaria. Eppure, in Merz, la necessità non soffoca mai la libertà: i numeri si dispiegano come un canto, e non come una dimostrazione.

L’artista maneggia materiali fragili, vetri, neon, metalli, pietre, con una consapevolezza che li sottrae al loro fascino superficiale. Non si lascia irretire dal loro potere decorativo né dal loro rischio distruttivo. Li espone come si espone un corpo alla luce: con coscienza, senza favole e senza illusioni. È un’arte senza abbellimenti, senza ingenuità, che porta con sé tutta la responsabilità di chi sa di lavorare con energie reali.

Abitare poeticamente

“Il cartello di foglie è un’architettura ideale”: la frase racchiude uno dei nuclei più radicali del pensiero di Merz. Abitare non significa semplicemente avere un tetto sopra la testa. Significa inscrivere il corpo e il pensiero in un luogo che diventa significante. La “casa tra gli alberi”, l’igloo, la casa di foglie: tutti questi elementi rimandano a un’arte che non è più rappresentazione ma fondazione. L’artista non raffigura un’abitazione: la crea, la pone davanti a noi come possibilità concreta.

Il vuoto dell’igloo è allora un vuoto abitato, un vuoto che vibra secondo il ritmo di Fibonacci. Non è assenza, ma presenza dinamica, uno spazio che invita le voci, che chiama relazioni. Tommaso Trini aveva colto bene questa dimensione: quella di Merz è arte dell’insediamento. Non basta guardarla, bisogna entrarci, lasciarsi trasformare dal suo vuoto.

In questo gesto c’è un’etica: l’opera come oggetto che significa, come evento che dona senso. L’abitare diventa allora metafora di un modo di stare nel mondo, fragile e provvisorio, eppure pieno di dignità. Ogni casa di foglie che germina, ogni igloo che si erge in uno spazio espositivo, non è mai soltanto un oggetto, ma un atto: fondare un luogo, creare una possibilità, aprire un futuro.

L’opera come memoria e promessa

Questa continua germinazione rende l’opera di Merz un processo più che un risultato. Ogni costruzione è un passaggio, un segmento di una traiettoria infinita. La casa di foglie che si disperde è la stessa che si concentra, e viceversa. Ogni volta che un igloo viene eretto, esso porta con sé tutti gli igloo passati e tutti quelli a venire. È un organismo vivente, che cresce e si dissolve, ma non smette di lasciare tracce.

Così l’opera diventa anche memoria: di una storia personale, di un percorso collettivo, di un’umanità che cerca continuamente luoghi da abitare. E allo stesso tempo diventa promessa: di nuove forme, di nuovi spazi, di nuove relazioni che ancora devono venire.

Nota personale e dedica

Negli anni Ottanta mi trovai anch’io a inseguire questa poesia numerica. Avevo progettato un testo ampio, cento pagine dedicate a “Voglio fare subito un libro”, dove cercavo di decifrare il linguaggio poetico di Merz. Non vidi mai pubblicato quel lavoro, forse per distrazione, forse per esitazione. Ma quel tentativo mi aprì a un confronto prezioso con Jole De Sanna, critica militante, compagna d’intenti, che condivideva la passione per un’arte capace di farsi gesto politico e spirituale al tempo stesso.

Da quell’incontro nacque una lunga amicizia, fatta di dialoghi, di scambi, di progetti che non sempre videro la luce ma che segnarono profondamente la mia formazione.

[A Jole De Sanna, dunque, dedico queste pagine: come si dedica un igloo a un vuoto che non smette di chiamare, come si dedica una sequenza numerica a un futuro che non avrà mai fine.]